TERRAMARE

Enciclopedia Italiana (1937)

TERRAMARE

Ugo RELLINI

. Voce dialettale nell'Emilia, corruzione di "terre-marne" o "marne"), usata per indicare ammassi di terra nerastra e grassa: questi ammassi in origine si presentavano per lo più come monticelli di 2-4 metri d'altezza, talvolta erano invece interrati e si solevano in passato scavare per adoperare la terra come concime naturale. Un grandissimo numero di essi è così andato distrutto.

La frequenza, in codesti ammassi, di relitti varî, attrasse l'attenzione di qualche erudito. Per il primo ricordò le terramare G.B. Venturi nella sua Storia di Scandiano, nel primo quarto dell'Ottocento. Si credettero luoghi di sacrifici dei Galli Boi, per quel che ne aveva detto Cesare, o tombe dei loro capi, o fosse comuni (puticoli) d'età romana, o ustrini, come sempre sostenne Celestino Cavedoni, opponendosi alle nuove idee, o anche fani rurali.

Gli studî scientifici incominciarono per opera di Bartolomeo Gastaldi, nel 1860, con la pubblicazione di una nota sugli oggetti trovati nelle marniere e torbaie d'Imola, Modena, Parma, Lombardia. L'anno appresso Pellegrino Strobel annunciava la scoperta di una terramara con palafitta a Castione dei Marchesi (Parma). Nel 1862 lo Strobel e Luigi Pigorini pubblicavano la loro prima memoria. Gli scritti fondamentali di Gaetano Chierici sono del 1871 e del 1881. Il Chierici e il Pigorini dovevano divenire gl'indagatori instancabili e fortunati di questo capitolo della preistoria. Il nome di "terramara" venne presto ristretto a stazioni soltanto dell'età del bronzo, che avessero una determinata struttura.

Struttura delle terramare. - Nella mancanza di una trattazione generale, che raccolga tutti i dati e i documenti essenziali, occorre tenere presenti le osservazioni, che si sono fatte sulla struttura delle terramare più notevoli, sulle quali specialmente si è fondata la teoria.

Diamo il primo posto a quella di Castellazzo di Fontanellato (Parma), nella quale il Pigorini eseguì estesi scavi dal 1886 al 1896, pubblicandone la pianta definitiva nel 1897.

Risultò che essa aveva figura trapezia con l'angolo acuto a SO.; coprendo una superficie di ha. 19,5525, era la più grande di tutte le terra-mare, straordinaria anche nei particolari. Era circondata da una fossa larga m. 30, con la profondità massima di metri 3,50. L'angolo acuto rappresenta il partitore dell'acqua che, dedotta mediante l'incile da un torrente vicino, la Fossaccia, dopo aver circolato nella fossa perimetrale, usciva dall'emissario, sul lato orientale della stazione. L'emissario era profondo appena m. 0,60 e ciò si era voluto per mantenere tre metri d'acqua nella fossa perimetrale. Oltre la fossa, si aveva l'argine di terra, anch'esso a figura trapezia. Parzialmente guasto dai lavori agricoli, il Pigorini ne suppose l'altezza in m. 2 dal vergine: la base era larga m. 15. Si accedeva alla stazione mediante un ponte, nel lato sud, di cui restava la base, costruita di legnami adagiati sul fondo della fossa, base che misurava il doppio, cioè m. 60, della strada corrispondente. L' interno della stazione era diviso in insulae, anzitutto da due grandi vie, normali tra loro, che, per analogia a quelle della castrametazione romana, si dissero cardine, da S. a N., largo m. 15, e decumano da E. a O., largo m. 7,50. Si vedeva in ciò una norma seguita più tardi dai gromatici (decumani secundum solis decursum diriguntur). Si avevano inoltre due cardini minori e quattro decumani minori, in tutto otto strade. Le strade si presentavano come argini di terra battuta, ma probabilmente alla terra erano misti fascinaggi. Le insulae erano pertanto bacini chiusi, nei quali si piantavano pali che, su un impalcato, reggevano le case. Di queste, né al Castellazzo né altrove si poté verificare la forma, ma, per analogia con le urne-capanne dell'età del ferro e con il tempio di Vesta, si suppose che fossero rotonde. Sull'impalcato si doveva avere uno strato sabbioso: da una botola si ritenne che si dovessero gettare nello spazio sottostante i rifiuti. Con ciò si spiegava perché il deposito terramaricolo si trovasse a cumuli leggermente stratificati, con interruzioni rispondenti alle strade. Particolari importantissimi furono dal Pigorini rilevati nel mezzo della parte orientale della terramara, presso l'incrocio delle due vie maggiori. Qui esisteva una specie di terrazza, di figura rettangolare, di m. 100 x 50, di terreno naturale, accumulato dall'uomo e sostenuto da pali e da fascine. Era esso circondato da una fossa, larga m. 30, valicata su tre lati da tre ponti lignei. Quest'area limitata fu detta dal Pigorini arx o templum. Scavando lungo il suo asse medio minore, egli trovò un fosso, in fondo al quale si aprivano cinque pozzetti, che erano scavati nel vergine e contenevano valve di unio pictorum, pochi frammenti di stoviglie terramaricole, qualche selce, qualche osso di bruto. Il Pigorini paragonò codesti pozzetti ad alcuni consimili trovati da L. Jacobi in due castri romani della Germania, e li spiegò come una testimonianza delle operazioni compiute al momento dell'impianto della stazione. Presso la stazione, all'esterno, stavano due aree circondate da fossa: una restò inesplorata, l'altra diede cocciame di rozzi vasi. Si videro in esse due necropoli di combusti e si ritenne che i cinerarî fossero messi su un impalcato sostenuto da pali, per analogia alla struttura della stazione: è evidente che le intemperie li avrebbero facilmente spezzati. La collocazione, esterna alla stazione, richiamò la norma in urbe hominem mortuum neve sepelito neve urito.

La struttura completa di Castellazzo non si ritrovò più, ma altre terramare tuttavia presentarono particolari del più grande interesse che indubbiamente corrispondono e si legano a quelli riscontrati al Castellazzo. Sono fondamentali le stazioni seguenti: Castione dei Marchesi (Parma), scoperta dallo Strobel nel 1861, scavata più tardi dal Pigorini. Qui per la prima volta si osservò, ben conservata, la palizzata. Il Pigorini constatò l'esistenza di più strati: i due più bassi rappresentavano due terramare successive. I pali della prima, lunghi m. 2, erano piantati nel terreno vergine; i pali della seconda non raggiungevano il vergine, benché fossero lunghi m. 3, 10. Si trovarono nella prima e nella seconda terramara linee nere carboniose e uno strato di calcare cotto: incendî erano dunque avvenuti nella stazione.

Già in qualche altra terramara si era osservato che la fronte interna dell'argine era verticale: a Castione, un particolare notevolissimo diede la spiegazione del fatto. Si scoprì che per sostenere l'argine erano addossati, alla parete interna, gabbioni quadrangolari fatti di travicelli squadrati, incastrati fra loro e riempiti di ciottolame per la terramara inferiore, di argilla per la superiore. La figura della stazione, non potuta bene determinare perché l'argine era guasto, fu forse rettangolare. Avverte il Pigorini che qui, come in altre stazioni, non si riconobbero strade; ciò è singolare per Castione dove il legname era ben conservato, tanto che molta suppellettile di legno fu ricuperata. Fu in questa terramara che le geniali osservazioni del Pigorini permisero di asserire che la palafitta non era stata impiantata in un terreno perennemente allagato (quasi ricordo degli antichi palafitticoli lacustri), come aveva creduto il Chierici.

Ciò specialmente si dedusse dalle osservazioni delle larve di varie specie di ditteri, raccolte dal Pigorini e studiate dall'entomologo Rondani, e fu confermato da quanto si vide in seguito al Castellazzo.

Montata dell'Orto (Piacenza).- Esplorata da Luigi Scotti, nel 1897-1898. È nel comune di Alseno, sulla vetta di un monticello, elevato poco più di una ventina di m. sul piano di campagna. La fossa stava al piede del colle. Era larga m. 15, profonda m. 4. La sua sponda interna era rivestita di ciottoloni affinché il colle non smottasse. La stazione occupava la spianata superiore del colle ed era di pianta trapezoidale, estesa per mq. 13,775 e recinta dall'argine, la cui fronte interna verticale faceva ritenere che pur qui, come a Castione, fosse stata rafforzata con gabbioni lignei, andati distrutti. In due punti lo Scotti incontrò un fossatello, largo m. 0,45, profondo m. 0,45, colmato di terriccio misto a piccoli ciottoli e frammenti di stoviglie terramaricole: lo ritenne il "solco primigenio", aperto all'impianto della stazione. Sulla pianta è segnata una via, il cardine, ma non si notarono altre vie. Lo Scotti riconobbe a E. l'area limitata o arx, e in essa la fossa mediana, in fondo alla quale erano 5 pozzetti quadrati (m. 5 × 2,50 di profondità), contenenti lo stesso materiale del solco primigenio: frammenti di stoviglie, schegge silicee, ossa spaccate, ciottoli. L'arx non era circondata da fossa. Lo Scotti, allievo e collaboratore del Pigorini, indagò con molta abilità; ma non molto estesi furono i suoi saggi, condotti in otto punti; sarebbe stata opportuna un'esplorazione più completa di questa interessante stazione, poiché da essa si dedusse l'identità di tutte le terramare, fossero in pianura o in collina.

Prima di quella di Montata dell'Orto, lo Scotti aveva esplorato un'altra interessante stazione a Rovere di Caorso, nella bassa piacentina a 14 km. da Piacenza. Benché gli scavi non fossero potuti essere estesi, tuttavia si determinò la figura trapezoide della terramara, con i lati più lunghi di m. 150 e m. 170: l'area coperta era di mq.200.640. Fossa ed incile erano larghi m. 10. Mediante trivellazioni, lo Scotti scoprì l'area limitata, rettangolare, di m. 50 x 25, circondata da fossa larga m. 10, profonda m. 6; era alquanto spostata a S.; nell'asse scoprì 5 pozzetti. Il decumano e il cardine si rilevarono soltanto mediante un saggio eseguito nel centro della stazione, dove sarebbe dovuto essere il loro incontro. Poiché l'arce era spostata verso S., sarebbe dovuto essere spostato anche il decumano, ma ciò non appare nella pianta prodotta. Partendo da una supposizione fatta dal Bandieri a Bellanda cui aveva aderito il Chierici, lo Scotti ritenne di avere incontrato a Rovere il solco primigenio avendo in due punti opposti veduto, presso l'argine, la sezione di un incavo regolare largo cm. 50 e profondo cm. 30.

Zaffanella presso Viadana (Mantova). - Esplorata da Antonio Parazzi, che ne pubblicò nel 1886 una chiara relazione. È un quadrilatero appena trapezoide, con i lati più lunghi di m. 70 e 73; si riscontrò la fossa perimetrale larga m. 10,40, profonda m. 2. L'argine aveva tre strati, dovuti a successivi rincalzi. Non si riscontrarono altri particolari, ma a dir vero l'esplorazione non fu terminata, poiché l'attenzione dell'esploratore fu attratta da un altro fatto, ch'egli esaminò con cura. Sotto un lembo della terramara stava un'altra stazione, che accennava a estendersi maggiormente e si distingueva nettamente dalla terramara perché era immersa in una torba oscura e compatta. Questa stazione inferiore, che l'autore chiamò "palustre", mostrò numerosissimi pali e relitti abbondanti, quali selci a fini ritocchi, macine e macinelli, lisciatoi, coti, cunei di arenaria, oggetti di legno e di corno cervino, ceramica provvista di anse con cornetti rudimentali; una cultura pertanto non dissimile da quella terramaricola. Gli argini della terramara erano sovrapposti alla stazione palustre, evidentemente più antica.

Si deve avvertire che a Roteglia (Reggio nell'Emilia) e a Bellanda (Mantova) il Chierici aveva notato che un lembo sottile del terreno terramaricolo s'insinuava sotto gli argini e lo ritenne il segno della prima occupazione del luogo per opera delle famiglie che dovevano costruire la stazione. La stessa constatazione faceva il Coppi a Gozzano di Modena dove si trovarono pali sotto l'argine.

Montale (Modena). - Perfettamente intatta, scoperta da Carlo Boni nel 1868. Era irregolarmente circolare, con l'area di mq. 9000. L'argine era alto m. 3,50 sul piano di campagna e mostrò di essere stato fatto in due tempi. Non si osservò la fossa perimetrale. Si scoprì invece una fossa che attraversava, serpeggiando, tutta la stazione dividendola in due parti disuguali. Era essa contenuta tra due ripe a scarpata e vi scorreva acqua perenne, derivata forse dal vicino fosso di Grizzaga. Essendosene osservato l'ingresso e l'uscita dalla stazione, parrebbe di dover escludere l'esistenza della fossa perimetrale esterna. Si osservò che i pali; piantati senz'ordine, erano più numerosi verso l'argine, mentre si rarefacevano andando verso il centro, dov'era qualche spazio del tutto libero di pali e di relitti. (Era forse destinato a raccogliere gli animali nella notte?).

Constatazioni. - Riassumendo tutti i dati fin qui accertati per le varie terramare, registreremo che:

L'argine si vide nelle terramare di Castellazzo, Castione, Casaroldo (Parma); Zaffanella, Cogozzo, Bellanda (Mantova); S. Caterina (Cremona); Montata dell'Orto, Rovere di Caorso (Piacenza); Roteglia, Montecchio (Reggio nell'Emilia); Montale, Savana del Cibeno (Modena). A Bellanda l'argine era alto solo m. 0,80; in altri casi non superava l'altezza di 2-3 m. La figura ne appare trapezia a Cogozzo, Castellazzo, Rovere, Montata; quadrata-trapezoide a Zaffanella; rettangolare a Casaroldo, Monte Venere, Castione, forse a Bellanda, S. Caterina; mentre invece è irregolarmente circolare a Montale.

La fossa perimetrale si riscontrò quasi altrettante volte a Castellazzo, Castione, Casaroldo, Montecchio, Roteglia, Rovere di Caorso, Montata dell'Orto, Bellanda, Cogozzo, Savana del Cibeno.

Cardine e decumano si videro a Castellazzo. Per Bellanda furono solo annunciati in una lettera del Bandieri; a Rovere di Caorso forse il decumano esistette in corrispondenza della posizione dei pozzetti, ma non poté dividere la stazione in due metà, essendo l'arce spostata verso S., e a ogni modo né il decumano né il cardine furono bene individuati. A Bellanda si vide solo il cardine. La distribuzione in insulae si osservò solo a Castellazzo.

La palafitta si osservò bene in tre casi: Castione dei Marchesi; Parma città, S. Ambrogio (Modena) per la quale ultima niente altro si sa. In altri casi se ne ebbero tracce più o meno evidenti. A Castione essa fu rialzata due volte; a Parma, e forse a Casaroldo, tre volte. Si spiegò il fatto osservando che l'accumulo dei rifiuti, il fetore, gl'insetti brulicanti, dovevano costringere a incendiare la stazione per costruirne un'altra soprastante.

L'arce fu osservata in complesso quattro volte, cioè al Castellazzo, alle Colombare di Piacenza, a Rovere di Caorso, a Montata dell'Orto. Non sempre era circondata da fossa. Alle Colombare si trovò in posizione insolita, cioè vicino alla fronte meridionale della stazione. Si pensò che l'arx servisse come luogo di raduno o di mercato; fors'anche, nella notte, poté servire, come pensò G. De Mortillet, a raccogliere il bestiame, che non si poteva lasciare fuori, dove scorrazzavano i lupi.

I pozzetti entro la fossa scavata nel mezzo dell'arce, si osservarono tre volte: al Castellazzo dal Pigorini, poi a Rovere di Caorso e a Montata dell'Orto dallo Scotti. Si ravvicinarono al mundus dei Romani. Qualche autore si è domandato se non fossero rituali o augurali, aperti all'impianto della stazione, anche certi singolari pozzetti trovati qualche volta in abitati neolitici (Campeggine, Reggio nell'Emilia, Vho, Cremona), profondi oltre 4 m., assai stretti, talora con una chiusura lignea a una certa profondità, dei quali non si riuscì a comprendere la destinazione pratica. In tal caso si potrebbe essere indotti a credere che la pratica di tali pozzetti non si fosse per la prima volta introdotta dai terramaricoli.

Riguardo al solco primigenio e alla orientazione delle stazioni, forse si può avanzare qualche riserva, stante lo scarso numero delle osservazioni. Il solco fu veduto due volte e molto limitatamente solo dallo Scotti, a Rovere di Caorso e Montata dell'Orto. L'esploratore non ne seguì il percorso per metterlo in evidenza. Come si aprì e come si mantenne distinto? L'orientazione si ritenne dal Pigorini per 5 casi: Castellazzo (22 febbraio o 22 settembre); Castione (9 marzo o 18 giugno; fu però fatta riserva dallo stesso Pigorini); Bellanda (25 febbraio o 19 ottobre); Zaffanella (4 aprile o 2 settembre); Cogozzo (25 febbraio o 19 ottobre). Si disse che l'orientazione era primaverile o autunnale, ma i casi osservati sono pochi.

Suppellettile e vita terramaricola. - La suppellettile delle terramare è svariatissima in confronto con quella dei neolitici. Le selci lavorate sono scarse, ma non assenti. Taluna poté essere elemento di una sega o falce con manico ligneo, di cui si può avere idea da esemplari completi delle torbiere di Polada e Solferino. Largamente in uso la lavorazione del corno cervino, per zappette, spatole e spatolette, cuspidi per le frecce, rotelle per teste di spilloni, ecc. Di osso si fecero pettini (numerosi) e manichi; di legno, spatole, spatolette, cestelli, forse cavicchi, ecc. Notevoli i bronzi: accette piatte con i margini rialzati; accette ad alette; coltelli, pugnali, spade che avevano il manico incrostato d'osso, decorato di cerchielli incisi; cuspidi di freccia; spilloni, da ritenersi destinati ad appuntare le vesti, piuttosto che aghi crinali, anche per il fatto che manca la fibula (la fibula micenea ad arco di violino appare al chiudersi delle terramare); la testa degli spilloni è svariata, meno tuttavia che nelle palafitte svizzere; da notare i "rasoi" quadrangolari, d'ignoto uso; pendagli varî; falcetti; armi. Alcuni bronzi, ma non moltissimi, ripetono le forme delle palafitte svizzere, il che dimostra scambî commerciali.

La ceramica è, generalmente, rozza; pochissimi gli esemplari migliori, tra cui sono le capeduncole carenate, con la caratteristica ansa lunata, le cui forme più belle stanno nelle marniere modenesi, meglio ancora nelle stazioni appenniniche delle Marche che ne contengono le serie più ricche e più svariate. Non si trovarono amuleti; la plastica si riduce a taluni maialetti fittili. Vasetti minuscoli, come quelli di stipi tarde, per taluni autori sono oggetti votivi, di un culto domestico.

Gli abitatori delle terramare praticarono la fusione, come dimostrano le matrici. Un corno fittile, ritenuto strumento musicale dei terramaricoli, proviene invece dalla stazione extraterramaricola di Gottolengo (Brescia); è, secondo altri autori, affine alle tuyeres dei fonditori, e infatti se ne trovarono insieme con forme fusorie, e abbondanti bronzi, anche nella stazione extraterramaricola di Toscanella Imolese. Furono agricoltori, cacciatori, allevatori di bestiame: non trascurarono la pesca. Non si sa se possedessero il carro o la carriola, per i loro grandi lavori di terra. Il Pigorini lo suppose, non infondatamente, osservando assi abbandonate sul suolo più profondo della terramara di Castione. (D'altronde due ruote ha restituito la torbiera di Mercurago, presso Arona).

Ignoriamo se avessero l'aratro, che poté anche essere un semplice legno curvo (ἄροτρον ἀυτόγνον di Esiodo). Le spatole lignee più grandi, tanto frequenti (al Montale, in breve spazio, se ne raccolsero 109) poterono servire a rimestare o prendere ghiande o semi infranti.

Conoscevano la vite, almeno selvatica, ma non sappiamo se facessero il vino. (Un liquido fermentato ebbero, molto probabilmente, le genti coeve appenniniche, come sembra accennare un loro caratteristico vaso con becco-ansa, ignoto nelle terramare). I vasi con pareti traforate accennano alla fabbricazione del formaggio. Avevano tre razze di cani domestici (Canis Spalletti; C. palustris; C. matris optimae), che dimostrano la caccia e l'allevamento del bestiame. Possedevano, infatti, la pecora (Ovis aries), due razze di bovi, l'uno di grande statura, l'altro piccolo (Bos primigenius, B. brachiceros); il porco, di razza speciale brevimuso (Sus palustris). Forse domestici erano l'asino e il cavallo, di cui non sono rari i resti, mentre taluni oggetti di corno lavorato s'interpretano come "montanti" di freni. Una tibia canina, trovata al Montale, aperta ai due capi e con tre fori, è da ritenere uno zufolo. Non sappiamo nulla delle vesti. La presenza di semi di lino, lo sterminato numero delle fuseruole (che peraltro furono anche grani di collana), un frammento di tessuto, trovato nella torbiera di Lagozza (Gallarate), fecero sospettare che non ignorassero il filare e il tessere. Un gancio di corno, di Castione, ha fatto ritenere che avessero cinturoni.

Sepolcreti. - Si attribuirono ai terramaricoli i sepolcreti di combusti, trovati nelle regioni dove si scoprirono le terramare, e anche quelli trovati nel Bolognese dove si indicarono tracce di due stazioni ritenute terramare, non però esplorate. Nell'ordine della loro scoperta si conoscono i sepolcreti seguenti, purtroppo nessuno compiutamente esplorato: Bovolone (Verona); Monte Lonato, Pietole (Mantova); Crespellano (Bologna); Casinalbo e Trinità (Modena); Capezzato e Castellazzo (Parma). Gli ossuarî, dapprima non sono altro che i comuni vasi d'uso. È nel periodo di transizione verso l'età del ferro (Bologna-S. Vitale; Pianello di Genga) che accennano timidamente le fogge villanoviane. Si ponevano nel terreno costipandoli in breve spazio, talvolta in due strati sovrapposti. Generalmente non contenevano che le ceneri del morto: qualche rarissimo oggetto di ornamento personale evidentemente si raccolse con l'ossilegium. Non si può parlare di corredo funebre. Fanno eccezione i sepolcreti trovati presso Monza, e alla Scamozzina presso Milano, attribuiti a tardi discendenti da palafitticoli.

Teoria terramaricola. - Venne enunciata in modo compiuto da Gaetano Chierici fino dal 1871; importantissimo è anche il suo scritto del 1881. Egli anche asserì l'attribuzione delle terramare agl'Italici perché ritenne che tutte, senza eccezione, avessero la "quadratura orientata", e quindi le confrontò con la pianta degli accampamenti militari romani e delle antiche città, fondate con rito etrusco. La sostennero con fortuna il Pigorini, aggiungendo le scoperte di Castellazzo, e W. Helbig. La teoria ebbe il favore della grande maggioranza dei dotti, primi i linguisti, che videro in essa un appoggio archeologico all'idea della derivazione della lingua italica dal Ceppo indo-ario, come allora si diceva. Dissentirono E. Brizio, G. Sergi, G. Patroni, C. A. De Cara.

Non sarebbe possibile entrare qui nel lungo e grave dibattito. Basti almeno accennare che il Brizio ritenne che neolitici e terramaricoli fossero lo stesso popolo in sedi e tempi diversi. Idea troppo semplicista, in quanto non tiene conto degli elementi allogeni penetrati nella compagine delle popolazioni subalpine e con esse fusi, e anche filtrati, più radi ma più varî, nella massa delle genti appenniniche. G. Sergi asserì che la struttura delle terramare dipendeva dal fatto che su quegli abitati si era sempre impiantato un accampamento romano, con le sue norme precise, ma ciò non si poteva ammettere perché non si sarebbero certo potuti modificare gli strati profondi; d'altronde mancavano alle deduzioni dell'antropologia gli scheletri, distrutti dalla cremazione, e ciò dava buon giuoco agli oppositori. Obiezioni sulla struttura fece G. Patroni, che negò l'orientazione, canone fondamentale della teoria. Il De Cara mostrò l'anacronismo che riferiva ai terramaricoli padani l'appellativo di "Italici" nato molto più tardi e in un diverso ambiente e però P. Orsi, pur senza fare opposizione decisa, avvertiva che l'attribuzione delle terramare agl'Italici era puramente convenzionale.

Si deve avvertire che struttura e quadro culturale delle terramare, loro provenienza, loro attribuzione etnica, sono altrettanti problemi che dovrebbero essere discussi separatamente. È anche a ritenere che nuovi scavi e nuove ricerche potranno fornire nuovi dati.

Per la struttura, si deve dire che non fu esatto affermare sempre, per tutte le terramare, l'assoluta identità e l'immutabilità: lo avvertì lo stesso Strobel. Il Chierici aveva affermato (Bull. Paletn. It., 1881) che dai terramaricoli non si potevano "né spostare, né oltrepassare i limiti dall'origine fissati", sicché "gli argini restarono confini sacri e inviolabili come il pomerio", quindi la necessità e l'origine del ver sacrum. Ma nella conclusione di quel suo stesso scritto egli presenta constatazioni che notevolmente modificano e attenuano la rigidezza teorica. Pone in rilievo che nelle terramare di Bellanda e di Villa Cappelli, sull'Osone, come in altre emiliane, egli ha riscontrato l'esistenza di uno strato di terramare che sta addossato all'esterno dell'argine, quale "espandimento o rigetto" della terramara, e già in altro suo lavoro aveva interpretato questo fatto come "un ingrandimento dell'abitazione fuori del bacino" sul terreno naturale. Le poche terramare più complete sembrano salire da una struttura più semplice, irregolarmente circolare (Montale), alla figura rettangolare (Casaroldo, Monte Venere, Bellanda, Stazione di S. Caterina) o quasi quadrata (Zaffanella) o trapezia (Rovere di Caorso, Montata dell'Orto, Cogozzo, Castellazzo). Del maggiore interesse il caso della stazione di S. Caterina-Tre Dossi (Cremona), che l'esploratore (Patroni) ritenne abbandonata quando stava per trasformarsi in una terramara di complessa struttura. Si vide l'argine posato del tutto su un forte strato terramaricolo: sotto l'argine stavano i resti di una capanna spianata: si vide una strada larga 2 m., fatta di argilla battuta, come al Castellazzo, ma non completata, la quale passava tra due capanne. Le capanne di S. Caterina, come quelle della stazione affine del Castellaro di Vho, erano rappresentate da cumuli ben distinti, poiché le capanne, erette su pali, erano crollate; furono probabilmente circolari; solo i cumuli che le rappresentavano contenevano i relitti archeologici. I focolari al Castellaro stavano nel terreno naturale di fondo, tra le capanne. S. Caterina era rettangolare e non orientata. Forse si può qui ricordare che una fossa quadrangolare, della quale purtroppo si vide solo una piccola parte, apparve fin dall'Eneolitico di Remedello. Parrebbe si possa ritenere che le terramare non si fondarono tutte d'un getto. Par quasi di assistere al nascere di costumanze, di riti, piuttosto che all'applicazione immediata e integrale di un complesso preordinato di rigide norme.

Difficile precisare il numero delle vere terramare, certo esiguo. Di una quindicina si hanno dati sufficienti, se pure scarsi; di un'altra decina, troppo evanescenti per giudicarle. Il numero, che si trova indicato, di 80-100, comprende in assoluta prevalenza stazioni che certamente sono dell'età del bronzo, ma non di struttura terramaricola. Ciò ammise, in qualche caso, lo stesso Chierici.

Tra le pretese terramare si nominarono villaggi che invece sono certo a fondi di capanna, come i due vicini di Monte della Pieve e Monte Lonato (Mantova); Monte Lonato ebbe prossimo un sepolcreto di combusti; come Castel Manduca, Castel Magré, S. Orso Castellare, Canusino, Meda, ecc. (Vicenza); Castel Manduca aveva un argine di pietra. Si possono aggiungere quelli un po' seriori di Regona e di Gottolengo (Brescia); Castellaccio (Imola); Bertarina (Forlì) e le stazioni parmensi di Monte delle Giarelle, Monticelli, Scipione di Salso, che lo Strobel aveva chiamato "accampamenti di terramaricoli" non potendo esse assumere struttura terramaricola, in quanto erano messe su forti declivî. Villaggi di capanne a fior di terra erano: Romei e Fiastri (Reggio nell'Emilia); i villaggi cremonesi di Cella Dati, S. Pietro in Mendicate, Calvatone (legati ai villaggi "palustri"), forse ellittici, in taluno dei quali si può seguire il nascere dell'ansa lunata; Castel Goffredo, De Morta (Mantova). Villaggi, detti palustri, con le case sui pali, i quali in parte si legano ai tardi palafitticoli lacustri: Castellaro di Vho; Zaffanella I, sotto la terramara (Mantova) che si lega ai palafitticoli di Fimon (Vicenza). Le case, sui pali, al Castellaro erano isolate o a gruppi, e così forse poterono essere in molte terramare. Anche il Chierici aveva ammesso l'anteriorità delle stazioni di Romei e di Fiastri alle vere terramare, e aveva considerato De Morta come una "terramara embrionale".

Sembra non infondato concludere che anche nella gran valle padana la civiltà enea si presenti in due facies successive, come in altre regioni italiane: le terramare apparterrebbero alla seconda fase. La terramara più recente, secondo il Pigorini, è quella della Servirola (Reggio nell'Emilia), "sorta nel periodo in cui la civiltà enea si trasformava in quella della prima età del ferro. Le fibule micenee ad arco di violino giacevano nei letti più profondi della terramara stessa". Le terramare sono contenute tra il Panaro e il Trebbia. Mal certe nel Bolognese, dove il Pigorini ne indica due (Bazzano, Pragatto), non scavate sistematicamente. Corrisponde alla fase delle terramare padane la serie numerosa delle stazioni appenniniche o extraterramaricole della seconda loro fase, oltre 60, dal Bolognese allo Ionio, da Cetona alle porte della Calabria, cui si aggiunge ora una nuova a Ischia. La loro civiltà è più varia, più ricca, più artistica, penetra nei dolmen pugliesi, nelle caverne sacre (Pertosa, Latronico, in provincia di Salerno); gli abitanti di queste stazioni extraterramaricole inumavano i loro morti.

Conclusioni probabili. - Le terramare sono le stazioni italiane che più attirarono l'attenzione dei dotti: la loro conoscenza investe i problemi più gravi e fondamentali della preistoria italiana; né l'interesse diminuisce, se la revisione riduce il loro numero e ne addita talune differenze. Non si può negare l'avvento di un elemento allogeno, nell'età del bronzo: lo attesta il rito funebre. Questo poté derivare dai "campi di urne" dell'Europa centro-orientale, ma non è necessario pensare a una potente alluvione, discesa dalle Alpi, come si suppose quando si vide nei palafitticoli svizzeri l'avanguardia dei terramaricoli, perché gli uni e gli altri costruivano case su pali. Ma nella Svizzera la cultura lacustre dell'età enea discende e deriva da quella locale neo-eneolitica, non mostra l'arrivo di una nuova invasione ed è del tutto diversa da quella delle terramare italiane. Ciò sembra accordarsi con una delle vedute del Pigorini, quando ritenne che la seconda ondata delle genti che costruivano le case su pali, giunta nella Svizzera nell'età enea e trovati i laghi occupati, piegò a sud e venne nell'Emilia per fondarvi le terramare. Egli allora, avendo fatto uno scavo a Toszeg in Ungheria, legò le nostre terramare alle stazioni ungheresi. Ma in seguito egli stesso negò recisamente questo rapporto, sia perché Toszeg è più recente sia perché non ha affatto la struttura terramaricola, come hanno confermato gli scavi recenti del Masson e del Tompa. Nemmeno possiamo guardare alle stazioni delle vallate del Danubio e della Sava, come Donja-Dolina, assai più tarde, costruite su ripidi pendii, in più ripiani, tutt'altra cosa delle nostre terramare. Nemmeno in Italia si sono, finora, trovate fuori della valle del Po, poiché, contrariamente a quanto si era affermato, è certo che non sono terramare né la stazione del Pianello di Genga (Ancona) né quella allo Scoglio del Tonno (Taranto). Si può supporre che le terramare propriamente organizzate, di numero limitato e complessa struttura, siano nate per contingenze locali nella seconda fase del bronzo. Si può supporre che gli allogeni, che venivano in Italia, fossero dapprima mercanti di bronzo, che emanavano dai centri ungarici, poi piccoli nuclei che venivano a fissarsi presso di noi provenendo da regioni transadriatiche, per mare o per terra, più tosto che discesi dalle Alpi. Non deve essere senza significato il fatto, già osservato da G. Pellegrini, da G. Ghirardini, dal Della Torre, della frequenza dei rinvenimenti degli oggetti di bronzo, tra cui accette piatte e ad alette, presso gli sbocchi delle lagune dell'alto Adriatico, e però essi pensarono che potessero venire direttamente dal mare. I nuclei allogeni si fondevano nella massa dei mediterranei, che occupavano la Valle Padana, i quali per questi contatti mutavano il rito funebre e introducevano nuovi elementi linguistici. Né potrebbe sorprendere che tali risultati si ottenessero per opera di una piccola minoranza, poiché questa si presentava più ricca e più intraprendente. Comunque, il moto non fu repentino, non segnò una rivoluzione improvvisa. I sepolcreti di Bovolone (Verona), di Povegliano (Verona), di piena età terramaricola, di Morlungo (Padova), in parte ci mostrano il pacifico coesistere dei due elementi con i riti dell'umazione e dell'ustione. Quando le terramare sorsero, il processo di assorbimento e di fusione era in gran parte compiuto e se un dato si può dire certo si è che il disegno di esse non fu portato di getto da una nuova gente, poiché nulla di comparabile fu altrove mai trovato, neppure in embrione.

Come finirono le terramare Il Pigorini sostenne che al chiudersi dell'età del bronzo, intorno al 2000, i terramaricoli abbandonassero le loro sedi e si disperdessero. Idee recenti confermano codesta ipotesi e la spiegano con una variazione climatica, che in Svizzera determinò la rapida sparizione dei villaggi lacustri dell'età del bronzo. Un riflesso di questo fatto geologico si dovette avere in Italia. Sul finire dell'età del bronzo, presso il Pianello di Genga, si produsse una grande frana: sparì l'abitato d'età enea; le famiglie si ritrassero entro la prossima Gola del Sentino. Un dato certo era stato rilevato dal Chierici e dal Pigorini: sulle terramare non si adagia lo strato villanoviano del 1° periodo del ferro, ma quello etrusco, o relitti più tardi, ed è quindi da ammettersi un'interruzione locale nello svolgersi della civiltà primitiva. Ma la serie dei problemi non è finita. Chi erano codesti villanoviani? Ulteriore evoluzione dei terramaricoli o nuova gente? Rinviando per un'ampia trattazione alla voce relativa, qui basti dire, poiché tutte le vedute debbono essere registrate, che le genti del sepolcreto di Porta S. Vitale (Bologna) e del Pianello di Genga possono rappresentare i proto-villanoviani, destinati a traversare l'Apennino. Se essi discendevano dai transfughi terramaricoli, la fusione dell'elemento allogeno e mediterraneo era già avvenuta fino dai giorni delle terramare, e i germi culturali che essi diffondevano si erano venuti svolgendo sulla penisola appenninica.

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