Territorialità del tributo

Diritto on line (2014)

Roberto Baggio

Abstract

Vengono esaminate le questioni attinenti alla territorialità dei tributi dal punto di vista dogmatico e sotto gli aspetti interno ed internazionale. Vengono quindi analizzati i profili territoriali delle imposte sui redditi e quelli dell’imposta sul valore aggiunto.

Aspetti generali della territorialità del tributo

Il territorio rappresenta, per lo Stato, la dimensione spaziale ove esso esplica la propria sovranità, ossia il potere originario, esclusivo ed assoluto di governo.

La sovranità si manifesta mediante la produzione di norme giuridiche e nell’uso monopolistico della forza affinché tali norme siano rispettate.

Se i confini dello Stato rappresentano l’orizzonte spaziale della capacità coercitiva, l’ambito di validità topografica e cronologica della norma giuridica – per usare un’espressione kelseniana – è illimitato.

Vista da questa prospettiva esclusivamente “interna”, la legge dello Stato non trova alcun limite nell’assumere a presupposti dei propri tributi fattispecie che abbiano elementi soggettivi od oggettivi di estraneità con il suo territorio.

La collocazione dello Stato nella dimensione internazionale, in cui coesistono ed interagiscono soggetti omologhi, cambia la situazione e pone un problema nuovo derivante dal fatto di appartenere ad un ordinamento più ampio in cui vigono regole e principi che tutti gli Stati sono tenuti a rispettare.

Da qui nasce l’annosa questione se esistano limiti alla potestà legislativa di uno Stato nel sottoporre a tassazione fatti, persone o beni che presentino elementi di estraneità con il suo territorio. La questione, in particolare, verte sull’esistenza o meno di norme consuetudinarie internazionali che condizionano l’esercizio della potestà normativa tributaria di uno Stato.

Se in passato si tendeva generalmente ad escludere l’esistenza di simili norme, oggi è prevalente l’opinione contraria.

Diffusa è innanzitutto l’idea che esista una norma di diritto internazionale generale che vieta ad uno Stato di tassare uno straniero se non in presenza di un collegamento sufficiente o ragionevole con il suo territorio (Udina, M., Il diritto internazionale tributario, in Fedozzi, P.-Romano, S., a cura di, Trattato di diritto internazionale, X, Padova, 1949, 85; Conforti, B., Diritto internazionale, Napoli, 2002, 229; Mann, F.A., The Doctrine of International Jurisdiction Revisited after Twenty Years, in Recueil A.D.I., 1984, vol. 186, 21 ss.; Vogel, K., Il diritto tributario internazionale, in Amatucci, A., diretto da, 1994, I, 2, 699; Melot, N., Essai sur la compétence fiscale etatique, in Dir. prat. trib. int., 2004, 828 ss.; Baggio, R., Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano. 2009, 51 ss.; contra Maisto, G., Brevi riflessioni sulla evoluzione del concetto di genuine link ai fini della territorialità dell’imposizione tributaria tra diritto internazionale generale e diritto dell’Unione europea, in Riv. dir. trib., 2013, I, 889 ss.).

Inoltre, la giurisprudenza italiana ha in più occasioni riconosciuto l’esistenza di una norma consuetudinaria internazionale di divieto di esercitare la potestà impositiva nei confronti di altri Stati od altri soggetti di diritto internazionale (Cass., 5.11.1991, n. 11788, in Comm. trib. centr., 15.9.1990, n. 5750; questa limitazione, peraltro, non riguarda la tassazione degli atti compiuti dallo Stato straniero jure gestionis, vale a dire gli atti rientranti nell’ambito del diritto comune).

Si ritiene altresì esistente una norma consuetudinaria internazionale secondo la quale non possono essere oggetto di tassazione, da parte dello Stato ospitante un agente diplomatico straniero, i redditi derivanti a quest’ultimo dall’esercizio delle sue funzioni (va peraltro segnalato che tale questione ha perduto gran parte della sua rilevanza a seguito della ratifica, operata da numerosi Paesi, delle Convenzioni sulle relazioni diplomatiche e sulle relazioni consolari, adottate a Vienna rispettivamente il 18.4.1961 ed il 24.4.1963, nelle quali è prevista, non solo a favore degli agenti diplomatici, ma anche di quelli consolari e degli altri addetti alle rappresentanze straniere, un’ampia immunità fiscale che subisce poche eccezioni).

Ovviamente, la maggior parte dei limiti alla potestà normativa tributaria sono di fonte pattizia e sono dovuti quindi alla stipulazione di accordi con altri Stati.

Molto frequenti sono gli accordi bilaterali e multilaterali in materia doganale, il più importante dei quali è il GATT sottoscritto il 30.10.1947 a Ginevra e successivamente confluito nello statuto dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO – World Trade Organization), ma probabilmente la più importante e diffusa categoria di trattati in ambito fiscale sono le convenzioni contro le doppie imposizioni in tema di imposte sui redditi e sul patrimonio, nelle quali lo Stato di residenza del contribuente e lo Stato della fonte si ripartiscono le rispettive prerogative impositive al fine, appunto, di eliminare la doppia imposizione giuridica.

Importanti limitazioni alla potestà impositiva dei singoli Stati derivano all’appartenenza di questi all’Unione europea. Oltre ai divieti ed agli obblighi espressamente previsti nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (quali, ad esempio, il divieto di istituzione di dazi doganali all’importazione ed all’esportazione o le tasse di effetto equivalente tra gli Stati membri e l’obbligo di uniformare i sistemi di tassazione sulla cifra d’affari), gli Stati membri si trovano ad essere condizionati nell’esercizio delle rispettive potestà tributarie ogniqualvolta producono norme destinate ad incidere sul complesso di principi e diritti emergenti dal diritto comunitario. La stessa competenza statale in materia di imposte dirette – ha affermato la Corte di giustizia – deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario (v., per tutte, C. giust., 14.12.2000, C-141/99, Algemene Maatschappij voor Investering en Dienstverlening c. Stato belga).

Se l’esercizio della potestà normativa tributaria dello Stato è tendenzialmente libera di assumere a presupposto d’imposta anche fatti e soggetti estranei all’ordinamento ed al territorio statuali, salvo le limitazioni derivanti dal diritto internazionale, si è detto che lo Stato non può dare attuazione ai propri comandi nel territorio di altri Stati senza il preventivo consenso di questi ultimi. Nel contesto tributario, ciò significa che lo Stato non può eseguire materialmente, per mezzo di propri agenti, attività istruttorie o di riscossione nel territorio estero senza l’autorizzazione dello Stato straniero.

Al riguardo va sottolineato che sono tuttora poco frequenti gli accordi internazionali che disciplinano la collaborazione amministrativa in materia tributaria. Di recente, è entrata in vigore la Convenzione di Strasburgo del 25.1.1998 (ratificata dall’Italia con l. 10.2.2005, n. 19) che coinvolge numerosi Stati nell’attività di cooperazione amministrativa, dallo scambio di informazioni all’assistenza finalizzata al recupero di crediti tributari. In ambito europeo, sono stati nel tempo emanati diversi regolamenti e direttive disponenti un elevato livello di collaborazione amministrativa tra gli Stati membri (per i riferimenti v. il sito dell’Unione europea www.europa.eu).

Ma al di là dei condizionamenti “esterni” all’esercizio della potestà tributaria, la definizione dei presupposti territoriali dei singoli tributi è influenzata anche e soprattutto da fattori esclusivamente interni. Limiti possono, infatti, derivare, ad esempio, da norme costituzionali, ovvero da un processo di autolimitazione dello stesso legislatore, il quale può decidere di ignorare fenomeni che presentino più o meno ampi elementi di estraneità rispetto al suo territorio, processo che può trovare spiegazione in motivi di ordine pratico, equitativo, sociale, economico ecc.

Il territorio dello Stato

La legge fiscale dello Stato opera in via esclusiva nel territorio di quest’ultimo e si applica nei confronti di chiunque (cittadino o straniero) ivi si trovi, fatte salve le limitazioni spaziali stabilite dalla stessa legge (così, ad esempio, l’art. 7 del d.P.R. 26.10.1972, n. 633, stabilisce che l’IVA non si trovi applicazione nel territorio dei comuni di Livigno e Campione d’Italia, nonché nelle acque nazionali del lago di Lugano).

I confini di uno Stato sono ordinariamente delimitati dai trattati internazionali e dalle norme consuetudinarie internazionali.

Con riguardo ai confini marini, si ritiene che buona parte delle norme contenute nella Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, firmata il 10.12.1982, ma entrata in vigore solo nel 1994 a seguito della sua integrazione operata per mezzo di un accordo integrativo, sia conforme al diritto consuetudinario (Conforti, B., Diritto internazionale, cit., 261).

In particolare, è considerato un principio di diritto internazionale generale quello in virtù del quale il mare adiacente la costa è sottoposto in tutto e per tutto alla sovranità dello Stato della terraferma e così pure la regola che ne stabilisce l’estensione massima in dodici miglia marine dalla costa.

Lo Stato costiero può altresì esercitare in via esclusiva il proprio potere di governo, finalizzato allo sfruttamento delle risorse ivi esistenti, sulla cd. piattaforma continentale, intesa come prolungamento della terra emersa, nonché sulla zona economica esclusiva, la quale si estende fino a duecento miglia marine dalla costa.

In virtù di quanto sopra, i presupposti d’imposta che si verificano nella piattaforma continentale e nella zona economica esclusiva connessi, direttamente od indirettamente, con le attività di sfruttamento delle risorse naturali, rientrano pienamente nell’ambito di applicazione della legge tributaria dello Stato costiero. Argomenti a favore di tale chiave di lettura si deducono sia dalle disposizioni contenute in numerose convenzioni contro le doppie imposizioni, sia dall’art. 162, co. 2, lett. f), del d.P.R. n. 917/1986.

In merito alle navi (ma analogo discorso vale anche per gli aeromobili), va tenuto conto che in base ad una norma consuetudinaria internazionale, esplicitata nell’art. 92 della Convenzione di Montego Bay, esse sono sottoposte al potere esclusivo dello Stato della bandiera, salvo nei casi in cui si trovino a transitare od a sostare nel mare territoriale di un altro Stato. In tali casi, questo altro Stato si aggiunge (ma non si sostituisce) al primo per ciò che concerne l’esercizio della propria giurisdizione, ma con alcune limitazioni.

Appare difficile negare che, in linea di principio, le leggi fiscali dello Stato della bandiera trovino applicazione nelle navi e negli aeromobili, anche là dove essi abbiano da transitare o da sostare nelle acque e nello spazio aereo di un altro Stato.

Esclusa l’idea che i fenomeni economici che si verificano all’interno di essi possano sfuggire totalmente all’imposizione, la scelta dello Stato competente ad effettuare il prelievo, tra lo Stato della nazionalità della nave o dell’aeromobile e lo Stato straniero dove essi si trovino temporaneamente, dovrebbe ragionevolmente orientarsi verso il primo (cfr. ris. min., 21.12.1985, n. 340653; ris. min., 28.2.1997, n. 36/E). A sostegno di questa ricostruzione depongono, tra le altre, le disposizioni incluse nell’art. 26 della Convenzione di Montego Bay, sopra menzionata, e nell’art. 27 della Convenzione di Chicago del 7.12.1944 sull’aviazione civile internazionale.

Profili territoriali delle imposte sui redditi

I criteri di collegamento territoriale utilizzati ai fini della tassazione dei redditi possono distinguersi a seconda che si rapportino al soggetto oppure all’oggetto dell’imposizione.

I primi individuano solitamente il criterio di collegamento nel luogo di dimora abituale del contribuente o nel luogo ove sono concentrati i suoi interessi vitali. Più raramente, il fondamento della tassazione viene individuato nella cittadinanza, con un approccio che privilegia la dimensione “politica” dello Stato piuttosto che la sua dimensione territoriale.

Nei secondi, la potestà impositiva si indirizza verso i redditi che si possono considerare prodotti all’interno del territorio dello Stato in quanto ivi trovasi localizzato il cespite o l’attività o l’atto produttivo del reddito.

La maggior parte dei Paesi industrializzati combina i due criteri, da un lato assoggettando a tassazione i propri residenti (a prescindere dalla cittadinanza) per i redditi ovunque prodotti nel mondo (il cd. principio di tassazione dell’utile mondiale), dall’altro lato assoggettando a tassazione i non residenti unicamente per i redditi prodotti nel loro territorio (il cd principio di tassazione territoriale). Alcuni, invero pochi Paesi (come gli Stati Uniti d’America), aggiungono un ulteriore criterio, quella fondato sulla cittadinanza, imponendo la corresponsione delle imposte sul reddito mondiale anche ai propri cittadini, ancorché risiedenti all’estero.

Un certo numero di Stati (invero sempre più ridotto) è tuttora invece legato al criterio di tassazione territoriale, limitando le proprie pretese impositive ai redditi prodotti nel loro territorio, indipendentemente dalla residenza o dalla cittadinanza del contribuente.

Il sovrapporsi di più potestà impositive riguardo a uno stesso reddito genera inevitabilmente la doppia (o plurima) imposizione internazionale. La doppia (o plurima) imposizione giuridica internazionale si configura quando una stessa materia imponibile viene tassata in due (o più) Stati, con tributi comparabili, in capo allo stesso contribuente.

La doppia imposizione economica si realizza quando una stessa materia imponibile viene tassata in due Stati diversi, con tributi comparabili, in capo a due soggetti diversi (è il caso degli utili delle società dotate di personalità giuridica che sono tassati una prima volta in capo alla società produttrice del reddito, nello Stato ove essa ha sede, ed un’altra volta in capo al socio che percepisce i dividendi, nello Stato di residenza di quest’ultimo).

L’analisi economica e la comune esperienza hanno dimostrato gli inconvenienti che la doppia (o plurima) imposizione comportano allo sviluppo economico ed alla crescita del benessere nazionale e mondiale, così che gli Stati cercano, da oltre un secolo, di porvi rimedio attraverso l’adozione di misure unilaterali o convenzionali. Con le prime, il singolo Stato concede l’esenzione per i redditi prodotti all’estero dai propri cittadini o residenti (metodo dell’esenzione), ovvero riconosce la detrazione, dalle imposte nazionali, dei tributi pagati all’estero per i redditi che vengono nuovamente assoggettati a tassazione al suo interno (metodo del credito d’imposta). Le seconde consistono nella conclusione di accordi con gli altri Stati aventi per oggetto proprio l’eliminazione della doppia imposizione internazionale, attraverso l’ordinata ripartizione delle pretese impositive e la previsione di un meccanismo in grado di evitare la duplicazione dei prelievi tributari (sempre impiegando o il metodo dell’esenzione o, più spesso, quello del credito d’imposta).

La situazione italiana si presenta simile a quella di molti altri Paesi industrializzati.

Le persone fisiche, le società e gli enti che sono considerati fiscalmente residenti nel territorio dello Stato sono tassati per i redditi ovunque posseduti nel mondo, mentre i soggetti considerati non residenti sono tassati esclusivamente sui redditi prodotti nel territorio italiano (artt. 3 e 75 del d.P.R. 22.12.1986, n. 917). I residenti hanno peraltro il diritto di detrarre le imposte estere dall’imposta italiana dovuta in relazione ai redditi prodotti all’estero, secondo il noto meccanismo del credito d’imposta (v. art. 165 d.P.R. n. 917/1986).

Una persona fisica è considerata fiscalmente residente nel territorio dello Stato se, per la maggior parte del periodo d’imposta, è iscritta nelle anagrafi della popolazione residente o se ha nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile (art. 2 d.P.R. n. 917/1986). Si tratta di criteri alternativi, cosicché è sufficiente che il soggetto integri anche uno solo di essi, per la maggior parte del periodo d’imposta perché egli sia considerato fiscalmente residente in Italia per l’intero periodo e venga quivi assoggettato a tassazione per tutti i redditi posseduti nel mondo.

Tenuto che, per le persone fisiche, il periodo d’imposta coincide di regola con l’anno solare, avere la residenza fiscale in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta significa soddisfare i requisiti anzidetti per 183 giorni ovvero, per gli anni bisestili, per 184 giorni.

Dei tre criteri di attribuzione della residenza fiscale, uno è di natura formale, gli altri due di natura sostanziale.

Da sempre assai criticata è stata la scelta di conferire alla mera iscrizione anagrafica il rilevante effetto di far acquisire al soggetto la residenza fiscale ed il suo assoggettamento alle imposte italiane per i redditi ovunque prodotti nel mondo, a maggior ragione di fronte ad un solido orientamento amministrativo (circ. min., 27.2.1984, n. 7/8/1432) e giurisprudenziale (Cass., 6.2.1998, n. 1215) che non ammette la prova contraria volta a dimostrare, nonostante l’apparenza formale, l’effettiva residenza e l’effettivo domicilio all’estero.

Il domicilio è, ai sensi dell’art. 43, co. 1, c.c., il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi ed è tradizionalmente interpretato come una relazione giuridica tra l’individuo ed un luogo che trae fondamento essenzialmente dalla volontà del primo di concentrare i propri affari ed interessi nel secondo. Con riguardo alla natura degli affari ed interessi che rilevano nella determinazione del concetto di domicilio, secondo l’opinione prevalente, soprattutto in ambito giurisprudenziale (Cass., 12.2.1973, n. 435; Cass., 5.5.1980, n. 2936), anche di matrice tributaria (Cass., 24.7.1990, n. 7498; Cass., 7.11.2001, n. 13803; Cass., 21.3.2008, n. 9856), si dovrebbero considerare sia gli interessi economici e patrimoniali, sia quelli di natura morale, sociale ed affettiva (in questo modo, il domicilio diviene assai simile al “centro di interessi vitali” delineato dall’art. 4 del modello di convenzione OCSE contro la doppia imposizione in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio).

La residenza, ai sensi dell’art. 43, co. 2, c.c., è il luogo in cui la persona ha la sua dimora abituale. La tradizione giuridica attribuisce un peso preponderante all’elemento oggettivo, la dimora abituale in un determinato luogo, sebbene non si neghi la presenza anche di un elemento soggettivo, dato dall’intenzione di dimorare in quel luogo.

La residenza fiscale dei soggetti diversi dalle persone fisiche, la quale determina anche per essi l’applicazione del principio di tassazione dell’utile mondiale, deriva dalla presenza, in Italia, della sede legale o della sede dell’amministrazione o dell’oggetto principale dell’attività, per la maggior parte del periodo d’imposta (artt. 5 e 73 del d.P.R. n. 917/1986). Si tratta, come per le persone fisiche, di criteri alternativi che possono essere tuttavia considerati cumulativamente per la verifica del soddisfacimento dell’elemento temporale.

La sede legale è quella che risulta dall’atto costitutivo o dallo statuto. A differenza di quanto visto per l’iscrizione anagrafica delle persone fisiche, la sede legale è un elemento costitutivo dell’ente che vale ad identificare la sua nazionalità o, meglio, l’ordinamento di appartenenza, da cui discende una pluralità di diritti e di obblighi in capo all’ente medesimo.

La sede di amministrazione, concetto mutuato dall’art. 25 l. 31.5.1995, n. 218 (recante le norme di diritto internazionale privato), è tradizionalmente individuata nel luogo dove sono assunte, dall’organo amministrativo, le decisioni più importanti della società (attività direzionale), ovvero dove si forma effettivamente la volontà sociale (Ballarino, T., Manuale breve di diritto internazionale privato, Padova, 2002, 126; Simonetto, E., Delle società, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1976, 389 ss.). Ove esistano amministratori delegati dotati di ampi poteri, è possibile ritenere che tale sede coincida con il luogo dove questi esercitano normalmente e stabilmente le loro mansioni. Inoltre, qualora l’attività del consiglio di amministrazione sia molto ridotta e concentrata in poche riunioni di alta strategia o di mero indirizzo, mentre l’effettiva direzione dell’attività aziendale (per le società) od istituzionale (per gli enti non commerciali) sia demandata ai dirigenti, è ragionevole individuare la sede dell’amministrazione nel luogo in cui il direttore generale od i dirigenti più importanti esplicano il loro mandato (v. Comm. trib. centr., 10.10.1996, n. 4992).

L’oggetto principale (anch’esso richiamato dall’art. 25 l. n. 218/1995) consiste nell’attività volta al raggiungimento dello scopo sociale. Il suo accertamento deve fondarsi sulle circostanze di mero fatto e non sulle risultanze dell’atto costitutivo. La sua localizzazione territoriale risulta talvolta non agevole: si pensi al caso delle società holding od a quello delle società che gestiscono le piattaforme per l’esercizio dei giochi on line. Nel primo caso, si esclude, in genere, che l’oggetto sia determinato dalla “nazionalità” delle società partecipate (cfr. Ballarino, T., Manuale breve, cit., 127), mentre nel secondo caso è stato affermato che, ove la piattaforma informatica sia ubicata e gestita dall’estero, l’oggetto principale non può ritenersi localizzato in Italia anche se l’attività viene qui svolta in forza di una concessione rilasciata dalle autorità italiane (Cass., 17.1.2014, n. 1811).

La prova della ricorrenza, nel caso concreto, dei presupposti per l’acquisto della residenza fiscale è a carico dell’amministrazione finanziaria (Marino, G., La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, 19; Cass., 11.1.2000, n. 195). Le difficoltà che spesso questa incontra nell’attività di contrasto alle residenze estere fittizie ed alle esterovestizioni hanno indotto il legislatore a ribaltare, in determinate situazioni, l’onere della prova. Così, in base al co. 2-bis dell’art. 2 del d.P.R. n. 917/1986, si considerano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori considerati “paradisi fiscali” ed individuati da un apposito decreto del Ministero dell’economia e delle finanze. Parimenti, l’art. 73, co. 5-bis e 5-ter del d.P.R. n. 917/1986 considera esistente nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, la sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono partecipazioni di controllo ai sensi dell’art. 2359, co. 1, c.c., in società di capitali od enti commerciali nazionali, se, in alternativa: a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’art. 2359, co. 1, c.c. da soggetti fiscalmente residenti nel territorio dello Stato; b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione od altro organo equivalente, composto in prevalenza di consiglieri fiscalmente residenti in Italia. Particolari presunzioni di residenza sono altresì previste per i trust, le società e gli enti che investono prevalentemente in quote di fondi di investimento immobiliare chiusi e gli organismi di investimenti collettivo del risparmio istituiti in Italia (art. 73, co. 3 e 5-quater, d.P.R. n. 917/1986).

A differenza dei soggetti fiscalmente residenti in Italia, le persone fisiche, le società e gli enti non residenti sono tassati solo per i redditi prodotti nel territorio dello Stato. I criteri di collegamento con il territorio che qualificano i redditi come prodotti in Italia sono decritti nell’art. 23 del d.P.R. n. 917/1986 e variano a seconda della tipologia reddituale considerata. Così – ad esempio – per i redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo assume rilevanza il fatto che le rispettive attività siano svolte nel territorio dello Stato, per i redditi di capitale che l’erogatore sia un’amministrazione dello Stato od un soggetto residente in Italia, per altri redditi (come quelli fondiari o le plusvalenze da cessioni di partecipazioni) che il cespite da cui derivano sia ubicato in Italia o comunque appartenente all’ordinamento italiano. I redditi d’impresa si considerano prodotti in Italia solo se derivano dall’esercizio di un’attività per il tramite di una stabile organizzazione sita nel territorio dello Stato. La nozione di stabile organizzazione è di derivazione internazionale (v. art. 5 del modello OCSE contro le doppie imposizioni), ma da qualche tempo è stata acquisita, con qualche minima variazione, anche nella legislazione interna, limitatamente al campo delle imposte sui redditi e dell’IRAP (art. 162 d.P.R. n. 917/1986). All’interno della nozione, si distingue la stabile organizzazione materiale, consistente in una struttura fissa di affari per mezzo della quale l’impresa estera esercita in tutto od in parte la sua attività nel territorio dello Stato, dalla stabile organizzazione personale, sussistente anche in mancanza di beni e struttura, essendo costituita da un soggetto (residente o non residente) giuridicamente e/o economicamente dipendente dall’impresa estera per conto ed a nome della quale conclude abitualmente contratti, diversi da quelli di acquisto dei beni, nel territorio nazionale.

In caso di presenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato, se il titolare della stessa è una società od un ente commerciale non residente, gli eventuali altri redditi realizzati in Italia sono attratti dalla stabile organizzazione ed il reddito complessivo – determinato secondo le norme del reddito d’impresa – viene liquidato e tassato sulla base di un unico conto economico. Se il titolare della stabile organizzazione è, invece, una persona fisica o un ente non commerciale non residente, il predetto principio non opera, cosicché il contribuente estero produrrà separatamente un reddito d’impresa ed eventuali altre tipologie di redditi soddisfacenti i requisiti territoriali previsti nel citato art. 23, determinati ciascuno secondo le regole proprie della sua categoria di appartenenza.

In assenza di una stabile organizzazione, il soggetto non residente (indipendentemente dalla forma giuridica) è tassato in Italia solo e nella misura in cui produca redditi che siano oggettivamente riconducibili in una delle categorie reddituali di cui all’art. 23 (esclusa, ovviamente, quella del reddito d’impresa), alla condizione che gli stessi possano ritenersi prodotti in Italia ai sensi del medesimo articolo.

Profili territoriali dell’imposta sul valore aggiunto

L’imposta sul valore aggiunto (IVA) colpisce le cessioni di beni e le prestazioni di servizi poste in essere, nel territorio dello Stato, da coloro che esercitano imprese ed attività di lavoro autonomo (i soggetti passivi in senso tecnico), nonché le importazioni da chiunque effettuate (art. 1 del d.P.R. n. 633/1972).

Considerato, tuttavia, che l’imposta è detraibile, salvo eccezioni, da parte degli operatori economici, essa finisce per gravare esclusivamente sul consumatore finale, impossibilitato ad esercitare la predetta detrazione. Per tale ragione, l’IVA è considerata essenzialmente un’imposta indiretta sui consumi (v., tra le altre, C. giust., 29.2.1996, C-215/94, Jurgen Mohr c. Finanzamt Bad Segeberg).

Si tratta di un’imposta armonizzata a livello di Unione europea, applicata con criteri omogenei in tutti gli Stati membri, al fine di evitare le distorsioni concorrenziali che potrebbero derivare dalla presenza di diversi criteri di tassazione. Le normative degli Stati membri devono essere conformi alle prescrizioni contenute nella direttiva 28.11.2006, n. 112, ove sono confluiti i provvedimenti comunitari relativi a questo tributo che si sono succeduti nel corso del tempo.

L’obiettivo del legislatore comunitario di attuare un’imposizione generale sui consumi proporzionale al prezzo dei beni e servizi, indipendentemente dal numero dei trasferimenti che intervengono prima del momento impositivo finale, viene realizzato, nei rapporti internazionali, mediante la tassazione delle merci provenienti dall’estero all’atto dell’entrata nel territorio nazionale e mediante l’esclusione dall’applicazione dell’IVA alle merci destinate all’estero, in quanto tassate nello Stato di destinazione.

Al fine di dare concreta attuazione a tale principio, ai soggetti passivi residenti e domiciliati in un altro Stato, i quali si trovassero comunque a corrispondere l’imposta sugli acquisti eseguiti nel territorio nazionale, è riconosciuto il diritto di ottenere il rimborso dell’imposta medesima, purché ricorrano determinate condizioni e sempre che essi non abbiano altri strumenti per evitare di rimanere incisi dall’onere fiscale (vale a dire, sempre che essi non si siano identificati nel territorio nazionale come soggetti passivi o non abbiano effettuato l’acquisto per il tramite di una stabile organizzazione nel territorio medesimo, posto che, in tali situazioni, essi si trovano nelle condizioni per esercitare, al pari degli altri soggetti passivi nazionali, il diritto alla detrazione od al rimborso dell’imposta secondo le procedure ordinarie). Se il soggetto passivo è residente e domiciliato in uno Stato non comunitario, il diritto al rimborso è peraltro esercitabile solo a condizione di reciprocità, ossia solo se un analogo diritto spetta, in detto Stato, anche agli operatori comunitari (cfr. art. 38 bis 2 e 38 ter del d.P.R. n. 633/1972).

Sempre nella logica che la tassazione debba avvenire nello Stato in cui presumibilmente si attua il consumo, i privati domiciliati o residenti fuori della Comunità europea hanno diritto di effettuare acquisti nel territorio nazionale senza applicazione dell’IVA (ovvero, in alternativa, di ottenere il rimborso di quella pagata all’atto dell’acquisto) per i beni che siano trasportati fuori della Comunità stessa entro il terzo mese successivo a quello di effettuazione dell’operazione, fornendo la relativa prova (art. 38 quater del d.P.R. n. 633/1972). Un’analoga previsione era dettata a favore dei viaggiatori residenti o domiciliati in altri Stati membri (i quali avrebbero scontato l’IVA all’atto dell’introduzione dei beni nello Stato di residenza o domicilio), ma è stata espunta dopo l’entrata in vigore della disciplina sugli scambi comunitari e la conseguente eliminazione delle dogane tra gli Stati membri.

Il carattere reale e strettamente territoriale dell’imposta sul valore aggiunto comporta che la nazionalità, la residenza od il domicilio dell’operatore economico non siano elementi qualificanti la natura di soggetto passivo d’imposta. È sufficiente, infatti, che l’operatore economico ponga in essere nel territorio dello Stato la cessione di beni o la prestazione di servizi affinché – in linea di principio (e con le particolarità nel prosieguo illustrate) – l’operatore e l’operazione compiuta rientrino nell’ambito di applicazione dell’imposta.

Tuttavia, sia per ragioni di semplificazione sia per ragioni di maggiore garanzia dell’adempimento tributario, la legge dispone un’inversione della soggettività passiva d’imposta in caso di cessioni di beni e di prestazioni di servizi poste in essere nel territorio dello Stato da soggetti passivi non residenti nei confronti di cessionari e committenti stabiliti nel territorio dello Stato. Infatti, in tali ipotesi, il soggetto passivo diventa il cessionario od il committente stabilito nel territorio dello Stato, il quale viene chiamato, in sostituzione del cedente o prestatore estero, ad adempiere agli obblighi fiscali connessi con tali operazioni (se il cedente o il prestatore è un soggetto passivo stabilito in altro Stato membro, il cessionario od il committente adempie agli obblighi secondo le regole previste per le operazioni intracomunitarie ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.l. 30.8.1993, n. 331, conv. in l. 29.10.1993, n. 427).

Per soggetto stabilito nel territorio dello Stato s’intende il soggetto passivo domiciliato nel territorio dello Stato od ivi residente che non abbia stabilito il domicilio all’estero (per le definizioni di residenza e domicilio si deve guardare alle previsioni contenute nell’art. 43 c.c.: cfr. Mandò, G.-Mandò, D., Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2000, 115; Lupi, R., Territorialità del tributo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, 9), ovvero una stabile organizzazione nel territorio dello Stato di soggetto domiciliato e residente all’estero, limitatamente alle operazioni da essa rese o ricevute (ed infatti, per tali operazioni, non opera la regola dell’inversione della soggettività d’imposta più sopra ricordata, rimanendo conseguentemente soggetto passivo d’imposta il soggetto estero, il quale sarà tenuto ad adempiere agli obblighi fiscali per il tramite della stabile organizzazione italiana: cfr. art. 17, co. 4, d.P.R. n. 633/1972). Per i soggetti diversi dalle persone fisiche si considera il domicilio il luogo in cui si trova la sede legale e residenza quello in cui si trova la sede effettiva (quest’ultima sembra richiamare l’espressione utilizzata nell’art. 46 c.c., la quale è normalmente interpretata come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività di amministrazione e di direzione dell’ente).

La stabile organizzazione (la cui apertura in Italia comporta l’obbligo di richiedere un numero di partita IVA all’amministrazione finanziaria italiana: art. 35 d.P.R. n. 633/1972) assume, nell’ambito IVA, connotazioni parzialmente diverse da quelle proprie di tale concetto nel contesto delle imposte sui redditi. L’art. 11, par. 1, del regolamento 15.3.2011 n. 282, definisce la stabile organizzazione nell’IVA come qualsiasi organizzazione, diversa dalla sede dell’attività economica, caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza ed una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle e di ricevere i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie di detta organizzazione (si tratta di una definizione conforme a quella da tempo elaborata dalla Corte di giustizia; v., in particolare, sent. 23.3.2006, C-210/04, Ministero dell’economia e delle finanze Agenzia delle entrate c. FCE Bank plc).

Il soggetto passivo estero è tenuto ad identificarsi in Italia ai fini IVA od a nominare un proprio rappresentante fiscale qualora il cessionario od il committente non sia stabilito in Italia, ovvero quando questi sia un privato, posto che, in tali casi, non è possibile far ricadere sul cessionario od sul committente l’onere di adempiere agli obblighi fiscali connessi con l’operazione. Resta ferma la facoltà del soggetto estero di identificarsi direttamente o di nominare il rappresentante fiscale per l’esercizio dei diritti derivanti dall’applicazione della disciplina IVA.

Per territorio dello Stato, ai fini IVA, s’intende il territorio della Repubblica italiana, con l’esclusione dei comuni di Livigno e di Campione d’Italia e le acque nazionali del lago di Lugano. Di conseguenza, in tali territori non vige l’IVA e l’invio di beni verso di loro costituisce un’esportazione, mentre l’introduzione di beni da essi costituisce un’importazione.

Nello stabilire i criteri di collegamento con il territorio dello Stato ai fini della localizzazione interna di una cessione di beni mobili, si è ritenuto di attribuire rilevanza a due elementi: lo status doganale dei beni e la loro presenza fisica in detto territorio (regole speciali valgono per le cessioni di gas naturale e di beni a bordo di una nave, di un aereo o di un treno percorrenti un tragitto all’interno della Comunità europea: cfr. art. 7 bis, co. 2 e 3, d.P.R. n. 633/1972). Infatti, una cessione di beni è considerata effettuata nel territorio nazionale se ha per oggetto beni mobili nazionali (ossia i beni prodotti in Italia od importati definitivamente con la corresponsione dei dazi e dell’IVA), comunitari (vale a dire i beni prodotti in uno altro Stato membro, ovvero quelli provenienti da un Paese extra-comunitario ed importati definitivamente in un altro Stato membro della Comunità, oppure i beni immessi in libera pratica in Italia o in altri Paesi membri, tenendo presente che tale immissione ha comportato la corresponsione dei dazi, ma non dell’IVA, che sarà assolta nello Stato di nazionalizzazione) o vincolati al regime di temporanea importazione, purché esistenti fisicamente nel territorio dello Stato, qualunque sia il luogo di conclusione o di esecuzione del contratto. Le due condizioni devono ricorrere nel momento in cui la cessione si intende effettuata ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 633/1972. Si considerano inoltre territoriali le cessioni di beni mobili spediti da altro Stato membro ed installati, montati od assemblati nel territorio dello Stato dal fornitore o per suo conto.

Per la cessione di beni immobili il criterio di collegamento è assai più agevole: è considerata territoriale l’operazione che ha per oggetto la cessione di beni immobili situati nel territorio dello Stato.

Ben diversa è la questione connessa con l’individuazione dei criteri di collegamento territoriale concernenti le prestazioni di servizi (artt. da 7 ter a 7 septies, d.P.R. n. 633/1972). In origine, seguendo strettamente la logica dell’imposta, una prestazione di servizi si considerava effettuata nel territorio dello Stato se era ivi utilizzata. Successivamente, nel tentativo di superare le difficoltà insite nel fissare nello spazio molteplici tipologie di prestazioni di servizi, il legislatore comunitario è stato costretto ad intervenire pesantemente sulla materia, creando un criterio generale basato sulla residenza o sul domicilio o sulla stabile organizzazione del prestatore – nella convinzione (peraltro priva di dimostrazione) che ciò consentisse l’applicazione dell’imposta nel Paese del consumo – ed una serie di criteri specifici rapportati a determinate categorie di servizi per il quale il fattore di collegamento con territorio venne individuato nel luogo di ubicazione del bene oggetto della prestazione, o nel luogo di stabilimento del committente, ovvero nel luogo di utilizzazione dei servizi.

Tuttavia, come riconosciuto dalla stessa Commissione europea nelle proposte di direttiva Com (2003) 822 e Com (2005) 334, al di là di fattispecie particolari (cioè quelle in cui il servizio è chiaramente utilizzato in ambito locale), il Paese del consumo deve considerarsi normalmente quello in cui il privato consumatore possiede la residenza od il domicilio. Tale conclusione può ritenersi valida anche con riferimento ai servizi resi alle imprese, posto che li impiegano per produrre beni o servizi, includendo il loro costo nel prezzo di questi beni o servizi.

Tali riflessioni hanno condotto a modificare sostanzialmente i criteri del collegamento territoriale delle prestazioni di servizi per mezzo della direttiva 12.2.2008, n. 8, successivamente recepita dai vari Stati membri.

I criteri sono differenziati a seconda che le prestazioni di servizi siano rese a soggetti passivi ovvero a non soggetti passivi. Nella prima ipotesi, le prestazioni si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese a soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato (cd. regola del committente), fatta eccezione per alcune tipologie di servizi per le quali è prescritto un criterio di collegamento speciale legato al bene cui il servizio si riferisce o al luogo in cui il servizio viene esplicato. Nella seconda ipotesi, le prestazioni si considerano effettuate nel territorio dello Stato se rese da un soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato (cd. regola del prestatore), fatta eccezione – anche in questo caso – per alcune tipologie di servizi per le quali è fissato un criterio speciale basato su differenti criteri di collegamento territoriale. La conferma della regola del prestatore si pone, tuttavia, in palese contraddizione con l’idea secondo la quale la tassazione dovrebbe avvenire nello Stato di residenza o di domicilio del privato (o soggetto ad egli assimilato), cioè dove si realizza il consumo. Questa scelta, all’apparenza poco comprensibile, si spiega con la volontà di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di controllo delle amministrazioni fiscali e gli oneri amministrativi dei committenti. In effetti, escluso che si possa caricare il privato consumatore dell’obbligo di autoliquidarsi, secondo le disposizioni nazionali, l’imposta sul servizio ricevuto dall’operatore estero, la regola basata sulla sede di stabilimento, sulla residenza o sul domicilio del committente costringerebbe l’operatore estero, privo di significativi collegamenti con il territorio dello Stato del cliente, ad identificarsi direttamente o nominare un rappresentante fiscale in questo Stato, sopportando oneri di notevole entità, magari solo per regolarizzare un’unica operazione. Ciò peraltro dimostra che le motivazioni extra-fiscali hanno condizionato ed in parte tuttora condizionano le regole sulla territorialità delle operazioni da assoggettare a tassazione, sacrificando pesantemente le logiche e le aspirazioni dell’imposta sul valore aggiunto.

Fonti normative

Artt. 2, 3, 5, 23, 73, 75, 162, 165 d.P.R. 22.12.1986, n. 917; artt. 1, 7, 7 bis, 7 ter, 7 quarter, 7 quinquies, 7 sexies, 7 septies, 17, 38 bis 2, 38 ter 38 quarter d.P.R. 26.10.1972, n. 633 ; art. 25 l. 31.5.1995, n. 218.

Bibliografia essenziale

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