Terzina

Enciclopedia Dantesca (1970)

terzina

Ignazio Baldelli

1. D., come ben si sa, è innovatore, dal di dentro, di schemi metrici ereditati dalla tradizione anteriore: basti pensare alle novità della sestina dantesca, rispetto al modello arnaldiano (la sestina che tanta fortuna avrà in Italia e fuori è appunto quella dantesca: v. SESTINA); così anche l'affermarsi del sonetto con quartine a rime incrociate (abba) su quello con quartine a rime alterne comincia con D. (e con Cavalcanti), v. SONETTO (e il Fiore porta la tradizione della corona di sonetti a un'espansione non mai prima tentata). Ma D. è anche l'inventore addirittura di alcuni generi letterari e di alcuni schemi compositivi sia prosastici che poetici: si pensi alla struttura generale delle due opere in prosa, la Vita Nuova e il Convivio, e della Commedia. In queste tre opere, D., nella volontà di dare la storia di sé ‛ in itinere ' verso la perfezione, sentendo violentemente l'esemplarità appunto della sua storia, ha escogitato forme generali compositive nuove, che di quella esemplarità fossero anche il primo e più tangibile segno. Infatti, una delle costanti fondamentali dell'operare di D. e del suo atteggiamento critico verso le sue stesse opere è la tendenza a dare interpretazione assoluta alle proprie esperienze umane e poetiche. Così, all'altezza della Vita Nuova, D. rivendica ai rimatori in volgare ciò che è concesso ai poete in lingua latina, per quello che è di alcuna figura o... colore rettorico, in quanto dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione (Vn XXV 4).

Nel Convivio (superato il limite, posto nella Vita Nuova, secondo cui i rimatori in volgare possono poetare solo di materia amorosa) giunge ad affermare, in evidente riferimento alle sue canzoni, che, se la variabilità costituisce l'inferiorità maggiore del volgare rispetto al latino, la stabilitade, ottenuta in legar sé con numero e con rime (I XIII 6), è stato il suo studio principale; d'altra parte, sempre nel Convivio, si hanno le ben note risolute parole di esaltazione dell'opera in prosa. La stagione delle grandi canzoni si concluderà, nel De vulg. Eloq., con la teoria della canzone tragica, offrendo ai rimatori volgari, e in primis a sé stesso, lingua e arte definite secondo regole stabili e stabilizzanti, togliendo così ogni differenza fra i magni poetae latini che hanno poetato sermone et arte, e i rimatori volgari, che hanno scritto poesia casu (II IV 3). D'altra parte, giungendo alla Commedia, l'ambizione di D. a dare interpretazione assoluta alle proprie esperienze poetiche evidentemente non si attenua, anzi diviene più intensa, addirittura fiammeggiante.

La sua legittima coscienza di poeta si fa sempre più superba e unificante, come appare potentemente dalle affermazioni sull'altezza del suo presente operare, a cui è necessaria l'invocazione alle Muse, e poi a Calliope e poi a Urania, e finalmente ad Apollo e a Minerva; lo sacrato poema (Pd XXIII 62), 'l poema sacro (XXV 1) da cui D. attende ormai l'alloro poetico, può essere avvicinato a opera di qual si sia comico o tragedo (XXX 24). Così, i termini con cui indica il suo poema e il poema di Virgilio (suprema espressione di tragedia) divengono fungibili, fino ad affermare, in riferimento all'Eneide, e in bocca a Virgilio, ciò c'ha veduto pur con la mia rima (If XIII 48).

Dice Benvenuto che nella Commedia, come c'è ogni parte della filosofia, così c'è ogni parte della poesia: rime dolci e leggiadre, rime aspre e sottili, rime aspre e chiocce. Del resto, davanti a questa realtà poetica del libro e al suo appellarsi Commedia non hanno nascosto il loro disagio commentatori antichi e moderni, tanto che qualcuno, come il Boccaccio, ha ristretto la convenienza del nome soltanto alla materia dell'opera in quanto (si legge testualmente) " Io stile comico è umile e dimesso, acciò che alla materia sia conforme; quello che della presente opera dire non si può, perciò che, quantunque in volgare scritta sia, nel quale pare che communichino le femminette, egli è nondimeno ornato e leggiadro e sublime, delle quali cose nulla sente il volgare delle femmine ".

Ma si hanno infinite altre spie che il comico della Commedia non può, sic et simpliciter, essere confrontato al comico come definito nel De vulg. Eloquentia. Nell'avvio infatti del XX canto dell'Inferno, D. proclama: Di nova pena mi conven far versi / e dar matera al ventesimo canto / de la prima canzon, ch'è d'i sommersi. Non può essere casuale che il teorizzatore della canzone come propria della poesia tragica si serva dello stesso termine per indicare poesia comica per eccellenza, e in un canto in cui il comico giunge alle sue espressioni più basse, addirittura all'elegiaco.

Il nodo è sciolto nella presentazione del Paradiso nell'epistola a Cangrande, ove D., dopo aver ripreso la consueta definizione della lingua comica, subito aggiunge, citando Orazio, che talora i comici possono parlare come gli autori di tragedie e viceversa; e finalmente, precisando ulteriormente la ragione stilistica per cui Comoedia dicitur praesens opus (XIII 31), afferma che, se guardiamo alla maniera del parlare, questa dell'opera presente è una maniera dimessa e umile, perché è un parlare volgare, nel quale anche le femminette comunicano. Ma ancor più chiaramente nella risposta all'egloga di Giovanni Del Virgilio, D. dà a comico il valore di ‛ volgare ' senz'altro: D., al rimprovero che egli (unico fra i poeti nella cui schiera si era trovato sesto) aveva scritto vulgaria, risponde al Del Virgilio riecheggiando appunto vulgaria con comica... verba (I 52), identificando cioè perfettamente comico e volgare. Del resto, l'espressione comica... verba dell'egloga dantesca è glossata nel codice Laurenziano con idest vulgaria (per tutta la questione, v. Baldelli, Sulla teoria...). E c'è un altro commentatore, fra i primi e i più autorevoli, Pietro, che interpreta ‛ comico ' anche come volgare; così, Antonio da Tempo giunge acutamente ad affermare: " Nam licet in consonantiis modus ille Dantis habuerit quasi formam serventesii, non tamen fuit serventesius, sed proprius potuit appellari tragoedia, licet ille librum suum appellaverit comoediam ".

Sappiamo bene quante prospettive cambino nel D. della Commedia rispetto alle opere precedenti: dall'affermazione posta in bocca ad Adamo nel Paradiso che la lingua si era trasformata già prima della confusione babelica, contro la teoria dell'immobilità linguistica fino a quell'atto di superbia, affermata nel De vulg. Eloq.; all'esaltazione, posta nel Purgatorio in bocca a Guido Guinizzelli, di Arnaldo Daniello su Giraldo da Borneill, di cui tanta stima D. aveva fatto nel De vulg. Eloq.; alle soluzioni diverse del problema delle macchie lunari date nel Convivio e nella Commedia, e così via. Ma certamente il cambiamento della concezione linguistica è un salto qualitativo ben più notevole: si tratta insomma di affermare che il comico, in quanto comprensivo di tutti gli stili, s'identifica senz'altro con la lingua, sulla misura del concreto operare della Commedia appunto. Tuttavia, più che di un salto, si tratta forse di un altro di quei problemi essenziali del poeta che nella Commedia trovano la loro più alta soluzione. Infatti, nella teoresi stilistica e linguistica sul volgare, nella Vita Nuova, nel Convivio, nel De vulg. Eloq., lo scoperto oggetto oppositivo del discorso dantesco è il latino: il latino è sentito come altra cosa dalla lingua del poetare di D., poetare che è nato e si è sviluppato dai provenzali, dai francesi e dai siciliani. Ma nella Commedia tutto questo è superato nel proporre sé stesso essenzialmente come continuatore dei grandi latini, in particolare dell'Eneide, interpretata escatologicamente. Non a caso una delle novità più forti della Commedia è appunto l'assunzione di un'enorme quantità di lessico degli scrittori latini classici e cristiani: da questo punto di vista l'emblematicità degl'incontri, e delle parole con Arnaldo Daniello, con Bonagiunta e con Guinizzelli, va giudicata alla stessa stregua di quella della presenza di Virgilio e di Stazio. Si ha qui insomma lo scioglimento del ‛ forse ' del De vulg. Eloq.: Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios qui usi altissimas prosas (II VI 7); Idcirco accidit ut, quantum illos proximius imitemur, tantum rectius poetemur (IV 3). Così, già sulla soglia dell'opera il poeta della tragedia latina è proclamato il maestro e l'autore da cui D. ha tratto lo bello stilo (If I 87). E poi D. si propone sesto fra tutti i poeti classici, e la gara continua attraverso dichiarazioni del tipo: Taccia Lucano... Taccia Ovidio (XXV 94-97). Nella Commedia insomma l'allievo, il continuatore, il superatore dei classici, sente la sua opera comica, appunto in quanto scritta nella lingua in cui comunicano anche le femminette: la Commedia volgare di D. grandeggia accanto alla Tragedia latina di Virgilio e ne è in certo senso la cristiana continuazione.

Probabilmente bisognerà tener conto di tutto questo, per tentare di comprendere le ragioni che spingevano D. all'adozione di uno schema poetico nuovo, nelle sue linee generali e soprattutto in quella che egli riteneva essere la struttura fondamentale del componimento poetico, cioè la stanza: tale stanza fu la terzina. Ma sotto l'impulso delle esigenze che abbiamo detto, nella Commedia anche altri elementi compositivi fondamentali sono ‛ nuovi ': così la distribuzione della materia in canti che si raggruppano in cantiche, a cui D. fa specifico riferimento nell'epistola a Cangrande: Prima divisio est, qua totum opus dividitur in tres canticas. Secunda, qua quaelibet cantica dividitur in cantus. Tertia, qua quilibet cantus dividitur in rithimos (Ep XIII 26). L'idea cioè di costruire un'unità metricamente autonoma, dell'estensione appunto del canto, è indubbiamente nuova, anche se può trovare un suggerimento nei ‛ canti ' in cui è divisa la grande poesia epica o narrativa latina (classica o medievale). Rispetto infatti anche a quei ‛ canti ' latini, D. innova in senso romanzo, attraverso l'invenzione di una struttura variabile, ma conclusa: le t. del canto possono variare di numero, ma sono tutte comprese fra due sole corrispondenze rimiche. Il canto cioè non è soltanto un insieme di t., ma ha clausole, per così dire, iniziali e finali, che ne fanno una struttura metrica unitaria. Il verso di chiusa della serie delle t., che il Baratella chiama ‛ verso rilevato ' (" tal regula dei ritimi finisce in verso relevado "), va visto quindi nella volontà di creare un equivalente rimico della t. di avvio. D'altra parte, tutta la sistemazione veniva sottesa all'emblematico numero 3: tre i versi delle t., tre volte ripetuta la stessa rima, trentatré i canti in ogni cantica, tre le cantiche; e si tenga conto di quanto sostenuto sulla centralità del ‛ tre ' nel numero dei versi dei canti, v. NUMERO.

Poiché nella Commedia elemento portante essenziale è la figura di Beatrice, il rinvio al capitolo XXIX della Vita Nuova, a un tal proposito numerico, è d'obbligo: con ciò sia cosa che... nove siano li cieli che si muovono... Lo numero del tre è la radice del nove... Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch'ella era uno nove, cioè uno miracolo (§§ 2-3; e si ricordi che il nove, come numero di Beatrice, ricorre sempre in Vn II 1-2, III 2, VI 2, XXVIII 3): si giunge cioè a " figurare Beatrice a simbolo tipologico, a typus Trinitatis gerens ", v. NUMERO. Del resto, trasferimento di tale idea ‛ numerica ' a elemento metrico strutturale si aveva già (sia pure in misura assai più ristretta) nel perduto serventese a cui D. si riferisce con le note parole: E presi li nomi di sessanta le più belle donne de la cittade ove la mia donna fue posta da l'altissimo sire, e compuosi una pistola sotto forma di serventese, la quale io non scrivero: e non n'avrei fatto menzione, se non per dire quello che, componendola, maravigliosamente addivenne, cioè che in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne (Vn VI 2; allo stesso serventese si fa riferimento in Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io, Rime LII). Tenuto conto di tutto questo, possiamo anche chiederci quali esperienze metriche siano probabile antefatto della terzina.

2. L'opinione più largamente accolta è che la t. dantesca s'ispiri alla stanza del serventese formata di tre endecasillabi monorimi più un quinario, che dà la rima alla strofa seguente (già Antonio da Tempo, e così Gidino da Sommacampagna e il Baratella, parla della t. come di uno speciale tipo di serventese). Per ottenere la t., D. avrebbe soppresso il quinario dando la funzione di esso al secondo endecasillabo: del resto il serventese che D. stesso dice di aver composto (Vn VI, Rime LII) potrebbe aver avuto proprio lo schema aaab, bbbc..., quello appunto dei più antichi serventesi pervenutici, v. SERVENTESE.

L'idea del Mari che sulla trasformazione della strofa del serventese abbia avuto influenza il metro della sestina, pare poco fondata, tenuto anche conto che le stanze della sestina dantesca non appaiono di norma scandite sintatticamente su tre versi. Sarà piuttosto da tener conto di altre esperienze metriche in cui la t. ricorre parzialmente; e subito vengono in mente le t. del sonetto, anche se va detto che di rado D. usa le rime alterne nei sei versi (ma vedi i sonetti del Fiore che, con quartine abba, presentano le t. secondo lo schema a rime alterne cdcdcd; v. SONETTO). Il proposito comico, almeno iniziale, della Commedia poteva infatti ben far rivolgere alla tecnica del sonetto.

Tuttavia, se noi analizziamo la principale connessione fra la tecnica del sonetto e in particolare delle t. finali di questo e quella della Commedia, cioè la rima, il divario appare impressionante: il sistema rimico dei sonetti è caratterizzato da una presenza massiccia di rime desinenziali e suffissali, che sono scarsissime invece nella Commedia. Nei sonetti poi tali rime desinenziali vanno di solito a intessersi con altre rime ‛ facili ' costituite da parole emblematiche del dolce stile (quali amore, core, dolore, gentile, umile, virtute, salute e così via: v. RIMA 6., 7., 7.1.).

È comunque piuttosto forte la rispondenza, ad esempio, di certe t. della tenzone di Forese (Di Bicci e de' fratei posso contare / che, per lo sangue lor, del male acquisto / sanno a lor donne buon cognati stare, Rime LXXVII 12-14) con avvii ‛ aspri e chiocci ' della Commedia (in Pd XXVII 40-46, nell'invettiva di s. Pietro, di tono violento, ricorre Cristo, ad acquisto, per acquisto, del sangue mio, sparser lo sangue). Tuttavia, alcune impressionanti consonanze di certi sonetti, e di certe t. di sonetti, con toni grandi della Commedia, vanno probabilmente deferite a una problematica che trascende la collocazione in sonetti. Inoltre, forse i sonetti con t. più in qualche modo vicine al fare della t. della Commedia, sono due sonetti di corrispondenza con Cino (Rime CXI e CXIII) già del tempo inoltrato dell'esilio, e dunque sul limite degli anni del poema sacro, se non proprio di quegli anni (il Torraca propone la data 1310-1312 e lo Zaccagnini 1307): Però nel cerchio de la sua palestra / liber arbitrio già mai non fu franco, / sì che consiglio invan vi si balestra. / Ben può con nuovi spron punger lo fianco, / e qual che sia 'l piacer ch'ora n'addestra, / seguitar si convien, se l'altro è stanco (CXI 9-14). È stato del resto osservato che " nei cinque sonetti indirizzati a Cino, come nelle ‛ canzoni petrose ', c'è quasi un diluvio di ‛ nuove ' parole: 39 dei 75 sostantivi non sono presenti nei gruppi precedenti " (P. Boyde, Dante 's Style, p. 102). Non è cioè improbabile che su almeno quei due sonetti rifluisca, in parte, l'esperienza della Commedia, come fanno pensare certe rime e certe metafore o parole usate metaforicamente (vi si balestra; liber arbitrio già mai non fu franco; nuovi spron punger lo fianco); e comunque, come si è detto, il problema travalica la sede specifica delle t. (per l'esame delle parole in rima usate da D. e le relative immagini, in confronto alle corrispondenti in Cino, v. Contini, Rime X-XII e P. Boyde, Dante's Style, pp. 102, 152-153).

La misura della t. è reperibile anche nei piedi della maggior parte delle canzoni dantesche, e se si tien conto del posto che le canzoni hanno sia nella prassi sia nella teoria poetica di D. è ragionevole pensare che anche queste ‛ terzine ', sia pure di rapporti rimici diversi dalla t. della Commedia, abbiano agito sull'invenzione di Dante.

In La dispietata mente (Rime L), Lo doloroso amor (Rime LXVIII), Donna pietosa e di novella etate (Vn XXIII 17 ss.), Li occhi dolenti per pietà del core (XXXI 8 ss.), Io son venuto al punto de la rota (Rime C), i due piedi hanno lo schema abc, abc (mentre in E' m'incresce di me, Rime LXVII; Io sento sì d'amor la gran possanza, Rime XCI; Amor, da che convien, Rime CXVI; Quantunque volte, lasso!, mi rimembra, Vn XXXIII 5 ss., i due piedi inseriscono nel secondo verso un settenario, ottenendo effetti ritmici in complesso assai diversi, come anche nelle ballate, Vn XII e Rime LVIII); finalmente, in Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete (Cv II) del Convivio, i piedi si presentano con lo schema abc, bac (qualcuno, probabilmente a torto, ha voluto vedere due volte di tre versi nella sirma di Donne ch'avete intelletto d'amore, Vn XIX 4 ss., che ha lo schema cddcee, v. CANZONE; Sonetto). Si tenga inoltre conto che D. più frequentemente fa coincidere la sintassi con la scansione nei due piedi, sì che la struttura a t. ne risulta rilevata; del resto nel De vulg. Eloq. la discettazione sulla corrispondenza fra i piedi e uguali movimenti musicali, va probabilmente interpretata anche come limite sintattico: tale scansione è segnata talora da pause notevoli, ma più di frequente dalla dislocazione di due diverse strutture sintattiche nelle due t., rapportate nei modi più diversi. Assai finemente, il Lisio (Arte del periodo, p. 192) richiama l'attenzione, sia pure a fini diversi dai nostri, su alcune canzoni (E' m'incresce di me, La dispietata mente, che pur mira, Io son venuto al punto de la rota), in cui si ha oltre alle pause fra i due piedi e fra i piedi e la sirma, una forte pausa dopo il nono verso, ottenendo così in tutte le stanze una sequenza di tre t.; in Io son venuto al punto de la rota nei nove versi di avvio (scanditi in tre t.) " si espongono i fenomeni dell'inverno, che tutto muta; e negli ultimi quattro, aperti sempre da un E..., la permanenza tenace degli effetti d'Amore, che non mutano mai " (per un'analisi di Io son venuto, v. CANZONE; Rima; I. Baldelli, Ritmo e lingua). Naturalmente non mancano casi in cui il limite fra i due piedi sia travalicato, come del resto può addirittura essere travalicato, sia pure anche più eccezionalmente, il limite fra fronte e sirma.

Possono essere visti insomma come antefatti della Commedia, anche coppie o insiemi di t. del tipo: Levava li occhi miei bagnati in pianti, / e vedea, che parean pioggia di manna, / li angeli che tornavan suso in cielo, // e una nuvoletta avean davanti, / dopo la qual gridavan tutti: Osanna; / e s'altro avesser detto, a voi dire'lo (Donna pietosa e di novella etate, Vn XXIII 25 57-62); o, di tutt'altro sapore: Fuggito è ogne augel che 'l caldo segue / del paese d'Europa, che non perde / le sette stelle gelide unquemai // e li altri han posto a le lor voci triegue / per non sonarle infino al tempo verde, / se ciò non fosse per cagion di guai; // e tutti li animali che son gai / di lor natura, son d'amor disciolti, / però che 'l freddo lor spirito ammorta (Io son venuto al punto de la rota, Rime C 27-35). Per di più, nella canzone da cui si trae quest'ultimo esempio, su cinque stanze, nelle prime due, le tre t. sono segnate vistosamente da tre e che si situano al passaggio dal primo al secondo piede, dai piedi alla. sirma, e al passaggio dai primi tre versi della sirma ai restanti quattro conclusivi (un artificio consimile scandisce piedi e sirma anche in Lo doloroso amor; v. Baldelli, Ritmo e lingua).

3. Lo studio della t. nel suo insieme ripropone dunque, fra i tanti problemi, quello dei rapporti fra la sintassi e il metro di Dante.

L'indagine più vasta e più approfondita che si sia fatta su questo aspetto è quella del Lisio, L'arte del periodo: " fu un esordio serio e dignitoso, anche se l'impronta positivistica dell'opera suscitò non poche critiche da parte di filologi di inclinazione idealistica " (Scaglione). Più tardi, alcuni studiosi come il Fubini, pur partendo da posizioni idealistiche, avvertono come essenziale l'indagine tecnica, giungendo a risultati notevoli anche sulla t. dantesca. Più recentemente i saggi danteschi del Contini (nessuno dei quali dedicati espressamente a problemi metrici), proponendo le operazioni del dantismo moderno ‛ sotto l'etichetta di critica verbale ', tendono a privilegiare fortemente l'indagine metrica, naturalmente correlata con gli altri mezzi euristici della critica stilistica (v. CANZONE). Contemporaneamente, dai più vari punti dell'orizzonte critico, le sempre più forti istanze alla formalizzazione degli aspetti stilistici spingono a indagini assai notevoli sul verso e sulla t. dantesca (Scaglione, Beccaria, Boyde).

Partendo da casi in cui ci sia perfetta coincidenza fra il verso e un'unità sintattica, fra la stanza e il periodo (o, nel caso di una canzone, fra le varie parti della stanza e il periodo), si può giungere, almeno teoricamente, a un totale e intenzionale travalicamento sintattico dei vari limiti metrici, attraverso i più differenti gradi di attenuazione e di superamento.

Naturalmente, in un esame del genere vi è un certo margine d'incertezza, proprio perché si può partire da criteri diversi. Nell'indagine del Lisio, L'arte del periodo, p. 92 si parte da un criterio restrittivo: " Perché l'armonia di un verso vada sperduta o soltanto dileguata, conviene sia rotto fortemente a mezzo, o vero che la sua fine si attacchi così stretta al principio seguente, da non permettere con la pausa ritmica la più lieve pausa del senso ". In sostanza si ritiene che soltanto l'enjambement o rotture interne del tipo d'inizio di una battuta dialogica (come Venimmo a lei: o anima lombarda, Pg VI 61), o simile, determinino il dileguo dell'armonia del verso. Il Boyde (Dante's Style, pp. 183-185) distingue invece fra enjambements e ‛ unstopped lines ', e anche ‛ midstopped lines '. Misurando i due criteri sul piano operativo, ci sembra più persuasivo ritenere, ad esempio, col Lisio, coincidente sintassi e metro nella t. del sonetto di Vn XV vv. 8-12, che, col Boyde, vedervi rottura (lettura proposta dal Lisio: Peccato face chi allora mi vide / se l'alma sbigottita non conforta / sol dimostrando che di me li doglia / per la pietà che; lettura proposta dal Boyde: Peccato face / chi allora mi vide / se l'alma sbigottita non conforta sol dimostrando / che di me li doglia per la pietà / che).

4. Prima di esaminare il rapporto sintattico-metrico internamente alla t. o fra le t., ricordiamo alcuni dati, per lo stesso rapporto, sulla poesia di D. precedente alla Commedia, cominciando dalla non-coincidenza in relazione alle parti costituenti la stanza (sia del sonetto, sia della canzone, sia della ballata).

Dai calcoli (e dai criteri) del Lisio, si può trarre che nel 90% dei casi il limite metrico fra le parti strutturali della stanza coincide con il limite sintattico (Lisio, L'arte del periodo, pp. 107-112); anche con i criteri del Boyde, tale percentuale è sempre altissima, cioè più dell'80% (Boyde, Dante's Style, pp. 186-187).

Le canzoni dottrinali presentano la massima rottura, nel D. lirico, dell'unità verso-sintassi; già questo dato ci indica una delle linee principali della rottura del metro attraverso la sintassi: la meditazione filosofica può tendere al discorsivo, all'andamento logicizzante e quindi prosastico, attenuando cioè l'effetto ricorrente degli accenti e della misura endecasillabica. È interessante confrontare, anche per quel che vi può essere d'insegnativo per lo studio dello stesso problema nelle t. dantesche, una canzone come Le dolci rime d'amor ch'i' solia (Cv IV) e Tre donne intorno al cor mi son venute (Rime CIV): in Le dolci rime la rottura è frequentissima (con sequenze del tipo riprovando 'l giudicio falso e vile / di quei che voglion che di gentilezza / sia principio ricchezza, vv. 15-17; che l'uom chiama colui / omo gentil che può dicere: ‛ Io fui / nepote, o figlio, di cotal valente ', vv. 34-36), mentre in Tre donne, l'andamento metaforico e immaginifico, la presenza di rime difficili, spingono a una forte scansione dei metri, con relativamente rare rotture sintattiche e di solito in presenza di settenari. E si veda l'alta oratoria logicizzante di Amor, da che convien pur ch'io mi doglia (Rime CXVI) in cui, fra l'altro, si ha un vero e proprio campionario di enjambements: poi la riguarda, e quando ella è ben piena / del gran disio che de li occhi le tira, vv. 22-23; ma più non posso: fo come colui / che, nel podere altrui, vv. 38-39; Quando son presso, parmi udir parole / dicer: " Vie via vedrai morir costui! ". / Allor mi volgo per veder a cui / mi raccomandi; e 'ntanto sono scorto, vv. 41-44; se dentro v'entri, va' dicendo: " Ormai / non vi può far lo mio fattor più guerra... ", vv. 80-82.

Già a livello del D. lirico sarà piuttosto da mettere l'accento sui casi in cui la rottura delle unità ‛ parti della stanza '-sintassi e verso-sintassi si presenti contestualmente con altri caratteri compositivi eccezionali. Il sonetto Un dì si venne a me Malinconia, RimeLXXII, è uno dei pochissimi danteschi che travalichi il limite delle quartine e delle t. attraverso un forte enjambement; e lo travalica proprio dove ci imbattiamo in un endecasillabo di accento di quinta sillaba, eccezionale nel D. lirico: guardai e vidi amore, che venia // vestito di novo d'un drappo nero (vv. 8-9); si aggiungano quattro versi rotti dal dialogo e un altro enjambement al v. 3, e l'insolito, in D., andamento a rime alterne delle t. dei sonetti cdcdcd. I dati tecnici, in maniera impressionantemente solidale, consuonano con i motivi luttuosi di tale sonetto della ‛ collera nera '.

Del resto, anche nel giovanile Non mi poriano già mai fare ammenda (Rime LI) il taglio sintattico rompe sia l'unità delle varie parti della lirica, sia l'unità dei versi (questa volta in relazione a un intento discorsivo e medio), con i primi quattro versi sintatticamente congiunti, fino ad aversi sed elli / non s'accecasser, poi la Garisenda / torre miraro, e, proprio al limite fra le due t., onde dolenti // son li miei spirti. Un consimile travalicamento fra quartine e t. è, assai istruttivamente, in Com più vi fere Amor co' suoi vincastri (Rime LXII), ove " per la prima volta troviamo Dante alle prese con le rime rare e il linguaggio aspramente metaforico che faranno il grande Dante delle rime petrose e di certe zone della Commedia " (Contini, Rime 50). Qui l'enjambement si avvia con un verso spezzato a metà da una forte pausa, mentre i versi 7-8 e 9-10 sono legati da enjambements, sia pure di minor cogenza: che 'l mal d'Amor non è pesante il sesto / ver ch'è dolce lo ben. Dunque ormai lastri // vostro cor lo cammin per seguitare / lo suo sommo poder, se v'ha sì punto. L'elemento accertato andrà qui insomma considerato proprio del poetare aspro e chiuso, solidalmente con la qualità delle immagini e del lessico, della rima equivoca nelle t. (su punto), e finalmente delle rotture interne del verso (vv. 3, 4, 5 e le già considerate ai vv. 8 e 10). E si pensi alle pause attenuate fra le due quartine, fra le quartine e le t. e fra le due t. di Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare (Rime LXI). In un caso almeno si ha, per altro, la rottura della pausa fra le due quartine del sonetto attraverso una sintassi enumerativa, in cui appunto l'elencazione travalica il quarto verso: Tutti li miei penser parlan d'Amore; / e hanno in lor sì gran varïetate, / ch'altro mi fa voler sua potestate, / altro folle ragiona il suo valore, // altro sperando m'apporta dolzore, / altro pianger mi fa spesse fïate, Vn XIII vv. 1-6.

Nella prima stanza di Donne ch'avete intelletto d'amore (Vn XIX), che è come l'alta proclamazione dell'intenzione poetica, esemplarmente i tre periodi coincidono rispettivamente con i due piedi e la sirma; nella seconda stanza invece, così dialogicamente animata, il terzo verso del secondo piede ne rompe l'unità, mentre il quarto si stringe al primo della sirma; il quale primo verso della sirma viene a essere fortemente separato dagli altri. Una tal rottura va vista contestualmente alla presenza di ben cinque enjambements e di due versi, il 16 e il 27, interrotti dall'inizio di una battuta dialogica: insomma, una diecina di versi su 14 rompe l'unità verso-sintassi (qualcosa di simile si ha nella quinta stanza, dove le pause principali non sono dopo il 4° e l'8° verso, ma dopo il 5° e il 7° e il 9°).

La canzone Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato (Rime LXXXIII) è impiantata su uno schema che produce una forte vicinanza di rime, vicinanza, come ben si sa, fortemente condannata nel De vulg. Eloq.; offre l'unico caso di rima sdrucciola di tutto il D. lirico (intendere: vendere, vv.- 33-34); esibisce continui provenzalismi, alcuni dei quali senza altra attestazione in D. (messione, fallenza, genti coraggi, donneare, blasmata, ecc.); e tutto il procedere della canzone dà un'impressione di faticata retorica. Sarà in questo contesto che dovremo sentire la rottura della pausa fra i piedi e la sirma della prima stanza, e le pause assai tenui che si hanno, sempre fra piedi e sirma, nelle due ultime stanze (e in tutta la canzone spesseggiano le rotture sintattiche dei versi).

5. Anche la coincidenza fra verso e pausa grammaticale appare largamente osservata sia nel D. lirico sia nel D. della Commedia: " Di tutti i versi danteschi, approssimativamente, l'ottava parte non concorda con la pausa grammaticale; e, proporzionatamente, nel Canzoniere una sedicesima parte, nella Commedia una settima. Anche in questa si va progredendo di libertà dai primi canti, a quelli di mezzo, agli ultimi: la differenza riesce anzi sorprendente " (Lisio, L'arte del periodo, p. 96). Il Boyde sostanzialmente conferma, per il D. lirico, tali basse percentuali di rottura sintattica.

Tuttavia, impressionanti rotture non mancano anche nel D. lirico (come in parte già si è visto), e anche nelle liriche più evidentemente tendenti al soave e al dolce. Cominceremo indicando in una canzone della Vita Nuova e in una petrosa enjambements ottenuti con una locuzione congiuntiva, interrotta appunto alla fine del verso: in Li occhi dolenti per pietà del core (Vn XXXI), per ben due volte si ha ‛ poi / che ': e dicerò di lei piangendo, pui /che si n'è gita in ciel subitamente (vv. 12-13); e quale è stata la mia vita, poscia / che la mia donna andò nel secol novo (vv. 60-61); in Io son venuto al punto de la rota (Rime C), si hanno per ch'io son fermo di portarla sempre / ch'io sarò in vita, s'io vivesse sempre (vv. 51-52), e che ora è fatto rivo e sarà mentre / che durerà del verno il grande assalto (vv. 57-58; e in Così nel mio parlar voglio esser aspro, Rime CIII, si ha un enjambement, in cui il verso finisce con una preposizione che ha il complemento all'inizio del seguente: fuggendo corre verso / lo cor, che 'l chiama; ond'io rimango bianco, vv. 46-47). Del resto, già il Lisio (Arte del periodo, p. 94) aveva messo l'accento sulla forte presenza di enjambements proprio in queste due petrose. Fra i numerosi enjambements infatti di Io son venuto si aggiungano almeno i consecutivi e passa il mare, onde conduce copia / di nebbia tal, vv. 17-18, e e poi si solve, e cade in bianca falda / di fredda neve, vv. 20-21; e l'avvio del congedo: Canzone, or che sarà di me ne l'altro / dolce tempo novello, quando piove / amore in terra da tutti li cieli, vv. 66-68, in cui si ha un doppio enjambement.

In Così nel mio parlar, si noti che la stragrande maggioranza dei settenari risulta sintatticamente congiunta ai versi seguenti (ad esempio, che disteso a riverso / mi tiene in terra d'ogni guizzo stanco, vv. 42-43). E una quantità relativamente forte di prosecuzione di struttura sintattica oltre la fine del verso si ha in presenza di settenari, anche in altre canzoni: ad esempio, nella canzone E' m'incresce di me (Rime LXVII; si ricordi che questa canzone dell'amor doloroso, come si è osservato prima, rompe in due casi la pausa fra piedi e sirma, nella prima e nella seconda stanza, e almeno in altri due la rende assai tenue, nella quarta e nella sesta stanza); così anche nella ballata Per una ghirlandetta (Rime LVI), di cui basti ricordare l'avvio: Per una ghirlandetta / ch'io vidi, mi farà / sospirare ogni fiore. In Donna pietosa e di novella etate (Vn XXIII) invece quasi tutti i settenari sono anche sintatticamente autonomi, ben in relazione all'andamento spezzato della canzone. E nei due casi in cui si hanno nei piedi coppie di settenari, in Poscia ch'Amor (Rime LXXXIII), e in Tre donne (Rime CIV), abbastanza spesso tali coppie costituiscono un'unità sintattica (ad esempio, cioè in gente onesta / di vita spiritale, Rime LXXXIII 80-81).

Del resto, il problema dell'enjambement è assai complesso, anche in relazione alle diverse pause dei versi che lo comprendono e che possono determinare rapporti ritmici i più diversi. Ad esempio, specialmente quando s'inseriscano parti dialogiche, l'enjambement è uno dei tanti elementi che concorrono al frangimento generale dell'endecasillabo; basti qualche esempio: e vemmene pietà, sì che sovente / io dico: " Lasso!, avviene elli a persona? ", Vn XVI 7 3-4; Poscia piangendo, sol nel mio / lamento chiamo Beatrice, e dico: " Or se' tu morta? ", XXXI 14 54-55; Dite: " Madonna, la venuta nostra / è per raccomandarvi un che si dole / dicendo: ov'è 'l disio de li occhi miei? "; oppure si vedano anche casi del tipo Lasso! non donne qui, non genti accorte / veggio, a cui mi lamenti del mio male, Rime CXVI 67-68.

In altri casi invece l'enjambement mira al dilatamento ritmico del verso oltre la misura endecasillabica; anche qui, appena qualche esempio: Ma se tu mirerai il gentil atto / de li occhi suoi, conosceraila poi, Rime LXXI 12-13 (un rapporto, per così dire inverso, si ha in E altre donne, che si fuoro accorte / di me per quella che meco piangia, Vn XXIII 18 7-8); sì che mi giunse ne lo cor paura / di dimostrar con li occhi mia viltate, Vn XXXV 6 7-8; Queste parole si leggon nel viso / d'un'angioletta che ci è apparita, Rime LXXXVII 18-19. Come esempio di strutturazione sintattica di ampio respiro, incardinata su un vasto ampliamento del ritmo endecasillabico, ricordo almeno: Color d'amore e di pietà sembianti / non preser mai così mirabilmente / viso di donna, per veder sovente / occhi gentili o dolorosi pianti, / come lo vostro, qualora davanti / vedetevi la mia labbia dolente, Vn XXXVI 4 1-6.

6. Nella t. tali complesse esperienze ritmiche e sintattiche sono ovviamente utilizzate e ampliate, anzi sublimate. La t. e il canto di t. già in partenza si presentano come qualcosa di ritmicamente chiuso e insieme aperto: di tale apertura è garanzia l'incatenamento continuo delle rime. Di contro cioè alle cogenti strutture delle liriche, nella Commedia, sia i versi, sia le t., pur conservando assai spesso la loro individualità ritmico-sintattica, immessi nella catena ininterrotta delle rime, tendono a un'infinita varietà di discorso.

Per quello che è della coincidenza fra periodo e t., riportiamo i dati statistici del Lisio (L'arte del periodo, pp. 114-115): " Di fronte a 4711 terzine, noi abbiamo 3422 periodi "; di tali 3422 periodi " soltanto 208 non terminano se stessi o parte intera di sé col metro. Le eccezioni sono ripartite così: 101 all'Inferno, 63 al Purgatorio, 44 al Paradiso. I periodi di una terzina sono 2152; di due terzine 774; di tre 174; di quattro 36; di cinque 11; di sei 5, di sette 2, di otto 1, di nove 1. Di un verso ce ne sono 84, di due 849; di frazioni o di più versi 129. Il maggior numero de' frazionamenti, 60 circa, ricorre nell'Inferno: il minor numero, 32, nel Paradiso ". " E si può anche affermare che, a mano a mano che Dante procede, dopo i primi passi dubbiosi, nella esecuzione formale, così si avvezza sempre più a pensare in terzine, a regolare e distribuire, entro questa misura e nell'ordine trino, concetto e forma ".

Va tuttavia detto che una tale statistica e tali computi lasciano non poche incertezze, quando si pensi che il Lisio giunge ad affermare " che per canti interi non una pausa è trascurata, non un sol periodo rompe la terzina: tali, ed esempio, il XXV, XXXII, XXXIII del Purgatorio; il IV, VII, XIII, XIV, XVIII, XXII, XXVIII, XXIX, XXX del Paradiso "; mentre in nessuno di tali canti si ha identità fra metro e sintassi del tipo dell'affermata: basti pensare, nel XXV del Purgatorio, al periodo che si distende in tre t. ai vv. 67-75; nel XXXIII, a quello che si distende in due t., ai vv. 25-30, o alle due t. di XXXIII 118-123 Per cotal priego detto mi fu: " Priega / Matelda che 'l ti dica ". E qui rispuose, / come fa chi di colpa si dislega, // la bella donna: " Questo e altre cose / dette li son per me; e son sicura / che l'acqua di Letè non gliel nascose ", ove alla congiunzione sintattica fra le due t., si aggiunge una serie notevolissima di altre rotture sintassi-ritmo, sì da avere, su sei, un solo verso (o forse anche un secondo) con coincidenza sintassi-verso: lo stesso si può affermare dei canti del Paradiso citati dal Lisio.

Con ogni probabilità quindi la flessibilità metrica della t. rispetto alla sintassi è più forte di quanto non risulti dai computi del Lisio.

D'altra parte, l'aver troppo legato l'invenzione della t. al serventese ha indotto a insistere sulla diversità del tono sintattico-ritmico dei primi canti della Commedia, ove " la rima è ancora facile, ovvia, e il susseguirsi delle rime vicine serve a tener ferma l'attenzione; lo stile è dimesso, ben diverso dall'alto stile della canzone esaltato nel De Vulgari eloquentia; la sintassi è alquanto semplice " (Fubini, Metrica e poesia, p. 173). I modi enumerativi, presenti specialmente nei primi canti (If IV 121 ss.; V 58 ss.), hanno confermato l'idea che D., in partenza almeno, sentisse l'opera sua come una sorta di serventese: quelle enumerazioni sarebbero insomma le parti del poema più vicine al punto di partenza tecnico.

L'esame della t. del primo (o dei primi canti) dell'Inferno non porta a risultati sicuri, da questo punto di vista; e basta confrontarne i risultati con quelli ottenibili dall'esame del primo del Purgatorio e del primo del Paradiso. Ad esempio, la struttura ritmico-sintattica, tutta scandita sulla misura della t., dei due discorsi di Virgilio nel primo dell'Inferno, domina i due discorsi di Catone e anche quello di Virgilio nel primo del Purgatorio (con la notevole eccezione delle due t. 76-81, fortemente congiunte: ove son li occhi casti // di Marzia tua); e anche il discorso di Beatrice del primo del Paradiso è sostanzialmente sotteso al rispetto della misura della terzina. Per contro, già nel primo canto dell'Inferno si coglie il tipo di periodo, largamente utilizzato lungo tutto il poema, distendentesi su due t.: ai vv. 13-17 Ma poi ch'i' fui... // guardai in alto; ai vv. 49-54 Ed una lupa... // questa mi porse; e similitudini, le cui due parti messe a confronto occupano rispettivamente le due t., ai vv. 22-27 E come quei che... // cosi l'animo mio, e ai vv. 55-60 E qual è quei... // tal mi fece).

Più rilevanti i due enjambements che legano tre t. consecutive, vv. 37-45 l'amor divino // mosse... a la gaetta pelle // l'ora del tempo. A ulteriore riprova della franchezza con cui D. imprende il nuovo metro, basti citare le due prime t. del canto II, congiunte da un forte enjambement, mentre il terzo verso della prima s'interrompe a metà: Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno // m'apparecchiava a sostener la guerra.

Che D. riesca a maneggiare la t. già nei primissimi canti in maniera estremamente varia, essendo giunto alla t. dopo una complessa serie di esperienze ternarie, si può cogliere anche in altri particolari. Ci contenteremo d'indicare due casi opposti, tratti ambedue dal secondo canto: ai vv. 58-66, ecco un ampio discorso scandirsi su tre parti, dell'ampiezza ognuna di una t.: " O anima cortese mantoana, / di cui la fama ancor nel mondo dura, / e durerà quanto 'l mondo lontana, // l'amico mio, e non de la ventura, / ne la diserta piaggia è impedito sì nel cammin, che vòlt'è per paura; // e temo che non sia già sì smarrito, / ch'io mi sia tardi al soccorso levata, / per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito (e si noti l'esatta corrispondenza ritmico-semantica, alla prima t. citata, della t. di avvio della risposta di Virgilio, appunto a Beatrice, vv. 76-78 " O donna di virtù... "); ai vv. 31-36, si hanno due t. consecutive, frante in numerosi periodi: Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?; poi, due periodi di un verso, ancora un periodo di due versi e finalmente: Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono. Forse, allora, più che insistere su un ipotetico tono da serventese proprio dei primi canti dell'Inferno, sarà sufficiente l'osservazione che la narrativa dall'avvio portava con sé minori occasioni, o necessità, di tensioni stilistiche di particolare esponente. Il che non vuol dire che procedendo nel poema non si avverta un più forte dominio del mezzo tecnico; e si ricordi quanto sosteneva il Lisio sulla maggior libertà sintattica, rispetto al ritmo, che il poeta ottiene a mano a mano che procede dall'Inferno al Purgatorio, al Paradiso.

7. Naturalmente concentrare l'attenzione su un aspetto compositivo dell'opera (in questo caso, sulla t.) è legittimo soltanto nella coscienza della contestualità di un tale aspetto alla totalità dell'espressione. E d'altra parte, un'operazione del genere, pur rischiosa, può risultare utile nella misura in cui il proiettare una fonte luminosa fortemente e intenzionalmente angolata può rilevare particolari importanti di una realtà architettonica. Può accadere così che la ripetizione, l'allitterazione, la rima interna, l'assonanza interna, continuamente perseguite nella poesia dantesca, vengano come a essere rilevate attraverso giaciture sintattico-ritmiche di particolare rilevanza; in altri termini, la parola, nei suoi diversi spessori semantici, fonici e simbolici viene spesso a porsi in forte tensione con la struttura metrica generale, acquistando quindi un risalto incomparabile.

Ecco un luogo in cui le studiate allitterazioni, i suoni delle rime risalenti lungo i versi, le assonanze e le consonanze vengono, per così dire, esaltati da situazioni sintattico-ritmiche piuttosto singolari. Nelle tre t. E io: " Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno, / vermiglie come se di foco uscite // fossero ". Ed ei mi disse: " Il foco etterno / ch'entro l'affoca le dimostra rosse, / come tu vedi in questo basso inferno ". // Noi pur giugnemmo dentro a l'altre fosse / che vallan quella terra sconsolata: / le mura mi parean che ferro fosse (If VIII 70-78), si coglie l'avvio di alta, intenzionale retorica in entro-certe-cerno; poi le ripetizioni foco-foco-affoca e, con allitterazione congiungente, fóssero, fòsse, fósse, con, per di più, rima equivoca e la di per sé allitterante coppia ferro fosse: in una situazione del genere, il fortissimo enjambement, che supera il limite fra le due prime t., vermiglie come se di foco uscite // fossero (con successiva forte pausa dopo appunto fossero, e distruzione del ritmo di tal verso, risegmentato da altra pausa), viene quasi a essere l'impetuoso centro di un tal gorgo ritmico-fonico; quel fossero in così intenso rilievo avvia la rima successiva (rosse, fòsse, fósse), costituendosi, per di più, in terza (pseudo-) rima equivoca (fossero, fòsse, fósse); né sarà da trascurare la consonanza con disse-basso.

Studiando il contesto ritmico degli endecasillabi (v. ENDECASILLABO 4.), si è notata la compresenza nel canto XII dell'Inferno di elementi ritmici rivelanti l'intenzione del faticoso e dell'oscuro: insieme ad almeno 5 endecasillabi con forte accento secondario di 9ª sillaba, insieme ad altri numerosi di 4ª e di 7ª, si colgono i due versi parea che di quel bulicame uscisse, If XII 117, e le lagrime, che col bollor diserra, v. 136: quest'ultimo verso andrà meglio giudicato ricordandone la posizione in forte enjambement, proprio a cavallo di due t., dopo un verso fortemente franto: La divina giustizia di qua punge / quell'Attila che fu flagello in terra, / e Pirro e Sesto; e in etterno munge // le lagrime, che col bollor diserra, / a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo (XII 133-137).

Quello che è certo è che la tipologia della stanza dantesca, anche per quel che riguarda più strettamente la giacitura del verso in essa, nella Commedia raggiunge una varietà, una spregiudicatezza assai più ampia e più complessa di quanto si avesse nella stanza del D. lirico; stanza tuttavia che - specie nelle canzoni - certamente non si presentava monotona. Qui basti riferirci agli enjambements.

L'enjambement può essere, per così dire, di grado diverso in proporzione dell'intensità del vincolo grammaticale delle parti del discorso separate dalla fine del verso: è chiaro che se a cavallo dei due versi si pongono un aggettivo e il sostantivo relativo, le parti di una forma verbale composta, le parti di una locuzione grammaticale (del tipo dell'esaminato mentre / che), si ha un enjambement più forte che nel caso di soggetto più verbo, di sostantivo più complemento (che non sia complemento di specificazione). La tipologia dell'enjambement dantesco è vastissima e ampia ne è l'utilizzazione: ci accontenteremo d'indicare alcuni tipi, ribadendo ancora una volta che l'enjambement talora tende a frangere il ritmo del verso e della t., ma assai spesso, attraverso la tensione fra sintassi e ritmo evidenzia gli elementi interessati; un tal elemento strutturale va per certo visto sempre contestualmente a tutti gli altri elementi sintattici, ritmici, di suono e semantici.

Uno degli enjambements più praticati da D. è quello aggettivo più sostantivo del tipo quel giusto / figliuol d'Anchise, If I 73-74; la nimica / biscia, IX 76-77; per la mesta / selva, XIII 106-107; le divote / ombre, Pg XIII 82-83; li pii / spiriti, XXI 70-71; per la profonda / notte, XXIII 121-122; tanto egregia / nazione, Pd XIX 137-138; contemplanti / uomini, XXII 46-47; per questa dia / regïon, XXVI 10-11; e si vedano per questo iscoglio, If XXI 106-107; in questa / disagguaglianza, Pd XV 82-83; quello / dubbio, XIX 32-33 (significativamente nella tenzone con Forese si ha mal fatata / moglie, Rime LXXIII 1-2).

La coppia aggettivo-sostantivo riceve da una tal posizione un risalto eccezionale; come anche la coppia in enjambement costituita da sostantivo più complemento di specificazione (anche se meno frequenti dei primi): nerbo / del viso, If IX 73-74; nodo / del collo, XXX 28-29; velo / del sonno, Pg XXXII 71-72; opere sozze / del barba, Pd XIX 136-137 (per in su la riva // del mar, If XXX 18-19, che travalica la t., v. Scaglione).

Assai meno frequenti gli enjambements su preposizioni e sostantivo relativo, del tipo dopo / le nostre spalle, Pg XVIII 89-90; o su parti di forme verbali composte, del tipo giunte / siete, If XIII 139-140; fuoro / abbandonati, Pg IX 22-23; fue / morta, XVIII 133-134; eramo / rimossi, XXXII 35-36.

Un caso a parte è costituito dalle rime composte, che sono, per la maggior parte, in forte enjambement, e che talora appaiono in contesti di estrema artificiosità: ma per queste, come per gli enjambements su mentre / che e avante / che, e i loro contesti, v. RIMA 15. (e così per altri casi, discussi nel loro contesto). Si aggiungano e girerommi, donna del ciel, mentre / che seguirai tuo figlio, e farai dia / più la spera suprema perché li entre, Pd XXIII 106-109; per prima / che si ricorda l'avvio di If VIII 1-2, e Pg IV 117-118 con poscia / che, a cavallo di due t.; Pd XLV 16-17, con poi / che. Con locuzione prepositiva disgiunta si cita sì che, pentendo e perdonando, fora / di vita uscimmo a Dio pacificati, Pg V 55-56.

Proprio in relazione a tali contesti si è osservato come talora gli enjambements siano consecutivi. Si vedano ancora casi che determinano appunto la pausa principale a metà del secondo verso della t., sì che i tre versi tendono, per così dire, a spaziarsi in due ampissimi; e anche qui ci contenteremo di qualche esempio: La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a' capelli / del capo ch'elli avea di retro guasto, If XXXIII 1-3; e credendo s'accese in tanto foco / di vero amor, ch'a la morte seconda / fu degna di venire a questo gioco, Pd XX 115-117; e si vedano Pg XIV 118-120 (e la t. seguente); VII 121-123; Pd V 43-45.

8. La fenomenologia del variare della t. dantesca (anzi delle t.) attraverso la sintassi, è assai ampia: gli enjambements e i frangimenti interni, spesso operanti in impressionante sinergia (insieme all'infinito variare della struttura del verso), danno all'endecasillabo, alla t. tutta intera, ai gruppi di t. quel ritmo vasto e mutevole che ha suggerito a più di uno studioso l'immagine della vastità e della varietà del mare, come ricorda l'Auerbach.

Comunque, come si è visto, sia i dati statistici, sia le osservazioni su singole parti della Commedia concordano nel rilevare che la misura della t. è più di frequente osservata.

A un tal proposito, il Fubini ritiene che " nella creazione della terzina ha avuto una parte determinante la consuetudine del ragionamento scolastico, del sillogismo ternario, per il quale il pensiero si articola attraverso tre proposizioni " (p. 178); lo stesso Fubini produce poi un'ampia esemplificazione di t. concluse nel giro di un ragionamento di tipo scolastico, mentre spesso si ha quasi " una genesi interna da terzina a terzina " (ad esempio, If XXIV 43-57; Pd XXIX 10-30; XXX 22-45), fino ad ampi periodi di t. (ad esempio, If XXII 1-12), e a periodi di due t., in cui " ogni terzina chiude in sé una minore entità ": ad es. in Pd XXXIII 22-33, dove gli enjambements legano i versi delle singole t. e le due coppie di t. procedono con stretto parallelismo: Or questi, che da l'infima lacuna / de l'universo infin qui ha vedute / le vite spiritali ad una ad una, // supplica a te, per grazia, di virtute / tanto, che possa con li occhi levarsi / più alto verso l'ultima salute. // E io, che mai per mio veder non arsi / più ch'i' fo per lo suo, tutti miei prieghi / ti porgo, e priego che non sieno scarsi, // perché tu ogne nube li disleghi / di sua mortalità co' prieghi tuoi, / sì che 'l sommo piacer li si dispieghi.

Un'ulteriore esemplificazione di coppie di t. che dislocano le due parti principali del periodo nelle due t., appare superflua: ci contenteremo di vedere in un canto scelto quasi a caso, l'undecimo del Purgatorio, il comportamento delle coppie di terzine. In ben sei coppie (ai vv. 1-6, 25-30, 37-42, 46-51, 52-57, 133-138) si hanno appunto le due parti del discorso ben dislocate nelle due terzine. Ma - sempre per tener ben conto dell'estremo variare di ogni stilema dantesco - nella coppia ai vv. 61-66 si ha un intenso discorso unitario che travalica il limite tra le due t. (ponendo il che reggente la consecutiva all'inizio del terzo verso della prima t.); nella coppia ai vv. 73-78, si può avvertire frattura fra le due t., per il polisindeto che s'inizia appunto al primo verso della seconda t. e videmi e conobbemi e chiamava; anche nella coppia ai vv. 103-108 si potrebbe avvertire frattura fra le t., ma l'interrogazione a metà del primo verso della seconda t. (pria che passin mill'anni? ch'è più corto) stabilisce veramente un rapporto assai complesso; nella coppia che immediatamente segue, ai vv. 109-114, si ha invece il rapporto 2 versi + 4, abbastanza frequente lungo tutta l'opera; nella coppia ai vv. 127-132, la complessa sintassi lega in discorso unico le due terzine.

Assai frequenti sono le similitudini su due t., una delle quali contiene il ‛ come ' e l'altra il ‛ così ': citiamo appena If II 127-132, III 112-117, IX 76-81, XVI 22-26, XXII 19-24 (cui segue una similitudine su due t. diversamente strutturate), XXV 79-84, XXX 136-141, XXXI 34-39, XXXII 31-36; Pg XIV 67-72; XVIII 28-33, 91-96, XXIII 16-21, XXV 10-15, XXVII 37-42, XXXI 16-21, XXXIII 130-135; Pd I 49-54, VIII 16-21, XIV 19-24, 70-75, 118-123, XVIII 22-27, XIX 34-39, 91-96, XX 73-78, XXIII 79-84, XXIV 13-18, XXV 103-108, 130-135, XXVI 85-90, XXIX 25-30, XXX 46-51, 91-96, 109-114.

Tali similitudini possono essere anche viste come uno dei segni di un certo procedere simmetrico che si coglie da diversi punti di vista nella Commedia. A un tal proposito viene in taglio di citare le due similitudini consecutive, ambedue su due t., scandite nel modo detto, in Pg XXIV 64-75 e in Pd XVIII 58-69; e si vedano anche le due similitudini consecutive di If XXVI 25-42, ambedue scandite su tre t., le prime due sul simigliato, la terza sul simigliante; o anche le due similitudini consecutive sugli stornei e sui gru nel canto dei lussuriosi, ambedue scandite su due versi più due (If V 40-43; 46-49). Ma affrettiamoci subito a dire fu che appena ci si azzarda a indicare uno schema ritmico o ritmico- sintattico della Commedia, subito si affolano gli esempi di variazione più vasta: basti anche qui citare due similitudini consecutive, la prima delle quali la prima delle quali scandita su due t. parallele, la seconda con il come su due versi (anzi, su un verso e mezzo) e il così su quattro: Come quando la nebbia si dissipa... [3 versi] così forando l'aura grossa e scura... [3 versi]; però che, come su la cerchia tonda... [2 versi] così la proda che 'l pozzo circonda... [4 versi] (If XXXI 34-45).

9. Naturalmente, nell'imponente spessore della poesia della Commedia, si possono cogliere altri procedimenti simmetrici, sempre insieme a procedimenti di segno opposto. Si possono così avere simmetrie puramente ritmiche e simmetrie segnate anche dall'anafora di parole o gruppi di parole. Del primo tipo, basti indicare i due ampi periodi, ognuno dei quali su quattro t. ben distinte, con cui si apre il canto IX del Purgatorio.

Più vistose e impressionanti, le frequenti simmetrie, che scandiscono di solito t. unitarie, segnate dall'anafora.

A mezza strada fra il primo e il secondo tipo le due coppie di t. simigliantemente strutturate, rette dalle invocazioni Ahi gente... O Alberto tedesco..., nell'invettiva all'Italia del canto VI del Purgatorio, vv. 91-102; e subito dopo le quattro t. concluse rette da Vieni (a veder, oppure e vedi). Ma si può giungere a coppie di t. in cui la simmetria investe sia parti lessicali, sia procedimenti sintattici, sia clausole ritmiche: Ciò che da lei sanza mezzo distilla / non ha poi fine, perché non si move / la sua imprenta quand'ella sigilla. // Ciò che da essa sanza mezzo piove / libero è tutto, perché non soggiace / a la virtute de le cose nove (Pd VII 67-72). Famose, anche perché interpretate come acrostici (v. ACROSTICO), le tredici t. di Pg XII 25-63 segnate da Vedi, O, Mostrava, e le nove di Pd XIX 115-141 segnate da Lì, Vedrassi, E (come già si è visto, non infrequenti le serie su ‛ vedere ': Pg XXIV 28-33, XX 88-93). Se questo triforme amor è scandito su tre t. concluse, avviate da è chi, Pg XVII 115-123 (e più di una simmetria è dato di cogliere attraverso e) frequenti sono anche le serie di t. consecutive a struttura negativa parallela: si pensi all'avvio di If XIII su tre t. con Non (Non era ancor... Non fronda verde... Non han sì aspri...) mentre la t. centrale avvia i tre versi isolati su non; così si vedano Pd XIII 94-102, con un periodo le cui tre t. unitarie iniziano tutte con non; XXVII 40-54 con due avvii consecutivi su non (con una t. in mezzo) e due su né; XV 100-111, con quattro t. distinte che cominciano con non, mentre il tutto si avvia su due versi scanditi da quattro non (Non avea catenella, non corona, / non gonne contigiate, non cintura), e la seconda t. ha su non anche l'inizio del terzo verso e la terza t. anche l'inizio del secondo verso: del resto, un tal procedimento anaforico, all'inizio di t. successive, è anche altrove presente nell'accorato discorso di Cacciaguida: Tu credi che, Tu credi 'l vero (vv. 55, 61); e nel canto XVII Tu lascerai, Tu proverai (vv. 55, 58); nelle due t. che seguono si ha ancora, sia pure internamente al verso, tu cadrai (v. 63), non tu (v. 66), a cui rispondono i tre voi nei tre versi della risposta di D. al trisavolo in XVI 16-18, e i Ditemi con cui si avviano due t. consecutive ai vv. 22 e 25. Per concludere su tali procedimenti anaforici scandenti t. o serie di t. diverse, si veda Pd XX 37-72, ove si hanno sei coppie di t., la cui seconda t. è sempre introdotta da ora conosce (nello stesso canto si hanno altre due coppie di t. consecutive, in cui le due singole t. sono legate quasi come stanze ‛ capfinidas ': e ciò di viva sperse fu mercede: // di viva spene, che mise la possa, vv.108-109; credette in lui che potëa aiutarla; // e credendo s'accese in tanto foco, v. 114-115).

10. Ai dati statistici sulla frequente coincidenza fra t. e sintassi nella Commedia, si può aggiungere che spesso anche i lunghi periodi che si distendono in tre, quattro e fin cinque t., tendono a dislocare le varie parti principali del discorso nelle singole t.: si vedano, ad esempio, le cinque t. di Pg XIV 28-42, di Pd XVII 13-27, le quattro t. di Pg XXII 7-18, di Pd VIII 1-12, XXV 1-12, XXXI 1-12; la lunga similitudine su cinque t. di Pd XXIII 1-15 e quella doppia su quattro t. di Pg XXVII 76-87.

Al solito, ogni caso andrà poi visto in più ampio contesto. Ad esempio, le cinque t., ognuna ben dislocata, di Pg XXVIII 7-21, andranno viste nel più ampio contesto di tutto l'avvio al Paradiso terrestre, in cui si hanno, fino al v. 60, un solo periodo di una sola t., e poi tutti gli altri o su cinque t., come il citato, o su tre, vv. 34-42, 52-60, o su due, vv. 1-6, 22-27, 28-33, 43-48: ma ciò che conferisce tonalità vasta e solenne è appunto il fatto che l'ampio periodare è tutto dislocato nella misura della t., sì che può quasi dirsi che quell'ampiezza assume il respiro della t. (si vedano nello stesso canto, con la stessa struttura, periodi su quattro t. ai vv. 103-114).

Così, sempre esemplificando, ad alto effetto di solenne ampiezza tendono anche i periodi su più t. del canto XXX del Purgatorio, di più t. distinte, con una sola notevole eccezione: proprio il periodo di avvio su quattro t. (Quando il settentrïon del primo cielo...) ha una forte pausa al v. 7, che è il primo della terza t.; ma si vedano, fra l'altro, la similitudine su due t. concluse ai vv. 13-18 e quella, ai vv. 22-33, addirittura su quattro t., con le due parti ognuna dislocata su due t. ben distinte; e i periodi su cinque (ai vv. 85-99) e su tre t. distinte (ai vv. 40-48, 58-66, 109-117). Così è l'avvio grande del canto su s. Domenico, Pd XII, che comincia con un periodo su tre t., continua con un'ampia similitudine su quattro e un altro lungo periodo su quattro t.; poi, dopo una t. isolata, un periodo su tre t., uno su cinque e un altro su tre: tutte t. di struttura ben unitaria. Il canto successivo si avvia su uno dei periodi più lunghi della Commedia, otto t. ben unitarie appunto: qui si realizzano sottili legami fra parola iniziale e parola in rima (Imagini, image, quindici; cupe, image: plage: compage, per cui v. RIMA 14.; e tutto il canto, che è il canto in cui s. Tommaso risolve i dubbi su Salomone, ed è bene la continuazione del precedente, offre una relativamente ampia presenza di periodi su tre e su due t. unitarie).

Tuttavia (anche per non perdere di vista il punto fermo dell'estrema varietà delle strutture della Commedia) si ricorda l'indagine acuta dello Scaglione sulle strutture ipotattiche ad ampio respiro, sui rapporti appunto fra sintassi e metro, che si avvia sull'esame del " passo singolare " di If XXX 1-27: " i primi dodici versi devono leggersi senza interruzione, quasi d'un fiato ", e qui appunto " ciò che appare straordinario... è la perfetta scorrevolezza del discorso in una costruzione sintattica così complessa " (del resto di " tensione sintattica, quasi mostruosa " di questi versi parla E. Sanguineti, pp. 338-341). Tale sintatticità si coglie in molte parti del discorso dantesco (perfino in molte ampie similitudini, ad es. Pd XXIII 1-15) in cui attraverso " tutta una tecnica di pause, di silenzi, di aggiunte e di inversioni... il discorso non solo evita di sgretolarsi in un periodo slegato, ma, al contrario, si arricchisce grazie a un senso accresciuto delle sue articolazioni ". Lo Scaglione insiste, con particolare energia, sull'idea che la t. si fa spesso in D. " punto di partenza ", per giungere a grandi unità sintattiche fornite di energia poetica potente, in cui gli enjambements non solo fra verso e verso, ma anche fra t. e t., sono il segno più vistoso della flessibilità metrica e dello straordinario dinamismo dantesco. Già l'Auerbach, a cui lo Scaglione fa esplicito riferimento, si richiamava proprio al movimento multiforme e libero del periodo dantesco, pur nella sua forma ritmica, avviando il suo primo, poi famoso, scritto su Dante (del 1929). Del resto, su una tale sicurezza sintattica, che così complessamente inerisce nella struttura metrica, ha grandemente pesato l'esperienza della prosa del Convivio e certamente anche quella, approfondita proprio in quegli anni, della poesia e della prosa latina anche classica (Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios qui usi sunt altissimas prosas, VE II VI 7).

La sintassi, nel rompere di continuo la monotonia ritmica, tende a strutturare, come già si è visto, anche appunto unità che travalichino il confine fra le terzine. Si veda, per esempio, la ‛ figura ' di due t. su tre coppie di versi, che si esemplifica con un caso di enjambement, quale quello di If XXIV 70-75 Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi / non poteano ire al fondo per lo scuro; / per ch'io: " Maestro, fa che tu arrivi // da l'altro cinghio e dismontiam lo muro; / che', com'i' odo quinci e non intendo, / così giù veggio e neente affiguro "; e si vedano, nello stesso canto, i vv. 145-150; e ancora XVII 19-24; XX 31-36.

Più frequente, sempre nella coppia di t. sintatticamente congiunte, la ‛ figura ' di quattro versi più due, che s'incontra parecchie diecine di volte (esemplifichiamo con If XVI 82-87, XXI 79-84, XXVI 106-111, XXX 58-63; Pg V 37-42, 73-78, VII 16-21, XXIII 79-84, XXXI 43-48; Pd III 109-114, IX 76-81, XVI 1-6, 136-141). Abbastanza frequente anche la ‛ figura ' di due versi più quattro (If XXXIV 133-138; Pg I 7-12, V 52-57, XXIII 70-75).

Ma i periodi distendentisi per due o più t. realizzano in realtà i più diversi raggruppamenti. Si veda almeno l'avvio del canto IV del Purgatorio, su cinque coppie di t., con ogni coppia poi diversamente scandita dalla struttura dei periodi: prima coppia, 4 versi + 2; seconda coppia, 3 versi + 2 + 1; terza coppia, 2 versi + 4 (con forte enjambement fra le due t.); quarta coppia, in cui si ha un periodo su tutti i 6 versi, ma scandito nelle due t. dalle due parti sintattiche principali; quinta coppia, 3 versi + 3.

11. Come si è visto, sentimento della misura della t., più spesso osservata, ma anche sintatticità di ampi discorsi, travalicanti quella misura; e anche frangimenti i più inconsueti, che spezzano la misura dei versi, disintegrando in pratica la terzina.

Se l'inserzione di parti dialogiche, o comunque di discorso diretto, introduceva frangimenti notevoli nel verso e nella stanza già nella canzone e nel sonetto (come del resto nelle rime di Cavalcanti), nella Commedia si giunge a una tensione estrema fra frangimento dialogico e ritmo, purtuttavia conservato. Bastino pochi esempi limite: Così 'l maestro; e io " Alcun compenso ", / dissi lui, " trova che 'l tempo non passi / perduto ". Ed elli: " Vedi ch' a ciò penso " (If XI 13-15, ove all'estremo frangimento si aggiunge l'enjambement, come spesso in casi del genere); la descrizione dell'alta gloria di Traiano (Pg X 82-93) in quattro t. estremamente variate, fino ad avere nella terza " se tu non torni? "; ed ei: " Chi fia dov'io, / la ti farà "; ed ella: " L'altrui bene / a te che fia, se 'l tuo metti in oblio? "; t. consecutive, sempre su battute dialogiche, in cui tutte le pause sintattiche sono poste internamente ai versi: " Oh ", diss'io lui, " se l'altro non ti ficchi / li denti a dosso, non ti sia fatica / a dir chi è, pria che di qui si spicchi ". // Ed elli a me: " Quell'è l'anima antica / di Mirra scellerata, che divenne / al padre, fuor del dritto amore, amica... " (If XXX 34-39).

E si vedano casi in cui la t. è scandita su tre versi ben distinti: Più lunga scala convien che si saglia; / non basta da costoro esser partito. / Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia (If XXIV 55-57); Queta'mi allor per non farli più tristi; / lo dì e l'altro stemmo tutti muti; / ahi dura terra, perché non t'apristi? (XXXIII 64-66); e la famosa t. che chiude il primo discorso di Francesca (V 106-108); e ancora IX 46-48, XXX 118-120, Pd I 115-117 e così via. Ma anche qui ogni caso dovrebbe essere esaminato nel suo contesto ritmico e poetico: così il tono della t. del canto V va sentito nella drammatica chiusura della vicenda terrena dei due cognati.

12. La t. dantesca, e il poema di canti di t. vennero imitati, com'è ben noto, larghissimamente. Ci fu anche un tentativo di adozione della t. con cambiamenti importanti, quello di Cecco d'Ascoli: " si direbbe che Cecco anche nel metro si contrapponga polemicamente a Dante accettando e variando a modo suo la terzina, spezzando l'ordine serrato del discorso dantesco " (Fubini, pp. 201-202).

Cecco d'Ascoli compone in realtà in stanze di sei versi, divise in due t. (riattaccandosi anche alla sirma del sonetto): abacbc, dedfef. In tal maniera, il numero cardine del sistema diviene il due, più che il tre: le rime alternate sono due più due più due, il numero dei versi è multiplo del due (oltre che del tre) e, ciò che è rivelatore della chiara intenzionalità di una tale assunzione, il canto finisce con due versi a rima baciata. L'opposizione del due al tre, da una parte dispari-unità-Dio, dall'altra pari-dualità-materia (v. PITAGORA), presente largamente in testi ben conosciuti all'epoca di D., può essere la radice della scelta di Cecco: Cecco sconvolgeva il sistema ternario di D. (che rappresentava il suo oggetto polemico) a sistema binario, nel momento stesso in cui lo assumeva. Il poema di Cecco, incardinato sull'astronomia e sull'astrologia, sulle proprietà degli animali, delle pietre e dell'animo umano, può ben essere visto come poema della ‛ natura ' (una delle parole-chiave dell'Acerba), un cui simbolo può essere la duitas (vedi il passo di Calcidio citato in Pitagora). Un tale argomento naturalmente rafforza e converso quanto si è detto della natura ternaria della t. della Commedia.

Per quello che è dell'effetto tecnico di una tale trasformazione, la t., spezzatone l'incatenato continuo, tendeva a una stanza di una certa ampiezza: un tentativo che, alla luce della sterminata fortuna che avrà l'ottava, si presenta abbastanza interessante appunto anche sul piano puramente tecnico.

La lettura della Commedia, come anche libello politico, suggerì l'utilizzazione della terzina in poemetti o in capitoli d'invettiva o di esortazione politica: fra i più antichi (anteriori al 1345) si ricordano il capitolo di Domenico Scolari e il poemetto in cinque canti di anonimo, ambedue riportati dal codice dei ‛ perugini ', il Barberini Lat. 4036. Sarà bene ricordare, a tal proposito, che fin oltre la metà del secolo le invettive politiche e i lamenti storici di Antonio Pucci sono in forma di serventese o di canzone.

Le imitazioni più notevoli, sia pure a diverso titolo, della t. dantesca vera e propria sono l'Amorosa Visione del Boccaccio (di cui in t. anche la Caccia di Diana e le parti poetiche dell'Ameto) e i Trionfi del Petrarca.

La t. del Petrarca è stata giudicata come eco esterna e provvisoria dell'alta invenzione di D.: particolarmente acuta l'indagine del Fubini (pp. 204-214), sulle rime difficili dell'opera del Petrarca, che tendono piuttosto a essere elemento esornativo, non di tesa necessità. Tuttavia, il tema e i particolari inventivi dei Trionfi non potevano non avere una vasta eco nella poesia tardo-gotica, e di aura rinascimentale: spesso, fra Trecento e Quattrocento, molte delle opere scritte in t. riecheggiano congiuntamente le esperienze dantesche e petrarchesche; e non infrequentemente si rifanno direttamente ai Trionfi.

La t. dantesca fu comunque ben presto assunta come il metro tipico della poesia allegorica e didattica: la ricordata Amorosa Visione del Boccaccio, il Dittamondo di Fazio degli Uberti, il Ristorato di Ristoro Canigiani, la Fimerodia di Iacopo del Pecora, il Quadriregio di Federico Frezzi, la Leandreide, e altri poemi minori segnano la fortuna della t. nel poema didascalico-allegorico fra la metà del Trecento e i primi anni del Quattrocento; e più tardi la Città di Vita del Palmieri, il Giardeno di Marino Jonata, l'Anima peregrina di Tommaso Sardi, il poema di Bartolomeo Gentile Fallamonica.

Specie nel Quattrocento, più forte fu la confluenza dell'esempio della Commedia e di quello dei Trionfi (con echi delle opere minori del Boccaccio): si pensi alle Definizioni di Iacopo Serminocci, alla Philomena di Giovanni Gherardi da Prato, al poema di Piero del Zòcol, al Trionfo delle virtù di Bastiano Foresi (e a numerosi altri Trionfi fra Quattrocento e Cinquecento). La t. fu ben presto usata anche a fini storico-narrativi. Il Centiloquio del Pucci, nei cui 91 canti in t. si dà il transunto delle cronache di Giovanni Villani, è il capostipite di un genere che avrà larga diffusione, fino ai Decennali del Machiavelli (dello stesso Pucci si ricordi, in t., almeno le Proprietà di Mercato Vecchio, per l'affettuosa freschezza che lo pervade). E non infrequentemente i fini storico-narrativi tendono al tono del poema storico, come nella Sforzeide di Antonio Cornazzano, e nell'Altro Marte di Lorenzo Spirito Gualtieri. Lo stesso Spirito adatta la terzina, nel Libro delle Sorti, per rispondere all'esigenza di chiudere epigrammaticamente in tante singole stanze le varie situazioni profetiche, realizzate da terzine isolate in cui la rima centrale sia libera.

Del resto, nel Quattrocento, si hanno perfino alcune novelle in terza rima (il metro preferito è l'ottava), come nelle parafrasi della novella di Nastagio degli Onesti e della Ghismonda (in parte), rispettivamente di Bonanno Malecarni e Francesco Accolti. E lo scrittore che si è servito in maniera più multiforme della t. è Lorenzo dei Medici: dalle t. dottrinali dell'Altercazione, a quelle tendenti al tono letterario del Corinto o de Gli amori di Venere e Marte, a quelle parodistiche dei Beoni. Ma già ad opera del Boccaccio, e poi sempre più chiaramente nel Quattrocento, l'ottava dilatava sempre più l'ambito della sua utilizzazione, per un verso raggiungendo la sua massima estensione nei Cantari popolareschi, e per l'altro tendendo a un rilievo e a uno stampo fortemente letterari. Anche per ciò, contemporaneamente la t., quando si distaccava più sicuramente dai modelli dantesco e petrarchesco, si specializzava nei toni quotidiani del capitolo.

Si deve tuttavia forse alla traduzione, in t. appunto, delle satire di Giovenale, ad opera di Giorgio Sommariva nel 1475, se il capitolo in terza rima sia diventato il metro della satira: nel Quattrocento altri veneti, come Nicolò Lelio Cosmico e Antonio Vinciguerra, ne comporranno di originali, finché l'Ariosto suggellerà, per così dire, la tradizione, che continuerà ininterrotta sino all'Alfieri e oltre (si pensi al ternario satirico del Leopardi, I nuovi credenti); contemporaneamente il Berni stabilirà la tradizione del capitolo appunto bernesco, anche questo utilizzato con minor o maggior fortuna sino a tutto il Settecento.

Fra neoclassicismo e preromanticismo, col diffondersi del gusto melanconico e sepolcrale, si ha una rinnovata fortuna della Commedia: la t. dantesca avrà una sua stagione nelle Visioni di Alfonso Varano e in molti dei fortunati poemi del Monti e dei suoi imitatori (vedi, ad esempio, il Trionfo della Libertà del Manzoni). E ancora, sul piano dell'elegia, scriveranno capitoli ternari il Foscolo giovane (Le rimembranze) e il Leopardi giovane (Il primo amore). La t. sarà il metro del carducciano Idillio maremmano, delle Rapsodie Garibaldine di Giovanni Marradi, delle Canzoni delle gesta d'Oltremare di D'Annunzio, di liriche di Morgana del Graf, e così via.

L'ultimo tentativo, in ordine di tempo, di riassunzione della t. in piano non archeologico, si deve forse al Pascoli. Anzi, come spesso è nel Pascoli, una tale riassunzione si ha, in alcuni casi, a mezza strada fra la rielaborazione nuova e l'eco archeologico-parnassiana; si pensi ad Alla Cometa di Halley, ove la breve sequenza di t. (qui, quattro terzine, più il verso di chiusura) è strutturata a indicare i vari momenti (qui sei momenti) della lirica (che è la novità più rilevante, già nei Primi Poemetti, dell'assunzione pascoliana della t.); ma insieme continuo appare il compiacimento di ‛ citare ' frasi ed emistichi danteschi. Ma è appunto nei Primi Poemetti che il Pascoli ha riassunto sistematicamente la t. dantesca talora in sequenza distesa, ma più spesso in piccoli canti, anzi si direbbe in stanze di vario numero di t. (spesso cinque e dunque 16 versi, contando il verso di chiusura): forse il risultato più complesso e insieme più alto è ottenuto nei due canti di ltaly, rispettivamente di 9 e di 20 sequenze di numero variabile di terzine.

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