TERRACOTTA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1997)

Vedi TERRACOTTA dell'anno: 1966 - 1997

TERRACOTTA (v. vol. vii, p. 732)

P. D'Amore
A. L. D'Agata
G. Greco
M. J. Strazzulla
B. Genito
C. Lo Muzio
A. A. Di Castro
F. Salviati

p. 732). Vicino Oriente. - Preistoria. - Le prime figurine realizzate in argilla cruda, seccata al sole, risalgono al Paleolitico Superiore e rappresentano un personaggio femminile, forse la dea madre. Tale tipologia si diffonde in tutto il Vicino Oriente pre-classico durante il Neolitico preceramico (IX-VII millennio a.C.). In questo periodo compaiono in Palestina figurine femminili sedute con corpo naturalistico e viso stilizzato (Gerico, Nativ ha-Gĕdud); molti esemplari di questo tipo, probabilmente oggetti di culto, sono stati scoperti a Gerico, Munḥata, Baydha, ʽAyn Ghazal (dove sono state trovate anche figure maschili) e nella grotta di Naḥal Ḥemar. La «dea» di ʽAyn Ghazal mostra il viso e il corpo dipinti in verde, rosso e nero, mentre gli occhi sono indicati da incrostazioni di conchiglia. A Çayönü, nella Siria settentrionale, tra la fine dell'VIII e l'inizio del VII millennio a.C. si sviluppa una produzione a soggetto femminile (rare le raffigurazioni animali, limitate a bovini e a caprini cornuti), che non presenta ancora caratteri naturalistici, ma continua tipi in uso nel Paleolitico Superiore; essa è caratterizzata da figure prive di testa, braccia e seno, con ventri gonfi e rotondi su una base quadrangolare da cui si dipartono le gambe che, nelle versioni più stilizzate, risultano tozze mentre i corpi acquistano forma cilindrica. Le esigue dimensioni (cm 2,5-5) accomunano queste statuette con la produzione di Garmo in Mesopotamia e di Çatal Hüyük in Anatolia. Durante il Neolitico preceramico A (c.a 6650 a.C.), le figurine nelle loro forme più o meno naturalistiche diventano più comuni con l'introduzione, accanto alla produzione in argilla cruda con forme coniche e occhi convessi, di figurine femminili in t. (Ramad I, Teli Aswad, Baydha VI e Gerico). In Anatolia a Suberde, vicino al lago Suğla, la t. figurata è rara, limitata a pochi esemplari di cinghiali e a immagini della dea madre. Più significativa dal punto di vista artistico è la produzione di Çatal Hüyük (II), caratterizzata da due tipologie: la più schematica, attestata fin dal livello IX, mostra figurine a soggetto femminile con gambe a punta, corpo a calice e testa di rapace, mentre quella più naturalistica presenta figure femminili di grandi dimensioni, con corpi opulenti del tipo «dea che partorisce», il cui esemplare migliore è raffigurato seduto su un trono fiancheggiato da leoni. Diffuse anche le figurine animali, in particolare quelle che rappresentano cinghiali, utilizzate nei riti propiziatori della caccia. Mentre queste ultime sono state sempre trovate in fosse rituali, quelle femminili in t. non sono state mai rinvenute all'interno dei santuari, come quelle in pietra raccolte insieme a concrezioni di stalattiti o stalagmiti, ma in nicchie nei muri. Durante l'Età del Bronzo (fine IV-III millennio a.C.) continuano a essere prodotte figurine stilizzate raffigurate sedute con volto a disco, spesso rifinite da ingubbiatura rossa, e idoli a forma di violino, meno schematici dei contemporanei esemplari in pietra.

Il Neolitico ceramico (c.a 6000-5800 a.C.) è caratterizzato in Palestina da una netta prevalenza di figurine femminili sedute con alti copricapi e occhi ovali tagliati da una linea orizzontale con le braccia riportate sull'ampio petto o sul ventre (Munḥata). Queste statuette, che caratterizzano con i loro volti grotteschi il periodo yarmukia- no, sono da considerare versioni esagerate dei tipi Ramad III e Ḥassūna rinvenuti in Mesopotamia a Yarim Tepe. Figurine analoghe, più vicine stilisticamente ai tipi Ur ed Eridu di Mesopotamia, compaiono a Biblo. Non mancano quelle a soggetto animale, limitate a raffigurazioni di pecore o capre che, insieme al maiale, erano già addomesticate. In Anatolia, nello stanziamento di Hacilar VI, distrutto intorno al 5400 a.C., sono state portate alla luce, nelle abitazioni private, figure femminili modellate naturalisticamente in ceramica comune o rosso brunito, che presentano tracce di pittura negli esemplari più tardi. L'iconografia più diffusa mostra affinità con la dea madre di Çatal Hüyük, sebbene la tipologia non venga riprodotta pedissequamente. Alcune sono sedute su animali, forse leopardi, altre sono stanti o recumbenti o accosciate con animali o fanciulli tra le braccia. Il costume e le diverse acconciature rendono le tre età della vita (fanciullezza, giovinezza, vecchiaia); non vi è traccia, invece, di figurine maschili. Nelle fasi successive della città (Hacilar V-I: c.a 5400-4800 a.C.), la produzione è meno varia con figurine animali di grandi dimensioni mentre incominciano a diffondersi, accanto a quelle dipinte, gli idoli in t. a forma di violino (Hacilar I).

In Mesopotamia settentrionale la t. figurata si diffonde a partire dal periodo Halaf (c.a 5000 a.C.) con figure femminili di dea madre, caratterizzate da pesanti seni e raffigurate sedute, con rare tracce di pittura per indicare elementi del vestiario o gioielli. La produzione di Čagar Bazar e di Teli Arpačiya dimostra, come già a Hacilar I, la volontà di semplificare le forme, schematizzandole e dando vita anche qui a una tipologia a violino, acefala, realizzata in un unico blocco di argilla. La cultura di Ḥassūna, invece, è caratterizzata da una bella serie di piccole figurine femminili, rinvenute a Yarim Tepe II- VI, simili strutturalmente al gruppo di Ramad III. Nessun elemento tuttavia accomuna questo gruppo a quello della cultura di Ḥalaf, che nella fase tarda vede diventare più rara la produzione in t. figurata, testimoniata soltanto da pochi esemplari del tipo seduto senza testa, ora con decorazioni dipinte in rosso. A differenza della Mesopotamia settentrionale, dove le figurine si presentano pur nella loro schematizzazione con forme massicce e sempre sedute, nella Mesopotamia meridionale in epoca 'Ubayd (c.a'4000 a.C.) vengono prodotte figurine stanti nude con corpi affusolati, caratterizzate da un volto ofide, coronato da un copricapo in bitume, mentre pastiglie di argilla sono applicate sulle spalle e sulla parte superiore delle braccia e del busto (Ur). In alcune varianti sono ritratte con un bambino in braccio nell'atto di allattarlo o con le mani sui fianchi. Un solo esemplare maschile, con alto pòlos e corpo cosparso di pastiglie, è stato rinvenuto a Eridu. La forte regionalizzazione della produzione mesopotami- ca è evidente nel gruppo del Diyāla, dove le figurine mostrano corpi e braccia semplificati, queste ultime ridotte a monconi, mentre il gruppo occidentale rinvenuto a Mari riproduce in forme miniaturistiche la contemporanea produzione in pietra.

Bronzo Antico. - Il III millennio a.C. vede nell'area costiera una ricca produzione di t. da applicare come elemento decorativo a vasi di medie e grandi dimensioni; essa si caratterizza per un esagerato gusto caricaturale che esaspera alcuni particolari anatomici come il naso. In Palestina è attestato il tipo della c.d. figurina contenitore utilizzata per i liquidi; molte figurine di questo tipo sono state scoperte nel santuario di ʽEn Gedi; sia quelle femminili sia quelle animali portano una zangola e ciò fa ritenere che esse fossero legate a cerimonie in cui era presente il latte. Durante il Bronzo Antico II e III (c.a 2950- 2350 a.C.) particolarmente diffusi accanto alle t. della dea madre sono i modellini di letto con chiara funzione rituale; la contemporanea diffusione di tipi analoghi in Siria e Mesopotamia sembra indicare tali regioni come fonte del motivo. In Siria la produzione del III millennio a.C. è caratterizzata da figurine maschili e femminili stanti con collo largo e corpo tubolare schiacciato, il cui spessore si assottiglia verso i margini; il busto presenta due sporgenze che indicano le braccia mentre il petto è decorato da due linee incise che si incrociano sopra la vita (Ḥama J, Ebla). In Anatolia la produzione di t. figurate sembra interrotta per breve periodo mentre continua la produzione di idoli stilizzati di tipo calcolitico, diffusi anche nel mondo egeo.

In Mesopotamia con l'avvento del periodo pre-sargonico e sargonico gli dei e le dee del periodo 'Ubayd vengono sostituiti da figure modellate sommariamente, tutte con base svasata. La tecnica di lavorazione fa ancora uso di pastiglie applicate o di incisioni a stecca, ma non vi ê alcuna traccia di pittura. In periodo neosumerico (2125- 2025 a.C.) si introduce, accanto alla figura piena lavorata a tuttotondo, lo stampo semplice per la fabbricazione di placchette con personaggi frontali, scene cultuali o di genere. Tale produzione mostra grande vivacità nel gruppo rinvenuto a Larsa, mentre quello portato alla luce a Lagaš e Ur risulta più stereotipo e ripetitivo, con pochi motivi: figure femminili con timpano, fedeli con capretto, coppie frontali o affiancate, personaggi stanti o di profilo. Le figurine a tuttotondo sono ora più rare ma tutte di notevoli dimensioni (10-20 cm) e di buona fattura come il guerriero con turbante, barba a ventaglio e piccola scure in mano o il demone a base campaniforme con testa di fiera.

Bronzo Medio e Tardo. - Durante il II millennio a.C., la produzione in t. figurata continua tipi e soggetti in uso nel Bronzo Antico, introducendo, tuttavia, nuove categorie. Sulla costa la produzione raggiunge un certo naturalismo sia nelle figure umane sia negli animali, raffigurati in gruppi di ampio respiro compositivo, dove una maggiore ricerca del modellato si accompagna a una più accentuata caratterizzazione dei costumi (Biblo). Il dominio egiziano nelle regioni occidentali del Vicino Oriente porta alla creazione di figurine secondo il modello nilotico, con corpi esili, spalle squadrate e alto copricapo conico, pur non mancando imitazioni grossolane. L'influenza egiziana continuerà a essere presente nella regione palestinese e fenicia fino al VII sec. a.C., come testimonia un gruppo di t. figurate provenienti da Tiro. In Siria la coroplastica del Bronzo Medio si presenta con caratteristiche omogenee, dominata dalla figurina femminile nuda, con le braccia aperte, seni a bottone applicati e pube enfatizzato da un motivo puntina- to. Tipica di questa classe è la testa, munita di espansioni laterali forate pronunciate, qualche volta decorata da orecchini e coronata da un alto copricapo. Si conoscono due varianti stilistiche: una geometrica, caratterizzata da linee di contorno spigolose e braccia aperte, l'altra, denominata naturalistica, con linee di contorno più morbide e braccia riportate ai seni. Le figurine a soggetto maschile, invece, mostrano corpo massiccio, sostenuto, oltre che dalle gambe, anche da una o più appendici che continuano la linea del dorso. Le braccia, riportate al petto, sostengono oggetti di incerta identificazione; spesso il torace è attraversato da fascette di argilla applicate (Ḥama H, Teli Atčana, Ebla). Gli animali raffigurati con corpo tubolare e zampe conoidali portano spesso sul basto uno o due vasetti miniaturistici. Diffusi anche i modellini di carro.

In Anatolia prevalgono ancora gli idoli appiattiti dell'epoca precedente diffusi nella regione di Tilmen Hüyük (II Β) e rozze figurine animali. In Mesopotamia, invece, le t. figurate continuano a riprodurre il portatore di capretto o la figura femminile stante che si stringe i seni, motivo che continua l'antica tradizione della dea madre. I primi tre-quattro secoli del II millennio sono caratterizzati da una produzione particolare che consiste in placche rettangolari o quadrate, raramente circolari, di piccole e grandi dimensioni, eseguite su uno stampo semplice, diffuse nella Mesopotamia meridionale e portate alla luce nei santuari, nelle abitazioni private, in particolare nelle cappelle domestiche, nelle strade; soltanto a Kiš sono state rinvenute negli ambienti del quartiere degli scribi. Questa classe particolare costituisce un corpus omogeneo, per certi versi enigmatico nelle sue iconografie che riproducono, secondo stereotipi, motivi desunti dalla contemporanea glittica paleobabilonese, pur mostrando elementi di vivacità (placca dei lottatori che combattono alla presenza di alcuni musici, proveniente da Larsa). Le iconografie che dovevano essere popolari tra le classi abbienti riproducono divinità e personaggi maschili di alto rango, scene a carattere rituale (dedica delle armi), soggetti tratti dalla letteratura contemporanea, di cui non sempre penetriamo il significato (placca con divinità che uccide un personaggio, il cui volto è il disco solare), scene di genere, aspetti della vita domestica, demoni e mostri per esorcizzare le forze del male. Una serie particolare, utilizzata per decorare le testate dei carri, riproduce la maschera ghignante e terrifica del demone Khumbaba, nota anche da esemplari in pietra (Teli ar-Rīma).

I gravi disordini che travagliano il passaggio al Bronzo Tardo (c.a 1600-1200 a.C.) non impediscono alla coroplastica di continuare a essere prodotta con oggetti di indubbio valore artistico come la testa maschile in t. dipinta o quélla di leonessa modellata più naturalmente, provenienti dallo scavo di ʽAqar Quf o la testa maschile eseguita a mezzo tondo, rinvenuta a Uruk, parte di una decorazione in mattoni modanati, tipica del periodo cassita, la cui origine va ricercata all'inizio del II millennio a.C. nei fregi di Ur, datati all'epoca di Sin-Iddinam di Larsa (XIX sec. a.C.), tecnica che la cultura cassita ha perfezionato e sviluppato nella seconda metà del II millennio a.C. Contemporaneamente nelle regioni occidentali si sviluppa una plastica in t. che imita prototipi micenei; queste figurine, molto schematiche e dipinte, sono diffuse in Palestina e nella Siria costiera (Ras Šamra). Diffuse anche le maschere zoomorfe e antropomorfe, indossate dai sacerdoti durante particolari cerimonie cultuali (Teli Qasile). Accanto a questa produzione continuano a essere eseguite le placchette a stampo con figure femminili stanti, caratterizzate da un accentuato modellato e da una capigliatura di tipo egiziano (hathorica) o del tipo ad «ala», diffusa poi durante il I millennio a.C., considerate immagini della dea della fertilità.

Età del Ferro. - Le gravi distruzioni che colpiscono le regioni costiere del Vicino Oriente, da connettere all'avanzata dei «Popoli del Mare», provocano un improvviso impoverimento in quest'area, che vede i grandi centri urbani del Bronzo Tardo non più occupati o sedi di insediamenti di tipo rurale. La coroplastica non sembra tuttavia soffrire di questa momentanea decadenza: in Palestina essa si ispira alla precedente produzione o imita prototipi egei ed egiziani. La t. è piuttosto grossolana, spesso rifinita da una leggera ingubbiatura, o da pittura. Le t. a soggetto femminile sono eseguite a mano, con un corpo campaniforme, alti seni molto pronunciati e braccia riportate sotto il petto; le teste sono invece eseguite a stampo, probabilmente prodotte in una o più botteghe centralizzate, poiché teste simili sono state rinvenute in siti diversi. Questa tipologia si afferma a partire dall'VIII sec. a.C. e rimane in uso fino al V sec. a.C., insieme a quella eseguita a stampo su placchetta che raffigura tipi di «Astarte» con le braccia riportate al seno o distese lungo i fianchi. Accanto a queste categorie continuano a essere in uso soggetti di origine egea o egiziana come la figura femminile nuda o vestita, stante o seduta, nell'atto di allattare. A partire dal XII sec. a.C. viene prodotta la figurina femminile con uccello, diffusa già durante il III millennio a.C., e le suonatrici di tamburello. Nelle aree occupate dai Filistei si sviluppa una produzione molto schematica di influenza egea che continua a essere in uso durante il Ferro II con una maggiore diffusione di esemplari maschili. Questi ultimi rientrano nella categoria delle figurine dette a «pilastro», mentre i «cavalieri» molto schematici presentano un volto di rapace e derivano da prototipi ciprioti, introdotti nel X-IX sec. a.C. La tipologia più arcaica ha il corpo formato da cilindretti giustapposti, mentre quella più tarda è realizzata in tecnica mista con il viso eseguito su uno stampo semplice, coronato da un copricapo a punta. Gli animali continuano i tipi in uso nel Bronzo Tardo, caratterizzati da una leggera ingubbiatura biancastra, che preannuncia già la coroplastica di epoca persiana. Alla produzione tipicamente palestinese sembrano appartenere i modellini di mobilio, forse giocattoli, e quelli che raffigurano templi, piuttosto rari, presenti nell'XI-IX sec. a.C. Di carattere più omogeneo, la produzione siriana predilige da un lato la figurina femminile a base troncoconica con elementi applicati, incisi o dipinti (Ḥama F-E, Teli Mardikh VI A-B, Qatna, ecc.), dall'altro quella a stampo su placchetta con le braccia riportate al seno, diffusa in tutta la regione a partire dal XIV sec. a.C. e in uso per tutto il periodo persiano con molteplici varianti nei costumi e nella posizione delle braccia. Tra le figurine maschili prevalgono i «cavalieri», eseguiti a mano e solo in un secondo tempo assemblati al cavallo. In altre figurine, delle quali rimangono soltanto le teste, si nota una forte ricerca di caratterizzazione fisiognomica (Karkemiš, Hama, Ebla, Teli Afis). Tra le figurine animali sono diffusi i bovini, i caprini e gli ovini. L'esemplare caratteristico dell'Età del Ferro è quello in «snow-man technique» con corpo cilindrico cavo lavorato alla ruota. La coroplastica anatolica è rappresentata dalla produzione cilicia (Tarso), paragonabile a quella contemporanea cipriota, pur mostrando sviluppi formali autonomi: le figurine femminili e maschili hanno forme semplici e rozze, riconducibili alle tipologie a «pilastro» o troncoconica, caratteristiche del I millennio a.C., o al «cavaliere» con viso a becco. Rare le figurine cave, documentate soprattutto ad Alaca Hüyük V (900-700 a.C.).

Bassa Epoca. - La produzione di Bassa Epoca si inquadra cronologicamente tra la conquista di Babilonia (539 a.C.) e la rivolta di Ardašlr I (220 d.C.). Essa è caratterizzata, durante il dominio persiano, da figurine in t. eseguite a tuttotondo, in tecnica mista o a stampo, rifinite da una ingubbiatura verdina (in Palestina è di tipo biancastro), a volte interamente o parzialmente dipinte in rosso.

I tipi sono sostanzialmente due: la figurina femminile a stampo su placchetta e il cavaliere con il volto a stampo e il corpo assimilato a quello del cavallo. In Mesopotamia viene introdotta la figurina femminile in portantina applicata al fianco del cavallo, diffusa anche in Siria, e sono ancora presenti tipologie neo-babilonesi (portatore di vaso).

La conquista macedone introduce l'uso dello stampo doppio e motivi tipici del repertorio greco (divinità dell'Olimpo, Eracle, temi dionisiaci e mitici oltre a gruppi di genere: Kherayeb), che si sviluppano parallelamente a quelli orientali (placche di Astarte, cavalieri). In Anatolia la t. figurata riproduce figure drappeggiate isolate o in gruppi, spesso ingubbiate o decorate con pittura, applicata su un fondo di argilla semiliquida (Myrina).

Le t. paniche, rinvenute in Mesopotamia e in Siria (Dura Europos), continuano tipologie persiane ed ellenistiche, ma in forme rozze e schematiche. La tipologia più diffusa è la figurina femminile e maschile recumbente, nuda o drappeggiata, appoggiata sul fianco sinistro.

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(P. D’Amore)

L'Egeo nell'Età del Bronzo . - Creta. - Figurine fittili modellate a mano e rappresentazioni femminili in forma di vasi plastici sono note a Creta fin dal periodo prepalaziale, ma la rappresentazione compiuta della figura umana e animale e la sua riproduzione in quantità rilevanti sono fenomeni il cui avvio si colloca tra la fine del periodo prepalaziale e l'inizio di quello protopalaziale (Medio Minoico IA - Medio Minoico IB). La maggior parte delle statuine fittili proviene dai santuarî delle vette la cui formazione precede di poco nell'isola quella dei palazzi e sta alla base della conseguente grande richiesta di ex voto in materiale povero. La produzione tipica dei santuarî delle vette, che si deve probabilmente ad artigiani- vasai itineranti, comprende statuine di piccole dimensioni modellate a mano, spesso senza grande cura, delle quali quelle umane risultano di più parti foggiate separatamente e poi incastrate le une alle altre, almeno nel caso della testa e del torso, tramite perni. Gli esempî migliori sono decorati nella tecnica light-on-dark tipica della coeva produzione ceramica di stile Kamares. Gli scavi di A. Karetzou sul Monte Iouktas hanno restituito una grande quantità di statuine fittili Medio Minoico I e Medio Minoico II che comprendono rappresentazioni maschili e femminili, le prime di gran lunga più numerose delle seconde; parti del corpo umano e falli; animali (ovini, bovini, uccelli, serpenti). Un importante complesso di materiali figurati, recentemente ripubblicato, proviene dal santuario di Petsofàs (Palekastro) e ben esemplifica la varietà tipologica di tale produzione, all'interno della quale si registra comunque una certa omogeneità di rappresentazioni. I materiali di Petsofàs comprendono soprattutto figure femminili che indossano una gonna di forma conica o cilindrica, un corpetto del tipo detto collar Medicis e cappelli o acconciature di vario genere; figure maschili generalmente nude, in qualche caso contraddistinte da accessori come una cintura, un pugnale o una collana; arti umani; quadrupedi, per lo più bovini; volatili; rappresentazioni di frutta. Se l'uniformità degli abbigliamenti e delle acconciature riscontrabile nelle statuine della Creta centrale e orientale implica che fin dagli inizi del II millennio a.C. un'identità culturale minoica si era già formata, gli accessori maschili, quando presenti, e le elaborate acconciature femminili sono stati interpretati come i mezzi attraverso i quali si esprimeva il rango sociale individuale. A differenza che nei grandi siti citati finora, le statuine del piccolo santuario rurale di Atsipades (Haghios Vasillos, Rethimno), scavato nel 1989, si distinguono per l'estrema ripetitività dei pochi tipi rappresentati, limitati a bovini, rappresentazioni maschili e femminili, falli.

Figurine fittili sono note, sebbene in quantità limitata, anche da contesti palaziali, domestici e funerari. Una produzione di qualità superiore a quella dei santuarî delle vette è documentata finora soltanto a Haghia Triada ed è rappresentata da un gruppo di statuine femminili a veste campanata modellata al tornio, forse facenti parte di un unico modellino e recentemente rinvenute nell'area del «Complesso della Mazza di Breccia». Quanto ai contesti domestici, l'edificio a pianta ovale di Chamaizi, datato al Medio Minoico IA, e il vano V5 dell'edificio A del Quartier Mu di Mallia hanno restituito statuine umane e animali in tutto simili a quelle dei santuarî delle vette, documentando per questo periodo l'uso di t. figurate anche nell'ambito di santuarî domestici. Tra i molti esempî di statuine rinvenute in contesti funerari, i materiali dall'edificio 9 di Archanes-Fournì comprendono, oltre a statuine di bovini, anche un'interessante rappresentazione fittile di sistrum. Vanno infine citati i piedi fittili, a grandezza naturale, rinvenuti nell'edificio tripartito di Anemospilià, interpretati dagli scavatori come base di uno xòanon di legno, e il manufatto simile da un santuario nell'ala S del Palazzo di Mallia. Resta incerta comunque la produzione a Creta in questo periodo di figure fittili di grandi dimensioni. Numerose statuine, per lo più mediominoiche facenti parte della collezione Metaxa, sono state infine recentemente rese note da A. Pilali-Papasteriou.

Con la ricostruzione dei palazzi che seguì alla grande catastrofe del XVII sec. a.C. e che ebbe tra le sue molteplici conseguenze anche il venir meno della maggior parte dei santuarî delle vette, la produzione della piccola plastica fittile subisce una battuta d'arresto. D'altro canto, significativamente, nel periodo neopalaziale per le rappresentazioni antropomorfe di probabile destinazione cultuale - dalle figure femminili con serpenti dei Temple Repositories di Cnosso, realizzate in faïence, al kouros crisoelefantino di Palekastro, alle statuine maschili e femminili in bronzo rinvenute in numerosi siti cretesi - vengono scelti materiali esotici o comunque di prestigio.

Ancora una volta però il sito di Haghia Triada sembra distinguersi per la ricchezza e la varietà della sua produzione fittile, da intendere forse anche come esito di una maggiore difficoltà nel reperimento di materia prima pregiata. Sono tre i complessi di materiali neopalaziali che devono essere menzionati. Dal quartiere SO della Villa, probabilmente immagazzinati con qualche altro oggetto di destinazione cultuale, provengono: un nutrito gruppo di statuine femminili a parte inferiore cava; una figura femminile di maggiori dimensioni, rappresentata nuda e seduta; una stamina maschile; due statuine di volatili. Sono tutti verniciati di bianco e decorati in vernice rossa, nella tecnica ceramica dark-on-light che nel periodo neopalaziale soppianta la produzione di stile Kamares. Nell'area della c.d. Tomba degli ori, agli inizi di questo secolo, sono stati rinvenuti un gruppo di statuine femminili e una statuina maschile. Tra le statuine femminili, quasi tutte con parte inferiore cilindrica e cava, se ne distinguono alcune la cui elaborata acconciatura ricalca quella di una statuina in bronzo dalla Villa e suggerisce che si tratti di rappresentazioni di personaggi di rango elevato, sacerdotesse cioè, se non divinità. Il terzo complesso, infine, comprende statuine maschili, femminili e animali e proviene dall'area immediatamente a Ν del piazzale moderno che sovrasta la Villa.

Alla straordinaria produzione fittile che contraddistingue il sito di Haghia Triada andranno avvicinati, se non riferiti, anche i tre modellini recuperati nello scavo della thòlos di Kamilari, che raffigurano una scena di danza, la presentazione di offerte all'interno di un edificio verosimilmente sacro e una coppia di figure sedute ai lati di un tavolo. Per restare nell'ambito di questo tipo fittile, peculiare di Creta minoica e micenea e poco diffuso nel resto dell'Egeo, modellini di edifici sono noti da numerosi siti tra cui Cnosso, Monastiraki, Archanes e dallo Iouktas; un modellino di nave, forse proveniente da una delle grandi thòloi della Messarà, fa parte della Collezione Mitsotaki.

Per concludere con la produzione figurata del periodo neopalaziale, statuine umane e animali di fattura in genere molto rozza provengono dal santuario dello Iouktas, ancora attivo e sotto la chiara influenza del Palazzo di Cnosso. Ex voto simili a quelli dei santuarî delle vette ha restituito il santuario di Kophina, sugli Psiloriti. Di esso, che inizia a essere attivo in questo periodo, sono peculiari una serie di t. di grandi dimensioni la cui altezza supera anche i 50 cm.

Un cenno infine meritano le grandi figure fittili dal «tempio» di Haghia Irini a Keos. Si tratta di almeno cinquanta figure femminili, rappresentate stanti o in atto di danzare, che, pur con molte differenze, indossano gonna, cintura e un giubbetto che lascia liberi i seni.

La tecnica usata, fondata sull'aggiunta progressiva di nuclei (cordoni, lastre) di argilla e l'uso di sostegni lignei per tenere in piedi il pezzo durante la costruzione, indica che si tratta di veri e propri esempî di scultura per i quali non esistono confronti precisi né a Creta né in Egeo. D'altro canto sia l'iconografia sia la qualità plastica delle figure sono di chiara derivazione minoica ed esse sono state a ragione interpretate come un risultato dell'intensa mi- noicizzazione di Keos in età neopalaziale.

Le distruzioni della maggior parte dei centri minoici alla fine del Tardo Minoico I (1450-1425 a.C.) e la concomitante occupazione micenea di Cnosso sono alla base dei mutamenti che si registrano nella produzione figurata dell'isola con il venir meno della civiltà neopalaziale. La plastica fittile è adesso limitata a pochi tipi tra i quali predomina la statuina femminile con parte inferiore di forma cilindrica, modellata al tornio e realizzata in argilla fine, ingubbiatura lucida e vernice brillante, secondo i dettami della coeva ceramica Tardo Minoico III.

Il torso può essere pieno e inserito nella gonna tramite un perno, o cavo e plasmato anche in un sol pezzo con la gonna. In altri termini, il tipo fittile con parte inferiore cilindrica, la cui creazione si deve probabilmente alle officine neopalaziali di Haghia Triada, raggiunge adesso una vasta popolarità e sembra rappresentare una sorta di compromesso tra la tradizione naturalistica minoica e la tendenza alla schematizzazione micenea, in cui la vernice diventa essenziale per la caratterizzazione della figura. Peculiari di queste statuine sono infatti la precisione e l'accuratezza con cui tramite la vernice vengono indicati, anche negli esemplari di piccole dimensioni, i particolari dell'abbigliamento, dell'acconciatura e della gioielleria; si veda come esempio la figura da Myrsini (Sitia).

Eccezionale nell'ambito di questo tipo appare la statuina frammentaria con iscrizione dipinta in Lineare A da Poros (Iraklion), per la quale è stata proposta una datazione alla prima parte del Tardo Minoico IIIA, mentre è solo probabile che di esso faccia parte anche quella, frammentaria ma in una posa insolita, rinvenuta a Mallia nel Quartier Nu. L'esemplare femminile, recentemente pubblicato, dalla necropoli di Metochi Kalou (Iraklion) costituisce uno dei rari esempî di statuine tardo- minoiche deposte in contesti funerarî. Tra i pochi tipi diversi che compaiono in questo periodo va segnalata la statuina femminile a cavallo da Spiliotaki Metochi (Archanes). Non comuni infine a Creta, nel periodo in questione, le statuine di tipo propriamente miceneo. Fa eccezione l'insediamento di Chanià nel quale si riscontra la presenza di almeno cinque figurine la cui origine continentale è provata dai risultati delle analisi delle argille.

È sulla base del tipo della statuina femminile con parte inferiore cilindrica che nel XIII e XII sec. a.C. vengono create le grandi figure femminili con braccia alzate che costituiscono il principale manufatto dei santuarî con banchina di Gournià, Gazi, Kannià, Karphì e Kavousi. In quest'ultimo sito, più di diciassette esemplari sono stati recentemente rinvenuti nel santuario di Vronda. Più simili a vasi che a sculture, esse constano dalla base alle spalle di un cilindro aperto alle estremità, ricavato al tornio e successivamente modellato a mano quando l'argilla era ancora fresca, mentre i tratti somatici e i dettagli sono resi tramite nuclei d'argilla sovrapplicati. Queste figure, generalmente rinvenute in gruppi, risultano distinte l'una dall'altra sia per mezzo di attributi specifici (serpenti, doppie corna, uccelli, copricapo conico), sia tramite l'altezza e sono state riferite al culto della c.d. Divinità minoica con braccia alzate. A questo stesso culto è stato di recente ricondotto anche un tipo di modellino architettonico prodotto a Creta tra Tardo Minoico IIIA2 ed età orientalizzante e noto come hut urn.

Un nuovo mutamento connesso alla comparsa di santuarî in grotta o all'aperto, a loro volta legati al venir meno della struttura socio-economica di tipo palaziale e all'arrivo di gruppi micenei dal continente, si registra nella Creta centrale tra la fine del XIII e gli inizi del XII sec. a.C. Nei santuarî dello Iouktas, di Patsòs, di Haghia Triada, di Kato Simi, probabilmente anche presso l'Antro Ideo, si affermano adesso tre nuovi tipi di ex voto, dei quali tecnica e iconografia riflettono l'esistenza di un ambiente culturalmente composito. Si tratta di figure di bovini, di animali fantastici e di doppie corna, non costruite in unico pezzo, ma ottenute dal complesso assemblaggio di parti cave e fatte al tornio, e di parti piene. I dettagli e i tratti somatici venivano modellati in uno strato di argilla sovrapplicato che aveva anche il compito di nascondere la struttura fittile di base. L'impiego di parti cave in tutto simili a quelle usate per modellare un vaso implica che la produzione di questi materiali era in qualche modo pianificata e che essa avveniva all'interno delle officine di vasai. Quest'ultima ipotesi trova conferma nel fatto che i motivi decorativi usati sono quelli propri di anfore a staffa e pissidi del Tardo Minoico UIC e del Subminoico.

Se l'origine in Egeo delle statuine di bovini cavi e fatti al tornio è stata ricondotta ai rhytà minoici in forma di toro, probabilmente diffusi con la mediazione di Akrotiri e delle Cicladi, la comparsa a Creta nel XII sec. a.C. del tipo in questione è stata invece a ragione spiegata come dovuta all'arrivo nell'isola di gruppi continentali; di fatto i numerosi materiali dal santuario sul Piazzale dei Sacelli di Haghia Triada rivelano tratti locali, tratti di derivazione minoica, ma anche una componente marcatamente continentale. Tra Tardo Minoico IIIA e B, statuine di bovini al tornio sono note solo in forma di rhytón, un esemplare del quale è stato recentemente rinvenuto a Cnosso.

Con il termine «animali fantastici» si fa qui riferimento alle figure con testa umana e corpo animale documentate anche a Psychrò, a Festo, a Cnosso, a Patsòs, a Palekastro e forse anche a Priniàs. Esse testimoniano, al pari dei ben noti «centauri» da Cipro, la trasformazione dell'iconografia della sfinge minoico-micenea e la creazione, in un periodo di grandi mutamenti, di nuovi tipi di esseri ibridi che sono realizzati adesso per la prima volta come figure fittili e appaiono diffusi soprattutto a Creta e a Cipro. Le doppie corna fittili e fatte al tornio sono estremamente rare a Creta prima del Tardo Minoico IIIC, mentre tra XII e XI sec. a.C. costituiscono un tipo ben documentato nell'area centrale dell'isola. La presenza, non rara, di una protome umana sulla base dell'elemento cilindrico collocato al centro tra le due corna, allude di nuovo a un essere ibrido e fantastico, che veniva così inscindibilmente associato alle doppie corna: i nuovi simboli, insieme con i bovini, del sistema religioso in vigore nella Creta centrale tra Tardo Minoico IIIC e Subminoico.

Grecia micenea. - La nascita di una plastica micenea non sembra anteriore alla fine del XV sec. a.C. e alla costruzione dei palazzi, e le sue origini sono state ricondotte all'influenza e all'imitazione della produzione fittile cretese. Nella trasmissione al continente di tecniche, tipi e iconografie Citera e il Peloponneso meridionale svolsero un ruolo fondamentale. Qui in particolare sono numerose le statuine di tipo cretese, tra le quali una particolare rilevanza cronologica e contestuale ha l'esemplare femminile scoperto presso il Menelàion insieme con una statuina di tipo proto-Phi in un contesto non anteriore al Tardo Elladico IIIA1.

La produzione fittile micenea comprende soprattutto statuine umane e animali modellate a mano e dipinte, di piccole dimensioni, relative a contesti di varia natura (domestici, funerari, cultuali). Dal Tardo Elladico IIIA2 la loro diffusione è tale che esse vengono rinvenute in quasi tutti i siti micenei, documentando al contempo la popolarità del rituale istituito dall'autorità centrale e la sua integrazione nel culto locale. Le statuine umane sono state divise in quattro tipi (proto-Phi, Phi, Tau e Psi) il cui sviluppo verso una maggiore schematizzazione si segue dal Tardo Elladico IIIA al Tardo Elladico IIIC iniziale. Nel medesimo arco di tempo sembra evolversi negli stessi termini il tipo, sostanzialmente unitario, del bovino. Altri tipi relativamente attestati sono quelli della kourotròphos e del carro. L'importante deposito di statuine da Haghia Triada (Haghios Vasilios), in Corinthia, noto dagli inizi del secolo, è stato recentemente preso in considerazione da K. Kilian, mentre un nuovo nucleo di materiali figurati, associati a ceramica del Tardo Elladico IIIA2, è stato rinvenuto da J. Wright sulla collina di Tzoungiza (Nemea). Pubblicazione definitiva ha ottenuto nel 1990 il complesso, scoperto nel 1962, nelle Syringes della cittadella di Tirinto. Quanto alla presenza di statuine micenee fuori dal continente greco nel corso del Tardo Elladico UIC, essa è stata legata alla diaspora seguita al collasso dell'economia palaziale alla fine del XIII sec. a.C.

Nonostante la testa fittile meglio nota come Lord di Asine sia stata rinvenuta negli anni Venti e successivamente riferita da Alexiou a una figura fittile cava di grandi dimensioni e di ispirazione cretese, è solo a seguito delle recenti scoperte nel Cult Centre a Micene, nei vani 110-115 dell' Unterburg di Tirinto, e nei West e East Shrines di Phylakopì (Milo), che l'esistenza di una produzione continentale di figure fittili con le caratteristiche suddette è stata definitivamente accertata. Dei tipi distinti da E. French, la c.d. Lady di Phylakopì, importata dall'Argolide nel Tardo Elladico IIIA2, esemplifica quello femminile modellato al tornio e dipinto nello stile della ceramica coeva. La costruzione del corpo è fondata su unità cilindriche cave, ma i dettagli del viso e dell'acconciatura sono stati modellati in uno strato di argilla sovrapplicato, rivelando l'uso della tecnica riscontrabile anche sul Lord di Asine e, in forma ben più accentuata, su molte statuine cretesi di XII e XI sec. a.C. Statuine femminili attribuibili al tipo della Lady sono note, tra Tardo Elladico IIIA e UIC, a Micene, Tirinto, Midea e probabilmente anche a Delfi, Egina, Tzoungiza e nell’Amyklàion. Un secondo tipo, denominato cretese in quanto il torso è plasmato separatamente e montato con un perno sulla base cilindrica, è ancora documentato a Phylakopì. Un terzo tipo, presente soprattutto a Micene, comprende almeno ventuno esempî dal corpo informe e cavo sul quale sono state applicate le braccia e la testa. La fattura è più approssimativa, le dimensioni maggiori e la decorazione, eccetto che sul viso, monocroma. Sulla base della loro gestualità queste figure sono state interpretate come maschili e nell'atto di rappresentare aspetti diversi e ricorrenti di uno stesso rituale.

Sono numerosi, di contro, i tipi attestati da pezzi unici o che appaiono comunque prodotti in quantità estremamente limitata. Dal santuario di Phylakopì proviene un'unica statuina femminile sulla quale sono stati indicati i genitali. Soltanto a Phylakopì è attestato il tipo della figura maschile, di modellato pieno, rappresentata stante con le gambe distinte. Quattro delle cinque figure rinvenute hanno attributi sessuali ben indicati, una soltanto ha dimensioni (alt. cm 35) superiori alle altre. Dal Cult Centre di Micene provengono almeno sei esemplari di serpenti, di modellato cavo, a decorazione dipinta in larga parte monocroma. Da una tomba di Voula in Attica e da una di Megalo Monastiri in Tessaglia provengono infine, rispettivamente, una rappresentazione di sandalo dipinto (alt. cm 15, lungh. 21) e un modellino di carro (alt. cm 18,5, lungh. 32), anch'esso dipinto.

Sono poche in definitiva le statuine di maggiori dimensioni che è possibile raggruppare in tipi precisi, e altrettanto difficile è individuare puntuali corrispondenze tipologiche tra i materiali rinvenuti nei santuarî più importanti. I pezzi unici o le serie limitate saranno dunque da attribuire a esigenze di culto o di committenza di carattere strettamente locale.

Quanto al Lord di Asine, elementi relativi alla tecnica di fabbricazione e alla decorazione consentono adesso di datarlo al Tardo Elladico IIIC medio e di confrontarlo con i coevi animali fantastici cretesi; insieme con una testa frammentaria dall'Acropoli di Atene, esso documenta dunque l'esistenza di questa classe di materiali anche sul continente greco.

Statuine di bovini cavi e fatti al tornio sono note a Tirinto, a Epidauro, nel santuario dell’ Amyklàion in Laconia, ad Atene, a Delfi, a Phylakopì, e fino a Dimini in Tessaglia. Il nucleo più consistente è quello di Phylakopì, composto da nove figure, due delle quali recano vasi sul dorso e sono classificabili come rhytà più che come statuine autonome. Sulla base della loro decorazione i bovini sono stati datati tra il Tardo Elladico IIIA e il Tardo Elladico IIIB. Si tratta di un tipo presente esclusivamente in contesti sacri, e in particolare in santuarî ipetrali, come sembrano tra l'altro confermare la sua assenza a Micene e l'unico esemplare noto da Tirinto. L'origine del tipo come si è già detto risale ai rhytà minoici in stile naturalistico diffusi in Egeo tramite le Cicladi tra la fine della Media e l'inizio della Tarda Età del Bronzo.

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Mondo classico. - terrecotte figurate. - La lettura e l'analisi delle t. figurate ha conosciuto, in questi ultimi decenni, profonde modificazioni e articolazioni dovute al notevole incremento di edizioni di materiali e a una riflessione metodologica più approfondita sui caratteri tecnici e morfologici della categoria stessa. La plastica fittile costituisce, infatti, una categoria definita, nella sua globalità, da elementi tecnici e morfologici che sono molteplici e variano notevolmente sia a livello meramente geografico sia cronologico.

Analisi tecnica e analisi morfologica costituiscono aspetti diversificati dello studio delle t. figurate; i dati cronologici, sia assoluti che relativi, accanto a quelli di provenienza forniscono gli strumenti necessari per una lettura ragionata dei manufatti all'interno del contesto archeologico di ritrovamento. Dalla contestualizzazione scaturisce la possibilità di individuare gruppi omogenei con caratteristiche formali e tecniche tali da consentire una sicura definizione di specifici ateliers di produzione.

Tuttavia le innumerevoli officine locali che, a partire soprattutto dal VII sec. a.C. (quando verrà reintrodotto in Grecia l'impiego della matrice, già noto nella Creta minoica) si moltiplicano e compaiono accanto a ogni insediamento o impianto cultuale, non sono considerate tutte come centri creatori ed esportatori di determinate tipologie iconografiche e linguaggi stilistici; è quindi essenziale individuare i centri di origine, definire la circolazione delle matrici o l'esistenza di modelli comuni o, piuttosto, la mobilità degli artigiani. Il ruolo dei centri creatori nella formazione e nello sviluppo delle singole officine locali è oggi largamente riconosciuto; così, all'interno di un sistema di produzione che si va sempre meglio delineando, è possibile cogliere le trasformazioni e gli adattamenti delle tipologie iconografiche più aderenti alla funzione stessa della t. figurata in un determinato contesto regionale.

Per la datazione delle produzioni, maggiore attenzione si presta oggi ai contesti di provenienza nel loro complesso: i depositi votivi, analizzati unitariamente, contribuiscono a definire bene funzione e ruolo delle t. figurate e non; le necropoli, con i corredi organizzati in un sistema omogeneo, consentono di fissare termini cronologici rapportati a tutto il complesso dei materiali; lo scavo di officine o quartieri artigianali, con stratigrafie ben datate, determina la possibilità di usufruire di termini cronologici meno oscillanti rispetto a una semplice lettura stilistica.

È oggi generalmente ammesso lo stretto legame tra la comparsa di figurine fittili, il «sacro» e i rituali a esso connessi. Dal dibattito fra gli studiosi di preistoria sul significato da attribuire alle immagini fittili della c.d. Venere paleolitica, superando lo stereotipo ottocentesco del «potere magico della fecondità», emerge l'ipotesi che queste immagini siano figure simboliche usate per commemorare o rappresentare riti stagionali e, se anche Leroi Gourhan (1971) riteneva ancora prematuro parlare dell'esistenza di un vero e proprio sistema religioso del Paleolitico, la Gimbutas (1990) dimostra chiaramente come le immagini siano inseparabili dal mondo mitico e come le statuine fittili o in pietra possano tanto rappresentare la dea creatrice quanto le partecipanti a specifici rituali.

La notevole quantità di figurine fittili rinvenute in associazione con altri oggetti di culto sia in contesti sacri ben documentati sia in realtà private hanno, in questi anni, aumentato la possibilità di interpretarle secondo un significato coerente. Nei santuarî, infatti, il complesso omogeneo dei doni votivi è organizzato secondo un sistema preciso all'interno del quale sembrano predominare, generalmente, le figurine di t. che dovevano rappresentare il tipo di offerta più economica, alla portata di tutti i fedeli.

L'annosa querelle se la rappresentazione simbolica intera o parziale della figura umana possa rappresentare la divinità o l'offerente è problema di difficile soluzione nella sua generalizzazione. Infatti, se è pur vero che il dono votivo alla divinità è lo strumento per entrare in rapporto con essa, e dunque è un atto cultuale comune a civiltà ed epoche differenti, esso tuttavia non può in alcun caso, essere considerato identico, uniforme e generalizzato; l'atto del dono riflette un rituale specifico che è esso stesso un tipo peculiare di linguaggio che può essere inteso soltanto nel sistema cultuale di riferimento (Alroth, 1989).

Nella Creta minoica statuine fittili compaiono in sepolture accanto a rudimentali modellini riproducenti il banchetto funebre o danze sacre: sono le prime attestazioni di un culto funerario che verrà largamente enfatizzato nella cultura micenea (Poursat, 1985). La presenza di figurine femminili accanto a figurine di cavalieri o di animali insieme a una maggiore varietà di microplastica, nelle sepolture della prima età geometrica in Grecia, riflette complessi rituali funerarî che trovano un'emblematica raffigurazione in un modellino di ekphorà o trasporto funebre rinvenuto in una sepoltura di Vari in Attica.

Per tutta l'età arcaica e classica le figurine fittili manterranno una loro destinazione quasi esclusivamente votiva sia per il culto pubblico sia per quello privato e funerario; sarà soltanto a partire dalla fine dell'età classica, e soprattutto in età ellenistica, che le t. figurate - pur conservando ancora prevalente la funzione votiva - assumeranno anche una valenza puramente estetica e decorativa quali oggetti ornamentali, da produrre in serie e collezionare. In età ellenistica, inoltre, si diffonde massicciamente la moda di inserire, tra gli oggetti del corredo funerario, t. figurate; basti pensare alle oltre 10.000 tombe di Tanagra, alle 5.000 di Myrina, altrettante ad Alessandria, che hanno restituito una quantità ingente di tale materiale. La tradizione delle t. votive continua anche nel mondo romano dove, oltre a una valenza puramente decorativa, va segnalata la loro destinazione per i culti domestici (larari); già agli inizi dell'impero comincia, tuttavia, il declino della t. votiva soppiantata dalla più generale e diffusa lavorazione del bronzo e, eccezionalmente, dell'argento.

L'applicazione di analisi di laboratorio, realizzate in molti centri di ricerca, allo studio della coroplastica antica, ha evidenziato la difficoltà di definire i diversi tipi di argilla e quindi differenti luoghi di produzione sulla base della semplice osservazione autoptica della pasta (colore, consistenza, inclusi). E infatti sono le sostanze «dimagranti», che venivano mescolate all'argilla decantata a determinare differenze strutturali della pasta producendo, oltre che un diverso grado di restringimento, reazioni differenti durante la cottura dalla quale derivano le varie sfumature cromatiche che la pasta può assumere non solo in esemplari differenti, ma anche nel medesimo prodotto; per altro gli impasti variano nella stessa officina e dunque è solo la composizione mineralogica degli «sgrassanti» a definire una diversificazione dell'argilla. Così anche per poter calcolare la sequenza delle matrici o per stabilire l'appartenenza di una serie di esemplari a una stessa matrice bisogna tener presente che solo gli esemplari ottenuti con lo stesso tipo di pasta avranno un eguale grado di restringimento. Si è constatato che la percentuale di riduzione calcolata dalla Yastrow (8,5%-9,4%) non trova un riscontro costante e varia sensibilmente nei diversi centri di produzione. Gli studi sulla granulometria delle argille e le analisi dei materiali pesanti hanno contribuito a definire con certezza luoghi di origine delle argille e aree precise di produzione.

Diverse applicazioni di analisi scientifiche sono state realizzate su materiali coroplastici provenienti da Corinto, Tanagra, Smirne, Taranto.

I metodi radiografico e della fluorescenza sono stati applicati per lo studio dello stato di conservazione dell'impasto e della policromia; la termoluminescenza ha documentato l'autenticità degli esemplari e ne ha definito la cronologia; analisi petrografiche e chimiche sono state effettuate per riconoscere le diversità compositive degli impasti.

Complesso e articolato è il dibattito relativo ai metodi di classificazione dei prodotti fittili, a matrice. Al primo lavoro della Yastrow ha fatto seguito quello del Nicholls (1952) che ha rappresentato, in tutti questi anni, un punto di riferimento essenziale per ogni analisi delle t. figurate.

Sulla base dei concetti espressi dal Nicholls si sono sviluppati altri modelli interpretativi che, pur mantenendo la struttura di base legata a elementi esterni, articolano maggiormente la classificazione.

Controverso è il significato del termine «tipo» che, nell'accezione del Nicholls, non riflette appieno il sistema di produzione a matrice; la Uhlenbrock (1989) preferisce, allora, considerare il «tipo» come un insieme di matrici o di serie raggruppate da una similitudine di tratti riferibili a un prototipo comune mentre il «gruppo» racchiude tipi associabili per caratteri morfologici e iconografici, ma anche stilistici e cronologici; la studiosa giunge così a definire dei «gruppi di produzione» individuando caratteristiche formali di appartenenza ad ateliers e riconoscendo quindi, per la Sicilia, in particolare, alcuni luoghi di produzione ben determinati (Selinunte, Agrigento, Gela, Naxos, Catania).

Contrario ai modelli di classificazione basati su elementi esterni è il Croissant che preferisce intendere il termine «tipo» come un insieme di archetipi rappresentante lo stesso elemento morfologico (p.es. lo stesso volto) mentre con «variante del tipo» intende le singole matrici; per la classificazione in «gruppi» privilegia la possibilità di individuare caratteri stilistici fondamentali definendo, nell'ambito del mondo ellenico, una serie di gruppi stilistici regionali.

Da ultimo M. Bonghi Jovino (1990) ha fissato il significato dei termini usati negli studi di coroplastica assumendo come presupposto il metodo di classificazione ad albero basato sul restringimento delle argille dopo la cottura.

La «classe» comprende gli oggetti in base al parametro della funzionalità e si articola in sottoclassi; all'interno della classe si distingue il «gruppo» che accorpa diversi prototipi (modelli, bozzetti); dal prototipo derivano le matrici (prima entità reale derivata) caratterizzate dalla presenza di «attributi» (caratteristiche tipologiche). Alla base dell'albero sono le «varianti» e le «repliche» (entità archeologiche minimali) caratterizzate da ritocchi di varia natura (apposizioni).

Tuttavia ancora oggi, lungi dal raggiungere un'unificazione dei criteri di classificazione, si utilizza una terminologia corrente in maniera disomogenea se non, a volte, contraddittoria o si preferisce, piuttosto, non utilizzarne alcuna presentando semplicemente una rassegna di esemplari caratteristici e più significativi (Szabó, 1994).

Grecia. - L'attività di officine coroplastiche ad Atene è documentata sin dall'Età del Bronzo, con statuette dal corpo a campana lavorato al tornio e dipinto; continua poi, ininterrottamente e con grande creatività, una multiforme varietà di tipi e prodotti di elevata qualità.

I materiali coroplastici provenienti dall'Acropoli attendono ancora uno studio complessivo e sistematico; particolari classi sono oggetto di studi monografici (Croissant, 1983).

I rapporti tra grande statuaria e produzione di piccola e grande plastica in terracotta sono analizzati da W. Deyle (1969) e dallo stesso Croissant (Ktema, III, 1978, pp. 47-49).

Il deposito votivo dedicato alle Ninfe rinvenuto sulle pendici meridionali dell'Acropoli è ancora per buona parte inedito.

Più ampia è l'edizione dei materiali fittili dall'Agorà grazie ai numerosi lavori di D. Burr Thompson che concentra la sua analisi sull'attività delle officine tra IV e III sec. a.C. ben attestata, tra l'altro, dalla presenza di numerose matrici edite, successivamente, insieme ai rilievi di età ellenistica, da C. Grandjouan (1989). Costante è l'attenzione della Thompson al contesto di provenienza dei fittili e dunque alla possibilità di fissare cronologie ancorate al complesso dei materiali (un contesto sigillato è dato da una cisterna chiusa alla fine del III sec. a.C. contenente t. a partire dalla fine del V sec. a.C.). La comparsa ad Atene, intorno al 320 a.C., di una tipologia peculiare di statuetta femminile, stante o seduta, ha riproposto la discussione sull'origine della vasta produzione di età ellenistica nota sotto il nome di «Tanagrine». La Thompson dimostra l'origine e l'elaborazione nelle officine ateniesi, dove vengono prodotte in piccolo e grande modulo, come riflesso, peraltro, della scultura monumentale; da Atene la tipologia si diffonde dando origine a una produzione su larghissima scala; dalla metà del III sec. ogni atelier locale produce imitazioni e repliche; già alla fine del III sec. a.C., i coroplasti ateniesi abbandonano questa produzione che invece continua ampiamente in altre officine regionali.

Le tipologie elaborate nelle botteghe ateniesi circolano, già dalla metà del VI sec. a.C., nei centri limitrofi; a Brauron, nel ricchissimo deposito votivo del Santuario di Artemide è documentato da molti esemplari il tipo della Kourotròphos, nello schema elaborato ad Atene.

La coroplastica votiva e il complesso di ex voto fittili provenienti dal Santuario di Aphàia a Egina, dopo l'edizione del Furtwängler, sono ridiscussi in lavori monografici legati alla natura del culto di Aphàia stessa; risulta tuttavia evidente una maggiore autonomia della produzione coroplastica eginetica dove confluiscono, accanto a quelle attiche, tipologie argive e ioniche.

Una produzione di figurine fittili modellate a mano è documentata, fin dall'età geometrica, in Eubea; i fittili sono attestati tanto da contesti funerarî (Eretria, Calcide) che in aree santuariali (Amarynthos). Prevale il tipo femminile seduto su trono con spalliera alta terminante con anthèmion: con le mani regge un'offerta secondo un canone iconografico attico. Il santuario identificato a Eretria, dedicato a Demetra, ha restituito un numero considerevole di figurine databili tra il V e il III sec. a.C., di produzione locale, ma con stretti legami con le contemporanee produzioni attiche, corinzie e beotiche (Metzger, 1985).

Nel Peloponneso i centri creatori ed esportatori sono più numerosi e, soprattutto, per l'età arcaica sembrano rivestire un ruolo di maggiore spicco. Una recente puntualizzazione dell'attività delle officine corinzie in età arcaica è in Croissant (1988). Materiali coroplastici rinvenuti nella regione sono editi da E. Kasas (1976). I primi prodotti di una coroplastica corinzia, nella tipica fine argilla locale, compaiono già nell'Antico Elladico con figurine umane e animali modellate a mano e dipinte in monocromia (Phelps, 1987). L'attività poi prosegue con intensità dando luogo a una produzione quanto mai varia e articolata che elabora tipologie peculiari e numerose classi di oggetti in t. decorata a rilievo; continua fino in età romana con la produzione di figurine di divinità destinate prevalentemente a larari domestici.

In città, un témenos votivo destinato a un culto eroico ha restituito numerose figurine di cavalieri e cavalli associate a ceramica del Tardo Corinzio, mentre da un altro deposito votivo, nei pressi del teatro, provengono divinità in trono e phiàlai miniaturistiche databili a partire dalla metà del V sec. a.C. Il deposito votivo del Santuario di Demetra e Kore sull'Acrocorinto ha restituito coroplastica di grande modulo (c.a 30 statue) databile tra il tardo V e i primi anni del IV sec. a.C. accanto a una ricca serie di piccola coroplastica dove predomina l'offerente con porcellino e fiaccola. Dall’Asklepièion provengono i primi votivi anatomici riferibili alla fine del V sec., accanto a una splendida serie di busti e teste femminili. L'officina corinzia è particolarmente prolifica tra IV e III sec. a.C. con produzioni di alto livello artigianale dove si colgono con chiarezza gli stretti legami con la grande statuaria peloponnesiaca.

Una produzione peculiare è rappresentata dalle arule dipinte o decorate a rilievo che inizia intorno alla metà del VI sec. a.C. e continua fino alla metà c.a del IV secolo. Pìnakes dipinti e a rilievo, loutèria e grandi contenitori decorati a stampo o a rullo vengono prodotti e largamente esportati dagli ateliers corinzi sin dalla metà c.a del VII secolo. Una lettura analitica e una definizione delle peculiarità di una plastica corinzia è in K. Wallenstein (1971).

Un piccolo santuario nella regione, a Solygeia ha restituito t. figurate ed ex voto appartenenti alla sfera del culto argivo di Hera con una tipologia standardizzata che documenta chiaramente gli stretti rapporti tra Argo e Corinto. Centro produttore di notevole prestigio è Argo e il suo ruolo dominante nel Peloponneso è ben attestato tanto nella diffusione di prodotti e tipologie argive quanto nell'influenza esercitata nell'elaborazione delle officine locali tanto in Acaia, quanto a Corinto, Sparta e Olimpia.

T. figurate provengono dall’Aphrodìsion e un complesso votivo rinvenuto presso il teatro ha restituito figurine modellate a mano degli inizi del VII sec., matrici tardo arcaiche e figurine ellenistiche; gli evidenti legami con Corinto sono documentati dalla presenza di tipologie iconografiche comuni legate al culto di Hera.

Prodotti e tipologie argive sono presenti a Elaious, Kourtaki, Fliunte, Tirinto e Micene dove negli anni '70 venne scavato un ricco deposito votivo con t. figurate tra cui compare la figura femminile seduta su trono secondo lo schema iconografico elaborato ad Argo. Agli inizi del VI sec. prende il sopravvento la produzione corinzia e se ne trova riscontro nella produzione di un centro come Tegea dove, nella prima fase della produzione locale, i modelli imitati sono prevalentemente quelli argivi e, successivamente, diventeranno quelli corinzi (sono tuttavia attestati anche molti originali corinzi); da segnalare una tipologia del tutto anomala raffigurante una figura femminile a cavallo di un cammello (Karaghiorgis, 1969). Numerose sono, in tutta la regione, le figurine femminili su cavallo sia in terracotta sia in bronzo (Voyatzis, 1990 e 1992) varianti e repliche di tipologie argive e corinzie. Dal Santuario di Artemide a Lousoi provengono numerose maschere e protomi femminili di età classica che riflettono piuttosto modelli attici (Sinn, 1980).

La produzione laconica, nota dai complessi votivi di Artemide Orthìa e del Menelàion di Sparta nonché dal Santuario di Apollo Hyakinthos ad Amyklai, ripropone tipologie iconografiche e linguaggio stilistico largamente diffusi in tutto il Peloponneso con testine e statuette a placca nello stile dedalico che assume sfumature figurative peculiari nelle officine laconiche; nel corso del VI sec. compare una produzione di maschere, mentre elaborazioni puramente locali vengono considerate le placchette con raffigurazioni di banchetti funerarî e cavalieri, rinvenute in un deposito votivo nell'area della necropoli di Voidikilia, dedicato al culto eroico.

Il lavoro di Heilmeyer (1972) dedicato alle figurine di età geometrica modellate a mano e a quelle della prima età arcaica rinvenute a Olimpia evidenzia con chiarezza gli stretti legami con le produzioni argive sia in bronzo sia in terracotta; inoltre il ricco materiale recuperato in 14 pozzi, nei pressi dello stadio, che copre un arco cronologico dall'alto arcaismo all'età romana, documenta la produzione locale delle botteghe di Olimpia ed evidenzia anche come modelli e prototipi provengono essenzialmente dai principali centri creatori del Peloponneso (Argo e Corinto), da Atene o dalla Beozia e dal mondo ionico.

Centri creatori di una tipologia formale e di un linguaggio stilistico peculiare sono stati individuati in Beozia sin dal primo periodo geometrico; Szabó (1994) definisce in ambito regionale una produzione propria con botteghe distinte sulla base dei soggetti privilegiati, un uso del colore raffinato, la persistenza di una rappresentazione astratta del corpo che solo intorno alla metà del VI sec. lascia il posto a una appresentazione realistica. Sono chiari i rapporti e le reciproche influenze con l'area argivo-corinzia a cui riconducono alcune tipologie iconografiche che, tuttavia, nelle officine beote trovano espressioni e caratterizzazioni ben distinte. Una tipologia diffusa nella regione è quella della portatrice d'acqua, attestata in una notevole serie di esemplari a Halae. Uno dei centri più attivi, sin dal periodo arcaico, è Tanagra la cui produzione è nota essenzialmente per il gruppo omogeneo di t. figurate proveniente dalla necropoli ellenistica che ha portato alla definizione di uno «stile di Tanagra». Dopo gli studi di Higgins e della Thompson, che hanno dimostrato come il centro di origine delle tipologie figurative sia da individuare piuttosto nelle botteghe ateniesi già alla fine del IV sec., la produzione di Tanagra è stata analizzata nel più ampio contesto regionale dove l'elaborazione di un linguaggio peculiare è ben documentata sin dai primi decenni del VII sec. a.C. Successivamente, nel corso del IV sec. i legami e gli stretti rapporti commerciali con Atene trovano maggiore evidenza nei materiali, con la presenza, nei corredi funerari, di originali attici accanto alle repliche locali (Karouzou, 1971).

La capillare diffusione di questo «stile» nel bacino del Mediterraneo è documentata tra l'altro dal rinvenimento, al largo delle coste della Palestina, di una nave, naufragata agli inizi del IV sec. a.C., che trasportava un consistente numero di statuine fittili, destinate all'esportazione, provenienti dalle officine della Grecia e dell'Asia Minore; è molto probabile che queste prime esportazioni servissero da prototipi per i centri importatori, che diventeranno, poi, a loro volta, produttori (Bell, 1973; Besques, 1978).

Kleiner (1984) analizza la tipologia delle tanagrine nei principali centri di produzione mentre Higgins (1986) sintetizza i termini della questione e fornisce una letteratura ragionata.

Di ambito e linguaggio puramente beotico è il materiale votivo dal Kabìrion di Tebe (Schmaltz, 1974) dove compare una bella serie di recumbenti accanto a protomi e maschere, rilievi e figurine di giovani nudi con mantello. Originali e modelli provenienti dalla Ionia d'Asia determinano, alla fine del VI sec. la formulazione di una morfologia stilistica e formale eclettica dove confluiscono elementi corinzi, accanto a quelli ionici.

L'officina delfica mostra legami molto stretti con l'area attica e peloponnesiaca e non sembra essere centro diffusore così come le numerose officine tessale; l'area epirota gravita essenzialmente in ambito corinzio corcirese e la presenza di officine autonome è evidenziata da alcune matrici recanti il nome dell'artigiano locale accanto a matrici importate direttamente da Corfù.

Ottima qualità dei prodotti e ricca fantasia nella composizione delle tipologie figurative presentano i prodotti degli ateliers di area macedone attivi prevalentemente in età ellenistica; le t. con doratura superficiale provenienti dalle ricche necropoli testimoniano l'autonomia e lo sfarzo creativo delle officine, legate, invece, nel corso dell'alto arcaismo e per tutta l'età classica, alla egemone produzione attica analogamente all'area tessala ed epirota.

La maggiore ricchezza e varietà di t. figurate proviene dai corredi delle necropoli di età ellenistica individuate ad Amphipolis e Stobi.

Centro produttore viene considerato anche Olinto, dove confluiscono originali e matrici dall'area attica, beota e corinzia ma dove si registrano anche forti influenze della produzione ionico-insulare; la produzione termina con la presa della città da parte di Filippo nel 348 a.C., terminus post quem per la cronologia delle statuette nello «stile» di Tanagra, del tutto assenti nei contesti di Olinto.

Isole e mondo ionico. - Più complessa è l'analisi delle produzioni in ambito insulare, dove è stato enfatizzato il ruolo di Rodi, a lungo considerata centro creatore ed esportatore di tipologie specifiche (la kore con mani al petto; il tipo seduto; l'Atena Lindìa) diffuse poi capillarmente in tutto il bacino del Mediterraneo. L'analisi, oggi, abbraccia tutto l'ambito della Ionia orientale con i grandi centri della costa dove, parallelamente allo sviluppo delle grandi scuole di scultura, si formano nella plastica in t. quelle tipologie formali e quel linguaggio stilistico definito ionico tout court.

All'interno di questa unità culturale, il tentativo di definire la produzione dei singoli centri porta ad analisi più dettagliate delle produzioni nel loro complesso. Certamente Rodi è centro creatore ed esportatore, tuttavia l'originalità della sua produzione non è poi sempre così evidente se rapportata con quella di Samo, Chio, Paro o Mileto.

La grande diffusione di tipologie e tradizioni figurative ioniche che già si coglie nel corso del VII sec. diventa poi, in sincronismo con il fenomeno dell'emigrazione dai grandi centri ionici, capillare e determinante nella formazione e nello sviluppo delle innumerevoli officine locali tanto nella Grecia continentale quanto in Occidente.

Una produzione coroplastica peculiare delle officine delie è stata chiaramente definita dal Laumonier (1956) che ne ha evidenziato uno schema autonomo con componenti formali e stilistiche provenienti sia dall'area samio-milesia sia dalla Grecia. A Paro, accanto al repertorio usuale di divinità sedute in trono con pòlos e maschere nel quale già dalla metà del V sec. (Croissant, 1983) è possibile riconoscere un'originalità figurativa, sono considerate, piuttosto, elaborazione peculiare la classe dei rilievi prodotti tra il VII e il V sec. a.C. raffiguranti cavalli, divinità (Atena con phiàle presso un'ara), cavalieri e quella dei votivi anatomici con iscrizioni dedicatorie ad Asklepios, a Ilizia e alle Ninfe.

Le officine di Thasos elaborano, a partire dall'ultimo quarto del VII sec., una piccola plastica in stile dedalico che riflette canoni e stilemi figurativi dell'ambito cicladico con elementi orientalizzanti recepiti direttamente da Samo e da Rodi. Un tipo iconografico specifico è la figura femminile seduta con alto pòlos prodotta in serie successive che vanno dall'alto arcaismo agli inizî del V sec. a.C. (Weil, 1985).

Il grande Santuario di Hera a Samo ha restituito una notevole ricchezza e varietà di figure in t. anche di grande modulo, ma soprattutto una grande varietà di doni votivi fittili.

Il ruolo delle botteghe samie nella formazione di un linguaggio formale e stilistico peculiare che influenzerà numerose altre produzioni, è riconosciuto da quasi tutti gli studiosi che individuano uno «stile samio» sin dalla fine dell'età geometrica. A partire poi dalla seconda metà del VI sec. a.C. il ruolo delle officine samie diverrà considerevole per la circolazione e la diffusione delle tipologie ioniche; emblematica è la diffusione della c.d. kòre samia, sia sotto forma di balsamarlo configurato, sia come statuina di piccolo, medio e grande modulo. Le più antiche figurine fittili modellate a mano appartengono al Protogeometrico e ritraggono cavalli e bovini; sempre modellate a mano sono le prime figurine antropomorfe mentre, già agli inizi dell'VIII sec., compaiono le prime figurine stanti con corpo tubolare e collane dipinte con pendenti plastici. Nel secondo quarto del VII sec. nelle officine samie si elaborano differenti tipi di offerenti e, agli inizi del VII sec., la figura femminile seduta su trono (Jarosch, 1994).

Sulla costa anatolica i grandi centri creatori di Efeso e Mileto elaborano tipi iconografici e tradizioni figurative derivanti dalla grande statuaria, determinando, in maniera rilevante, la. formazione delle numerose botteghe locali. I depositi votivi rinvenuti a Cnido, Coo, lasos, Alicarnasso hanno restituito un altissimo numero di t. figurate, prodotte, nel loro complesso, da botteghe locali; i modelli tuttavia, a volte le stesse matrici, provengono da officine milesie o rodiote. Rapporti con Samo, ma anche strette affinità con la produzione pergamena mostrano le numerose t. da Priene che, emblematicamente, segnano la formazione di una tradizione regionale eclettica e vivace. La produzione più ampia si colloca tra il III e il I sec. a.C. ed è possibile delineare l'attività dei singoli artigiani grazie alle numerose firme sugli esemplari e sulle matrici (Gerasimos, Menekrates, Moschos, Pytheos, Theodotos).

La produzione delle officine di Smirne, in età ellenistica, presenta una singolare caratteristica che consiste nella riproduzione più o meno esatta di opere della grande statuaria di marmo e in bronzo di età classica. Ciò che colpisce maggiormente non è soltanto il rapporto fedele con l'originale (copie più o meno fedeli provengono dalle botteghe di Pergamo e Myrina), quanto piuttosto l'accuratezza dell'esecuzione, la ricerca del particolare, la perfetta resa delle masse plastiche (così la riproduzione del Diadumeno di Policleto o quella dell'Eroi lisippeo) che denotano la maestria degli artigiani e la padronanza dei modelli figurativi.

Il piccolo centro portuale di Myrina, sulla strada tra Smirne e Pergamo, diventa tra il III e il II sec. a.C. uno dei centri creatori più interessanti della costa anatolica. Il dato di maggior rilievo è la presenza di numerose firme di coroplasti (se ne conoscono 45) che consentono di delineare la fisionomia stilistica e la varietà delle tipologie elaborate (25 tipi differenti di Afrodite). La fine della produzione di Myrina corrisponde al terremoto che distrusse la città nel 106 d.C.

La coroplastica pergamena dal V sec. al I sec. a.C. è analizzata dalla Topperwein (1976), mentre alcune matrici recuperate in una cisterna sono edite da Radt (1978); gli stretti rapporti con Smirne e Myrina sono quanto mai evidenti ed è chiaro che circolano modelli comuni che vengono riprodotti con lievi varianti. Tuttavia a botteghe pergamene e, in particolare, al coroplasta Paparios viene attribuita l'elaborazione, alla fine del IV sec., di un particolare tipo iconografico di Musa che sarà poi largamente riprodotto tanto a Smirne quanto a Myrina.

La produzione pergamena conosce successivamente, nel corso del II sec., uno «stile» monumentale rapportato alla creazione del Grande Altare di Zeus e alla presenza di maestranze altamente specializzate.

Nell'area interna sono soprattutto le officine di Pergamo e Smirne a monopolizzare il mercato e a esportare originali e matrici, influenzando in maniera considerevole le produzioni di età ellenistica nei singoli centri (Gordion).

La Thompson (1963) sottolinea questa preponderante presenza di modelli da Smirne o Pergamo anche per il materiale ellenistico recuperato nei vecchi scavi di Troia.

Creta. - Problematiche più complesse presenta la produzione di figurine fittili cretesi documentate con una splendida serie sin dalla piena Età del Bronzo (v. sopra); lavorate già con matrici sono documentate figurine femminili con la parte inferiore tubolare, cavalieri, figurine di animali completati da una ricca policromia (Hayden, 1991). Va sottolineata inoltre una produzione di grande modulo con pezzi lavorati a mano e poi assemblati dal santuario di Haghia Irini a Keos (Caskey, 1986).

I lavori di Coldstream per Cnosso (1973) e quelli di Rizza per Gortina (1968) offrono un'ampia e articolata documentazione della coroplastica cretese e delle profonde trasformazioni nel corso del periodo dedalico.

Il problema dello stile dedalico è affrontato più di recente da Cassimatis (1980) mentre un santuario di età ellenistica individuato a Cnosso ha restituito pìnakes a rilievo raffiguranti un giovane cavaliere con chitone e clamide.

Cipro. - Le officine di Cipro presentano caratteri morfologici peculiari ben delineati grazie a studi sistematici e complessivi dei materiali coroplastici provenienti da Kou- rion, Salamina e Amatunte. Gli artigiani ciprioti elaborano un proprio linguaggio figurativo riflesso, anch'esso della grande statuaria in pietra; ed è emblematico che un deposito votivo da Salamina ha restituito sculture in pietra accanto a esemplari fittili databili tra il VI e il V sec. che ripetono gli stessi schemi iconografici; spicca un tipo di kòre con offerta al seno di impronta attica, realizzata tanto in pietra che in t. (Yon, 1974).

Di elaborazione locale sono certamente i modellini di barche sia rotonde che a fondo piatto e il tipo iconografico del banchettante disteso su klìne, attestato già nella produzione tardogeometrica e il cui prototipo è stato individuato in ambiente assiro (Monloup, 1984).

Italia meridionale e Sicilia. - L'analisi delle produzioni artigianali e artistiche della Magna Grecia e della Sicilia, superando il vecchio schema del loro carattere «periferico», punta alla definizione dei caratteri peculiari dei principali centri di produzione dove viene elaborata una forma originale che conserva esperienze, stimoli, apporti sia dell'area specifica di provenienza dei coloni (considerando per altro l'eterogeneità stessa dei contingenti alla partenza), sia da quelle aree interne verso le quali, sin dal primo momento dell'insediamento, si aprono i nuovi coloni.

Anche per le t. figurate e la produzione fittile in generale, la lettura oggi è focalizzata verso l'individuazione dei centri creatori dai quali poi - nei termini di un modello diffusivo - si irradiano, nell'area di influenza delle singole pòleis, tipologie morfologiche e stilistiche. Tenendo inoltre presente l'articolazione storica delle diverse «fasi» delle produzioni artigianali e il ruolo, che, di volta in volta, assume l'artigianato all'interno dell'economia della pòlis, riesce estremamente difficile considerare il patrimonio artigianale della Magna Grecia e della Sicilia come un fenomeno unitario che diverrà tale - pur mantenendo inflessioni peculiari - soltanto alla fine del IV sec. a.C., quando la produzione in serie dei grandi centri ellenistici di Taranto, Napoli, Siracusa, si uniformerà a quella koinè espressiva e tipologica che caratterizza la produzione artigianale figurativa di tutto il bacino del Mediterraneo.

Tipologie iconografiche e formali strettamente affini circolano nell'ambito delle colonie achee, dove un ruolo determinante nella loro diffusione e circolazione hanno le officine di Sibari e Crotone; quest'ultima, peraltro, produce una notevole varietà di manufatti fittili che esporta prevalentemente nell'ambito delle pòleis achee e nei loro territori (arnie, loutèria, il tipo della c.d. lampada del Sele).

Le t. figurate compaiono già nei decenni centrali del VII sec. a.C., in «stile dedalico» di impronta corinzia, e fornaci di età arcaica ne documentano la produzione locale.

Nel corso del VI sec. e poi per tutta l'età classica, le tipologie elaborate nelle officine crotoniati riflettono una omogeneità peculiare di tutta l'area achea dell'Italia meridionale.

Dalla metà c.a del IV sec. a.C., la gravitazione culturale e figurativa ricade piuttosto in ambito tarantino; tuttavia la produzione, assai consistente, riflette ancora una cultura figurativa e una capacità tecnica di livello sempre elevato.

Le prime attestazioni di una coroplastica sibarita sono note soprattutto dai rinvenimenti di Francavilla Marittima (a c.a 14 km da Sibari) dove, sul Timpone della Motta, è stata esplorata un'area sacra frequentata, già dall'ultimo quarto dell'VIII sec., da Greci e indigeni. Una statuetta di tipo dedalico, datata alla metà c.a del VII sec., con vestito decorato a fasce orizzontali, dove compare una delle prime scene mitologiche (Aiace che trasporta il corpo di Achille), denota un artigianato di alto livello (Zancani Montuoro, 1970-71).

A partire dalla fine del VII sec. con una bella serie di statuette dedaliche è documentata un'officina metapontina che sviluppa, nel corso del VI sec., una larga varietà di tipi e prodotti che trovano ampia diffusione in tutto l'entroterra indigeno.

Le tipologie formali e il linguaggio stilistico si raffrontano con le coeve produzioni di Sibari, Crotone e Posidonia, evidenziando sempre meglio sia la capacità di integrazione a livello produttivo sia una omogeneità culturale di fondo.

Da sottolineare la presenza di una plastica fittile di grande modulo (una kòre stante con chitone decorato da rosette, palmette e meandro; una figura inginocchiata) dove componenti figurative ioniche tardo-arcaiche sembrano prevalere e caratterizzare largamente poi tutta la produzione dalla seconda metà del VI secolo.

La produzione di età tardo-classica elabora tipologie influenzate da prototipi attici, mentre quella di età ellenistica risente della forte componente da eracliota-tarentina.

Dal Kerameikòs di Metaponto provengono matrici e scarti di lavorazione. È attestata una produzione di arule e di alcuni particolari dischi votivi fittili con una serie di figurazioni stampigliate. Il noto perirrhantèrion dall'Incoronata (insediamento posto tra Siris e Metaponto), decorato con matrici a placca e a rullo a fasce sovrapposte è datato al terzo venticinquennio del VII sec. a.C. e viene considerato un prodotto di officina magno-greca (Siris o Taranto) su modelli metallici di tradizione corinzia.

Il territorio metapontino è segnato da una fitta rete di siti indigeni dove forti sono i segni di una precoce e intensa ellenizzazione e dove la produzione coroplastica è determinata dai modelli provenienti dalle officine metapontine, da cui provengono anche molte matrici (Cozzo Presepe, Garaguso, Montescaglioso, Ferrandina, Lucignano).

La ricca stipe votiva recuperata a Timmari, con oltre 2.000 statuette in parte importate dalle città della costa ionica, presenta una tipologia iconografica legata al culto di Demetra costituita da protomi e busti che si datano a partire dalla seconda metà del V sec., mentre il gruppo più compatto, raffigurante la divinità seduta in trono, si colloca in pieno IV sec.; per la maggior parte i fittili sono ricavati da matrici e prototipi tarantini.

Nella zona più interna della Lucania, coroplastica votiva, prodotta localmente su tipologie prevalentemente eracliote-tarantine, è stata rinvenuta a Ruoti, presso un'area sacra vicino a una sorgente (Fabbricotti, 1979), a Rossano di Vaglio, nel santuario dedicato alla Mefite Utiana (Adamesteanu, Dilthey, 1982) e a Satriano.

Malgrado siano ancora sostanzialmente inedite le migliaia di statuette rinvenute nelle stipi votive dei santuari, la tipologia formale della coroplastica poseidoniate è nota, per larghe linee: accanto ai primi esemplari originali provenienti da officine corinzie e databili tra gli ultimi decenni del VII sec. e i primi anni del VI sec. a.C., compaiono i prodotti dell'officina locale che ripetono ed elaborano prototipi di area corinzia. La produzione di t. figurate - come a Metaponto e a Sibari - anche di grande modulo - è improntata, nel corso del VI sec. a.C., a quei diffusi caratteri formali ionici che uniformano, in una qualche maniera, i prodotti della plastica magno-greca e siceliota.

Nella seconda metà del V sec., nelle officine pestane, viene elaborata una tipologia peculiare dell'immagine di Hera che verrà riprodotta in migliaia di esemplari nel corso del tempo e con caratteri iconografici e attributi costanti (figura avvolta nel mantello con pòlos e velo, seduta in trono con alta spalliera, tra le mani la melagrana o il cestello di frutta, sempre la phiàle): è l'iconografia della c.d. Hera Pestana, presente anche fuori del territorio pestano a dimostrazione della persistenza di un'iconografia e della circolazione di prototipi o matrici.

In età ellenistica le botteghe pestane sono attivissime ed elaborano una grande varietà di figurine femminili che ripetono più o meno fedelmente modelli ricorrenti del primo ellenismo. Un'elaborazione forse puramente pestana è la c.d. donna-fiore di cui rimangono, accanto a un notevole numero di esemplari, anche numerose matrici. La colonizzazione latina e la presenza di forme di culto legate al mondo italico trova riscontro nella composizione della stipe votiva detta del Giardino Romano dove prevalgono ex voto anatomici e bambini in fasce con amuleti e cappelli a punta, secondo un modello tipicamente centro- italico.

Gli scavi recenti nel quartiere di Centocamere, a Locri, hanno consentito di individuare numerose «unità abitativo- artigianali» dove si producevano t. figurate, pìnakes, arule, contenitori decorati a rilievo, t. architettoniche, tutti prodotti destinati prevalentemente al consumo interno e a quello delle sub-colonie (Medma e Hipponion). Al di fuori del territorio sono documentati alcuni pìnakes locresi in Sicilia (Siracusa, Selinunte, Francavilla di Sicilia) e in Sardegna (Tharros).

Le t. figurate presentano tipologie articolate connesse ai diversi culti della città. Un gruppo omogeneo di protomi femminili proviene dal deposito votivo alla Mannella dedicato a Persefone (Barra Bagnasco, 1986); elaborazioni peculiari degli artigiani locresi sono considerati i tipi dello Zeus saettante, del «congedo» o della «portatrice di simulacro», mentre il tipo del recumbente ripete uno schema diffuso soprattutto in ambito tarantino.

La serie dei pìnakes locresi (v. locri epizefirii), dopo la classificazione della Zancani (1954) che distinse ben 170 tipi e 10 gruppi tematici, è stata riesaminata da Prückner (1968) che avanza l'ipotesi che solo una parte dei rilievi sia da riferire al ciclo di Kore-Persefone mentre, per la maggior parte, si riferirebbero al culto di Afrodite.

La ricca e variata coroplastica medmea - legata a tipologie formali e stilistiche delle botteghe locresi - è stata subordinata costantemente a quella della madrepatria, al punto che lo Higgins (1967) definisce alcuni esemplari medmei come «t. locresi da Medma». A questa lettura si è opposto Arias (1977) e in realtà la presenza di matrici e la peculiarità dell'argilla dimostrano l'attività di una fiorente officina locale.

A Siris i primi prodotti coroplastici sono figurine di tipo dedalico databili alla fine del VII sec. a.C. che ripropongono schemi figurativi di ambito laconico. Dalla metà del VI sec. a.C. la produzione di protomi e maschere femminili sembra derivare strettamente da prototipi samì; peraltro tutta la produzione di plastica fittile del VI sec. a.C. conserva forti caratteri e stilemi di tipo ionico.

La fondazione di Heraclea sul sito della distrutta Siris determina, nella produzione artigianale e artistica, molteplici mutamenti e in particolare la produzione di statuette fittili riflette ormai tematiche e tradizioni figurative delle città di riferimento: Taranto e Thurii.

Dalla fase del medio e/tardo dedalico e fino al I sec. d.C., la produzione di t. figurate non sembra conoscere interruzioni o cali di produttività e la Herdejurgen (1971) ne ha proposto una documentata periodizzazione. Il fenomeno certamente più studiato è la funzione dell'artigianato tarantino in età ellenistica, la capillare diffusione dei suoi prodotti, e il ruolo preminente che ha avuto nella formazione di quella koinè sia formale sia stilistica che omologa tutte le produzioni locali in un linguaggio unitario.

Un dato di notevole importanza viene dalla recente risistemazione dei contesti funerarî delle necropoli tarantine di età ellenistica dove sono presenti nel corredo, uniformemente a quanto registrato nei principali centri ellenistici, figurine e oggetti in terracotta per la cui cronologia si dispone così di associazioni con altre classi di materiali datanti. Lo stesso lavoro di risistemazione si sta effettuando anche per i materiali delle ricche stipi votive nel tentativo di ricostruirne il contesto (Jacobone, 1988).

Una produzione peculiare è quella delle appliques in t. dorata, mentre la classe dei pìnakes sembra destinata essenzialmente al culto dei Dioscuri.

Numerosissime le matrici (c.a 1.000) ancora inedite tra cui, molte, presentano sigle che potrebbero riferirsi tanto agli artigiani stessi quanto a semplici numerazioni e siglature di pezzi poi da assemblare (Kingsley).

Per la produzione figurativa nell'ambito coloniale calcidese non sembra ancora possibile delineare un quadro omogeneo anche per la difformità delle nostre conoscenze. Alla fine del VII sec. risale una stipe votiva (c.d. dei cavalli) da Ischia di cui è nota soltanto una t. raffigurante un carro agricolo trainato da cavalli (muli?), mentre t. figurate, arnie, loutèria, una lastra con cavaliere documentano l'alto livello e la ricchezza dell'artigianato ischitano in età ellenistica.

Per quanto riguarda Cuma, malgrado la fama che ancora ai tempi di Plinio godevano i figuli cumani, piuttosto povero è il materiale coroplastico edito di cui, peraltro, non è sempre accertata la provenienza cumana. Un'officina reggina era stata già individuata dal Vallet che nella coroplastica aveva distinto prodotti importati dalla Ionia d'Asia (Rodi e Samo in particolare) da quelli prodotti nelle botteghe locali; elaborazioni di tipologie peculiari nel corso della prima età classica - ben documentata nei materiali votivi del santuario Griso-Laboccetta - gravitano piuttosto verso l'ambito siceliota.

L'area della Sicilia ionica interessata alla colonizzazione calcidese e all'espansione verso l'interno, nella valle dell'Alcantara, offre una produzione fìttile gravitante sensibilmente, sia per tipologie formali sia per una più complessa e generale cultura figurativa, verso l'area italiota dello Stretto e numerose, frequenti e costanti sono le interazioni e i rapporti che si possono delineare tra la produzione fittile di quest'area della Sicilia greca e quella di Reggio e Locri.

Il ricchissimo santuario individuato a Francavilla di Sicilia ha restituito protomi votive prodotte nelle officine di Naxos strettamente affini agli esemplari locresi e medmei; particolare rilievo va dato a un gruppo di pìnakes certamente di provenienza locrese, accanto a esemplari sicuramente attribuibili alle botteghe di Naxos (Spigo, 1987), dove sono state individuate unità produttive che lavoravano ceramiche e t. figurate, tra cui numerose protomi femminili.

Intorno all'ultimo quarto del VI sec. a.C. si avvia una produzione di alto livello artistico di arule figurate con scene mitologiche e zoomachie.

Alla metà c.a del VII sec. a.C. risalgono le prime testine dedaliche rinvenute negli scavi di Megara Hyblaea, improntate chiaramente ai canoni del dedalico corinzio; nel corso del VI sec. nelle officine megaresi si adotteranno tipologie formali (maschere, protomi, statuette sedute o stanti) di impronta greco-orientale elaborando un linguaggio espressivo del tutto autonomo e fortemente caratterizzato che impronterà anche le coeve produzioni siracusane e selinuntine. Alla metà c.a del VI sec. inizia anche la produzione di arule e loutèria decorati a stampo.

Nella Sicilia orientale è dalle botteghe di Siracusa che provengono i documenti più significativi di una plastica dedalica siceliota improntata a stilemi formali peloponnesiaci; nelle officine si creano prodotti di altissima qualità con raffinata policromia in una varietà considerevole di tipi. Agli ultimi decenni del VI sec. si data un pregevole pìnax di grande modulo con le figure di Demetra e Kore contrapposte, mentre, nel corso del VI sec. a.C., è nei grandi busti di Demetra che si colgono i segni di un rapporto sempre più stretto con le coeve produzioni attiche. La produzione di busti continua nel IV e fino agli inizi del III sec. con esemplari sempre di notevole pregio arricchiti da una vivace policromia. L'età agatoclea rappresenta, per l'artigianato siracusano, un momento di grande fervore con l'apertura verso centri quali Alessandria e Rodi; la coroplastica si arricchisce di innumerevoli tipologie, riprodotte in serie, ma sempre di alta qualità ed esportate largamente.

Gela è l'altro centro creatore di prodotti pregevoli e di tipologie largamente diffuse; il profilo della coroplastica è oggi ben delineato grazie a una serie di studi monografici che hanno analizzato specifiche tipologie definendo le peculiarità espressive e formali delle officine geloe; da queste si diffondono prodotti e matrici che influenzeranno, insieme a Siracusa, la formazione di numerose botteghe locali nell'interno.

È opinione corrente che nelle botteghe agrigentine sia stato elaborato il tipo figurativo del busto femminile con pòlos e collane plastiche derivato, molto probabilmente, dalle protomi con volto femminile di età arcaica. La produzione in serie di questa tipologia diverrà una delle caratteristiche delle officine agrigentine (Kilmer, 1977), accanto a tutta un'altra ricca serie di manufatti fittili (arule, loutèria).

Centro produttore, vivace e colto sin dal primo momento della sua fondazione, è Selinunte, che produce una coroplastica originale sia nelle tipologie formali sia nel linguaggio figurativo. Solo di recente è iniziato il lavoro di edizione filologica della gran massa dei materiali votivi provenienti dalla Malophòros e il primo volume, dedicato alla tipologia delle statuette con collane plastiche, delinea analiticamente l'attività delle officine artigianali (Dewailly, 1992).

La presenza di protomi, busti, pìnakes, arule, loutèria e di una grande varietà di statuette femminili documenta l'ampia attività delle officine selinuntine.

Gli scavi degli ultimi venti anni hanno portato all'individuazione di Himera come centro produttore, particolarmente fecondo, nell'ambito della coroplastica siceliota. La produzione imerese appartiene, per la maggior parte, al V sec. a.C. e corrisponde al periodo di maggiore floridezza della città; tuttavia è interessante anche la produzione di pieno VI sec. che conosce, come gli altri centri sicelioti, tipologie formali e linguaggio stilistico improntati a un diffuso ionismo.

Intorno alla prima metà del IV sec. a.C. inizia a Lipari una produzione artigianale quanto mai specializzata che rappresenta un esempio eccezionale nell'ambito delle officine antiche. Nelle botteghe liparesi si producono maschere e soggetti teatrali destinati, prevalentemente, a uso funerario. La coroplastica liparese, caratterizzata da un uso del colore vivo e intenso, riproduce tipi delle maschere della tragedia, della commedia e una grande varietà di personaggi della commedia nuova di Menandro; di elevata qualità sono inoltre i ritratti (Menandro, Alessandro, Omero, Socrate). Grazie all'associazione con la ceramica presente nei corredi, si dispone di una precisa successione cronologica che consente di fissare la fine della produzione alla metà c.a del III sec. a.C. (Bernabò Brea, 1981).

Italia centrale. - L'inizio di una coroplastica etrusca, generalmente ricondotta all'arrivo a Tarquinia del corinzio Demarato con il suo seguito di fictores (Plin., Nat. hist., xxxv, 152), ebbe un tale sviluppo e di così pregevole levatura da far ritenere la plastica in argilla come l'arte «nazionale» degli Etruschi (v. etrusca, arte); ed è sempre Plinio (ibid., XXXV, 157) che, riferendo dell'invito a Roma da parte di Tarquinio il Superbo di un certo artista Vulca, famoso per l'alta perfezione raggiunta nella plastica in argilla, fornisce la più chiara testimonianza dell'esistenza a Veio, nel corso del VI sec. a.C., di maestranze specializzate nella lavorazione dell'argilla che avevano raggiunto un tale grado di fama e bravura da essere chiamate in un'altra città per realizzare la decorazione dei principali edifici pubblici. Tuttavia anche per la ricca e articolata produzione fittile etrusca (grande e piccola plastica, sarcofagi, urne, grossi contenitori, rilievi, t. architettoniche), l'analisi non può in alcun modo appiattire le diverse produzioni locali in una visione unitaria; ma proprio i caratteri formali e stilistici di una produzione cerite, ben distinguibili da quella veiente, consentono di delineare la formazione di vere e proprie scuole all'interno delle singole città.

Propria della coroplastica etrusca è la sua prevalente destinazione a una complessa decorazione architettonica e al culto funerario mentre mancano, soprattutto nel corso delle prime produzioni, i segni di quelle forme rituali del culto espresse attraverso le t. figurate, anàthema peculiare del mondo greco. A un culto funerario sono destinate le statue sedute rinvenute nella Tomba delle Cinque Sedie a Cerveteri, datate nella seconda metà del VII sec., così come prime espressioni di una plastica funeraria sono le figurine sulle urne a bauletto e sui coperchi degli ossuarî tipici dell'ambito chiusino, ancora nei primi anni del VI sec. a.C.

Nel corso della seconda metà del VI sec., la produzione di una piccola e grande plastica fittile sembra assumere caratteri più unitari, assimilando componenti figurative e tipologiche della contemporanea produzione greca (notevole il ruolo di Egina e Atene), greco-orientale (Samo in particolare) e greco-occidentale (Sibari). Spiccano le officine di Veio con Vulca e di Cerveteri dove il noto Sarcofago degli Sposi riflette appieno tradizioni figurative della Ionia mediate, molto probabilmente, dai centri magnogreci, mentre la figurina fittile maschile, distesa, coperchio di un'urna degli inizi del V sec. a.C. sembra riflettere piuttosto modelli eginetici.

Il lento processo di una profonda ellenizzazione nelle forme del culto, che giunge a completa realizzazione nella seconda metà del V sec. a.C. e poi nel corso del IV sec. a.C., determina, nella plastica fittile, un impulso alla produzione di statue votive, gruppi, donarî, piccola plastica, elementi tutti di un sistema cultuale ellenico.

Un ciclo omogeneo è quello rinvenuto nel santuario di Portonaccio a Veio dove compaiono, accanto ad alcune testine femminili velate, rapportate alla coroplastica italiota di pieno V sec., statue di giovani (nudi, togati, offerenti con mantelli) e di fanciulle panneggiate che riecheggiano moduli fidiaci.

Dal patrimonio figurativo siceliota e magno-greco sembrano derivare le teste votive, prima manifestazione di un tipo di dono votivo che avrà, nel corso del IV e soprattutto nel III sec. a.C., uno sviluppo eccezionale. Considerato all'origine della formazione di una ritrattistica romana, rispecchia, al di là dell'eredità formale dei busti sicelioti e magno-greci, una diversa concezione religiosa e un mutato rapporto con il divino.

Sempre a Veio, nel deposito votivo di Campetti, è attestata la fase più antica del dono votivo della testa femminile (ultimi anni del VI sec.) connessa al culto ctonio di Demetra e Kore. Ma teste votive databili al V sec. a.C. provengono anche da Falerii per le quali è stato peraltro messa già in evidenza la stretta affinità con quelle veienti (Testa Malavolta, Museo di Villa Giulia). Tra i centri dell'Etruria interna emblematico è il caso di Chiusi dove la committenza privata per il culto dei morti determina un'intensa produzione di sarcofagi in terracotta e di statue-cinerario, che tradisce stilemi e formule iconografiche del classicismo greco; per la produzione dei doni votivi nei santuari, sembra prevalere piuttosto l'adozione del bronzo, mentre nei principali centri si sviluppa una coroplastica templare. La caduta di Veio nel 396 a.C. e quella di Volsinii nel 265 a.C. segnano, da un lato il gravitare ormai nell'orbita romana, dall'altro il diffondersi di una cultura figurativa dell'ellenismo maturo e tardo. Nella coroplastica i segni evidenti di una koinè culturale che accomuna Etruria meridionale, Lazio e Campania, ma che si diffonde anche lì dove arrivano i coloni latini, in Italia meridionale e centrale, si colgono nella produzione standardizzata e in serie degli ex voto deposti nei santuari legati, prevalentemente, a culti di tipo salutare.

Le botteghe coroplastiche producono tipologie fisse di statuette raffiguranti le divinità o l'offerente, parti anatomiche da offrire alla divinità per la guarigione, bambini in fasce, riproduzioni di animali, tutto un repertorio connesso con la fertilità umana e naturale e col carattere salutare del culto.

Le diverse officine, pur presentando livelli differenti e qualità formali discontinue, realizzano una produzione ripetitiva, omologata alle tendenze espressive figurative dominanti a Roma. Pur tuttavia è possibile definire categorie peculiari di ex voto che, a partire dalla metà del VI e fino alle soglie del I sec. a.C., caratterizzano un'area specifica e un ambiente stilistico ben definito dal termine «medioitalico».

Di elevata qualità formale e stilistica sono i votivi provenienti dal santuario di Ariccia dove compaiono busti di grande modulo e statue femminili su trono, opera di artigiani di ottimo livello professionale, buoni conoscitori di modelli e stilemi tarantini che ritornano, affini, nella coeva stipe di San Salvatore a Lucera, colonia latina nel 314 a.C. e i cui caratteri latini sono emblematicamente rappresentati dalla presenza, nel complesso votivo, delle teste e degli ex voto anatomici. La presenza delle teste e del votivo anatomico caratterizza i complessi di tipo «etrusco-laziale-campano», che soltanto in un secondo momento compaiono nell'Etruria settentrionale e interna.

La larga diffusione di prodotti tratti da matrici identiche, notata soprattutto per la produzione della fine del V e del IV sec., ha fatto ipotizzare l'esistenza di artigiani itineranti ideatori dei prototipi, che si spostavano da un santuario all'altro utilizzando mano d'opera locale, a cui vengono attribuite varianti e modifiche.

Da questa produzione seriale si discostano le statue votive di grande e medio modulo provenienti dalla stipe di Minerva a Lavinio, i cui esemplari più antichi risalgono alla prima metà del V sec. a.C., ma è nella bella serie di offerenti e divinità, della prima metà del IV sec. a.C., che si colgono evidenti segni della formazione di una propria cultura figurativa.

Inquadrabili, cronologicamente, nell'ambito del III sec. a.C. sono i busti e le teste provenienti da Cerveteri, che denotano un alto livello artigianale ben lontano dalla meccanica e ripetitiva seriazione tipologica che si riscontra nella maggior parte della produzione standardizzata. Alla fine del III e fino al I sec. a.C., l'aumento della produzione porta a un appiattimento del livello artistico dove, tuttavia, spiccano busti e teste fratti da matrici originali, quali gli esemplari provenienti dalla stipe di Arezzo (Via della Società operaia) che, accanto alla testa virile più tarda dal santuario del Manganello di Cerveteri, evidenziano la complessità dei modelli formali presenti nella produzione coroplastica votiva tra II e I sec. a.C.

Capua e l'area campana. - Il ruolo di Capua nell'elaborazione di una ricca produzione coroplastica in cui stilemi ionici di tradizione etrusca e suggestioni e modelli di area magno-greca si omologano in un linguaggio espressivo del tutto peculiare che conosce, peraltro, livelli artigianali molto diversificati, è stato ampiamente delineato. La coroplastica votiva fa la sua comparsa già nel corso della prima metà del VI sec. a.C., ma sarà solo alla fine del secolo che si affermerà su larga scala un linguaggio espressivo originale e organico che influenzerà non poco la produzione artigianale di tutta l'area sannitica.

La fisionomia e l'attività degli artigiani capuani mostra un'articolazione complessa, con una produzione destinata anche all'esportazione. Sono state delineate alcune figure di artigiani che elaborano matrici attestate poi in altre botteghe di area sannitica, così come è stata evidenziata la presenza di prototipi diffusi largamente in area etrusco- laziale; nel complesso si delinea un ambiente vivace e ricettivo aperto sia verso il Nord sia verso l'ambiente tarantino e neapolitano.

Il linguaggio figurativo elaborato nelle officine capuane che, sullo scorcio del IV sec., conoscono un periodo di notevole e intensa attività, uniforma le numerose botteghe di area campana dove l'impianto delle colonie latine contribuisce a rendere omogenee le produzioni, la cui cornice ellenizzante rimane tuttavia costante. Le officine di Teano, Cales, Fratte, Pontecagnano presentano un'articolazione affine, con prodotti legati, da un lato ai prototipi sicelioti e magno-greci (i busti, le dee con porcellino), dall'altro alle tipologie standardizzate dell'ellenismo italico (le teste).

Africa e Provincie orientali. - Dal IV sec. a.C. l'Africa del Nord conosce due centri di produzione di t. figurate che determinano una tradizione iconografica e stilistica prolungatasi fino all'età cristiana. A Cirene, dopo una produzione derivata da prototipi greci (attici e beotici), nel corso del IV sec. a.C. si perviene alla formulazione di una tipologia propria che, nata dall'incontro di componenti siceliote e tarantine con altre provenienti dall'Egitto tolemaico, avrà larga diffusione e circolazione. Ad Alessandria, fin dalla sua fondazione centro di primo piano nella trasmissione della tradizione figurativa greca in Egitto e in seguito nell'elaborazione di una propria originale cultura figurativa, la piccola plastica in t. è ampiamente documentata. Significativa è la comparsa di «soggetti di genere», caricaturali e grotteschi, accanto a figure di divinità (Serapide, Arpocrate, Iside) legate al prestigio della religione egizia.

L'influenza alessandrina si coglie, oltre che nelle produzioni dell'Africa romana, fino in Palestina. In generale, nelle provincie orientali, dove persiste la tradizione greca e alessandrina, il livello delle produzioni rimane piuttosto elevato almeno fino al I sec. d.C.

Altre aree provinciali. - Nel mondo dell'Occidente latino, lì dove permangono forme devozionali e rituali di tradizione medio-italica, le t. figurate ripetono tipologie standardizzate - dall'ex voto anatomico alla figurina di divinità o di offerente - mentre maggiore originalità si manifesta nelle immagini di nuove divinità del pantheon romano e nei Larii (santuari veneti e retici).

Nelle provincie nord-orientali t. figurate furono prodotte in gran quantità nella Gallia centrale dove si conoscono officine, matrici e tipologie del tutto nuove, e nell'area del Reno-Mosella in cui Treviri appare tra i centri più vivaci; dalle officine individuate provengono matrici e firme di artigiani attivi prevalentemente nel II sec. d.C.

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(G. Greco)

terrecotte architettoniche. - Negli ultimi trenta anni la pubblicazione sistematica dei corpora di t. architettoniche di numerose località e lo scavo di complessi stratigraficamente ben definiti hanno determinato uno spostamento dell'interesse da una catalogazione puramente tipologica verso ricostruzioni di tetti e di sistemi coerenti e tentativi di individuazione di scuole artigianali, con una maggiore attenzione, da un lato agli aspetti strutturali (quindi anche agli elementi non decorati), dall'altro al significato globale, iconografico e ideologico oltre che artistico, della decorazione figurata.

Grecia continentale. - Resta aperto il problema delle origini e del momento dell'introduzione dei primi tetti in t.: i ritrovamenti più recenti sembrano confermare, sulla scorta di riproduzioni su affreschi e in base a rari lacerti di coperture (Thera, West House), che i tetti minoici erano a terrazza, mentre per le coperture micenee il dibattito tra i sostenitori del tetto a terrazza (Dörpfeld, Biegen) e quanti erano a favore di una progressiva introduzione di quello a spioventi (Dinsmoor) sembra volgere a favore dei secondi, grazie a ritrovamenti di tegole ed embrici semicilindrici che precorrono il tipo laconico a Già, Micene, Tirinto e in altre località dell'Argolide (Midea, Lerna, Zygouries), oltre che a Tebe e ad Atene.

Più oscura resta invece la situazione in età geometrica, in cui il vuoto di documentazione ha fatto presupporre un ritorno a un sistema di copertura degli edifici con paglia o assicelle lignee. Solo agli inizi del VII sec. a.C. si incontrano esempì sicuri di tetti in cotto: l'introduzione di un evoluto sistema di copertura fittile appare dunque legata alle nuove elaborazioni tecnologiche che portano alla costruzione dei grandi edifici monumentali in pietra nel corso dello stesso secolo.

Tra le più significative acquisizioni degli ultimi decenni si annoverano i ritrovamenti, in area corinzia, dei più antichi esempî finora conosciuti di un articolato sistema, ribattezzato come «protocorinzio» (Le Roy), in base alle associazioni ceramiche dei contesti, o più semplicemente tipo «Isthmia», dal luogo del primo ritrovamento (Ö. Wikander, 1992): già agli inizi del secondo quarto del VII sec. a.C., esso compare a Corinto nella prima fase del Tempio di Apollo. I numerosi elementi (terminus post quem 680 a.C.) appartengono a non meno di cinque tipi diversi e comprendono pesanti tegole ed embrici lavorati in un solo pezzo (c.d. combination tiles), che variano per forma e dimensioni a seconda del loro impiego in corrispondenza di spioventi, colmo e gronda. In quest'ultima il gruppo tegola-embrice ha dimensioni superiori e faccia inferiore piatta, con un dente per assicurarsi al blocco del gèison sottostante. Anche l'embrice, pur senza divenire una vera antefissa, è chiuso frontalmente e assume una forma triangolare. La presenza di una serie di combination tiles con spigolo lungo l'asse diagonale rende certa l'esistenza di una terza falda, in corrispondenza di uno dei lati brevi. Il mancato ritrovamento di elementi di sima frontonale lascia aperto il problema se la copertura di questi edifici prevedesse un tetto a quattro falde, privo di triangolo frontonale, come pensano alcuni (Broneer), oppure se, in accordo con la tradizione che attribuisce a Corinto anche l'invenzione del frontone, quest'ultima sia da considerare concomitante all'elaborazione del sistema di copertura protocorinzio ricostruibile come un tetto a tre falde, con apertura sul lato frontale (Le Roy, Heiden). La presenza di alcuni elementi verniciati in nero fa supporre che l'alternanza di colori (a fasce oppure a scacchiera come in un modello votivo da Itaca) costituisse l'unico fattore di decorazione. Caratteristiche analoghe presenta il tetto della prima fase del Tempio di Posidone a Isthmia, ritenuto di poco posteriore a quello di Corinto per l'introduzione di alcune innovazioni, quali il minor peso dei singoli elementi e la presenza, nelle tegole laterali di gronda, di una protuberanza triangolare centrale, una sorta di embrionale antefissa. Coperture protocorinzie sono state ritrovate anche a Perachora. A Delfi quattro serie, di cui due forse attribuibili a un thesauròs eretto da Cipselo e alla copertura del tempio pre-alcmeonide, attestano la precoce esportazione dei prodotti corinzi, riscontrabile anche a Olimpia, dove due tetti potrebbero essere appartenuti a un thesauròs di Corinto, non menzionato dalle fonti, e a quello di Sicione nella sua prima fase.

Il problema dell'origine del sistema protocorinzio resta peraltro aperto: anche se è considerato dalla maggior parte degli studiosi il progenitore dei due principali sistemi attestati in Grecia in età arcaica, quello corinzio e quello laconico, sembra difficile considerarlo un prototipo assoluto. Obiezioni sono state mosse da chi vede in esso il punto di arrivo di una serie di adattamenti progressivi, determinati dall'introduzione del gèison rettilineo in edifici monumentali, a partire da un tipo di copertura che può essere solo di tipo «laconico» (Schwandner). Al contrario, proprio nella complessità e nell'innegabile macchinosità del sistema, altri riconoscono la prova del suo essere frutto di un'invenzione puntuale (Ö. Wikander, 1992).

Dei due sistemi dominanti, successivi alla fase protocorinzia, quello laconico risulta il più limitato dal punto di vista cronologico, perlomeno nell'edilizia monumentale. Esso fa la sua comparsa a Sparta non prima del terzo quarto del VII sec. a.C., con forme che restano sostanzialmente invariate nel tempo. Tegole e coppi sono lavorati separatamente e ricoperti da una vernice nera brillante, analoga a quella dei tetti protocorinzî. A differenza di questi compaiono, quali elementi decorativi, una sima di rampante ed embrici di colmo terminanti in un grande acroterio a disco, decorato con motivi comuni alla contemporanea ceramica laconica. Le antefisse sono semicircolari con motivi dipinti o incisi; una tegola di gèison con funzione di gocciolatoio era collocata sotto le tegole e le antefisse. Il sistema esordisce in forma compiuta nel primo Tempio di Artemide Orthìa a Sparta, databile al terzo quarto del VII a.C., ricorre a Olimpia.nell'Heràion e trova un'ultima attestazione canonica intorno alla fine del secolo nelle due fasi, difficilmente distinguibili tra loro, dell'arcaico Tempio di Apollo Epikoùrios a Bassae, dove le antefisse, con un'evoluzione analoga a quella del sistema corinzio, rompono la forma semicircolare dell'embrice, ergendosi in una palmetta libera che sormonta due sfingi affrontate.

Le fasi e le modalità della restante evoluzione delle t. architettoniche arcaiche restano difficili da individuare, per le incertezze cronologiche e per il fatto che il periodo tra la metà del VII e la metà del VI sec. a.C. costituisce un'epoca di grandi sperimentazioni in campo architettonico. La ricerca di nuove soluzioni e di componenti decorative diverse si intreccia, nell'attività di officine locali o itineranti, in una fitta rete di rapporti tra le varie località, con una continua progressione, in cui possono giocare accelerazioni e ritardi, difficilmente riconducibili a schemi ben definiti. Il riferimento della maggior parte delle t. architettoniche arcaiche a uno dei due sistemi dominanti, accettato sino a tempi recenti, è stato rimesso in discussione da N. Winter, che ne ha proposto la sostituzione con una serie di sistemi regionali: quello argivo, p.es., si distinguerebbe da quello corinzio per la lavorazione separata di tegole e coppi e per una tipica antefissa a tre punte; quello arcade differirebbe dal laconico per la decorazione sperimentale delle antefisse figurate e del gèison. Il quesito maggiore riguarda il ruolo attribuibile a Corinto nelle varie sperimentazioni, p.es. nell'invenzione delle antefisse figurate a protome umana. Da una rilettura delle fonti (Plin., Nat. hist., xxxv, 151-152) risulterebbe che il loro presunto inventore, il vasaio Boutades, sarebbe stato attivo a Sicione, e non già a Corinto, dove la documentazione archeologica non attesta sino a questo momento la presenza del tipo (Torelli, Williams, Mertens-Horn), ma la povertà del materiale sicionio, che - stando ai ritrovamenti attuali - non sembra scostarsi da quello corinzio, rende ipotetica questa proposta. Il problema delle antefisse a protome coinvolge soprattutto i materiali rinvenuti in Etolia, a Thermos e a Kalydon, e nell'isola di Corfù, sino a tempi assai recenti considerati il prodotto di maestranze itineranti corinzie (Andrén, Heiden), e ora rivendicati a officine, attive per circa un secolo è mezzo, la cui origine locale pare definitivamente comprovata dai caratteri epigrafici delle scritte apposte su alcuni elementi. Tale «sistema nordoccidentale» appare già formato nei suoi caratteri peculiari sin dalla prima decorazione del Tempio di Apollo a Thermos, successiva di pochi decenni alle prime attestazioni del sistema protocorinzio (630/620 a.C.), cui in linea di massima si ricollegano le pesanti tegole piatte con bordi laterali incurvati e i larghi embrici triangolari; i due elementi sono però lavorati separatamente e alla copertura posteriore «a padiglione» corrisponde su lato anteriore, per la prima volta con certezza, il triangolo frontonale. La necessità di rivestire la trabeazione lignea, oltre che dalla nota serie di metope è documentata dalle antefisse con fronte ribassata rispetto al livello dell'embrice corrispondente e decorate, forse per la prima volta, con teste umane di tipo dedalico su lastra pentagonale; anche l'insolita sima frontonale, decorata con fasce superiore e inferiore a chévrons procedenti in senso opposto, presenta in alto protuberanze destinate probabilmente a ospitare teste umane. Assai vicino, ma più sofisticato, il tetto, di poco posteriore, del primo Tempio di Hera nel parco di Mon Repos a Corfù, attribuito a una diversa officina: le antefisse dei lati lunghi, con teste femminili dedaliche e gorgòneia, si alternavano regolarmente a protuberanze con protomi leonine collocate al centro della tegola di gronda, a formare una sorta di fregio continuo di teste.

L'evoluzione interna del sistema corinzio vero e proprio può essere seguita, oltre che dai ritrovamenti effettuati a Corinto stessa (antefisse esagonali e pentagonali), attraverso le t. architettoniche di Delfi che, nella produzione e nella messa in opera, denunciano una costante dipendenza dalla città dell'Istmo. Nel santuario, in concomitanza con antefisse pentagonali, fa la sua comparsa, nel primo quarto del VI sec. a.C., un tipo di sima frontonale «a cavetto» (la c.d. Blattstabsima) decorata con treccia e baccellature dipinte (non attestata sino a ora da ritrovamenti a Corinto), la quale si evolve nel suo profilo sino ad assumere una forma «a becco di civetta», per essere poi sostituita dalla sima a ovolo (la c.d. Wellensima o sima megarese). La seconda fase del Tempio di Apollo (termine post quem 560 a.C.) segna il fissarsi di un sistema di copertura ormai canonico: caratteristiche sono sulla fronte, alle due estremità della Wellensima, le basi per acroteri desinenti in doccioni leonini, la persistenza delle «combination tiles», con tegole appiattite ed embrici triangolari, gli elementi a palmetta sui kalyptères del colmo, le tegole di gronda decorate con motivo a treccia e le antefisse in cui, rompendo la forma pentagonale, la palmetta si erge libera (terminus post quem 560 a.C.). Al modello fissato col Tempio di Apollo si attengono per circa mezzo secolo numerosi altri tetti attribuibili alla produzione corinzia (come quello del Thesauròs dei Megaresi a Olimpia, 510 a.C.) o da questa distinguibili solo per la lavorazione separata di tegole e coppi, oppure per la qualità dell'argilla (tetto D e Thesauròs di Byzantion a Olimpia, tetto 45 del tempio in pòros di Marmarla a Delfi): durante questo periodo è possibile seguire l'evoluzione tipologica di ciascuno dei singoli elementi - sime, antefisse, doccioni di gronda - nei profili, nelle forme e nella decorazione dipinta in cui sullo scorcio del secolo, probabilmente sotto l'influenza delle innovazioni della ceramica, si passerà dai motivi dipinti in nero su fondo chiaro a quelli dipinti in chiaro su fondo scuro. Contemporanea è la comparsa dei primi esempî di grande statuaria fittile a tutto tondo, i cui soggetti - Nikai, sfingi, animali, ecc., - non differiscono dalla contemporanea scultura lapidea: le sue attestazioni a vastissimo raggio sono in gran parte attribuibili a officine corinzie, anche se non mancano, p.es. ad Atene, esemplari di altissimo livello prodotti dalla scuola locale.

Nell'Attica un riesame delle t. architettoniche - che agli esemplari noti dall'Acropoli aggiunge frammenti dall'Agorà, dall'Accademia, da Eleusi e da Brauron (?) - tende a ribassare le datazioni del Buschor e a ridistribuire tra loro i varí elementi che peraltro, nel corso di tutto il VI sec. a.C., sembrerebbero pertinenti ai soli edifici minori, mentre i tetti maggiori dell'Acropoli, quali il primitivo Tempio di Atena Poliàs, erano già dotati di sima e di antefisse in marmo. Gli elementi più antichi, databili nella prima metà del secolo, presentano caratteristiche comuni a quelle dell'area corinzia, argiva e della Grecia centrale. In quest'ambito merita di essere ricordato il ritrovamento ad Atene di tegole di tipo laconico, bollate con marchi ritrovati anche a Egina e in Beozia, il cui centro di produzione sembra localizzabile a Tanagra, a riprova degli stretti contatti intercorsi tra i due centri nell'età arcaica, già assodati per la coroplastica (v.). Caratteri più spiccatamente locali si definiscono intorno al 550 a.C., in connessione con i piccoli edifici legati al programma pisistrateo sull'Acropoli, con la comparsa delle belle antefisse a gorgòneion dell'Agorà e dello Ptòion e, in seguito, intorno al 520, con la decisa influenza ionica, ben percepibile nelle antefisse gorgoniche e a palmetta plastica e nelle decorazioni delle sime che ripetono da vicino quella della ceramica contemporanea.

Un punto di osservazione privilegiato per lo studio delle t. architettoniche greche è costituito ancora una volta dalla documentazione dei grandi santuari di Delfi e Olimpia, dove il convergere di esperienze diverse porta alla coesistenza di una pluralità di soluzioni che, se in parte seguono le tendenze dominanti nei varí periodi, in parte - come ben evidente nel caso dei thesauròi delle città greche occidentali - sono riferibili a maestranze provenienti dallo stesso luogo di origine della committenza. L'impeccabile edizione del materiale di Delfi (Le Roy, 1967) ha segnato una svolta decisiva nello studio delle t. architettoniche greche, anche se gli scarsi dati di scavo non hanno consentito un collegamento con edifici precisi. Più felice il caso di Olimpia, dove è stato possibile individuare parametri cronologici sicuri e avanzare attribuzioni a specifici monumenti (Heiden, 1995). Le t. architettoniche di Olimpia, attestate tra la seconda metà del VII e la tarda età romana, forniscono un quadro completo dell'evoluzione dei sistemi di copertura dell'edilizia sacra minore e dell'architettura «civile» del santuario: i primi tetti «protocorinzî», probabilmente pertinenti a thesauròi, rappresentano una variante del sistema, per l'assenza delle tipiche «combination tiles». Il sistema laconico è documentato da una serie di coperture, in prevalenza databili al VI sec. a.C., a partire da quella del primo tempio di Hera (fine VII sec. a.C.). Di gran lunga più numerosi i tetti corinzi, che dall'ultimo quarto del VI (thesauròi di Bisanzio [?] e di Megara) costituiranno il tipo più attestato nel secolo successivo.

Nel corso del V sec. la copertura fittile tende a scomparire dai grandi monumenti sacri, salvo rare eccezioni (p.es. il rifacimento del santuario di Aigeira, databile intorno al 480, o quello di Kalapodi, degli ultimi due decenni del secolo), mentre permane in tempietti di minori dimensioni, come quello di Artemide nel Santuario di Apollo a Egina, e in edifici secondari o di carattere prettamente civile. A Olimpia, a un'officina attica vicina a quella della thòlos dell 'agorà (470 a.C. circa), viene imputata l'esecuzione di un insolito tetto a tegole romboidali, attribuito all’ émbolos triangolare dell'ippodromo, citato da Pausania (v, 15, 5) e opera dell'architetto ateniese Kleoitas. Ancora al V sec. si datano gli splendidi elementi con kyma ionico e spirali a giorno riferiti al portico del bouleutèrion (Heiden, 1995, ç. 47). Straordinari effetti di esuberanza e raffinatezza si raggiungono nei tetti attribuiti all'atelier di Fidia e al vicino Theokolèon (530 a.C.). Con il IV sec. (edificio SE del 370 a.C.) si afferma un tipo di copertura che abbina la tradizionale sima frontonale con profilo a kyma reverso, dipinta con palmette e fiori di loto, a sime laterali a profilo rettilineo, decorate con motivi di tralci a rilievo e con gocciolatoi a protome leonina e che presenta antefisse a palmetta: i medesimi modelli, ampiamente diffusi anche in Attica e a Delfi, sono attestati con esempì di alto livello qualitativo a Corinto (stoà S), che può essere considerato ancora uno dei principali centri produttori; recenti ricerche tendono però a ridimensionarne il ruolo nelle esportazioni, che le analisi delle argille rivelano modeste ovunque a eccezione di Delfi. Particolarmente significativo a questo proposito il caso della Macedonia, dove, nel momento di massima potenza del regno, le t. corinzie vengono importate (p.es. nel santuario di Aphytis) per essere poi riprodotte localmente, spesso da officine di proprietà regia, e destinate ai palazzi e alle abitazioni aristocratiche di Vergina, Pella, Mieza, ecc. I tipi elaborati nel IV sec. si ripetono sempre più stancamente nel corso dell'età ellenistica con piccole varianti nei profili e nelle decorazioni (p.es. nell'agorà di Messene), per sfociare in un'ultima, corsiva produzione di età romana (Portico di Eco, c.d. villa di Nerone a Olimpia), con antefisse che ripetono spesso i motivi elaborati nella capitale.

Asia Minore. - La pubblicazione delle t. microasiatiche (Åkeström, 1966) ha fornito un corpus completo del materiale, seguito da limitate integrazioni, frutto di ulteriori ritrovamenti. Fra le città costiere assumono particolare rilievo Larisa, Mileto e Didyma, mentre nell'interno i centri più importanti sono Sardi in Lidia e Gordion in Frigia, con attestazioni anche nella città di Mida e a Düver. Ai ritrovamenti di Akalan, sulla costa pontica, corrispondono all'interno quelli di Pazarli e Boğazköy. Culla della produzione sarebbe stata (Åkeström) la Ionia meridionale, a seguito di contatti diretti con la madrepatria. Caratteri tipici del sistema corinzio presenta il tetto di un naìskos di Didyma datato al secondo quarto del VI a.C. e considerato uno dei capostipiti delle t. architettoniche microasiatiche (sima frontonale con treccia e baccellature, tegola di gronda con motivo a treccia e antefisse pentagonali con palmette e fiori di loto). È stato di recente attribuito (Winter) a un dono di Creso, successivo alla consultazione dell'oracolo di Delfi, quale concreta espressione dei contatti politici intercorsi tra il re lidio e la Grecia. Al di là di questo e di altri scarsi episodi, circoscritti a Mileto e Samo, l'insieme della produzione microasiatica presenta caratteri peculiari, assai diversi da quelli del continente greco. La decorazione architettonica fittile interessa grandi edifici pubblici (a Larisa) e case (p.es. Sardi). Consueta è l'adozione, sui lati lunghi, di una sima laterale fornita di gocciolatoi, in luogo del sistema «tegola di gronda-antefissa»; a questa si accompagnano lastre di rivestimento delle pareti, dotate di fori di attacco, che talvolta, in ambiente frigio, si saldano a una tegola retrostante di base (lastra di gèison orizzontale) o a una tegola assicurata alla sommità (le c.d. Schenkelplatten di Düver e Gordion) o, ancora, assumono l'aspetto di una vera e propria piastrella (a Pazarli). Sul piano decorativo preponderante è la presenza dei fregi figurati continui, sconosciuti nella madrepatria e di probabile ispirazione orientale. La diffusione delle t. architettoniche si sarebbe propagata (Åkeström) dalla costa verso l'interno, seguendo gli itinerari delle valli del Meandro e dell'Hermos, da Larisa a Sardi e da questa a Gordion, che a sua volta avrebbe agito da centro propulsore per il resto della Frigia. Un secondo itinerario costiero avrebbe raggiunto le colonie milesie sul Mar Nero, Sinope e Amisos, per penetrare nuovamente all'interno, verso Pazarli e Boğazköy a oriente dell'Halys. Proporzionale all'allontanamento dalla costa sarebbe il processo di provincializzazione della produzione, già sensibile a Sardi e ancor più marcato a Gordion, dove i motivi di ispirazione orientale, largamente prevalenti, sono tuttavia considerati una sorta di fenomeno «di ritorno», mediato dalla rielaborazione che essi avevano subito in seno alle manifestazioni artistiche e artigianali dei grandi centri costieri. È all'interno del quadro generale così delineato che viene analizzata la fisionomia peculiare dei singoli centri. La ricca produzione di Larisa, viene considerata (Åkeström) il prodotto di maestranze itineranti, provenienti dai centri maggiori della Ionia meridionale e operanti anche a Focea o a Sardi. L'evoluzione dei tipi viene delineata su base stilistica, in fasi scandite in maniera abbastanza netta, con una fioritura massima tra il 530 e il 500 a.C. e una brusca cessazione, probabile effetto degli stravolgimenti della rivolta ionica. Le affinità formali con la decorazione delle c.d. hydrìai ceretane, attribuite all'opera di artigiani esuli dalla Ionia in Etruria, permettono di riconoscere in questi ultimi i probabili artefici della coroplastica architettonica ionica, fornendo allo stesso tempo un terminus ante quem per la fioritura della produzione. Tema prediletto è la corsa di bighe, talvolta integrato da una figura di oplita, cui si affiancano scene di banchetto, cavalieri affrontati e il soggetto mitologico di Eracle in lotta con una coppia di centauri.

L'edizione degli scavi di Sardi (Ramage, 1978) ha contribuito a una più vasta conoscenza delle t. di questo centro che, assieme a Larisa, fornisce oggi la più ricca documentazione di materiale fittile, evidenziando differenze molto più marcate di quanto non apparisse in precedenza. In genere più piccole di quelle di Larisa, le t. architettoniche di Sardi si possono avvalere di alcuni dati stratigrafici per la loro cronologia, compresa tra la prima metà del VI a.C. e il 213, anno della distruzione della città, con un notevole riawicinamento alle datazioni alte, a suo tempo proposte da Shear nella prima edizione del materiale. Accanto a motivi iconografici desunti dal mondo greco costiero, esiste un vasto repertorio di temi peculiari - belve, una lotta con l'uomo-toro, ecc. - che costringono a rivedere il giudizio di provincialismo (Akeström) e ci offrono l'immagine di un centro attivo e vitale anche dopo la caduta del regno lidio, nei primi decenni dell'occupazione persiana successiva al 547 a.C.

Il coesistere di due sfere culturali diverse si fa ancora più evidente in ambito frigio, sia pur con un variare dell'accentuazione a seconda delle singole località: maggiormente aperta alle influenze greche Akalan; con una prevalenza di motivi schiettamente anatolici Gordion, dove, accanto a rappresentazioni di animali rampanti, scene di caccia, lotta con l'uomo-toro, compaiono motivi geometrici del tutto simili alla decorazione a rilievo delle facciate rupestri.

Il problema maggiore è costituito in questo ambito dalla comparsa delle lastre figurate e dalla loro cronologia, dal momento che i ritrovamenti di Metaponto e Sibari in Magna Grecia e quelli di Acquarossa e Murlo in Etruria, con la loro datazione alta, si pongono in un momento anteriore a quello accertato per la comparsa di tipologie analoghe nei centri costieri microasiatici, smentendo, almeno per il momento, l'ipotesi di una loro dipendenza dal mondo orientale. Una risposta non potrà prescindere dall'apporto di dati stratigrafici più affidabili, anche se andrebbe forse ripreso sul piano metodologico il nodo degli esordî della produzione nelle aree anatoliche interne, che alcuni indizî (p.es. le «combination tiles» ritrovate a Düver o le varie soluzioni strutturali per le lastre di rivestimento) mostrano interessate a sperimentazioni tecnologiche di diverso tipo; in particolare meriterebbe di essere verificata l'ipotesi (Isik, 1991) che vede nel rapporto con le già menzionate facciate rupestri frigie lo spiraglio per una datazione delle prime t. architettoniche già alla fine dell'VIII sec. a.C. (v. anatolica, arte).

La crisi che investe il mondo insulare alla fine del VI sec., in concomitanza con la rivolta ionica, determina anche la fine della grande stagione nella produzione delle t. architettoniche microasiatiche: queste sopravviveranno con una drastica riduzione dei tipi, limitati alle antefisse a palmetta che, dall'età classica a quella ellenistica, ripeteranno motivi tradizionali del mondo greco continentale, affiancate, a Ilion, Assos, Pergamo, Erythrae, Priene, Chio e Samo, da semplici tegole di gronda decorate da un meandro a rilievo.

Grecia insulare. - Strettamente connessa con la produzione microasiatica è quella delle isole egee (Samo, Chio, Mitilene, Thasos, Tino, Delo e Creta) dove, a differenza della Grecia continentale, prevale il gusto per i motivi figurati: particolarmente significativo appare l'edificio poligonale dell’Heràkleion di Thasos, decorato con sime di rampante con scena di caccia a cavallo e da antefisse con Bellerofonte, Pegaso e Chimera, confrontabili con esemplari di Mitilene. A Creta e a Milo la presenza di sime a rilievo, decorate con cavalli al galoppo con carri, auriga e opliti ripropone il problema del rapporto con i corrispondenti fregi rinvenuti nell'Italia meridionale.

Colonie pontiche. - Gli scavi condotti nei grandi centri coloniali del Ponto, in particolare a Histria e Olbia, delineano situazioni che soltanto l'edizione completa del materiale permetterà di precisare: a Histria, già nella prima metà del VI sec. a.C., un embrice di colmo accostabile a tipi protocorinzî attesta, con la sua iscrizione, l'esistenza di un edificio di culto dedicato ad Afrodite, mentre tetti di vari altri edifici presentano sistemi di copertura differenti, con una prevalenza di quello corinzio. Significativa la presenza, soprattutto tra i materiali della seconda metà del VI sec. a.C., di pezzi d'importazione milesia, cui si affiancano imitazioni locali, analogamente a quanto si verifica nelle altre città coloniali, come nel contemporaneo Tempio di Apollo Ietròs del témenos occidentale di Olbia, dove pure le influenze corinzie non sembrano assenti.

Nel corso dell'età ellenistica fitti appaiono i contatti tra le varie città pontiche: tipi assai correnti di tegole di gronda decorate con meandri a rilievo, di sime a rozze protomi femminili e antefisse con teste di Gorgone o di divinità elmata attestano, grazie alle lettere a rilievo e ai bolli di frequente impressi, casi di esportazione tra i vari centri (Olbia, Histria, Mesambria) o quanto meno di contatti tra le varie officine, nonché la diffusione dell'uso della t. architettonica decorata nelle coperture di edifici di carattere civile.

Sicilia. - Numerosi ritrovamenti, uniti alla pubblicazione di vecchio materiale (Agrigento, Gela, Himera, Morgantina, Naxos e Selinunte) hanno riproposto il problema delle t. architettoniche siciliane e della loro attribuzione a «sistemi» diversi a seconda dei vari centri, nonché quello dei rapporti reciproci e della loro definizione cronologica (C. Wikander, 1986). Ciononostante, soprattutto a causa della carenza di elementi cronologici assoluti, manca ancora una revisione sistematica e numerose questioni sono tuttora aperte.

Gli studi più recenti distinguono un periodo iniziale, caratterizzato dalla sporadica comparsa, nell'ultimo quarto del VII sec., di coperture abbastanza semplici a Siracusa e Granmichele, con sime prive del rivestimento del gèison. Discussa è la datazione di una bassa sima nell'area del tempio A di Himera, nella quale un breve listello péndulo sembra preludere allo sviluppo della lastra di rivestimento del gèison; al primo quarto del VI sec. viene attribuita la sima di un piccolo edificio, rinvenuta sull'acropoli di Naxos, lavorata in un solo pezzo e decorata superiormente da baccellature, col motivo a treccia nella parte pendula che sarà tipico dei gèisa successivi, confrontabile con un esemplare attribuito alla terza fase del naìskos che precede il tempio ionico di Marasà a Locri.

Aperto resta il problema degli apporti culturali, in genere individuati nella madrepatria con l'influsso delle contemporanee Blattstabsimen, ma di cui pezzi isolati, come una sima dell’Artemìsion di Corfù, mostrano tutta la complessità. È solo con gli inizi del VI sec. che assistiamo allo sviluppo degli elementi distintivi del sistema di copertura siceliota, le cui caratteristiche devono essere ravvisate essenzialmente, oltre che nell'adozione del sistema ibrido, nell'utilizzazione del gèison a forma di cassetta lavorata separatamente dalla sima a rivestimento delle strutture sottostanti il tetto, di sime laterali, e di una sima orizzontale che compare a occupare la base del triangolo frontonale. Di tale schema, in genere definito «tipo Gela», è ancora incerta la sede prima di elaborazione, forse da localizzarsi a Siracusa, da cui provengono gli esempî più antichi (Athènaion). L'apporto delle scuole locali è soprattutto da ricercarsi nella combinazione dei partiti decorativi, nell'adozione di specifiche particolarità tecniche e nel variare dei rapporti interni tra i singoli membri.

La definizione cronologica continua a rappresentare il punto dolente nello studio delle t. architettoniche siceliote, dal momento che, anche nel materiale di scavi recenti, subisce grandi oscillazioni e non riesce a essere ancorata a dati stratigrafici precisi: esemplare il caso del Thesauròs di Gela a Olimpia, la cui datazione, già proposta al 560 a.C. (Süsserott), ha costituito il punto di riferimento fondamentale per l'evoluzione stilistica di tutte le coperture di tipo «gelota», ma di cui in tempi recenti è stato proposto un abbassamento al 550/540 (Kästner) o al 530 (Mertens-Horn), con ripercussioni sull'intero sistema. In linea generale la decorazione del cavetto delle sime sembrerebbe evolversi da baccellature lunghe e sottili (attestate a Gela E, Leontini, Megara Hyblaea, Monte San Mauro e Selinunte A) a una decorazione di foglie a lira o di bande ondulate (a Siracusa, Gela e Agrigento), mentre motivi a scacchiera o/e losanghe occupano la fascia inferiore piana. Più uniforme la decorazione dei rivestimenti del gèison, identica sulla fronte e sui lati, a treccia singola o doppia, mentre variano i riempitivi degli occhielli centrali. Selinunte appare precocemente inserita in questo quadro generale con una copertura arcaica da un edificio imprecisato dall'acropoli (Scichilone, tetto A), di recente attribuita da D. Mertens al tempio C nella sua prima fase e con il tetto B, che già manifesta alcune peculiarità locali, quali la tendenza a contrarre l'altezza della fascia a vantaggio del cavetto. Sempre a Selinunte va ascritta l'introduzione di un nuovo tipo di sima laterale con decorazione floreale a giorno in sostituzione dei doccioni tubolari; questo nuovo tipo definisce il sistema di copertura «se- linuntino», caratterizzato inoltre da una sima frontonale decorata con palmette e fiori di loto, nella quale deve probabilmente riconoscersi l'influenza del tipo «megarese» elaborato a Corinto intorno alla metà del secolo, e da cassette di gèison in forma «contratta», con coronamento a becco di civetta. Attestato in forma completa nei templi Y e C dell'acropoli, tale sistema trova un problematico antecedente nella copertura del tempio E 1, costituita dalla sola sima laterale a traforo, che lo scopritore ha datato dapprima al 620 e quindi al 580 a.C., ma che per altri (Mertens, 1993) sarebbe piuttosto pertinente a un edificio interamente litico e andrebbe ulteriormente abbassata alla seconda metà del VI sec., in analogia con quella degli altri due edifici sopra ricordati: il problema, ancora aperto, coinvolge soprattutto i rapporti col mondo magno-greco, dove, in ambito metapontino, simili elaborazioni compaiono già intorno al 580/570 a.C. (tetto F).

Il sistema selinuntino ricorre, limitatamente ad alcuni elementi, anche in altri centri, quali Naxos e Agrigento, mescolandosi con altri elementi, tipici dell'ultima fase di evoluzione del sistema «tipo Gela» della seconda metà del VI sec. a.C.: le due coperture di Naxos, tempio B e di Agrigento G, probabilmente attribuibili entrambe a un'officina nassia, presentano fasce divisorie a rilievo, con kymàtia ionici sulla sima frontale e astragali sulle cassette del gèison, il cui risvolto inferiore è dipinto a meandro. Man mano che si procede verso la fine del secolo le coperture siceliote attestano una progressiva accentuazione dell'effetto decorativo mediante l'uso di modanature rese plasticamente. L'ultima stagione delle coperture fittili, nei primi due decenni del V sec., a Megara Hyblaea, Himera, Lentini, Camarina, Siracusa e Paterno, porterà a un'ulteriore accentuazione dell'effetto chiaroscurale, determinato dal contrasto di elementi dipinti e profili articolati, spesso ripetuti più volte, a seguito di probabili contatti con esperienze magno-greche, mediate da Naxos o da Camarina, dove, p.es., il motivo del fiore di loto insieme al meandro a rilievo trova confronti precisi a Caulonia.

Sostanzialmente estraneo al sistema di copertura siceliota, l'uso delle tegole di gronda sui lati lunghi accoppiate ad antefisse conosce alcune sporadiche attestazioni a Naxos, Gela, Himera e Megara Hyblaea; a Morgantina, nel terzo quarto del VI sec. è documentato un tetto particolare, a copertura di un edificio di carattere civile, per il quale si è ipotizzato l'intervento di maestranze di origine orientale, con un'antefissa a testa femminile, una tegola di gronda sormontata da un motivo a spirali e palmetta e una lastra di gèison a decorazione figurata. Un caso a sé è costituito infine dalla presenza di antefisse di tipo campano a Himera (tempio D), Lipari e Zancle-Messana, a documento dell'intensità di rapporti che uniscono la Sicilia con il Tirreno tra la fine del VI e il primo quarto del V secolo.

L'affermarsi definitivo dell'architettura lapidea dopo la battaglia di Himera determina l'esaurirsi dei grandi sistemi di coperture fittili templari (forse con l'unica eccezione del centro interno di Monte S. Mauro). Un accenno va fatto infine alla grande coroplastica, rappresentata da rilievi, da figure acroteriali e da composizioni figurate a decorazione delle metope e del timpano: gli esemplari più antichi sono costituiti dalle lastre, spesso di dimensioni colossali, raffiguranti gorgòneia, di Siracusa, Gela, Selinunte e Naxos. A partire dalla metà del VI a.C. sono documentati, a Camarina, Naxos e in particolare a Gela, acroteri fittili a figura di cavalieri, di leoni o di donne in corsa, quali la splendida Nike frammentaria ora a Karlsruhe, recentemente attribuita all'ambiente siceliota sud- occidentale. A Gela, Monte S. Mauro, Naxos e Himera è infine attestata la presenza di una decorazione metopale in t.: nel tempio B di Himera, in una prima fase essa sembra accompagnarsi al grande gorgòneion al centro del triangolo frontonale, sostituito nel corso del primo venticinquennio del V sec. a.C. da grandi lastre frontonali ad altorilievo, con scene di lotte animali di incerta interpretazione, cui si aggiungeranno, nella seconda metà del secolo, grandi figure acroteriali di ispirazione fidiaca.

La decorazione architettonica fittile sopravvive in Sicilia nel V sec., in genere adoperata solo in abitazioni private, edicole funerarie e piccoli edifici sacri con l'impiego di antefisse e tegole terminali decorate. Grande favore incontra il tipo di antefissa a maschera silenica, attestato anche in centri ellenizzati tome Sabucina, di cui gli studi hanno distinto vari tipi di produzione, a Naxos, Siracusa, Lentini, Gela e, più marginalmente, Selinunte. Più limitate le antefisse femminili: due dei tipi conosciuti provengono da Himera, elaborazione del tipo etrusco-campano a nimbo baccellaio e con coronamento floreale dal Tempio della Vittoria (460-50) che documenta il perdurare dei rapporti con l'area campana sino alla metà del V secolo.

Magna Grecia. - Le più antiche attestazioni di un organico sistema fittile sono quelle pertinenti alla prima fase dell'òikos precedente al tempio ionico di Marasà di Locri, che ha restituito un eccezionale rivestimento parietale a lastre quadrangolari, con decorazione dipinta a meandro, grandi pannelli fittili dipinti, forse utilizzati come metope, cassette di gèison a meandro, sime frontali con motivo a treccia e copertura di tipo laconico, e antefisse semicircolari decorate a banderuola dipinta e acroteri a disco. I caratteri di grande arcaismo del complesso hanno indotto lo scavatore a proporne una datazione intorno alla metà del VII sec. a.C., anche se l'organicità della realizzazione e il suo notevole livello di elaborazione inducono piuttosto ad abbassarne la cronologia verso la fine del secolo. Il caso di Locri costituisce comunque un raro esempio della capacità di rielaborare le esperienze maturate in ambiente laconico, e qui precocemente assimilate, con soluzioni originali e in larga misura inedite; capacità che contraddistingue anche la copertura dell'edificio nella sua terza fase, quando farà la sua comparsa un insolito tipo di sima laterale che a motivi diffusi in ambiente greco e siceliota (foglia dorica, treccia) abbina il particolare di sima e cassetta lavorate in un solo pezzo con doccia a semplice foro semicircolare.

Una seconda tipologia, affermatasi in epoca piuttosto antica, doveva prevedere un genere di copertura più semplice con bassa sima frontonale e tegole di gronda piatte sormontate da antefisse (tetto A di Crotone, Lacinio): a tetti di questo tipo sono accostabili con ogni probabilità i fregi figurati di Metaponto (S. Biagio e tempio C), Siris- Polyeion e Sibari, recentemente attribuiti a prototipi cicladici e datati a partire dalla seconda metà del VII sec. a.C. (Mertens Horn, 1992). Di fondamentale importanza per la comprensione del parallelo fenomeno di ambiente etrusco-laziale, sono le iconografie (partenza di guerrieri, processione per una dea?) nelle quali, anche se sembra difficile riconoscere i precisi significati mitologici che pure vi sono stati letti, appare evidente il riferimento a una sfera cerimoniale di matrice ideologica ellenica.

L'apporto di nuovo materiale e numerosi studi, in particolare quelli di D. Mertens, hanno portato a definire con sufficiente chiarezza la fisionomia della produzione delle t. architettoniche nelle colonie achee e nel territorio da queste influenzato. Un gruppo di tetti, caratterizzato dall'imitazione di elementi della trabeazione dorica, con antefisse e pseudoantefisse «a corna», di evidente ispirazione peloponnesiaca, probabilmente argiva, è attestato a Poseidonia (edificio a SE dell'Athènaion: 580/550 a.C.), a Metaponto, nella colofonia Siris e a Crotone, dove sembrerebbe aver goduto di un particolare favore. Al già noto tetto dal Santuario di Apollo Aleo a Ciro, dove le antefisse terminano inferiormente con una regula a cinque guttae, e l'insolito gèison è scandito da coppie sfalsate di taeniae con regula e guttae, si aggiungono ora la documentazione di Caulonia e quella, assai elaborata, del piccolo Santuario di S. Anna a S di Crotone: qui il gèison, imitante una trabeazione dorica e arricchito dall'aggiunta di un tetraglifo, si unisce a una sima laterale con gocciolatoi tubolari, a sua volta sormontata da pseudoantefisse a corna con la solita taenia a cinque guttae. Sulla base di queste acquisizioni sembra possibile attribuire alle colonie achee i tetti a corna rinvenuti a Delfi (Le Roy 30) e Olimpia (Heiden 38-40), che attesterebbero anche la presenza nei due santuari di un thesauròs crotoniate non altrimenti ricordato dalle fonti.

Un'ulteriore tendenza è documentata da una serie di coperture improntate a un forte senso ornamentale, con impalcatura enfatizzata, la cui elaborazione si presenta come il frutto dei continui scambi tra Metaponto e Poseidonia: alla prima località sono probabilmente attribuibili le più antiche realizzazioni in questo campo, documentate dal tetto F, datato al primo quarto del VI sec. a.C., per il particolare arcaico della sima lavorata in un solo pezzo insieme al gèison, in cui si afferma il concetto di affidare lo scolo delle acque a una tegola di gronda sporgente, sormontata da una sima laterale a palmette e fiori di loto traforati, che tanta fortuna godrà nei tetti selinuntini della seconda metà del secolo. Ulteriormente progredito nel tetto E, il sistema troverà la sua espressione più complessa intorno alla metà del secolo nel grande tetto a baldacchino dell'Heràion I (la c.d. Basilica) di Poseidonia, la cui recente edizione critica ha chiarito nei minimi particolari l'elaborata orditura strutturale: caratteristica fondamentale è il generale innalzamento della cornice e del tetto al di sopra della trabeazione lapidea, ottenuto mediante l'incastro tra il gèison e la sima a protomi leonine non passanti; questa a sua volta, è conclusa superiormente da una tegola di gronda sporgente cui si sovrappongono antefisse a palmetta corpose ed eleganti, frutto del suo ruolo di crocevia tra Etruria e Magna Grecia. Il modello dell’Heràion I, che a sua volta ritornerà a Metaponto (Tavole Palatine) e costituirà un punto di riferimento per l'edilizia religiosa della seconda metà del VI sec., permette di cogliere il confluire di stimoli diversi (ionici, sicelioti, ecc.) che caratterizza la fisionomia culturale di Poseidonia, aperta anche alle influenze etrusche della vicina Campania (S. Venera, saggi nella Curia, tetto «Campano»). In quest'ottica, piuttosto che non in quella di improbabili influssi orientali, è leggibile la presenza di tetti dotati di acroteri figurati angolari. A un sistema diverso che, ignorando le esperienze poseidoniati, si pone in totale dipendenza dai sistemi di copertura campani, sembra essere improntata, a partire dall'ultimo quarto del VI sec., la produzione di Elea che solo in età ellenistica avanzata recupererà tipologie di sime e antefisse di tradizione magno-greca.

Allo stato attuale della documentazione Taranto non attesta ancora un uso della t. nella grande edilizia religiosa. Ciononostante la città ha restituito una cinquantina di tipi diversi di coperture di piccole dimensioni, in genere attribuite a naìskoi funerari e datate tra l'ultimo quarto del VI e i primi decenni del V sec. a.C., le quali, se da un lato risentono dell'influsso delle soluzioni poseidoniati e metapontine, dall'altro non sembrano scevre da aperture e rapporti diretti col mondo greco e orientale. Caratteristica del centro (ma ancora una volta seguendo un'iconografia mediata da Metaponto) è la serie di sime di gronda dell'ultimo quarto del VI sec., decorate con protomi gorgoniche che vengono utilizzate (analogamente alle teste leonine) nell'inconsueta funzione di gocciolatoi.

Nel corso del V sec. in varie città coloniali della Magna Grecia si assiste all'affermarsi di una tipologia unitaria dei sistemi di copertura fittili che, con una tendenza inversa a quanto si verifica in Sicilia, tendono a permanere nell'edilizia templare: i rifacimenti del tempio B e del tetto A di Metaponto costituiscono gli esempî più pregevoli del genere, caratterizzato da cassette plastiche decorate a meandri, kymàtia e astragali, cui si sovrappongono sulla fronte eleganti sime decorate con palmette e fiori di loto a leggero rilievo e, sui lati lunghi, sime di gronda con gocciolatoi a protome leonina.

Mancano ancora oggi dati stratigrafici precisi per la grande massa di antefisse tarantine che dall'età arcaica a quella ellenistica costituiscono la produzione più rilevante della città, con una diffusione che copre gran parte dell'Italia meridionale, e la loro classificazione resta affidata in larga misura a criteri stilistici, spesso opinabili, a causa della lunga durata dell'uso di singole matrici: all'interno della massa del materiale è comunque possibile notare una tendenza, che si afferma in concomitanza con l'apogeo politico della città nella prima metà del IV sec., alla moltiplicazione dei tipi e alla loro progressiva umanizzazione, con la perdita di caratteri iconografici precisi che ne consentono una sicura identificazione.

Ambiente indigeno. - La presenza di t. architettoniche nell'ambito di contesti indigeni nell'Italia meridionale costituisce un interessante indizio del processo di ellenizzazione nel corso del VI e del V sec. a.C. All'influenza tarantina, ma non senza contatti col mondo acheo dell'asse Metaponto-Poseidonia, vanno attribuiti i sistemi di copertura rinvenuti in ambiente daunio e peucezio, sull'acropoli di Monte Sannace, a Botromagno, Canosa- Toppicelli, e nel circondario di Thurii. A una sfera di rapporti più larga, che forse raggiunge Corcyra, accennano i motivi decorativi di una sima di Cavallino. L'abitato lucano di Serra di Vaglio ha restituito una nutrita serie di tetti che si dispongono tra gli inizi del VI (con le lastre figurate con scena di duello eroico dall'edificio di Braida) e il IV sec. a.C., con il progressivo passaggio dalle elaborate coperture in puro stile metapontino (ma a quanto sembra prodotto di botteghe locali) a sistemi più semplici tegola di gronda/antefissa che ripetono modelli tarantini. Altrove, nelle aree interne della Daunia e della Basilicata, la trasmissione appare limitata alle sole antefisse, con la netta prevalenza del tipo metapontino di gorgòneion orrido (fine Vl-inizi V), e una, più limitata attestazione di tipi nimbati di derivazione etrusco-campana (a Melfi, Luceria, Arpi e Tiati): queste vengono prevalentemente utilizzate nell'edilizia privata di prestigio, appannaggio delle aristocrazie gentilizie locali, cui si deve, alla metà del V sec. a.C., l'adozione fortemente impregnata di ideologia del motivo di origine peloponnesiaca del despotes hippòn, attestato a S. Fele, Lavello e Monte Sannace. Con la fine del V, sino a tutta l'età ellenistica, domineranno invece incontrastati i tipi tarantini.

Campania. - La produzione della Campania nel corso dell'età arcaica rappresenta un interessante caso di commistione di esperienze diverse. Recenti ricerche hanno apportato nuovi dati rispetto alla pur esemplare, vecchia opera di Koch, riaprendo un serrato dibattito circa l'origine di alcuni tipi, la localizzazione dei centri di produzione e la loro cronologia. A Capua alcune protomi animali con probabile funzione architettonica (acroteri, coppi di colmo, sime laterali) della prima metà del VI sec. a.C. sono considerati prova del mantenimento di antichi rapporti con l'Etruria interna e con le finitime popolazioni italiche. Particolarmente vivace la discussione relativa al tipo di antefissa con nimbo baccellaio, circondante una protome femminile o una palmetta, che fa la sua comparsa in ambiente campano nel corso del VI sec. a.C.: per alcuni di origine orientale, introdotta con la mediazione di Velia, colonia focea fondata dopo il 540 (Johannowsky, Martin), per altri (Bonghi Jovino, Kästner) riconducibile all'ambiente etrusco della tarda età orientalizzante (Murlo, Acquarossa), e adottata a Capua in una seriazione (palmetta ritta dipinta-palmetta plastica-testa femminile entro nimbo), compresa entro la metà del VI sec. a.C.; altri ancora (Winter) spezzano la seriazione capuana in due momenti distinti, nel primo e nell'ultimo quarto del VI sec., col problema di un vuoto intermedio difficilmente giustificabile. Più recentemente, infine, se ne è proposto il collegamento con antecedenti strutturali di ambiente peloponnesiaco, ribadendone la coniazione cumana (G. Greco). Tale sistema, che gode di una vasta fortuna, raggiungendo verso N Minturno, Satricum e Caere, a S Pompei, Poseidonia, Elea, sino a Lipari, Himera e Zancle, costituirebbe dunque una sorta di «risposta» da parte delle due entità greche di Pithecusa e Cuma alla presenza etrusca nella regione, nel quadro di un rapporto di scambio che si mantiene costante: esso viene adottato, alla fine del VI sec., nella copertura del Tempio di Apollo nell'etrusca Pompei, laddove il coevo tempio dorico del Foro Triangolare sembra preferire soluzioni più esplicitamente rivolte al mondo greco meridionale. Il recente riesame del materiale di Fratte di Salerno, centro etruschizzato con arco di vita tra il VI e il III sec. a.C., offre oggi lo spaccato più ampio nel corso dei vari periodi, sull'evolversi di una produzione che il passaggio alla fase sannitica non interrompe: la ricca decorazione che, a quanto sembra, interessava anche l'edilizia privata oltre che quella templare, a partire dalla fine del V si divarica, seguendo da un lato una corrente colta, iconograficamente e stilisticamente legata a esperienze magno-greche, ben evidente nel tetto con sime e antefisse con testa di Atena, assai vicino al rifacimento della copertura del tempio dorico di Pompei, del IV a.C.; dall'altro esprimendosi in una produzione artigianale assai corrente, a carattere fortemente conservativo, che rielabora in forma sempre più corsiva schemi e prototipi tardo-arcaici.

Etruria e Lazio. - La novità di maggior rilievo degli ultimi decenni è indubbiamente costituita dai ricchissimi complessi di t. architettoniche arcaiche di Acquarossa e di Murlo (v. poggio civitate), centri minori dell'Etruria interna, il cui arco di vita non supera la fine del VI sec. a.C. Ad Acquarossa (v.) le t. appartengono alla decorazione di abitazioni private di carattere signorile, tra cui spicca il nucleo palaziale della zona F: quelle più antiche, comprese entro la fine del VII sec., consistono in tegole e lastre di rivestimento dipinte «white on red» con motivi animali fantastici, acroteri a ritaglio e antefisse a palmetta. La precisa stratigrafia del complesso palaziale di Murlo consente di distinguere due principali fasi edilizie, orientalizzante e arcaica. Alla prima, che gli scavatori attribuiscono a un momento di poco posteriore alla metà del VII sec. a.C., appartengono elementi di decorazione fittile, tra i più antichi rinvenimenti nell'Italia centrale, con acroteri a ritaglio e a rilievo, sime rampanti e laterali con gocciolatoi a protomi animali e antefisse a testa umana. La seconda fase, pertinente alla ricostruzione degli inizi del VI sec. e che ha termine con la radicale distruzione del complesso intorno al 530, contemplava la completa copertura delle strutture della c.d. meeting hall, con sime di rampante decorate con animali in corsa, sime laterali con gocciolatoi a protome umana e animale, antefisse gorgoniche e quattro tipi di lastre di rivestimento figurate (con scene di banchetto, corsa di cavalli, teoria di carri e consesso). Caratteristiche del centro sono soprattutto le statue acroteriali che ne popolavano il tetto, raffiguranti personaggi stanti o seduti, sfingi e animali (che trovano ora confronti in ambiente chiusino nei frammenti acroteriali di Monte S. Paolo).

Uno dei meriti principali della decorazione architettonica di Murlo e Acquarossa sta nell'aver dimostrato in maniera inequivocabile la fine di un'equazione considerata assiomatica per le t. architettoniche etrusco-italiche della c.d. I fase, vale a dire la loro esclusiva pertinenza a edifici templari: le prime t. architettoniche di Acquarossa appartengono a case private; solo in un momento successivo, nel corso del VI sec., l'utilizzo della decorazione fittile verrà progressivamente a restringersi all'edilizia civile di altissimo prestigio, regiae o residenze principesche e a quella religiosa, con un processo di cui non è facile individuare le tappe: intorno al 540 a.C. essa scompare dalle case di Acquarossa e si conserva soltanto nel complesso pubblico-cultuale della zona F, mentre progressivamente aumentano le attestazioni di edifici templari. Elemento comune ai contesti di VI sec. è la presenza di fregi fittili figurati, indifferentemente utilizzati in edifici pubblici e religiosi, la cui cronologia alta ha riproposto il problema del rapporto con i loro corrispettivi di ambito microasiatico e magno-greco. Il fenomeno investe Etruria (Veio, Caere, Tarquinia, Roselle, Orvieto, con i centri minori di Tuscania e Poggio Buco), Umbria (Otricoli), Roma (Foro - Regia e Comizio, Campidoglio, Palatino e Foro Boario) e Lazio (Velletri, Cisterna, Satricum, Gabii, Praeneste, Ardea e Lavinio). A un primo gruppo, databile entro il primo quarto del VI sec. (Poggio Buco; Veio, òikos di Piazza d'Armi; Gabii, santuario extraurbano; il già menzionato complesso di Murlo), seguiranno, nel secondo quarto del secolo, i fregi con felini e Minotauro del Foro (Regia e Comitium) e del Campidoglio (Tempio di Iuppiter Feretrius?) di Roma, e forse la prima, discussa fase del Santuario di S. Omobono. Un nuovo addensarsi di testimonianze si registra nei decenni immediatamente successivi alla metà del secolo, con la ridecorazione del complesso F di Acquarossa, il sacello funerario di Tuscania, una prima fase dell'Ara della Regina di Tarquinia e le lastre con cavalieri al galoppo e carri di Caere. A Roma la ricca decorazione del Santuario di S. Omobono si ripete in forme simili sul Palatino (Tempio della Vittoria, Casa Romuli?), a Veio, a Velletri (S. Maria della Neve) e a Cisterna di Latina, per concludersi, verso la fine del secolo con le lastre con processione di Palestrina. Un posto particolare, all'interno di questo quadro, occupa la documentazione di Cerveteri (v.): la riedizione del materiale degli scavi ottocenteschi nella Vigna Marini-Vitalini, a Copenaghen e Berlino, la ripresa delle ricerche nella contigua Vigna Parrocchiale, oltre a una messa a punto dei dati sulla topografia della città antica, hanno evidenziato una situazione ancora confusa, ma ricca di importanti spunti di indagine: le t. architettoniche pertinenti alla fase arcaica, scaricate entro cisterne sigillate agli inizi del V sec. a.C., appartenevano probabilmente a templi, edifici pubblici e privati, disposti nell'arco di tutto il VI sec. a.C., e attestano, in parallelo con la nota serie dei pìnakes dipinti, una predilezione locale per uno stile pittorico: dalle più antiche lastre dipinte «white on red» (cui si deve probabilmente l'influenza sulla prima fase di Acquarossa) a quelle della seconda metà del secolo, con repertorio di animali in teoria e in lotta, guerrieri, corse di carri e scene mitiche, nelle quali si riconosce un più marcato influsso greco-orientale, legato alle esperienze ceramiche delle coeve hydrìai ceretane.

Particolare interesse ha suscitato l'interpretazione dei soggetti, legati a un mondo cerimoniale di impronta aristocratica che ripropone ovunque la propria autorappresentazione attraverso momenti rituali precisi, le cui valenze, di volta in volta, si applicano alla sfera umana come a quella ultraterrena (Torelli, 1993). In questo quadro un elemento problematico è costituito dalla occasionale comparsa del mito, attestato già nelle lastre della Regia di Roma (il Minotauro?) e proposto dopo la metà del secolo ad Acquarossa, Tuscania e probabilmente Tarquinia e Caere attraverso episodi prevalentemente legati alla saga di Eracle.

Una delle conseguenze di maggior rilievo delle nuove acquisizioni è rappresentata infine dal superamento della tradizionale ripartizione delle t. architettoniche, elaborata a suo tempo dal Della Seta e riproposta dall'Andrén, in tre fasi, cui oggi si tende a sostituire una visione più generale, all'interno della quale i singoli momenti si articolano gradualmente in uno svolgimento continuo. Intorno alla fine del VI sec. a.C., in concomitanza con gli ultimi episodi di decorazione della c.d. I fase, sono attestati i primi esempî di un nuovo sistema che diverrà esclusivo degli edifici templari, con lastre decorate a rilievo da motivi vegetali stilizzati e antefisse a protome umana (teste femminili e di satiri, occasionalmente gorgòneia e altre rappresentazioni) contornate da un grande nimbo. La trasformazione è in larga misura il portato degli intensi rapporti con la Campania e, per il tramite di quest'ultima, col mondo greco dell'Italia meridionale, i quali, ancora una volta, devono essere visti alla luce di un attivo ruolo esercitato da Cerveteri: la reciprocità degli scambi può essere seguita, più che attraverso il fossile-guida delle antefisse ceretane lungo un asse di comunicazione interno (a Segni e sino a Frosinone, ecc.), dal risalire per un percorso costiero dei tipi cumani (a Minturnae, Circeii, Satricum). In ogni caso appartiene a questo momento la formazione di un nuovo linguaggio decorativo etrusco- laziale, destinato a evolversi in forma autonoma nel corso del tempo, le cui caratteristiche costanti sono l'uso di un sistema di copertura misto, l'assenza di sime laterali, sostituite da grandi antefisse decorate, l'impiego di più tipi di lastre a rivestimento delle varie partiture della trabeazione e l'enfasi attribuita alla fronte dell'edificio mediante l'adozione di un'alta sima, ulteriormente accresciuta dall'aggiunta di una cortina lavorata a giorno. Il sistema, i cui esempî più antichi sono attestati a Veio (Portonaccio) e Pyrgi (tempio B), ritorna a Roma nel Tempio dei Castori, di cui conosciamo l'esatta cronologia al 484 a.C., per poi irradiarsi, con varianti minime, nel primo quárto del V sec. a.C. in un'ampia area geografica che da Arezzo come limite settentrionale giunge al Lazio meridionale: a Caere (Vigna Parrocchiale), Pyrgi (tempio A), Orvieto, Falerii (Sassi Caduti) e ancora a Roma (Campidoglio), e nel Lazio a Lanuvio, Satricum, Ardea e Segni. Le tappe del processo si colgono con maggiore chiarezza attraverso le tematiche e lo stile degli elementi figurati di copertura - antefisse (v.), acroteri (v.), testate di columen e mutuli - la cui evoluzione rientra a pieno titolo nel discorso storico-artistico (v. etrusca, arte). Alla fase degli ultimi decenni del VI sec. a.C., in cui la comparsa del mito sembra monopolizzata dalla figura di Eracle e dai suoi àthla (Roma, S. Omobono, Veio, Portonaccio, Pyrgi tempio B), segue il subentrare di altri cicli, quali la Gigantomachia delle statue acroteriali di Satricum, di recentissima acquisizione, o il mito dei Sette contro Tebe di Pyrgi (tempio A). Un ruolo particolare è sostenuto dalle scene di battaglia, spesso connesse alla saga troiana, nelle quali, soprattutto in ambito laziale, sembra difficile non leggere un riflesso dei turbinosi eventi connessi con la cacciata dei re e con i rapporti tra Roma e le città latine culminanti nel Foedus Cassianum: l'esempio più noto è il torso del Guerriero dell'Esquilino, ricollegato per il suo livello artistico all'attività dei coroplasti Damophilos e Gorgasos.

I decenni centrali del V a.C. vedono l'emergere progressivo dei centri dell'Etruria interna, in particolar modo di Orvieto, a fronte della corrispondente stasi nella documentazione dei centri costieri: perseguibile dagli inizi del secolo, attraverso testimonianze sparse, tra cui spiccano il grande acroterio della Cannicella, il materiale recentemente riedito di Campo della Fiera, l'antefissa con satiro e menade da Via Buzzi, la produzione orvietana si esibisce alla fine del secolo nel nuovo sistema decorativo del Tempio del Belvedere: alle antefisse con volti classicheggianti di menadi e satiri umanizzati entro grande nimbo lobato e decorato con eleganti palmette si accompagnano una bassa sima con decorazione floreale, lastre di rivestimento con palmette e fiori di loto e, per la prima volta, la lastra con palmette e spirali oblique e contrapposte, destinata a divenire canonica nelle decorazioni dei secoli successivi. I modelli orvietani si diffondono nel corso del IV sec. in un'area che, da Arezzo, comprende Chiusi, Perugia, Roselle, Talamone e la nuova grandiosa realizzazione dell'Ara della Regina di Tarquinia, spesso mediante matrici riprodotte e usate localmente, come dimostra lo scavo di un'officina per la produzione di t. architettoniche rinvenuta nel territorio tarquiniese a Selvasecca di Blera.

Con gli inizî del IV sec. a.C. si assiste all'affermarsi di un secondo, importante centro di produzione a Falerii: la recente «riscoperta» di un cospicuo nucleo di materiale fittile architettonico, forse da un tempio di Minerva in località Lo Scasato, ha gettato nuova luce su una produzione di altissimo livello, fortemente influenzata, al pari della coeva ceramica, da componenti stilistiche attiche, nella quale i rapporti con la scuola volsiniese si risolvono in una fertile creatività che, attraverso le ristrutturazioni dei santuari di Celle e del Vignale culminerà, sullo scorcio del secolo, nella decorazione del tempio II dello Scasato, probabilmente dedicato ad Apollo. I rivestimenti fittili dello Scasato, con la comparsa di antefisse con «pòtnia» e «despotes theròn» e di lastre di rivestimento dei rampanti decorate con motivi naturalistici, rappresentano l'esempio più antico di un sistema che, raccolto ed ereditato da Roma, diventerà il modello tipico nelle coperture del II sec. a.C. Il medesimo livello qualitativo che contraddistingue la plastica architettonica falisca ritorna a Roma nelle splendide teste rinvenute sul Palatino (Tempio della Vittoria?) e nelle statue di Tivoli - uno dei primi, occasionali esempî di frontone chiuso - con buoni motivi attribuito dall'editore alla fine del IV sec. a.C.

Il III sec. a.C., contrassegnato dalla distruzione di Volsinii (264 a.C.) e di Falerii (241), i due principali centri di produzione di t. architettoniche, vede un rinnovamento dell'edilizia templare connesso con la rifondazione delle città e nuove deduzioni coloniali. Il materiale della colonia latina di Cosa (273 a.C.), con la nutrita serie di coperture degli edifici sacri dell'acropoli e del foro, costituisce un prezioso strumento sull'evoluzione della decorazione fittile in rapporto al processo di romanizzazione: a una prima fase in cui dominano, aggiornati, i vecchi modelli etruschi, presenti anche a Chiusi, Tarquinia, Punta della Vipera e Bolsena, segue l'affermarsi definitivo dello standardizzato sistema di copertura romano. Il II sec. a.C. rappresenta l'ultima grande stagione di fioritura degli elementi fittili architettonici, connessa con i grandi rinnovamenti urbanistici voluti da Roma: questa interessa regioni in cui in precedenza era assente, quali la Cisalpina e le aree italiche, o ritorna, con nuove forme, del tutto sganciate dalle più antiche tradizioni, nell'Italia meridionale (p.es. in Campania o in Daunia). L'impatto ideologico di tali realizzazioni è sottolineato dall'enfasi maggiore attribuita alla decorazione figurata e all'assunzione, sempre più frequente, del frontone chiuso. La pubblicazione di importanti complessi inediti, come quelli di Volterra, Chianciano, Aquileia o della Civitella di Chieti, si è aggiunta ai casi noti da tempo, e nel corso degli ultimi anni fatti oggetto di nuove analisi e interpretazioni: l'indagine filologica puntuale (Talamone) si accompagna ai tentativi, non sempre facili, di interpretazione esatta del soggetto (Civitalba, Arezzo, ecc.) o alla ricerca del rapporto con un edificio di culto preciso (Roma, S. Gregorio). Ormai completamente mediata da Roma appare ovunque l'assunzione del linguaggio stilistico che dalle manifestazioni impregnate di elementi barocchi e patetici di matrice microasiatica della prima metà del secolo si evolve verso una progressiva e decisa assimilazione delle forme neoattiche (Coarelli). Un fenomeno parallelo all'adozione del frontone chiuso, e altrettanto significativo, è la comparsa di una serie di piccoli fregi figurati, lavorati ad altissimo rilievo, che segnano, in ambiente romano, il ritorno della decorazione architettonica fittile in edifici di carattere civile e privato e non esclusivamente sacro, come stanno a dimostrare gli esempî, geograficamente assai disparati, di Vetulonia, di Fregellae o di Pompei, con soggetti di semplice carattere decorativo, ma anche mitologico o addirittura storico. A simili decorazioni, destinate a confluire nella produzione augustea delle lastre «Campana», è affidata la sopravvivenza della decorazione architettonica fittile, una volta che il processo di definitiva lapidizzazione degli edifici templari, iniziato nel II sec. e definitivamente compiuto nel I a.C., ne avrà determinato la scomparsa dall'edilizia religiosa, dove i casi sempre più ridotti di rifacimenti si limiteranno a riaggiornare dal punto di vista stilistico i vecchi modelli.

Lastre «Campana». - Nuovi studi hanno ripreso in considerazione il settore delle lastre «Campana» a decenni di distanza dalla fondamentale opera di Rohden e Winnefeld. A fronte delle osservazioni di A. Borbein, che riesamina alcuni soggetti particolari soprattutto dal punto di vista stilistico, numerose altre ricerche vertono sulla cronologia, la funzione, i contesti di provenienza e i programmi figurativi di questo tipo di lastre. Ne risulta il quadro di una produzione ampia e diffusa, che tuttavia, soprattutto nella sua prima e più vitale fase, di epoca augustea, è ben lungi dal costituire un fenomeno di massa: lastre «Campana» vengono usate nella decorazione degli ambienti accessori di edifici templari, di nuova costruzione con il Tempio di Apollo Palatino, o ristrutturati in età augustea; più raramente in edifici con funzione civile; in horti e in ville di proprietà della famiglia imperiale o delle élites senatorie. L'area di diffusione interessa soprattutto Roma e il Lazio, ma non mancano casi di uso in ambienti periferici come il Veneto, con matrici esportate da Roma o rielaborate localmente. Sono inoltre documentati episodi di presenze in ambito provinciale: ai casi già da tempo noti di lastre «Campana» attestate in Egitto, Grecia e Germania, si è aggiunta nuova documentazione da Aleria, dalla Gallia (Saint Just-Ardèche) e da Tarragona. Il ricchissimo patrimonio iconografico attestato sulle lastre «Campana», che pure attinge in alcuni casi a temi propri di una tradizione schiettamente romana, appare ispirato prevalentemente al mito greco, in una misura destinata a rimanere ineguagliata per tutto il resto dell'età imperiale.

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Spagna: E. Sanmarti Grego, P. Castanyer i Masoliver, j. Tremoleda i Trilla, Nuevos datos sobre la historia y la topografía de las murallas de Emporion, in MM, XXXIII, 1992, pp. 102-112; S. F. Ramallo, La monumentalización de los santuarios ibéricos en época tardo-republicana, in Ostraka, II, 1993, pp. 117-144; S. F. Ramallo Asensio, R. Arana Castillo, Terracotas arquitectónicas del santuario de La Encarnación (Caravaca de la Cruz, Murcia), in AEsp, LXVI, 1993, pp. 71-106.

(M. J. Strazzulla)

Egitto greco-romano. - La definizione di «t. del Fayyūm» è in realtà impropria, dal momento che i manufatti provengono da differenti parti dell'Egitto. Dall'analisi delle argille utilizzate sono state individuate, oltre al Fayyūm, altre zone principali di produzione: il Medio- Alto Egitto e il Delta, per un arco cronologico dal IV sec. a.C. al III sec. d.C. circa (tuttavia nella chòra si trovano esemplari di periodi successivi). Per la maggior parte di queste t., oggi conservate in collezioni, non si conosce la provenienza originaria, per cui risulta problematico definirne con certezza la funzione.

Veniva utilizzata la tecnica a doppia matrice, una per la parte anteriore e una, solitamente poco lavorata, per quella posteriore. Il punto di connessione fra le due parti è generalmente ben visibile. In alcuni casi era realizzata a stampo soltanto la faccia principale e la superficie posteriore era semplicemente liscia. L'interno è vuoto. Solitamente gli oggetti, di piccole dimensioni, erano ricoperti da argilla diluita, sbiancata con il latte di cavolo. Dopo la cottura erano applicati colori piuttosto vivaci. In alcuni casi, p.es. nella produzione di Tanis, i colori venivano sostituiti da un semplice ingobbio rosso o nero. Sono anche evidenti tracce di lavorazione dopo la cottura, realizzate con scalpello o semplicemente incise per sottolineare alcuni particolari.

Gli esemplari maggiormente attestati sono relativi a soggetti di carattere cultuale. Sono rappresentate quasi tutte le divinità del pantheon greco, spesso con attributi che permettono di assimilarle a personaggi sacri del mondo egizio: Atena/Neith, Dioniso/Horus, Afrodite/Iside; tra gli dei egizi vanno segnalati principalmente: Anubis, Bes, Arpocrate, Horas, Iside, Nilo, Osiride, Serapide. Arpocrate è il soggetto a cui si può ascrivere il maggior numero di esemplari. Se ne conoscono diverse rappresentazioni in cui il personaggio seduto, stante, appoggiato a un pilastro, a cavallo, con la cornucopia, è quasi sempre caratterizzato dal doppio bocciolo di loto. Altra raffigurazione molto frequente è quella di Afrodite/Iside, solitamente resa con i caratteri iconografici dell'Anadyomène accompagnata da due eroti, come compare su alcuni vasi prodotti in officine elleniche.

Sono attestate anche statuette raffiguranti soggetti connessi alla sfera cultuale. Si tratta per lo più di offerenti, sacerdoti, sacerdotesse, suonatrici di arpa e di flauto: personaggi, cioè, che sembrano accompagnare una attività rituale, spesso con un attributo che permette di associarli precisamente a una divinità.

Si conoscono raffigurazioni femminili drappeggiate, simili a quelle prodotte nel mondo greco e magno-greco e comunemente definite «Tanagrine», la cui cronologia può essere ristretta tra la fine del IV e gli inizî del III sec. a.C.; da segnalare, inoltre, una produzione di figure femminili «a collo chiuso», di età romana. Si tratta di teste, terminanti al di sotto del collo, che presentano ricche capigliature completate da splendidi gioielli e con le orecchie bucate in cui venivano probabilmente inseriti orecchini in materiale prezioso.

Un'altra produzione, qualitativamente inferiore, è invece costituita principalmente da statuette raffiguranti personaggi caricaturali, grotteschi. Al medesimo gruppo sono ascrivibili anche le raffigurazioni di animali domestici, forse utilizzati per la decorazione degli interni, ma con valenza religiosa. Per esempio gli animali da carico, come il cammello, rivestivano, probabilmente, il ruolo di portatori di offerte agli dei. In questo senso tali oggetti potevano avere il compito di evocare il giorno di festa e di ricordare le azioni di ringraziamento rivolte verso la divinità.

La funzione di queste figurine era chiaramente cultuale. Si pensa che fossero esposte nei templi, o più spesso offerte dai fedeli come ex voto. Nel caso, p.es., delle figure caricaturali si suppone che fossero doni alle divinità da parte di malati. Queste statuette erano poste all'interno delle tombe come omaggio al defunto; molte erano conservate nelle case, forse collocate in nicchie, e utilizzate per i culti domestici. In questo senso si può spiegare la netta superiorità numerica delle raffigurazioni di Arpocrate, dato che il dio era considerato il principale garante della fecondità e il protettore degli animali.

Caratteristici sono anche i vasi plastici dei quali le forme maggiormente attestate sono le anfore e le situle soprattutto con decorazioni dionisiache; vasi a fondo piatto con anse variamente decorate e contenitori antropomorfi con prevalenza di rappresentazioni di teste umane. La funzione specifica di questi oggetti è, però, di difficile interpretazione, dal momento che non si ha mai notizia del luogo e delle circostanze del ritrovamento.

Va ricordata anche la produzione di altari in terracotta. Se ne conservano diversi tipi spesso arricchiti con decorazioni dipinte. I più significativi sembrano essere quelli che rappresentano edifici templari. Particolarmente numerosi sono gli altari «a corna», di forma rettangolare con i quattro angoli rialzati; essi presèntano spesso tracce di bruciato all'interno ed è probabile che fungessero da bracieri per l'incenso o altre sostanze analoghe.

È estremamente difficile fornire indicazioni relative alla cronologia, dal momento che quasi tutti gli oggetti conservati nelle collezioni sono di dubbia provenienza. Il problema è complicato dal fatto che i caratteri iconografici e stilistici rimangono sostanzialmente identici attraverso tutti i secoli di produzione. In alcuni studi recenti si è cercato di delineare un quadro cronologico, con l'ausilio di analisi mineralogiche e dei dati di scavo, come nel caso delle t. di Karanis.

Per quanto riguarda gli aspetti stilistici e iconografici è evidente una forte influenza del mondo greco, che all'inizio non si manifesta tanto nella scelta dei motivi, quanto nella rappresentazione dei soggetti. La profonda elle- nizzazione e l'attestazione di nomi greci incisi sui manufatti hanno favorito in passato l'ipotesi che si trattasse soprattutto di opere di artigiani greci impiantati in Egitto. Tuttavia oggi si tende a escludere questa ipotesi considerando anche che dall'età tolemaica si nota una tendenza, da parte della popolazione locale, a utilizzare nomi greci.

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(A. Leone)

Iran. - La produzione in t. in Iran non è molto diffusa e le ragioni della scarsità di oggetti, sculture e materiali architettonici realizzati in tale materiale non sono ancora sufficientemente chiare. La scarsa propensione all'uso della scultura a tutto tondo, tipica di tutta la tradizione culturale antico-iranica, da un lato, e l'uso generalizzato di materiali diversi, quali metalli, paste vitree, ecc., dall'altro, sono elementi che hanno contribuito a far sì che la produzione coroplastica, anche quando è stata presente, conservasse il carattere di una realtà figurativa decisamente minore. I più antichi ritrovamenti fittili in Iran sono le figurine animali e umane provenienti da Ganj Dara e da Zaghe, attribuibili all'età neolitica, e quelle provenienti da Susa databili all'Età del Bronzo, tra il IV e il II millennio a.C. Il corpus di figurine antropomorfe stilizzate provenienti da Zaghe, vicino a Qazvin (Iran nord-occidentale), databile tra il VII e il VI millennio a.C., fu rinvenuto in una vasta sala del c.d. Edificio Dipinto, di carattere probabilmente religioso, ed è distinguibile in cinque gruppi principali: a) figurine femminili incinte sedute; b) figure femminili materne; c) busti stilizzati; d) figurine sedute stilizzate; e) figurine sedute a forma di stivale. Queste ultime costituiscono il gruppo quantitativamente più rilevante. I numerosi confronti che si possono istituire tra queste figurine e quelle provenienti da aree diverse, sia dell'Iran (Tall-e Iblis) che dell'Anatolia, della Mesopotamia e della Siria, rendono questo gruppo particolarmente significativo all'interno della produzione coroplastica di età neolitica, in una vastissima area che dal Vicino e Medio Oriente si estende fino alla valle dell'Indo.

Sebbene non rientri a pieno titolo nella categoria delle t., va comunque segnalata quell'importante produzione di ceramica dipinta con ornamentazione animalistica, diffusa soprattutto nell'Iran nord-occidentale tra il IV e il III millennio a.C. (a Siyalk II-III, Hissar I, Mussian, Ba- kun A, Susa I-II, Giyan V-IV e Bampur), che anticipa quella di tipo più propriamente teriomorfa, con askòi animalistici, rinvenuta nel Luristan, a Nehävand e nella regione di Sakkiz, e databile tra la fine del II e gli inizi del I millennio a.C. Questa produzione costituisce un elemento di particolare rilievo nella tradizione vascolare dell'altopiano; interpretata da alcuni studiosi come testimonianza dell'arrivo delle popolazioni iraniche, essa denota probabilmente un gusto e una moda particolari, a cui le popolazioni dell'altopiano erano già avvezze da tempo.

Le poche figurine maschili e femminili da Marlik (Iran nord-occidentale) databili tra la fine del II e l'inizio del I millennio, provenienti da contesti funerarî, hanno volti piatti e triangolari, orecchie forate, occhi ovali e bocche aperte, e presentano caratteristiche sessuali molto pronunciate; alcune di esse rivelano, inoltre, tracce di politura e brunitura. Altre sono rappresentate con attributi diversi, come spade e cinture. Si tratta di figurine femminili legate ai culti della fertilità, che cominciano a diffondersi nel III millennio e continuano a essere prodotte fino al I millennio a.C. in Siria, Mesopotamia e Anatolia. Una figurina femminile stante con le mani poggiate sotto al seno, molto simile ad alcune di Marlik e forse proveniente da Amlaš, fu datata dal Ghirshman tra il X e il IX sec. a.C., mentre un'altra con testa di aquila e una larga spada, rinvenuta a Khorvin (Iran nord-occidentale), fu datata dallo stesso studioso tra il IX e l'VIII sec. a.C., ma dal Vanden Berghe all'XI sec. a.C. Altre figurine in t. provenienti sempre da Marlik, raffiguranti asini, cavalli, orsi, leopardi e cani, sono anch'esse databili intorno all'inizio del I millennio a.C.

Nell'Età del Ferro si nota una rottura nei modi di rappresentazione e nei temi iconografici: lo sviluppo della religiosità avestica, che possedeva un proprio pantheon di divinità autonome e distinte da quelle precedenti, determinò, infatti, l'adozione di iconografie legate al nuovo sistema ideologico. Appare dunque evidente che la maggior parte della produzione coroplastica d'epoca protostorica, oltre a risultare minoritaria in termini di consistenza numerica, è di fatto rappresentata da miniature di animali e/o di figure umane o da semplici oggetti, quali i cachets, probabilmente connessi alla contabilità amministrativa.

La produzione coroplastica del periodo achemenide risulta ancora poco nota, mentre più rilevante è quella relativa ai periodi più tardi, ellenistico, partico e sasanide. Paradossalmente, però, la maggior parte delle t. di queste epoche è stata rinvenuta nelle aree periferiche della Mesopotamia e delle provincie orientali, e non nelle regioni centrali degli imperi iranici.

Nonostante l'ingresso nell'area culturale ellenistica, a seguito delle campagne di Alessandro e delle conquiste dei Seleucidi, la produzione; coroplastica iranica si differenzia da quella propriamente greco-ellenistica, non soltanto per i soggetti rappresentati, sempre riconducibili a elementi culturali locali, ma anche per la diversa realtà ideologica che ne sta a monte, poiché in Iran le figurine di t. contribuirono molto più che in occidente a soddisfare le esigenze spirituali di una tradizione religiosa locale.

Per quanto concerne Ctesifonte, nel quartiere degli artigiani di Koche è venuto alla luce un certo numero di figurine in t. di modesta qualità, che costituiscono un corpus ben databile, grazie al rinvenimento di numerose monete collocabili tra il secondo quarto del III e la fine del V sec. d.C. Le figurine sono distinguibili in due gruppi: statuette e parti decorative di vasellame. Si tratta di figurine modellate a mano che nella maggior parte dei casi rappresentano cavalli. Il tema iconografico del cavallo, montato da un cavaliere, era in realtà ben noto nella coro- plastica d'epoca achemenide; nel periodo partico cominciarono a prevalere le figurine con motivi di derivazione ellenistica ottenuti con la tecnica a doppia matrice, anche se non mancano i tipi più antichi. Nella prima epoca sasanide troviamo a Koche il motivo del cavallo isolato con o senza elementi della bardatura, mentre molto pochi sono i relativi cavalieri che, cotti separatamente, potevano essere collocati sugli animali.

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(B. Genito)

Asia centrale . - Protostoria. - La documentazione più ampia e significativa proviene dal Turkmenistan meridionale. In questa regione, estrema propaggine nordorientale delle civiltà agricole del Vicino Oriente antico, l'impulso alla lavorazione della t. provenne verosimilmente dal mondo mesopotamico, i cui influssi si avvertono costantemente nelle diverse fasi evolutive della produzione in esame, dall'Eneolitico all'Età del Ferro iniziale. Sebbene non sia ancora esaurientemente documentato, il ruolo dell'Iran nella trasmissione di elementi innovativi nella coroplastica del Turkmenistan fu sicuramente di fondamentale importanza. Per tutta la durata del periodo protostorico, l'artigianato della t. è esclusivamente basato sulla lavorazione manuale. Il materiale è in massima parte costituito da reperti di superficie; solo una percentuale limitata, seppur in costante aumento negli ultimi anni, proviene da contesti stratigrafici. Sono state tuttavia proposte ricostruzioni relativamente affidabili dell'evoluzione che interessò questo tipo di produzione nel corso di quattro millenni.

T. figurate, prevalentemente statuette femminili, sono testimoniate nella cultura di Anau già nella seconda metà del V millennio a.C. (periodo Namazga I). Il numero di esemplari si accresce nel periodo successivo (Namazga II, prima metà del IV millennio a.C.), con c.a 60 esemplari dall'oasi di Geoksyur. Le figurine femminili rispecchiano due tipi fondamentali, distinti principalmente dal diverso trattamento delle braccia, in un caso ridotte a semplici sporgenze protese di lato, nell'altro abbassate lungo i fianchi. Anche relativamente al periodo Namazga III (seconda metà del IV millennio) gran parte della documentazione proviene dall'oasi di Geoksyur (Altïn Depe, Ilgïnlï Depe). Nell'ambito delle statuette femminili, troviamo figure in posa assisa (gambe piegate in avanti e leggermente flesse alle ginocchia), con spalle cadenti, braccia abbassate, seni piccoli, cosce molto larghe, il sesso indicato da un triangolo talvolta campito di punti. Accanto a queste sono documentate figure (di frequente in posa assisa), caratterizzate da spalle molto larghe e squadrate, braccia abbassate, vita molto sottile, bacino largo; capigliature, seni, organi genitali e altri dettagli sono applicati, e non dipinti, come nel tipo precedente; le mani sono talvolta poggiate in grembo. Nelle figure in posa stante le gambe sono rappresentate da un elemento cilindro-conico con linea verticale di separazione. Per questo tipo di t., tra le quali compaiono anche figure femminili con bambino o animale (capretta?) in braccio, è stato ipotizzato un influsso della cultura mesopotamica di 'Ubayd. In questo periodo si riscontra inoltre un sensibile aumento delle figure maschili (c.a 1/6 della produzione). Per il periodo Namazga IV (3000-2600 a.C.) si dispone di una documentazione numericamente più limitata, ma proveniente per lo più da scavi stratigrafici. E questa una fase di transizione tra l'Eneolitico e il Bronzo maturo (Namazga V), e come tale rivela la coesistenza di elementi tradizionali con nuove tendenze che troveranno piena affermazione nel periodo successivo, tra cui la piattezza che caratterizza un certo numero di figurine. Si riscontra inoltre la quasi totale scomparsa della rappresentazione dipinta di determinati dettagli (capigliatura, copricapo, ecc.), che d'ora in avanti saranno sempre applicati; simili caratteristiche si ritrovano nella produzione di Turang Tepe, in Iran. Il periodo Namazga V (2600-2000 a.C.) presenta un repertorio relativamente omogeneo in tutta la regione a S del Kopet Dag: statuette piatte con braccia appena accennate protese di lato, ampio bacino, parte inferiore del corpo non molto caratterizzata. Capelli, occhi, seni, organi genitali maschili sono applicati, i diversi simboli che decorano le figure sono incisi. Un certo numero di statuette è ricoperto da ingobbio. Sono state oggetto di attenzione particolare le figurine femminili rinvenute ad Altïn Depe, delle quali una discreta percentuale proviene da contesti stratigrafici. Sulla base delle capigliature, dei simboli e di altri elementi iconografici, queste sono state variamente classificate (Masson, Sarianidi, 1973; Berezkin, 1981; Antonova, Sarianidi, 1990); non sembra tuttavia possibile porre in evidenza tipi nettamente distinti tra loro, e dunque ipotizzare l'esistenza di vere e proprie personalità divine. La gamma dei simboli - stelle, croci, rombi, triangoli, rami, onde - riconducono queste statuette all'ambito dei culti astrali e della fertilità. Da scavi recenti in siti dell'area del Murghab sono emerse testimonianze di una produzione coroplastica anche per le fasi finali della cultura di Anau (Namazga VI) e per l'Età del Ferro iniziale (inizi del I millennio a.C.). Le statuette sono ora rappresentate in posa stante, presentano naso molto pronunciato e grandi occhi, nonché una resa più naturalistica di braccia e gambe (con indicazione dei piedi); si riduce la varietà dei simboli (stelle, rami, punti). Sono inoltre attestati vasi di carattere cultuale con figurine animali e umane applicate lungo i bordi; un esemplare dagli strati superiori di Togolok I ha il bordo decorato da draghi, uccelli, rane e due figure umane; simili reperti provengono anche dall'Afghanistan settentrionale.

Ill sec. a.C.-V sec. d.C. - Un nuovo e potente impulso si registra nella coroplastica dell'Asia centrale a partire dagli ultimi secoli a.C. Sull'impiego della t. nella decorazione architettonica non si possono citare che testimonianze sporadiche, come i capitelli ionici riprodotti a stampo su tavolette di t. da Nisa (Invernizzi, 1995) o un gruppo di antefisse con decorazione vegetale (palmetta) o figurata (testa umana) dalla Battriana (Abdullaev, 1987), mentre la produzione di figurine di t. proseguirà in maniera crescente nel corso della prima metà del I millennio d.C., entrando in declino alla vigilia del periodo alto-medievale. Essa è stata oggetto di numerosi studi, ma date le circostanze fortuite di rinvenimento della stragrande maggioranza dei materiali - solo una minima parte di essi proviene da scavi stratigrafici - le classificazioni tipologiche sono essenzialmente basate sull'analisi iconografica e stilistica. Da ciò derivano le incertezze che ancora ostacolano una corretta interpretazione di alcune fasi di questa produzione, in particolare quella che si suole definire «ellenistica» e che secondo diversi studiosi sarebbe rappresentata in quasi tutte le regioni dell'Asia centrale. La rinascita della coroplastica, soprattutto nelle regioni meridionali (Margiana e Battriana), è difatti comunemente posta in diretta relazione con l'avvento dell'Ellenismo e l'attribuzione di determinate t. al III-II sec. a.C. viene proposta prevalentemente in base all'osservazione di un abbigliamento di foggia occidentale e di una resa relativamente naturalistica delle anatomie e delle pose. In realtà, questo modello interpretativo ci sembrerà meno ovvio se consideriamo da un lato che ad Ai Khānum, città greca d'Asia centrale, la coroplastica ellenistica è praticamente assente, dall'altro che la persistenza (e la diffusione tardiva) di elementi iconografici e stilistici di matrice classica fino al volgere dell'era cristiana, e ben oltre, è un fenomeno accertato in una vasta area del mondo orientale, dall'impero partico al Gandhāra. In mancanza di sicuri punti di riferimento cronologici, le datazioni «alte» delle t. centroasiatiche andranno pertanto considerate con cautela.

Produzione essenzialmente di massa, di qualità generalmente modesta e nella quasi totalità realizzate per mezzo di matrici, le t. figurate sono una fonte di importanza primaria per lo studio dei culti dell'Asia centrale tra il IV-III sec. a.C. e l'alto medioevo. Il repertorio è dominato dalle raffigurazioni di divinità femminili, contraddistinte nelle diverse regioni da abbigliamento e attributi diversi, che è tuttavia difficile ricondurre a figure divine precisamente identificabili. Per il periodo in questione mancano fonti dirette atte a chiarire l'iconografia delle divinità centroasiatiche. Sono scarse inoltre le possibilità di confronto dei tipi iconografici della coroplastica con il pantheon immortalato nella monetazione dei Kuṣāṇa, come pure con le divinità descritte nella letteratura religiosa iranica. Sull'identificazione di determinate tipologie di statuette divine femminili in t. con Anāhitā, la dea iranica delle acque, è stato espresso un giustificato scetticismo da parte di L. A. Lelekov (1985). Non sembra esservi, infine, un chiaro legame di continuità tra le divinità della coroplastica e le figure divine rappresentate nella pittura altomedievale dell'Asia centrale.

Margiana. - Le t. costituiscono la classe di manufatti artistici maggiormente rappresentata nell'oasi di Merv. Nel periodo compreso tra il IV e il I sec. a.C. sono prevalenti le statuette di divinità femminili che G. A. Pugačen- kova riunisce sotto la generica definizione di «Grande Dea della Margiana». Questa sarebbe attestata da due tipi iconografici fondamentali: come immagine giovanile abbigliata alla maniera ellenistica (tunica e himàtion), con collana o torques, e come figura matura, ignuda o seminuda con attributi sessuali accentuati. Successivamente (I sec. a.C.?) queste figurine sono rese in uno stile più rigido, mentre si afferma un nuovo tipo, quello della «dea con specchio», anche questa caratterizzata da un abbigliamento di foggia ellenistica. Tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C. i tratti figurativi di origine occidentale scompaiono gradualmente; la dea indossa un mantello scollato e decorato e un copricapo, una mano è abbassata, come sembra, a reggere un lembo della veste, l'altra tiene talvolta una coppa. Il tipo giovanile tende progressivamente a uniformarsi a quello «maturo» (acconciatura, lineamenti). Nel III-IV sec. d.C. le rappresentazioni divengono più schematiche. La dea indossa una veste drappeggiata, un copricapo leggero, in una delle mani tiene uno specchio. Il tipo giovanile è ora impaludato in un mantello quasi interamente ricoperto da elementi decorativi applicati. In quest'epoca sono abbastanza diffuse anche le immagini maschili, in particolare di cavalieri barbati, con mazza o spada, lavorati a stampo, su cavalli modellati a mano.

Un interessante gruppo di t. figurate proviene dall'area del medio corso dell'A- mū Daryā (Čarjou, Mirzabek Kala, Kerki), in gran parte frutto di rinvenimenti sporadici, ma che esemplari provenienti da contesti stratigrafici consentono di datare a epoca Kuṣāṇa. Le divinità femminili, anche qui il soggetto dominante, sono attestate in diversi tipi iconografici, accomunate tuttavia dalla capigliatura corta, dai lunghi mantelli, spesso fittamente pieghettati e decorati da elementi applicati. Una delle varianti più diffuse è la dea con coppa in una mano e corona nell'altra; troviamo inoltre una dea drappeggiata ma priva di attributi e una dea con vaso e grappolo d'uva, che trova confronti a Dilberjin (Afghanistan settentrionale). Notevole è la quantità di cavalieri e animali, modellati a mano e di resa approssimata. Dagli scavi di Ak Kala proviene üna statuetta di buona fattura raffigurante un Bodhisattva seduto a gambe incrociate datato al II-IV sec. d.C.

Battriana. - La regione non ha fornito manufatti in t. sicuramente databili a epoca seleucide e greco- battriana. Non fanno eccezione le t. di Saksan Okhur (Tajikistan meridionale) che, inizialmente attribuite a epoca greco-battriana (Mukhitdinov, 1974), si ritiene ora più ragionevole datare al I sec. a.C.-I sec. d.C. (Meškeris, 1991), mentre le figurine frammentarie (una decina) rinvenute ad Ai Khānum sono pienamente riconducibili alla coro- plastica di epoca Kuṣāṇa (Abdullaev, 1996).

Nell'ambito dei culti locali, si riscontra anche qui una netta prevalenza delle divinità femminili. In via ipotetica si propone una datazione alta per un tipo di figura femminile ignuda di resa piuttosto naturalistica (Kampïr Tepe, III-II sec. a.C.), e una alquanto più tarda per immagini simili convenzionalmente ricondotte al complesso di Khalčayan (I sec. a.C.-metà I sec. d.C.), provenienti dal sito omonimo, ma anche da Termez, Barat Tepe e Dalverzin Tepe.

Per l'epoca Kuṣāṇa si considera caratteristico il tipo iconografico della dea assisa in abbigliamento di derivazione ellenistica (chitone e himàtion) o locale (lunga tunica pieghettata), copricapo a forma di tiara e attributo, non sempre identificabile, in una delle mani. Il sito-guida, da un punto di vista cronologico, è in questo caso Dalverzin Tepe, ma statuette appartenenti al medesimo gruppo sono attestate anche in altri siti. Da Saksan Okhur provengono diverse raffigurazioni di una divinità femminile con lunga veste e uno specchio in una delle mani portate in grembo. Nello stesso sito si segnalano immagini di una dea con coppa in una mano, portata al petto, e corona nell'altra mano abbassata. Nel periodo Kuṣāṇa si verifica inoltre la diffusione di immagini buddistiche, che lascia in Battriana il maggior numero di testimonianze (figure di Buddha e Bodhisattva da Barat Tepe, Termez, Ak Kurgan). Alla sfera di influenza buddhistica viene inoltre attribuito un gruppo di t. testimoniato a Zar Tepe, Tepa-ye Šāh, Fayaz Tepe, in Uzbekistan, e a Šahr-e Bānu, in Afghanistan, che riproduce un tipo di immagine femminile nuda in posa stante e frontale, caratterizzate da monili e cinture che trovano confronti nella coroplastica gandharica (Taxila) e indiana (Kauśāmbī) (Litvinskij, Sedov, 1983, p. 22 ss.; Abdullaev, 1990). Ancora più evidente è l'ispirazione indiana, nella posa, nell'abbigliamento e nei lineamenti del viso, in una figura rinvenuta di recente a Jandaulat Tepe e presumibilmente di epoca Kuṣāṇa (Huff, 1995).

Un interessante gruppo di t. datate tra il II e gli inizi del V sec. d.C. è stato riportato alla luce dagli scavi di Zar Tepe (Zav'jalov, 1981). Esso comprende alcune rappresentazioni frammentarie del Buddha stante in abhayamudrā, un frammento di bassorilievo che conserva le parti inferiori di una figura maschile e una figura femminile in abbigliamento di tipo indiano e riconducibili alla tipologia del mithuna (coppia in atteggiamento erotico), e una matrice rettangolare di grande formato (altezza c.a 30 cm) per la riproduzione di una immagine di divinità femminile seduta, con lungo mantello e, nella mano destra portata al petto, un attributo simile a un corno, per la quale si è proposto un parallelo con la dea Ardokhšo della monetazione Kuṣāṇa.

In tutto questo periodo sono inoltre testimoniate, sebbene in percentuale minore, figurine maschili: personaggi in caftano, pantaloni e stivali, nonché sporadiche rappresentazioni di personaggi nudi, ipoteticamente messe in relazione a una forma locale di dionisismo. Si contano inoltre rappresentazioni di cavalli (non montati da cavalieri), mentre in epoca tardo- Kuṣāṇa si diffondono le raffigurazioni zoomorfe come decorazioni applicate per determinati tipi di vasi.

Sogdiana. - Sebbene in questa regione la produzione coroplastica sia testimoniata in un'abbondanza forse ineguagliata nel resto dell'Asia centrale (notevole è la collezione di t. da Afrāsyāb), proprio qui i materiali provenienti da contesti archeologici affidabili sono particolarmente scarsi (Trever, 1934; Meškeris, 1962; 1977; 1989). Anche per la Sogdiana è stata tuttavia elaborata una periodizzazione che postula una fase antica «achemenide-ellenistica» (IV-II sec. a.C.) seguita da una fase «matura» che va dal II sec. a.C. al IV sec. d.C. Nell'ambito dei materiali più antichi si distingue tra t. di ispirazione vicino-orientale - figure femminili ignude, adorne di diversi monili, o vestite, con un attributo (frutto?) in una mano portata al petto - e t. di impronta ellenistica - figure femminili in abbigliamento greco, guerrieri, probabili rappresentazioni di divinità greche in forme derivate. Nella fase successiva troviamo figure femminili e maschili (assai meno numerose) accomunate dal medesimo tipo di abbigliamento: copricapo conico, tunica o caftano aperto sul davanti, pantaloni e stivali con risvolti, orecchini circolari e collane rigide. Al I-III sec. d.C. si fa risalire un cospicuo gruppo di statuette femminili diversificate tra loro dagli attributi (frutto, trifoglio, ramoscello o spiga, coppa), oltre che da varianti dell'abbigliamento. Particolarmente numerose sono le raffigurazioni di musicanti (maschili e femminili) e, a partire dalla fine del periodo in questione, le figure di cavalieri modellate a mano. Nel III-IV sec. d.C. si diffonde l'uso di decorare il vasellame con figure applicate, per lo più di soggetto zoomor- fo. Si segnala infine un rilievo di t. da Erkurgan che conserva la rappresentazione di due teste maschili barbate e con corona.

Chorasmia. - La produzione di t. figurate in questa regione ha inizio nel IV sec. a.C. come indicano dati stratigrafici forniti dagli scavi di Koy Krïlgan Kala, e prosegue fino al IV sec. d.C., conoscendo solo nell'ultima fase una riduzione quantitativa e un declino qualitativo. Alcuni tipi iconografici rimasero in voga per tutto il periodo indicato, altri godettero di favori meno duraturi. Tra i soggetti particolarmente longevi è quello della «dea con sciarpa» che, per la forma del viso, per l'acconciatura e per dettagli dell'abbigliamento si suppone derivi da antichi prototipi vicino-orientali; in particolare, è stato istituito un confronto con tipi iconografici assiri connessi al culto acquatico. La diffusione della «dea con sciarpa» risalirebbe, secondo M. G. Vorob'eva (1981), all'epoca in cui la Chorasmia, affrancatasi dal dominio achemenide, conferì un forte impulso alla realizzazione di reti idriche artificiali: anche per la «dea con sciarpa», dunque, il culto acquatico sarebbe una spiegazione plausibile. Nel corso del tempo questo tipo iconografico subisce alcune modificazioni non sostanziali (maggiore decorativismo nelle vesti, nuove acconciature, copricapo). Al culto acquatico è ipoteticamente ricondotta anche la dea ignuda con coppa in una mano (c.a 15 esemplari frammentari), come pure un altro tipo di divinità femminile assisa, attestata nei primi secoli dell'era cristiana, e raffigurata con capo scoperto, lunga veste e corto mantello, una mano al petto, l'altra in grembo, capelli lunghi e ondulati con scriminatura centrale; in alcuni casi essa indossa anche una sciarpa. A partire dal III sec. d.C. la t. viene gradualmente sostituita dal gesso, spesso lavorato con i medesimi stampi impiegati per le terrecotte. In epoca medievale, fatta eccezione per le raffigurazioni zoomorfe, i manufatti in t. e gesso saranno del tutto sporadici.

Κhotan. - Gli scavi di Sir Aurel Stein nel sito di Yotkan hanno riportato alla luce il più importante gruppo di t. figurate del Xinjiang (Stein, 1907; D'jakonova, Sorokin, 1960; D'jakonova, 1978). La produzione khotanese, che si inquadra approssimativamente tra il II e il IV sec. d.C., comprende figurine umane (di frequente personaggi maschili in abbigliamento centroasiatico, arricchito da una caratteristica mantellina e da un originale copricapo), animali o fantastiche, ma anche le ricche decorazioni figurate di vasi di diverse forme e misure. In questo repertorio, che non intrattiene alcun rapporto con l'iconografia buddhistica, ma che sembra comunque trarre ispirazione dalla tradizione figurativa indiana e gandharica, sono particolarmente numerose le figure di musicanti e, soprattutto nella decorazione del vasellame, le rappresentazioni di scimmie.

Ossuarî. - È questa una categoria di manufatti, in genere realizzati in t., che seppure ricondotta a una delle pratiche funerarie prescritte dai testi zoroastriani - quella della deposizione in appositi contenitori dei resti ossei dei defunti, precedentemente scarnificati da animali - sembra sia da considerare specificamente centroasiatica. Gli esemplari più antichi si identificano con gli ossuarî antropomorfi rinvenuti in Chorasmia (Koy Krïlgan Kala), risalenti agli ultimi secoli a.C. Essi rappresentano personaggi maschili o femminili assisi, sulla cui identità divina o secolare non è stata fatta chiarezza. Accanto a questa tipologia sono attestati ossuarî di tipo «architettonico» (fortezze con porta, feritoie a punta di freccia e merlate), sia in t. sia in pietra.

A epoca molto più tarda (IV-V sec. d.C.) datano i primi ossuarî sogdiani, a forma di cavallo. Intorno al VI sec. si afferma nella regione un tipo di contenitore a cassetta di forma rettangolare, rettangolare con spigoli stondati, ovale con pareti bombate («a yurta»), con coperchi piani, a cupola o a spioventi, in alcuni casi con impugnatura zoomorfa o foggiata a testa umana.

Oltre che come testimonianza di uno specifico rito funerario, tali manufatti meritano particolare attenzione per le decorazioni che interessano le loro pareti. Vi troviamo rappresentata una ricca gamma di motivi simbolici, tra i più frequenti il sole, la luna e alberi. In alcuni esemplari il motivo della croce viene interpretato come prova dell'adozione, anche se solo episodica, del rituale in questione da parte della comunità cristiana d'Asia centrale (Mizdakhkan, in Chorasmia, e Ak Bešim, in Semireč'e). In molti casi questi contenitori presentano articolate composizioni figurate a rilievo e, più sporadicamente, dipinte (Tok Kala, in Chorasmia). Il soggetto può essere una scena di compianto funebre (Tok Kala, Mizdakhkan), cui prendono parte personaggi maschili e femminili che esprimono, talvolta in maniera cruenta, la propria disperazione, o semplicemente figurine schematiche con le braccia levate al cielo. Di elevato interesse iconografico è un gruppo di ossuarî sogdiani di forma rettangolare con rappresentazione di una fila di arcate sulla faccia anteriore e sulle due facce laterali sormontate da parapetto merlato. All'interno delle arcate sono raffigurati personaggi maschili e femminili, ciascuno connotato da un attributo diverso. Simili ossuarî sono stati rinvenuti a Biya Naiman e a Ištikhan (a NO di Samarcanda) e sono datati al VII-VIII secolo. Sull'interpretazione della loro atipica decorazione figurata (che non trova confronti nella coeva pittura) sono state emesse ipotesi diverse: si è pensato a processioni di figure sacerdotali recanti reliquie (Pugaèenkova, 1985) o alla rappresentazione dei sei «santi immortali» (ameša spenta) dello zoroastrismo canonico (Grenet, 1986), o di vere e proprie divinità mazdee (Jakubov, 1987). In un ossuario da Mollakurgan, all'interno di una cornice architettonica simile a quella sopra descritta, sono raffigurati due sacerdoti con la bocca coperta da una benda (padām) secondo l'uso zoroastriano, ai lati di un altare del fuoco; sul coperchio a spioventi sono rappresentate coppie di danzatrici. Una scena di adorazione del fuoco figura anche su di un esemplare da Kra- snorečenskoe Gorodišče /(Kirghizstan).

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(C. Lo Muzio)

India . - Preistoria e civiltà dell'Indo. - Le prime testimonianze di una produzione fittile nel subcontinente indiano sono fornite principalmente dalle regioni occidentali, Belucistan e Sind. Su base stilistica possono essere distinte varie classi: a) figurine del tipo «Zhob valley»; b) figurine del tipo «Kulli-Mehi»; c) figurine provenienti dai siti urbani della civiltà dell'Indo.

Già per l'età neolitica nel Belucistan (periodo IV di Mehrgarh, metà del IV millennio a.C.) sono note figurine femminili convenzionalmente intese come dee madri. Nella prima metà del III millennio a.C. a Mehrgarh (v.) si osserva un costante incremento della produzione di figurine fittili femminili, per lo più nude e assise; successivamente il trattamento rispecchia quello delle figurine definite del tipo «Zhob valley», rinvenute in gran parte dei siti del Belucistan settentrionale (soprattutto a Mehrgarh VI e VII). Le figurine «Zhob valley» sono prevalentemente stanti e in generale si presentano come una massa di volumi aggregati, caratterizzate dal volto ovale con grandi occhi tondi, capigliatura a grosse ciocche applicate e spesso con copricapi elaborati, grossi seni e con pochi ornamenti (collane a più fasce, a perle o con pendenti).

Alcune delle figurine del tipo «Kulli-Mehi» sono caratterizzate dal corpo terminante all'altezza della vita con un piedistallo troncoconico, il volto marcatamente stilizzato dai tratti aviformi con piccoli occhi tondi applicati; le braccia sono conserte sotto il seno o poggiate sui fianchi, talvolta reggono un bambino; collane a girocollo o a più fasce, decorate con puntini, sono gli unici ornamenti applicati. In alcuni casi a Mehi le figurine fittili femminili compaiono nelle tombe come uno degli elementi del corredo funerario.

La maggior parte delle figurine femminili della civiltà dell'Indo proviene da Harappā e Mohenjo-daro (v. indo, civiltà dell'). Le figurine, prevalentemente in posizione stante, modellate a mano e dipinte di rosso, sono caratterizzate da volti ovali con fronti alte modellate a mano e naso «pizzicato» (gli incavi lasciati, ritoccati con stili, divenivano le orbite oculari per le pupille). Le orecchie non sempre sono indicate, e la bocca è una semplice linea incisa, oppure una lenticola d'argilla applicata, con una linea orizzontale a definire le labbra. Le braccia e le mani, quando conservate, appaiono estremamente stilizzate; nelle immagini stanti sono diritte lungo i fianchi e giungono quasi alle ginocchia. Anche gli arti inferiori presentano un trattamento rigido e stilizzato mancante di definizione plastica e anatomica. Gli indumenti si limitano, quando sono presenti, a una gonnellina sostenuta da una fascia più o meno decorata; notevoli per le dimensioni e varietà sono i copricapi che, insieme alle capigliature, conferiscono un aspetto caratteristico alle immagini femminili vallinde; sono composti da un elemento centrale a ventaglio affiancato da altri due elementi simili a canestro (intesi forse anche ad accogliere offerte votive, o utilizzati come lucerne - v. lucerna: India), o da semplici protuberanze simili a corni. I gioielli raffigurati sono in genere collane a più bande lisce o composte di perle; più raramente compaiono anche orecchini, bracciali e cavigliere. In queste figurine si rispecchia l'universo quotidiano e domestico: l'allattamento, la preparazione del pane (alcune immagini rappresentano figure sedute con le gambe distese, nell'atto di impastare il pane in un mastello, mentre altre tengono tra le mani un'anatra o una brocca). Sono state rinvenute anche immagini di donne incinte interpretate come rappresentazioni di dee madri.

Raffigurazioni fittili maschili sono note quasi esclusivamente dai siti urbani della civiltà dell'Indo; più rozze se confrontate con quelle femminili, esse tuttavia non mancano di originalità. Le diverse posizioni in cui sono rappresentate in alcuni casi sono state considerate come possibili raffigurazioni di posizioni caratteristiche dello yoga. Alcune figurine sono inoltre caratterizzate da un aspetto del volto caricaturale e da un enorme ventre, e possono avere braccia e gambe mobili legate al tronco con cordicelle, tanto da sembrare bambole snodabili. Di un certo interesse sono infine le maschere in miniatura con fattezze terio-antropomorfe realizzate con piccole matrici; i tratti appariscenti con occhi allungati, orecchie forate e corna sono stati attribuiti a divinità o a personaggi di rappresentazioni drammatiche.

Tra le figure animali, sono predominanti i tori per quantità e varianti tipologiche (è possibile che ciò rifletta anche un antico culto agricolo del toro come simbolo di fertilità, tanto più che in diversi casi figurine femminili del tipo «Kulli-Mehi» sono state rinvenute in associazione con immagini taurine). Gli esemplari pre-vallindi in stile «Kulli-Mehi» presentano una decorazione a bande scure verticali dipinte sul corpo; talora anche gli occhi venivano evidenziati con cerchi dipinti. Sono attestati inoltre raffigurazioni di zebù, cavalli, mucche, maiali selvatici, scimmie e varí tipi di uccelli. Sono evidenti i cambiamenti qualitativi e quantitativi che le figurine in t. della civiltà dell'Indo segnano rispetto alle tradizioni precedenti. Le figurine di toro, p.es., manifestano un naturalismo più maturo nei volumi e nel modellato (muso, gobba, soprattutto nella resa a incisione delle pieghe intorno al collo). Si può inoltre desumere un avanzato processo di domesticazione di diverse specie, considerando la varietà degli animali riprodotti, quali bovini, ovini, maiali, asini, cammelli, gatti (i cani presentano addirittura il collare), anatre, oche, galline, ecc.; tra gli animali selvatici si trovano tigri, elefanti, rinoceronti, coccodrilli, tartarughe, scimmie, pavoni, aironi, pappagalli e altri uccelli. Elementi caricaturali si possono osservare anche in diverse figurine animali, probabilmente intese come giocattoli; a questo genere di oggetti vanno inoltre aggiunti modellini di carretto, figurine di animali, p.es. di ariete, con le ruote, modellini di barche (rinvenuti a Lothal), e diversi fischietti in t., modellati a forma di gallina.

Culture neolitiche e calco- litiche posteriori alla civiltà dell'Indo. - Verso l'inizio del II millennio a.C. l'influsso esercitato dalla civiltà dell'Indo va gradualmente a esaurirsi. In alcune regioni (p.es. il Gujarat), la cultura materiale di tradizione vallinda conserva alcuni tratti originari caratteristici, come in alcune classi ceramiche o in diversi aspetti figurativi dell'arte fittile.

Nel Nord-Ovest intorno alla prima metà del II millennio a.C. sono documentate figurine umane che presentano una piatta schematizzazione formale. A Loebanṛ, nello Swāt, figurine in t. modellate a mano e colorate di rosso, con testa triangolare, naso pizzicato, braccia appena accennate, fianchi squadrati con gambe dritte, e con a volte decorazione a puntini impressi (collane, ecc.), sono state rinvenute anche associate a fittili animali intorno a focolari (a. seguito di ciò è stata ipotizzata una deposizione rituale degli oggetti). Tali reperti documentano la fase intermedia, posteriore alla civiltà dell'Indo e precedente il periodo storico.

Nel Punjab, a Saṅghol, da strati pertinenti al periodo della cultura «Bara» sono attestate quasi esclusivamente figurine animali, tra cui predominano - come ovunque nel subcontinente indiano fino al periodo storico - quelle di toro. Il modellato del corpo è schematico, i volumi più compatti, la gobba talvolta elegantemente ricurva, le zampe pizzicate. Sono documentati manici di ceramiche con figurazioni zoomorfe, ¡ modellini di carro e animali su ruote. Decorazioni su vasellame sono attestate anche da materiali della c.d. cultura della Ceramica color ocra (Ochre Coloured Pottery), tra cui, oltre a figurine di toro, sono testimoniate immagini femminili con seno esagerato e senza vesti od ornamenti.

Dalla regione del Kutch e dal Saurashtra provengono svariate figurine animali che riflettono più che in altri luoghi la produzione vallinda. A Rangpur si osserva un migliore sviluppo del modellato delle figurine antropomorfe; le immagini, non più piatte schematizzazioni, acquistano ora una maggiore plasticità. Le figurazioni animali, quali tori (con o senza gobba) o cavalli, sono rese con linee più essenziali e sono a volte decorate con puntini impressi. Altri animali più frequentemente ritratti sono cani, maiali, uccelli, e sono inoltre attestati fischietti a forma di gallina; diversi frammenti di gambe testimoniano una produzione di figurine umane.

Nelle regioni dell'India occidentale e nel Deccan, durante il periodo «Jorwe» (seconda metà del II millennio a.C.), le figurine di tori superano spesso per quantità le immagini antropomorfe. Possono essere classificate come naturalistiche, oppure stilizzate (in questo caso spesso il corpo non viene rappresentato interamente, le corna sono corte e ricurve e le zampe tozze e unite). Nelle forme stilizzate alcuni studiosi hanno anche intravisto una rappresentazione simbolica del fallo. Anche nel Malwa numerosi rinvenimenti di figurine di toro (e toro/fallo) e figurine femminili, talvolta associate nello stesso contesto, hanno indotto gli studiosi a considerare tali manufatti come offerte rituali pertinenti a un culto della fertilità.

Le t. antropomorfe sono tozze, inarticolate, con testina conica senza connotazioni fisionomiche, ampie spalle, braccia corte e con le gambe unite o molto corte. Figurine femminili a forma di violino, con corpo più o meno allungato, con i fianchi larghi e la base globulare, testina affusolata e braccia corte distese, talvolta con i seni applicati, sono state rinvenute a Nagda e a Bilwali. Da Nevasa proviene una tra le più grandi t. femminili: ha testina conica liscia; il corpo - con un seno di dimensioni modeste e l'ombelico largo impresso con un dito - si assottiglia verso la base svasata e concava; le braccia, piccole, sono incurvate verso il basso. Nell'insieme la resa è rozza e la forma è simile al trattamento delle figurine maschili.

Anche se si osservano tentativi di uno sviluppo plastico, le immagini antropomorfe delle culture calcolitiche restano ancorate a una concezione volumetrica alquanto schematica con forme rigide, tarchiate e sommarie, corpi massicci e sproporzionati; la linea delle spalle curva, la curvatura interna delle gambe e la decorazione puntinata migliorano a volte l'equilibrio formale del modellato. Le t. animali raffiguranti equini e bovini presentano un modellato più slanciato; si osserva inoltre una variazione del repertorio figurativo documentato da immagini di cani, arieti, rinoceronti, leoni, manguste, cinghiali, coccodrilli e uccelli.

Età del Ferro e primo periodo storico. - Nel Belucistan e nel Nord-Ovest degli inizi del I millennio a.C. la tradizione formale precedente trova una sua naturale continuità; a Pirak sono attestate figurine femminili a forma di violino che mostrano ancora un trattamento piatto schematico; analogamente dalle tombe dello Swāt provengono figurine antropomorfe con corpo piatto, busto romboidale, ampie spalle (a volte la sagoma del corpo è a forma di violino), testa caratterizzata da naso pizzicato e un alto diadema, seni applicati, brevi braccia leggermente incurvate e gambe che possono essere congiunte o separate. Le decorazioni sono incise, lineari o puntinate (notevole in questo caso è una figurina da Zarif Karuna con copricapo a ventaglio decorato e con la regione pubica marcata da una serie di triangoli concentrici). Tra le figurazioni zoomorfe il toro perde gradualmente il ruolo predominante.

Nella regione gangetica si osservano diversi cambiamenti nelle forme e un miglioramento nel trattamento del modellato e della decorazione. Di un certo interesse è il rinvenimento a Rājghāṭ (Vārāṇasī), da strati precedenti la comparsa della c.d. Ceramica nera polita del Nord (Northern Black Polished Ware, NBPW, datati 800-600 a.C.), del frammento inferiore di una figurina femminile - del genere definito arcaico - con vita snella e ampi fianchi tondeggianti cinti, sotto l'ombelico, da una fascia con cerchietti impressi, gambe (parte della sinistra mancante) separate e con la linea interna arcuata: una linea incisa orizzontale indica la presenza di una cavigliera mentre piccoli tratti sull'estremità alludono alle dita.

Alcune forme stilizzate di figurine femminili a forma di violino perdurano ancora nella seconda metà del I millennio a.C. - p.es. da Atranjīkherā IVB, 500-350 a.C. - questi fittili di piccole dimensioni (secondo alcuni sarebbero amuleti, simili alle analoghe immagini in osso e in avorio) sono caratterizzati dalla mancanza dei dettagli anatomici.

T. femminili arcaiche, modellate interamente a mano (simili a quella da Rājghāṭ, e riproducenti forse dee madri), sono attestate intorno al IV sec. a.C. con una sempre maggiore frequenza. Queste immagini arcaiche si presentano ancora con il corpo sproporzionato, le braccia tozze e corte leggermente inclinate e le gambe piatte che si assottigliano alle estremità e che seguono la linea curva dei larghi fianchi ornati da una cintura. Talora i volti presentano gli occhi resi con due linee convergenti, su una faccia tondeggiante o triangolare, la linea del naso che continua quella della fronte inclinata e la capigliatura a linee incise sfrangiate; tale estrema astrazione è stata anche considerata come volontaria riproduzione di tratti animaleschi.

Un'altra novità di rilievo è la comparsa di immagini raffiguranti nāgiṇī (personificazioni femminili dei serpenti divinizzati), composte dal corpo delle figurine arcaiche, con corte gambe arcuate, ampi fianchi tondi e vita snella, e dalla testa anguiforme, o meglio, definita dalla stilizzazione del cappuccio del cobra, lanceolato, a punta di freccia o più squadrato; l'intera figura è ricoperta da cerchietti e puntini applicati e impressi e linee oblique e orizzontali incise. Queste t. sono comunemente attestate nei varí siti gangetici (da Mathurā a Vaiśālī) intorno alla metà del I millennio a.C. e documentano tra l'altro la trasformazione di alcuni culti di origine agricola inerenti alla fertilità.

Per le t. animali, le figurine di elefanti si fanno più frequenti (p.es. da Rājghāṭ IB, 600-400 a.C., di 51 figurine animali, 29 raffigurano tori e 15 elefanti - mentre per il periodo precedente gli elefanti sono solo 4). Oltre agli elefanti, in alcuni casi rappresentati con il mahut, e ai solitamente frequenti tori e cavalli, sono attestati arieti, cani, gatti, maiali, volpi, cervidi, cammelli, uccelli e animali su ruote (tori, arieti o uccelli). I fittili zoomorfi ora sono più realistici; il corpo, di maggiori dimensioni, è più sottile e allungato, con decorazioni incise, puntini, cerchietti impressi o bande applicate. L'importanza acquisita dalle figurine di elefanti (e dei cavallini) è attestata dal rinvenimento di diversi esemplari modellati con l'argilla fine dello stesso genere di quella usata per la NBPW (dagli scavi di Mathurā, Bhīṭā, Kauśāmbī, Rājghāṭ, Prah- ladpur, Buxar).

Dal periodo maurya (IV sec. a. C.) al periodo post-gupta (VI sec. d.C.). - Intorno al IV sec. a.C. si osserva nei principali siti gangetici una graduale trasformazione delle figurine fittili femminili (che sono quelle maggiormente diffuse). Esemplificativa è l'evidenza archeologica di Mathurā (í. mathurĀ, arte di), che mostra chiaramente come dalle forme arcaiche interamente modellate a mano si passò a produrne a tecnica mista (cioè con il volto a stampo e con il corpo modellato a mano). Queste risentono ancora dell'impostazione arcaica rigidamente bidimensionale, con i fianchi larghi, le gambe arcuate, ecc.; l'uso di piccole matrici a stampo conferisce al volto un'espressione impersonale di una idealizzata fissità, le capigliature sono ora riccamente decorate con applicazioni di rosette e cerchietti stampati, che circondano il volto e ricoprono gran parte del corpo. Sulla base dell'osservazione etnografica, J. Bautze ha ipotizzato un uso rituale di questi fittili, proponendo anche una spiegazione per la mancanza di piedistallo (più raramente le figurine appaiono sedute), per la mancanza di decorazione sul retro e per la strana inclinazione verso l'alto della testa: le figurine, appoggiate a un mattone per terra, avrebbero in tal modo la faccia rivolta verso l'officiante e gli eventuali partecipanti al rito.

Un gruppo di t. rinvenute a Bulandībāgh (Pāṭaliputra) rappresenta un genere unico non solo per le dimensioni e la manifattura ma soprattutto per la qualità stilistica che conferisce loro un particolare posto nell'ambito dell'arte indiana. Rappresentano ballerine e suonatrici (sono attestati anche fanciulli), e sono ancora prodotte con la tecnica mista - i volti realizzati a stampo e il resto del corpo modellato a mano, arti, ornamenti e vesti applicati. Le figurine venivano ritoccate sul volto con uno stilo, rifinendo accuratamente i dettagli in modo da conferire all'immagine un'espressione di radiante luminosità, raramente eguagliata. Le immagini stanti su piedistallo sono slanciate e proporzionate, anche se gli arti tradiscono una certa inadeguatezza plastica; il movimento è per lo più suggerito dalla resa delle vesti. In alcuni casi, elaborate capigliature (bicornute, con nastri e dischi applicati) sono elemento primario della decorazione.

Queste opere, che manifestano la raffinata capacità raggiunta dagli artisti della capitale maurya, erano concepite non più come icone ma come immagini destinate a decorare le dimore della nuova classe sociale urbana (mercanti, funzionari) formatasi nelle città gangetiche e aggregata principalmente intorno alla corte. L'unicità di tali sculture fittili ha indotto diversi studiosi a considerarle come prodotti di artisti occidentali trasferitisi a Pāṭaliputra.

Con la crescita demografica urbana e con lo sviluppo dei mercati aumenta anche la richiesta di immagini fittili non destinate al «culto». L'utilizzazione della tecnica a matrice unica per la manifattura di placchette decorative, oltre a favorire un incremento della produzione stabilizza quel processo di standardizzazione figurativa e di uniformità iconografica e stilistica avviato con la tecnica mista.

Le placche figurate a matrice unica anticipano di oltre un secolo gli inizi (c.a 100 a.C.) della scultura buddhista e ricoprono un lungo arco cronologico: all'incirca dalla fine del III sec. a.C. al I sec. d.C. Stratigraficamente le prime attestazioni - provenienti da Vaiśālī, Räjg Rājghāṭ hät, Kauśāmbī, Sonkh - sono pertinenti a una fase ancora tardo- maurya; durante il periodo śuṅga (187-75 a.C.) la tecnica si perfeziona e si diffonde in tutta l'area gangetica e oltre (esemplari ottenuti da matrici simili, se non identiche, sono attestati da siti distanti anche centinaia di chilometri). Le immagini femminili sono pesantemente decorate con ogni sorta di gioielli dalla testa ai piedi (un noto esempio è la placca proveniente da Tāṁluk, v., e conservata all'Ashmolean Museum di Oxford): diversi spilloni per capelli con terminazioni simboliche come tridenti, asce, frecce, uncino per elefanti, ecc., sono infissi in un elaborato turbante (chiaro elemento di raccordo tra le tradizioni stilistiche maurya e śuṅga), grandi orecchini circolari o cilindrici con molteplici pendagli coprono le spalle; la vita stretta risalta tra l'ampio seno e i fianchi larghi, la veste semitrasparente lascia intravedere il sesso ed è coperta da una cintura decorata con più fili di perle a cui talvolta sono appesi pendagli e figurine antropomorfe; una leggera sciarpa ricade dalla spalla sinistra lungo la gamba, le mani che sembrano sostenere la cintura sono appesantite dalle ampie spire dei larghi bracciali, i piedi divaricati poggiano su di un loto più o meno stilizzato; il fondo della placca è decorato con piccole rosette.

Le placche ritraggono diverse divinità propiziatrici (la dea della Fortuna Lakṣmī, yakṣa benevoli, il dio dell'amore Kāmadeva; di un certo interesse è una serie di personaggi alati sia maschili - considerati anch'essi rappresentazioni di Kāmadeva - sia femminili, di non chiara identificazione), scene mitologiche, coppie coniugali (daṃpati), scene erotiche (mithuna), carretti su ruote e scene agresti; queste t. sembrano dunque prediligere accanto a icone cultuali soggetti profani legati a un ideale di vita familiare, conviviale e «arcadica».

Anche la produzione di figurine animali subisce un forte incremento, soprattutto le immagini di elefanti sono attestate sempre più frequentemente. Di un certo interesse è l'introduzione di una nuova tecnica, ancora in uso, per la produzione di elefanti di maggiori dimensioni: si preparava un cilindro vuoto sulla ruota da vasaio e si applicavano gli arti, la testa e la coda, qualche volta figurine umane, sulla groppa. La decorazione applicata è la stessa utilizzata anche per gli altri animali (cavalli, tori, ecc.): puntini, cerchietti, linee incise, motivi stampati a foglia, cakra, svastika, striscioline con rosette applicate, ecc. Accanto ai soggetti usuali sono attestate per la prima volta in ambito gangetico figurine di bufalo, coccodrillo, rinoceronte, tartaruga, coniglio, gatto, scimmia, maiale, orso, e diverse immagini composite come un cavallo con testa di donna (yakṣiṇīcentauressa, in seguito anche con corpo femminile e testa equina), un leone e un cavallo alati, e una specie di drago con corpo anguiforme e testa taurina (makara?).

Nelle regioni del Nord-Ovest è attestata una serie di t. definite in passato «baroque ladies» (databili al III-II sec. a.C.), analoghe per la composizione bidimensionale e piatta alle figurine femminili arcaiche gangetiche. Modellate interamente a mano, sono caratterizzate da una forte stilizzazione: i fianchi larghi sono cinti da una fascia decorata che talvolta lascia scoperta la regione pubica, le gambe sono unite, senza piedi e separate da una semplice linea verticale. Accanto a questa produzione si possono osservare sia placche del genere già definito «sung śuṅga », sia manufatti di stile e iconografia ellenistici (p.es. da Cārsada proviene un frammento di ansa con una testina erculea raffigurante probabilmente Alessandro Magno). Nel successivo periodo śaka-partico (I sec. a.C.-I sec. d.C.) la produzione di impronta ellenistica diviene quantitativamente preponderante e finisce per includere anche quei soggetti tradizionalmente legati al mondo religioso locale quali p.es. le figurine femminili. La convivenza di più stili è caratteristica in queste regioni dove possiamo inoltre osservare la persistenza di elementi propriamente gangetici come le figurine animali (cavallini ed elefanti «maurya») o i carretti e animali su ruote, ancora in epoca greca e śako-partica.

Nel Deccan durante l'epoca āndhra, c.a I sec. a.C-III sec. d.C., si sviluppa uno stile e una tecnica di carattere particolare: l'utilizzazione del caolino, molto più fine delle comuni argille, rese possibile la realizzazione di figurine con dettagli ben definiti; esse furono le prime in India prodotte sistematicamente con due matrici (v. ter). Le immagini femminili, maggiormente rappresentate, hanno facce paffute con naso largo e piatto e labbra carnose (un trattamento simile alle immagini muliebri dei rilievi rupestri dell'India occidentale), e un corpo con un pesante incarnato. Sedute, con un pappagallino nella mano sinistra e alcuni manghi nella destra, sono ornate con pochi gioielli, tra i quali sono di un certo interesse le vistose cinture, con due o più fili di perle, citate nel Periplo del Mare Eritreo (capp. VI, XIV, XLIX) come apprezzate merci di scambio. Le figurine maschili appaiono talvolta con cotta di maglia ed elmo, con le gambe tozze e arcuate, forse per essere sistemate sui cavalli. È notevole l'attestazione di immagini di carattere religioso: torelli scivaiti, uno stūpa (oppure un bodhighara, cioè un recinto sacro costruito intorno all'Albero della Bodhi) portatile, una lucerna a forma di Garuḍa, ecc.

La dominazione di genti straniere e le relazioni con il mondo mediterraneo contribuirono a rinforzare il processo di ricezione e radicamento di alcuni elementi stilistici e iconografici occidentali. Va ricordata una scena potoria raffigurata su una placca frammentaria, con personaggio barbuto poggiato su di un gomito che reca un rhytón nella mano sinistra, rinvenuta ad Amreli (Gujarat) in un contesto del III secolo.

Nel periodo kuṣāṇa (I-II sec. d.C.) si osserva, nel Nord, un forte aumento della produzione fittile, in cui si evidenziano principalmente due stili: uno più «raffinato», l'altro più «comune». La vasta diffusione delle testine a stampo infisse con tenoni in corpi modellati a mano, caratterizzate da fisionomie non indiane è stata spiegata ipotizzando che la lavorazione delle matrici avvenisse in limitati centri specializzati (p.es. nella produzione litica) e da questi venisse distribuita nei diversi centri secondari e provinciali (Jayaswal, 1991). Questo fenomeno avrebbe inoltre reso capillare il processo di acculturazione, anche in centri periferici (si veda, p.es., il caso di Khairadih, Uttar Pradesh).

Per la manifattura delle t., in questo periodo si applicano diversi metodi: alcune figurine femminili, le immagini caricaturali e grottesche di nani panciuti (yakṣa?), ecc., sono realizzate con stampi a matrice unica, secondo metodi e stili tradizionali (notevoli per la loro varietà sono i modellini di carretto alcuni dei quali presentano i cavalli modellati a stampo sul lato frontale, v. p.es. Atranjīkherā, Kauśāmbī). Alcune figurine di animali, generalmente bovini ed equini, sono realizzate con la tecnica a doppia matrice, mentre altre sono modellate interamente a mano e decorate con linee incise (tori, elefanti, arieti, cani, pesci, ecc.), come modellate interamente a mano sono le figurine di soldati, musici, mithuna, gruppi muliebri con fanciulli, ecc., a cui si aggiungono quei manufatti noti come «votive tank», sorta di altari in miniatura, o modellini di recinti sacri di forma rettangolare, con cappelle, divinità femminili, musicanti e animali diversi e con lucerne in miniatura applicate sugli orli. L'uso della tecnica mista è attestato in genere per le immagini di maggiori dimensioni.

Tra le raffigurazioni religiose induiste e buddhiste si ricordano principalmente: Śiva, Durgā Mahiṣāsuramardinī, la coppia Siva-Pārvatī, Kubera, Sūrya, Kārttikeya, le Saptamātṛkä, Ganeśa, Kāmadeva, il Buddha, alcuni Bodhisattva, ecc.; si segnalano inoltre divinità minori induiste come nāga, yaksa, o le figurine di Naigameṣa (figura demoniaca con testina di capride e corpo umano propiziata per la protezione dei bambini). Immagini fittili sistemate nelle cappelle e nei templi, anche come icone principali, costituiscono un genere a sé stante, e talvolta sono vere opere d'arte coroplastica. Già B. B. Lai (1954- 1955) notava nel torso acefalo del Bodhisattva Maitreya, proveniente dagli scavi di Hastināpura, una stretta affinità con la scultura litica nel trattamento dei volumi e nello stile del movimentato panneggio della lunga sciarpa ricadente. Lo studioso indiano, sulla base dello scavo di Śṛṅgaverapura (v.) - da cui provengono immagini di culto frammentarie di inaspettata raffinatezza - è del parere che gli scultori del periodo kuṣāṇa conoscessero già i principi iconometrici a noi noti dai trattati e dai testi canonici medievali. Esemplificativa a tale riguardo è la testa di Śiva con tre occhi e crocchia ascetica. La maestria dei coroplasti operanti a Śṛṅgaverapura è evidente anche dall'osservazione di semplici particolari (p.es. il bimbo tenuto nella mano sinistra, le capigliature a ricci delle immagini buddhiste, i piedi su porzioni di basi), o dal trattamento del panneggio e della gioielleria di una figura acefala di Bodhisattva (?). La successiva produzione coro- plastica monumentale del periodo gupta trova i suoi naturali antecedenti in questi capolavori e lo stesso «espressionismo» gupta deve essere in una certa misura ridimensionato alla luce di queste acquisizioni, così come di un'ulteriore considerazione cronologica necessitano anche alcune delle grandi immagini di culto (p.es. quelle a tre teste) provenienti da Ahichhatrā.

Nel periodo gupta l'arte coroplastica giunge a livelli di maturità e perfezione difficilmente eguagliabili nella storia indiana; la popolarità e il livello di specializzazione si riflette anche nella lessicografia dell'epoca, dove compare il termine lepya-karma a significare la manifattura della t. con tutte le sue implicazioni. Sono ampiamente attestate placche a stampo a matrice unica (raffigurazioni muliebri, giovani uomini con pugnale alla cintola e arco, coppie di amanti, ecc.); figurine modellate interamente a mano (animali, naigameṣa, ecc.) o a tecnica mista (p.es. alcune immagini cultuali simili a quelle già osservate nel periodo kuṣāṇa, con il corpo modellato su di un nucleo cilindrico e la testa ottenuta a stampo) e figurine prodotte con la tecnica della doppia matrice (tori, elefanti con mahut, cavalli e figurine di cavaliere, ecc.). La novità di rilievo è la produzione su larga scala di lastre in t. per decorazione architettonica di templi e staūpa, generalmente modellate nella tecnica mista, cioè con la maggior parte del pannello modellato a mano con alcuni elementi a stampo, quali i volti o alcuni dettagli decorativi. Analogamente è attestato l'impiego di mattoni e altri elementi strutturali - cornici, mensole, lesene, pseudo-capitelli, ecc. - decorati a stampo o a intaglio con motivi vegetali, fantastici, geometrici. È attestato inoltre l'uso del colore, accanto alla tradizionale ingubbiatura rossa, che ora si fa più spessa. Nel trattamento del volto le figurine maschili presentano un naso appuntito e gli occhi allungati, spesso con i bulbi sporgenti, le capigliature sono in genere acconciate a grandi boccoli ricadenti. Le immagini femminili rivelano generalmente un trattamento più morbido, dai lineamenti più delicati. Comune a tutte le figure antropomorfe e zoomorfe è una grazia scultorea che si manifesta come unità stilistica e geografica (dal Sindh al Bengala, dal Kashmir al Deccan).

Molte delle immagini antropomorfe che decoravano strutture religiose in laterizio sono realizzate quasi a grandezza naturale, come la figura femminile acefala e mutila proveniente da Pir Sultān-kī Therī (Rajasthan), conservata al museo di Bikaner; l'immagine è stante con la gamba destra flessa indietro; il modellato, compatto, è equilibrato nei volumi e nel movimento; il trattamento del panneggio a pieghe profonde di tradizione gandharica permette un gioco di chiaroscuri e contrasti. A questa prima fase, da alcuni definita di transizione, sono attribuibili diversi pannelli provenienti da Rang Mahal, raffiguranti divinità scivaite e storie di Kṛṣṇa; notevole è la lastra con Kṛṣṇa che solleva il monte Govardhana, come pure la raffigurazione della coppia divina Śiva-Pārvatī, dove il dio - a più teste - è seduto a gambe incrociate sul toro, e la paredra è invece seduta «all'europea»; per il trattamento della veste, è la dea a risentire dell'influsso occidentale.

Lo stūpa di Devnimori, poco distante da Śāmalājī (Gujarat), databile in base all'evidenza archeologica ed epigrafica all'ultimo quarto del IV sec. d.C., ha restituito 26 sculture - di cui 12 quasi integre - di Buddha seduti in mediazione, insieme a un'abbondante quantità di elementi architettonico-decorativi. I Buddha variano di poco l'uno dall'altro nel trattamento dei capelli, nella presenza dell ''urṇa, nella spalla scoperta o meno. L'uniformità stilistica con cui sono state concepite queste sculture ad alto-rilievo, interamente modellate a mano, trae ispirazione dalle precedenti esperienze artistiche di Mathurā (panneggi) e del Nord-Ovest (capigliature), riconsiderate nell'ambito della nuova sensibilità estetica evidente nella marcata astrazione dei volti. L'apparato decorativo - mattoni, cornici, lesene, archi «a caitya», ecc. - mostra una ricchezza di motivi sconosciuti in altri monumenti indiani e in alcuni casi riflette una profonda assimilazione del linguaggio formale classico (p.es. la resa delle volute di acanto, le cornici a foglie di «alloro» e di «olivo»), che ha indotto taluni studiosi a considerare lo stūpa di Devnimori più che un'opera di epoca gupta, un attardamento di tradizione ellenistica.

Lo stūpa di Mīrpūr Khās nel Sind (Pakistan), databile intorno alla metà del V sec., presenta elementi decorativi e stilistici più propriamente indiani; p.es. i mascheroni (kīrtimukha) o le oche con coda terminante in volute floreali, che decorano alcuni mattoni; le immagini di Buddha in dhyānamudrā, che possono forse evocare ancora l'arte del Gandhāra, sono tuttavia immerse pienamente in uno stile più unitario, ravvisabile p.es. nella veste «bagnata» di tradizione gupta e nell'alone e cornice floreale che circondano le figure. Di originale ambiente gupta è anche l'immagine stante di donatore (o del Bodhisattva Padmapāṇi), con volto ovale e pieno, ampia capigliatura a boccoli, occhi semichiusi un poco sporgenti, naso largo e dritto e labbra carnose; il torso nudo, con una semplice collana, è marcato al centro del petto dal fiore tenuto delicatamente con la mano destra, la sinistra è poggiata alla cintola; la dhotī, è decorata con strisce rosse. Dhavalikar considera questa immagine come la rappresentazione del modello maschile di eleganza cittadina del periodo gupta, sensuale e apparentemente distaccata.

Il tempio in mattoni di Bhītārgāon (Uttar Pradesh), nel cuore della piana gangetica (v. tempio: India), datato intorno al secondo quarto del V sec., presenta una superba decorazione fittile, solo in parte conservata. Il tempio probabilmente era dedicato alla divinità sincrética Hari-Hara (l'aspetto congiunto di Śiva e di Viṣṇu); nelle nicchie alternate a pilastri con capitelli compositi erano disposte le immagini principali: Śiva e Pārvatī sul monte Kailaša e altre scene scivaite, Viṣṇu con otto braccia, l’avatāra Varāha e altre scene visnuite, Gājalakṣmī, Durgā e scene pertinenti alla śakti. Lastre decorate con animali fantastici - quali un makara con muso e zampe elefantine e corpo squamato, due leoni con i corpi fusi in una sola testa, pavoni con volute fiammanti e altri uccelli con code terminanti in girali vegetali - separano le pareti della cella dallo śikhara, tramite una doppia cornice modellata con motivi floreali tra piramidi gradinate contrapposte; dalle nicchie dello śikhara, incorniciate in archetti, si affacciano teste di personaggi varí, scene di combattimento con animali, ecc.

Dalle rovine del Tempio di Śiva, ad Ahichhatrā, provengono le immagini delle dee fluviali, Gaṅgā e Yamunā, certamente poste ai lati dell'ingresso, teste di Śiva e Pārvatī, diverse lastre databili tra la seconda metà del V e la prima metà del VI sec., conservate al Museo Nazionale di Nuova Delhi. Le grandi lastre - raffiguranti tematiche scivaite come l'interruzione del sacrificio di Dakṣa da parte di Śiva e dei suoi accoliti, o temi tratti dall'epica come gli eroi che si affrontano con arco e frecce dalle bighe - presentano uno stile impacciato, ma con un forte impatto visivo, che ricorre al simbolismo proporzionale e al grottesco, con scarsa presenza di elementi della natura, comunque estremamente stilizzati, e invece una grande ricchezza di dettagli nelle espressioni dei volti, nelle vesti, nei gioielli; la scomposizione dello spazio in più livelli permette un maggiore sviluppo narrativo delle scene, mentre la composizione centrale amplifica notevolmente l'effetto emotivo, come nel caso della lastra con Bhairava (la manifestazione terrifica di Śiva) a quattro braccia incedente, leggermente di sbieco, verso lo spettatore. Le figure delle dee fluviali, alte quasi a grandezza naturale, seppur pesantemente restaurate non hanno perso il loro fascino originario; il trattamento dei volti presenta una caratterizzazione sensuale e altera; il panneggio a grandi pieghe, per quanto stilizzato, mantiene una morbidezza nel modellato che conferisce alle figure una eleganza contenuta.

Le t. provenienti dal Kashmir necessitano ancora di un accurato studio; si ricorda la serie di teste da Akhnur (in realtà in argilla cruda cotta accidentalmente) variamente datate tra il VI e l'VIII sec., dal sofisticato trattamento naturalistico di radice classicheggiante associato a un maturo espressionismo gupta con intense notazioni psicologiche e le lastre con asceti provenienti dal santuario buddhista di Harwan, dove gli elementi figurativi e iconografici più disparati danno luogo a un eclettismo che è caratteristico della cultura kashmira tardo-antica.

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(A. A. Di Castro)

Cina. - La grande abbondanza, la facile reperibilità e la qualità delle materie prime sono tra i fattori che hanno indubbiamente favorito, in Cina e sin dall'età neolitica, lo sviluppo di una fiorentissima ceramica. Al di là della produzione fittile, esemplificata da un'ampia tipologia di vasellame impiegato quotidianamente a fini utilitari o con specifica destinazione funeraria, la t. ha costituito il materiale principale per la realizzazione di numerose classi di oggetti: da componenti utilizzate nell'architettura domestica, palaziale e funeraria (tegole per il rivestimento dei tetti ed elementi di gronda, mattonelle e pilastri decorati a stampo), a oggetti quali lucerne a bracci e incensieri, fino a specifici articoli funerari, i c.d. mingqi, modellini in scala di oggetti ed esseri viventi posti a corredo delle sepolture.

Reperti che possono essere considerati prototipi di quest'ultima categoria sono venuti alla luce in numerosi siti e culture della media e tarda età neolitica (c.a 5000-2000 a.C.). Modellini di abitazioni, magazzini per lo stoccaggio delle derrate agricole e stie per animali dalle forme semplici e di grossolana fattura, sono p.es. stati rinvenuti in siti della Cina orientale, quali Yingpanli (Qingjiang, Jiangxi), Dadunzi (Pixian, Jiangsu) e Shizixing (Weixian, Shandong), mentre uno dei gruppi numericamente più consistenti di figurine in t. lavorate nella forma di animali ed esseri umani proviene da Tianmeiì, Jingzhou (Hubei), sito della cultura Shijiahe fiorita nella media valle del Fiume Azzurro. I reperti provenienti da siti dell'orizzonte Yangshao, nella Cina centrale e nord-occidentale, rivelano una particolare attenzione prestata alla figura umana, trattata spesso con spiccato realismo, come dimostrato p.es. dalla testina da Gaositou (Lixian, Gansu) e dalle maschere in t. in forma di volto umano rinvenute a Huang- ling e Baoji Beishouling (Shaanxi), per citare soltanto due dei tanti reperti contraddistinti da queste caratteristiche. A queste testimonianze possono essere aggiunti i recipienti a forma di bottiglia (pin) con il collo e la parte superiore modellati a tutto tondo nell'aspetto di testine umane, come negli esemplari Yangshao rinvenuti a Lonan (Shaanxi) e a Dadiwan (Qinan, Gansu). Questa tendenza al realismo nel trattamento della figura umana, che non trova riscontri nei manufatti prodotti dalle culture neolitiche della Cina meridionale, la si osserva anche in una particolare classe di reperti risalenti alla cultura Hongshan (c.a 5000-3000 a.C., v.), fiorita nelle regioni nordorientali della Cina. Si tratta di una serie di figurine femminili in t. caratterizzate da addome e seni molto pronunciati, elementi distintivi forse espressione di valori di fecondità e fertilità che hanno meritato a tali figurine steatopigiche il nome di «Veneri cinesi». Tali statuine sono state riportate alla luce in siti considerati «centri cerimoniali» della cultura Hongshan. In uno di questi, Niuheliang (Liaoning), sono anche venuti alla luce alcuni frammenti - il volto, le spalle,. gli avambracci, le mani e i seni - di una grande figurai femminile in t., originariamente collocata nella camera più interna di una serie di ambienti sotterranei: potrebbe trattarsi dei resti di una statua raffigurante una divinità del genere «Grande Madre» che gli archeologi cinesi ritengono occupasse un ruolo di primo piano nelle credenze religiose delle genti Hongshan.

L'impiego della t. nella realizzazione di elementi architettonici con funzione decorativa e ornamentale, modellati o lavorati a incisione con motivi animalistici o esseri mitici, è pienamente attestato in epoca storica, particolarmente a partire dal periodo dei Zhou Occidentali (XI sec. a.C.«770 a.C.). I siti di Fengchucun e Zhaochencun (Fufeng, Shaanxi) hanno restituito le più antiche testimonianze di tegole in t., dalla forma convessa e provviste di elementi per il fissaggio sui tetti. Le estremità di questi, secondo una pratica documentata a partire dal periodo «Primavere e Autunni» (770-475 a.C.) e sulla base di reperti quali quelli rinvenuti a Fengxiang, nello Shaanxi, venivano protette con elementi di gronda in t. sagomati in forme circolari o semicircolari, decorati - specie se utilizzati per ornare i tetti di importanti edifici - con motivi simbolici geometrizzanti o a sfondo animalistico. Degni di nota per l'unicità che li contraddistingue sono i doccioni a forma di mitici animali con le fauci spalancate rinvenuti a Xiadu, sito della capitale del regno Yan, epoca degli Stati Combattenti (475-221 a.C.), da cui provengono anche numerose tegole decorate con motivi derivati dalla maschera taotie (v.) tipica del repertorio figurativo Shang.

Un'ampia varietà di componenti architettoniche e materiali edilizi in t. è stata riportata alla luce in siti del periodo Qin (221-207 a.C.) e in particolare a Xianyang e a Lintong (Shaanxi). Nel primo, dove sono stati individuati i resti di grandi strutture palaziali fatte qui edificare dal primo imperatore, Qin Shi Huangdi, sono venuti alla luce numerosi mattoni pieni e cavi, a decorazione stampata o incisa, utilizzati per rivestire le pareti e i pavimenti degli ambienti più importanti, in argilla pressata. I motivi decorativi comprendono temi geometrici ripetitivi creati dalla combinazione di quadrati concentrici, cerchi e losanghe: di rilievo è anche una serie di frammenti di grandi lastre cave in t. decorate a incisione con draghi e fenici, utilizzate per ricoprire le pareti degli ambienti.

Ancora a Lintong sono state riportate alla luce le migliaia di statue di guerrieri in t., a grandezza naturale, poste a guardia della sepoltura di Qin Shi Huangdi e disposte in formazione da battaglia entro una serie di fosse pavimentate con mattoni cotti. L'argilla utilizzata come materia prima nella produzione delle statue veniva prelevata dal vicino Monte Li e lavorata sul luogo, dove sono state anche rinvenute le fornaci per la cottura delle statue. Dopo la mescolatura iniziale dell'argilla, da questa venivano ricavate strisce dalle quali si ottenevano, mediante stampi, le parti costituenti i corpi dei soldati e dei cavalli. Una volta assemblati insieme gli elementi componenti le statue, queste venivano cotte e infine dipinte a secco con colori diversi, mentre i volti dei guerrieri venivano modellati o ritoccati separatamente, sì da conferire loro maggiore individualità. Le statue ritraggono infatti i singoli soldati dell'esercito, ognuno diversamente caratterizzato nel profilo del volto e nei dettagli degli occhi, della bocca, degli zigomi, dell'acconciatura: quest'ultima è utilizzata anche per differenziarne il grado, ancor più evidente dall'abbigliamento e dalle diverse armature, curate con non minore precisione dei volti. Questo accentuato realismo è fenomeno praticamente unico, su scala così vasta, nella coroplastica e in generale in tutta l'arte della Cina pre-Qin, e ben a ragione l'armata di t. viene considerata come la vetta raggiunta dalla statuaria cinese antica. La destinazione prettamente funeraria di questa immensa opera - la cui realizzazione richiese anni di lavoro e centinaia di operai guidati da esperti artigiani - e la caratterizzazione delle singole figure sono elementi che ricorreranno, in gradi ed epoche diverse, nella statuaria cinese delle epoche successive.

L'armata di Qin Shi Huangdi costituì il modello ispiratore di successivi eserciti di guerrieri in t., tuttavia di dimensioni e consistenza numerica assai più ridotte, posti a corredo delle sepolture nobiliari del periodo iniziale della dinastia degli Han Occidentali (206 a.C.-9 d.C.). Numericamente secondo per grandezza a quello del Primo Imperatore è l'esercito, composto da 4.000 unità, rinvenuto nei pressi di Xuzhou (Shandong) vicino alla tomba di un principe ereditario del fondatore della dinastia Han, Liu Bang, mentre un secondo esercito, nel quale spiccano reparti di cavalleria e costituito da 2.500 soldati in t. dipinta, è stato riportato alla luce a Yanjiawang (Xianyang, Shaanxi). Numerose sono anche le figurine in t. scavate nei dintorni di Xi'an e in prossimità delle tombe degli imperatori Jing Di (157-141 a.C.) e Xuan Di (73-49 a.C.) della dinastia degli Han Occidentali. Alte in media 50-60 cm e caratterizzate da dettagli anatomici ben curati, raffigurano, probabilmente, guerrieri e servitori: nella maggior parte sono sprovviste degli arti superiori che, mobili e snodabili, potevano essere fissati all'altezza delle spalle.

A partire dal periodo tardo degli Han Occidentali le figurine in t. costituenti reparti militari ed eserciti in formazione da battaglia diminuiscono sensibilmente per lasciare il posto, nei corredi funerari, a mingqi ispirati alla vita della corte e della nobiltà del tempo. Musici e danzatrici, giocolieri e acrobati, damigelle e attendenti, cucinieri e inservienti, ma anche animali quali cavalli e cani, compaiono frequentemente nelle sepolture del periodo, restituendoci una vivida immagine del mondo Han e fornendoci preziose indicazioni su molteplici aspetti della vita quotidiana e della cultura materiale del tempo. Statuine in t. di questo tipo sono state riportate alla luce su quasi tutto il territorio cinese: per quanto non eccessivamente divergenti dal punto di vista tipologico e iconografico, sul piano stilistico si riscontrano sensibili variazioni da regione a regione. Gli esemplari rinvenuti in tombe della Cina centrale sono, p.es., spesso caratterizzati da una ricorrente standardizzazione nel trattamento dei corpi e nelle espressioni dei tipi umani raffigurati, anche se l'ampio impiego di colori (bianco, rosso e nero i dominanti) utilizzati per enfatizzare dettagli degli abiti e dei visi conferisce loro una certa vivacità. Al contrario, le statuine in t. prodotte nella provincia sud-occidentale del Sichuan si distinguono per la maggiore cura dei dettagli, la vivacità delle espressioni e l'accentuata caratterizzazione di ciascun personaggio in esso raffigurato: esemplificative in questo senso sono le statuette, alte dai 50 ai 70 cm, di cantastorie, intrattenitori, suonatori di flauto e della cetra-qin rinvenute nei distretti Pixian, Xinduxian, Emeixian e Leshan.

Sempre da sepolture Han del Sichuan individuate nei distretti di Xindu, Deyang, Pengshan e Guanghan provengono numerosi bassorilievi in t. decorati con soggetti ispirati alla vita contadina e alle attività artigianali delle classi più umili. Diffuse sono le scene di caccia e di pesca o quelle di attività agricole, dall'aratura dei campi alla semina, alla sarchiatura, al raccolto dei cereali; interessanti sono anche le raffigurazioni delle fasi relative alla lavorazione della seta, dalla raccolta dei bachi al trattamento del filo, alla tessitura effettuata su complessi telai. Al pari delle figurine funerarie, questi rilievi in t. costituiscono una fonte preziosa e insostituibile di informazioni su aspetti della vita e cultura Han, ivi comprese le credenze religiose e le concezioni sul mondo dell'aldilà. Non mancano infatti rilievi in t., come quelli rinvenuti nei dintorni della città di Chengdu, sui quali sono raffigurate divinità quali Xi Wang Mu, la «Regina Madre dell'Occidente», seduta in trono e accompagnata da animali, personaggi mitici o le personificazioni del sole e della luna. Altri reperti in t. sempre ispirati al mondo religioso sono invece costituiti da incensieri modellati nella forma delle c.d. isole degli immortali, come l'esemplare scavato a Xigong, nei pressi di Luoyang, che costituisce una variante in un materiale più «povero» di oggetti analoghi in bronzo ageminato. Una menzione meritano anche i c.d. baihuadeng, «candelabri dei cento fiori», lampadari in t. dalla struttura elaborata, come l'esemplare scoperto nel 1972 in una tomba Han a Jianxi Qilihe, nei pressi di Luoyang. Da una base tronco-conica popolata di animali e personaggi modellati singolarmente e applicati sulla superficie, si diparte un alto stelo centrale dal quale si dirama una serie di bracci terminanti in lucerne: sui bracci del candeliere trovano posto un insieme di xian, o «immortali» (v.), riconoscibili dalle ali che ne ornano le spalle. Lucerne funerarie in t., analoghe a questa, sono piuttosto comuni soprattutto in tombe del periodo degli Han Orientali (25-220 d.C.) e molto spesso assumono la forma di mitici animali che reggono il piatto della lucerna, quali draghi attorcigliati o felini alati dall'aspetto minaccioso, i c.d. bixie.

Informazioni sull'architettura del periodo Han, di cui nessuna evidenza diretta è giunta fino a noi, provengono ancora una volta da reperti in t., rilievi con rappresentazioni di edifici e modellini in scala di abitazioni del periodo. La t. fu comunque anche largamente impiegata come materiale per la realizzazione di numerosi elementi dell'architettura funeraria, quali mattoni e lastre cave sulle cui superfici si articolava 1'imimaginario del periodo. I mattoni venivano frequentemente decorati sia a stampo sia, con metodo meno industriale, mediante pittura, con scene di vita domestica, agricola, processioni rituali e soggetti tratti dalla sfera religiosa. Le lastre venivano invece inserite lungo i muri delle sepolture, utilizzate come architravi delle entrate o poste al centro delle tombe per sostenerne la copertura. I pilastri in t. erano impiegati per fiancheggiare le entrate o sorreggere le lastre cave: i lati dei pilastri sono decorati a impressione con semplici motivi geometrici, scene funerarie, animali mitici, mentre la parte superiore è solitamente modellata in figure grottesche con funzione di cariatidi. Modellini in t. raffiguranti abitazioni padronali, torri di guardia, case di campagna, granai, mulini, pollai, sono assai comuni nelle sepolture risalenti al periodo degli Han Orientali. La varietà tipologica degli edifici riflette anche un diffuso regionalismo, con una differenziazione tra il Nord e il Sud del paese nel tipo di modellini posti nel corredo funerario: dalle sepolture delle provincie meridionali (Hubei, Hunan, Guangxi, Guangdong e Sichuan) provengono numerosi modelli di strutture abitative complesse e articolate, costituite da più edifici riuniti attorno a una corte centrale circondata da mura e alla quale si accedeva attraverso un elaborato portale d'ingresso; le tombe Han delle provincie settentrionali (Hebei, Henan e Shaanxi) hanno invece restituito un consistente numero di c.d. case-torri, modelli raffiguranti alti edifici a più piani, nella forma di torri protette alla base da un muro di cinta o collocate entro ampi bacili ove sono frequentemente raffigurati animali e uccelli acquatici. I vari livelli in cui si articolano questi modellini, alcuni dei quali alti anche oltre un metro, sono vivacizzati dalla presenza di raffigurazioni in t. di personaggi in atteggiamento formale, soldati armati di balestre, musicisti e danzatori simboleggianti i piaceri della vita, la difesa da influenze malefiche e il richiamo a eroi mitologici per garantire al defunto serenità e protezione nell'aldilà.

L'usanza di deporre modellini architettonici nelle sepolture scompare con la fine della dinastia Han, ma la produzione di figurine funerarie in t. conosce un ulteriore sviluppo, sul piano iconografico, stilistico e tecnico, sotto le dinastie del Nord e del Sud (265-581 d.C.), Sui (581-618 d.C.) e Tang (618-907 d.C.). Durante questi periodi si consolida nell'uso una particolare tipologia, quella dei guardiani delle sepolture noti come zhenmushou, mostruosi ibridi con caratteristiche teriomorfe e umane insieme, la cui origine è da far risalire alle sculture lignee raffiguranti esseri e divinità dell'oltretomba che proteggevano le tombe dello stato meridionale di Chu all'epoca degli Stati Combattenti. È comunque solo dal VI sec. circa che i zhenmushou vengono affiancati, nelle sepolture nobiliari, dagli andun wushiyong, figure in t. di guerrieri corazzati in posa stante e con una mano poggiata sull'alto scudo che li protegge. L'evoluzione tipologica di questi guardiani culminerà nei c.d. Re celesti del periodo Tang, derivati dai lokapāla buddhismi e raffigurati in atteggiamento minaccioso su basi a forma di roccia, privi dello scudo ma armati di lance o spade.

Accanto ai guardiani delle sepolture, le statue e statuette funerarie dell'epoca Tang contemplano una varietà di personaggi che riflettono gli ampliati orizzonti culturali e territoriali della Cina di allora, e l'estensione dei contatti con genti e popoli diversi favoriti dai traffici commerciali lungo la «Via della seta». Sculture in t. di cavalli del Ferghāna con i rispettivi palafrenieri, spesso fisiognomicamente caratterizzati a seconda del paese di provenienza; teorie di cammelli con i loro carichi; musici, danzatori dell'Asia centrale e mercanti stranieri affiancano, nelle tombe Tang, raffigurazioni di dame e intrattenitrici di corte con elaborate acconciature, ufficiali civili e militari in atteggiamento ieratico, giocatrici di polo, gruppi di musici, danzatrici e nani nei quali si manifesta la vivacità e l'esotismo della corte Tang. Alle tradizionali tecniche di manufattura - realizzazione mediante stampi del corpo delle figure, mani e teste modellate separatamente, Volti dipinti a secco - in epoca Tang si affianca l'uso di ricoprire le immagini con invetriature a base di piombo e ossidi di metallo che producono un effetto caratteristico noto come sancai, «tre colori».

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