TESORO IMPERIALE

Federiciana (2005)

TESORO IMPERIALE

HHermann Fillitz

Un tempo l'idea che Federico II possedesse immensi tesori e che, soprattutto, questi superassero largamente quanto era consueto a nord delle Alpi si fondava sullo splendore esteriore che caratterizzava l'imperatore ‒ da lui coltivato con piena consapevolezza ‒, che si estendeva perfino al folto seguito di cui si circondava nelle apparizioni pubbliche e allo stuolo di animali che, a quanto sembra, non mancava mai nei suoi cortei. Nemmeno quand'era in guerra, per esempio durante l'assedio di Parma nel 1248, Federico rinunciò a questo sfarzo. Naturalmente quest'attitudine era connessa allo splendore della corte siciliana in cui si rifletteva il fasto dei sovrani bizantini e fatimidi.

La seconda circostanza che palesemente suscitò un'impressione straordinaria fu la necessità di utilizzare non meno di centocinquanta bestie da soma per il trasporto del tesoro che Enrico VI, dopo la conquista di Palermo, fece trasferire nel 1195 al castello imperiale di Trifels in Germania, e si trattava solo di una parte del tesoro regale. Infatti, non molto tempo dopo, l'imperatore ricevette la notizia che dietro una porta segreta era stato ritrovato anche il tesoro di Ruggero II. Una parte di esso fu donata alle chiese, come nel caso delle due corone bizantine destinate a S. Michele di Bamberga, il cui aspetto ci è noto soltanto grazie alle incisioni e alle descrizioni settecentesche. Alcune delle stoffe preziose prodotte dalla stessa officina ‒ come la fodera del manto regale di Ruggero II (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Weltliche Schatzkammer) ‒, che ancora oggi sono conservate allo stato di frammento nei tesori delle chiese e nei musei (Münster, Tesoro della cattedrale; Lione, Musée Historique des Tissus; Parigi, Musée Cluny; Londra, Victoria and Albert Museum; Vienna, Österreichisches Museum für angewandte Künste), provengono dalle ricchezze di cui Enrico VI riuscì a impadronirsi in Sicilia.

Federico II ricevette senz'altro una cospicua eredità della quale fece anche uso, come nel caso degli abiti siciliani appartenenti al tesoro imperiale. L'imperatore, da parte sua, incrementò notevolmente questo tesoro. Possediamo alcune notizie episodiche sugli oggetti preziosi in possesso di Federico II che purtroppo non possono essere identificati con quelli che sono giunti fino a noi. È possibile riconoscere solo le parti siciliane del tesoro imperiale (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Weltliche Schatzkammer) nelle raffigurazioni delle 'insegne imperiali' (keyserliche Zeychen) del 1246 conservate nel castello di Trifels. Fra gli oggetti preziosi depredati dai difensori della città di Parma nel 1248 spicca una corona d'oro dell'imperatore: era ornata di pietre preziose e perle e nella descrizione dell'inventario si parla anche di "multas habens ymagines fabrefactas et elevatas" (Schramm, 1955, p. 136 n. 4), comunque si voglia interpretare questa singolare espressione.

Nel 1253 re Corrado IV cercò di recuperare a Genova un trono d'oro che era stato impegnato nel 1251. Secondo le descrizioni si trattava di un faldistorio dorato o ricoperto di lamine di metallo smaltato e riccamente ornato di pietre preziose e perle. Nello stesso anno Corrado impegnò a Genova novecentottantasette oggetti, fra cui anelli, spille, pendenti e singole pietre; sono inoltre menzionati candelabri, ecc.

Infine si ha notizia di una corona appartenente all'eredità di Federico II che re Enrico III d'Inghilterra desiderava acquistare per suo figlio Edmondo ‒ in quanto pretendente al trono del Regno di Sicilia ‒ e che era giunta in possesso di finanziatori genovesi.

Diverse fonti parlano di una corona che l'imperatore, in occasione della traslazione di s. Elisabetta di Turingia (v.) nel 1236, aveva posto sulla reliquia del cranio della santa, prima che fosse collocata in un prezioso ciborio (attualmente conservato nello Statens Historiska Museum di Stoccolma). Si era trattato di un atto solenne, accuratamente predisposto, e la corona fu preparata per quest'evento dall'officina che aveva creato lo scrigno di s. Elisabetta per la chiesa omonima di Marburgo. Forse l'imperatore sostenne le spese per la lavorazione o contribuì fornendo l'oro, le pietre preziose e le perle (v. Corone).

L'aquila araldica effigiata su numerosi oggetti li identifica come proprietà dell'imperatore Federico II: è il caso della spada da cerimonia e dei guanti del tesoro imperiale (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Weltliche Schatzkammer) e del piatto in cristallo di rocca del Museo del Prado a Madrid. L'aquila incoronata su quest'ultimo oggetto corrisponde alla raffigurazione del mosaico nella sala della fontana della Zisa a Palermo e anche al cammeo con l'aquila di Parigi (Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles).

Tre cammei rappresentano Federico II (v. Glittica). Il cammeo in sardonica sulla grande croce con reliquie dell'imperatore Carlo IV, conservata nel Tesoro della cattedrale di Praga, fu intagliato prendendo a modello il secondo sigillo reale di Federico II (1216-1218). Altri due cammei mostrano il sovrano in trono incoronato da geni (Monaco, Staatliche Münzsammlung, 1230-1240 ca.; Parigi, Musée du Louvre, Section des Antiquités Chrétiennes, intorno alla metà del XIII sec.). Questa scena ha dei paralleli nelle raffigurazioni con omaggio e incoronazione risalenti alle diverse epoche del Medioevo e realizzate in vario materiale: si può assumere come termine di paragone soprattutto la cosiddetta sardonica di Romolo conservata all'Ermitage di S. Pietroburgo, la cui raffigurazione è stata interpretata come l'investitura del giovane Onorio III.

Al diretto campo d'interessi dell'imperatore appartiene l'unico cammeo che presenti una scena contemporanea, in cui è rappresentata una giovane falconiera (Firenze, Museo Nazionale del Bargello).

Questi cammei, creati senz'altro su incarico di Federico II, e a lui destinati, si riferiscono nell'iconografia alla sua persona. Qualcosa di paragonabile si verifica solo nella scultura di grandi dimensioni e nelle miniature dei codici.

A proposito della rappresentazione dell'aquila sugli augustali (v.), Hans Wentzel ha potuto definire un consistente gruppo di cammei, in cui è raffigurata l'aquila, come lavori della cerchia più vicina a Federico II. È possibile rinviare nuovamente a confronti con rappresentazioni monumentali nei castelli pugliesi e anche al sarcofago dell'imperatrice Costanza di Sicilia (Palermo, cattedrale). Il motivo dell'aquila con una lepre o con un serpente fra gli artigli può inoltre essere messo a confronto con il mosaico della stanza di Ruggero II nel palazzo reale di Palermo.

A questo gruppo di cammei con l'aquila se ne possono collegare altri due: il primo illustra temi della mitologia antica, l'altro dell'Antico Testamento. Al primo appartengono i cammei con la figura di Poseidone: il più importante, di dimensioni particolarmente grandi, si trova a Vienna (Kunsthistorisches Museum) e per la sua raffigurazione, complessa da definire, è stata avanzata la proposta di riconoscervi la nomina di Poseidone come signore dei giochi istmici; inoltre, i cammei con Poseidone e Anfitrite (Napoli, Museo Nazionale), con Poseidone e Atena (Vienna, Kunsthistorisches Museum; Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles), e infine le rappresentazioni con Ercole (soprattutto Washington, Dumbarton Oaks Collection). Due cammei mostrano scene veterotestamentarie: Giuseppe e i suoi fratelli (S. Pietroburgo, Ermitage) e Noè che abbandona l'arca con la sua famiglia (Londra, British Museum).

Le scene mitologiche furono interpretate anche in senso cristiano: il cammeo parigino con Poseidone e Atena reca un'antica iscrizione ebraica originale in cui le due figure sono identificate come Adamo ed Eva. Anche la rappresentazione veterotestamentaria di Noè con la sua famiglia potrebbe essere stata intesa in un'ottica cristiana: nella SecondaLettera di Pietro (2, 5) Noè è chiamato "banditore di giustizia". Per appurare se i temi si riferiscano, almeno in parte, a Federico II, sarebbe necessaria un'ulteriore particolareggiata analisi. In ogni caso la tematica e le differenti possibilità d'interpretazione vanno ricercate all'interno della cerchia di eruditi di cui si circondava l'imperatore. Riallacciandosi al concetto di "cammei di stato" che Gerda Bruns ha formulato a proposito di un gruppo di cammei romani del IV sec. d.C., Hans Wentzel si è chiesto se questo stesso concetto possa essere applicato anche ai cammei che si riferiscono a Federico II. Dal punto di vista stilistico tutti questi cammei sono largamente omogenei; non sarebbe errato attribuirli a lapidari attivi nella cerchia più vicina all'imperatore.

Secondo Byrne Federico II possedeva molte centinaia di gemme. Di sicuro esse annoveravano cammei antichi e bizantini, che fornirono anche i presupposti per gli intagli anticheggianti che, fino alle accurate ricerche condotte da Wentzel, erano stati per lo più giudicati antichi.

È possibile documentare che singole figure del cammeo con Giuseppe e i suoi fratelli sono state copiate da modelli bizantini, ispirandosi in concreto alla rappresentazione dei Quaranta martiri di Sebaste: si possono mettere a confronto con i rilievi in avorio di Berlino (Preussischer Kulturbesitz, Staatliche Museen) e di S. Pietroburgo (Ermitage), entrambi datati al X secolo. Non è comunque possibile dimostrare l'appartenenza al tesoro di Federico II per nessuna delle sculture bizantine in avorio conservate, sebbene si debba senz'altro ammettere che l'imperatore abbia posseduto questo tipo di lavori, o in ogni caso manufatti che possono essere definiti siculo-arabi. Sono opera di artisti islamici, come testimoniano le iscrizioni cufiche e lo stile delle decorazioni dipinte, risalenti probabilmente in gran parte al XII sec., per le quali la possibilità di raffronto con la decorazione del soffitto della Cappella Palatina di Palermo rappresenta un significativo supporto. Il gruppo più cospicuo di cassette giunto fino a noi è conservato nel tesoro della Cappella Palatina. A uno di questi pezzi potrebbe riferirsi una descrizione contenuta nell'inventario del 1309. In questa cassetta erano custoditi documenti riguardanti privilegi concessi dall'imperatore alla cappella reale nel 1225. Se documenti e contenitori erano connessi già in origine ‒ è questo il dato di partenza degli studi ‒ ciò potrebbe avvalorare con maggior concretezza l'ipotesi che l'imperatore adoperasse questo tipo di cassette a dimostrazione delle grazie concesse.

La coppa con l'aquila sveva conservata nel Museo del Prado a Madrid testimonia come alla corte di Federico II fosse coltivata anche la lavorazione artistica del cristallo di rocca. La tecnica dell'intaglio del cristallo di rocca fu appresa senz'altro dagli artisti musulmani ‒ la cui grande perizia è testimoniata dai recipienti fatimidi in questo materiale che si sono conservati ‒ o forse fu coltivata da questi stessi alla corte di Federico II.

Le opinioni a proposito della provenienza dall'Italia meridionale di brocche e coppe con sfaccettature del XIII sec. non sono ancora univoche. Nel dibattito viene sempre coinvolta anche Parigi, dove già nel 1259 esisteva un ordinamento della corporazione degli artigiani lapidari. Tuttavia, generalmente, l'enorme coppa monolitica con due manici conservata nel Kunsthistorisches Museum di Vienna è considerata un manufatto dell'Italia meridionale risalente al XIII secolo. Alla luce della sua unicità si può anche ritenere che in origine appartenesse al tesoro dell'imperatore. Ad essa si ricollegano altri recipienti in cristallo di rocca sfaccettato: non è certo errato vedere in queste creazioni un altro vertice del tesoro federiciano, di cui facevano parte anche candelabri e crocifissi dello stesso materiale. Fra gli oggetti preziosi impegnati a Genova nel 1253 sono menzionati anche pezzi di questo tipo.

I lavori d'intaglio delle pietre preziose formano la parte più consistente e tangibile del tesoro di Federico II. Come, in un ambito diverso, avviene nei manoscritti, questi oggetti riescono a dare un'idea della molteplicità degli interessi culturali del sovrano e della cerchia di dotti di cui si circondava.

Il dispiego di sfarzo nelle apparizioni pubbliche dell'imperatore era ottenuto essenzialmente tramite abiti altrettanto preziosi. Federico II disponeva di un'imponente quantità di abiti e di stoffe, una parte dei quali si è conservata: si tratta, in particolare, di abiti menzionati nel 1246 nel documento del castello di Trifels in cui sono annoverati tra le 'insegne imperiali'. Il manto regale di Ruggero II, l'abito di re Guglielmo II, usato in seguito come alba, e le calze, la cui iscrizione è riferibile probabilmente a questo sovrano, erano già separati dagli altri tesori che Enrico VI aveva fatto trasportare da Palermo nel castello di Trifels nel 1195 ed erano custoditi insieme al tesoro imperiale. Federico II aggiunse a questa dotazione anche calzature, guanti e la cosiddetta spada da cerimonia. Nell'alba di re Guglielmo II furono eseguite delle integrazioni, il che può dimostrare che Federico II fece effettivamente uso di questi antichi abiti regali. Dalla stessa officina proviene anche la corona di stoffa che faceva parte del corredo funebre dell'imperatrice Costanza d'Aragona, sepolta nel 1222, ritrovata insieme alla passamaneria ‒ o resti di cintura ‒ e al gallone che decorava la scollatura dell'abito dell'imperatrice (conservati a Palermo, Tesoro della cattedrale).

Tutti questi abiti ‒ compresa la spada da cerimonia ‒ furono creati nell'officina reale di Palermo, che è nominata nell'iscrizione del manto di Ruggero II (1133-1134) e nell'alba di Guglielmo II (1181). Anche in un frammento di stoffa conservato ad Hannover (Kestner-Museum), datato intorno al 1200, si può leggere: "operatum in regio ergast[erio]". L'officina ‒ di cui parla anche Ugo Falcando, che scrive intorno al 1190, nella sua Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesiethesaurarium ‒ che era stata fondata da Ruggero II continuò a lavorare sotto i sovrani svevi. I suoi manufatti formavano la parte più cospicua dei prodotti tessili in possesso di Federico II. Questo dato è confermato anche dai ritrovamenti nelle tombe che il sovrano fece costruire per la sua famiglia. Nel 1213 di-spose affinché suo zio Filippo di Svevia, ucciso a Bamberga nel 1208, fosse sepolto nel duomo di Spira e nel 1215 fece costruire nella cattedrale di Palermo per i suoi genitori, l'imperatore Enrico VI e Costanza di Sicilia, e per se stesso una grandiosa struttura sepolcrale ispirata alla memoria dell'antico. Sia nella tomba di Filippo di Svevia che in quella di Enrico VI furono rinvenute stoffe preziose di manifattura siciliana. Infine l'imperatore, durante la solenne chiusura della cassetta contenente le reliquie di Carlomagno ad Aquisgrana, il 27 luglio 1215, le ricoprì con la cosiddetta 'stoffa delle lepri', che è stata definita un lavoro siciliano o islamico, due affermazioni non contrastanti in quanto in Sicilia erano attivi sia artigiani cristiani che musulmani.

Più volte è stato annoverato tra questi pezzi anche il cosiddetto 'manto di Carlomagno' che è custodito nel Tesoro del duomo di Metz. La stoffa per lo più è ritenuta siciliana, ma in qualche caso isolato spagnola. Diversi studiosi hanno visto in questo piviale il manto regale rimaneggiato che fece parte dei paramenti solenni indossati da Federico II in occasione della sua incoronazione imperiale a Roma. Comunque non devono essere trascurate le differenze stilistiche rispetto alle rappresentazioni con l'aquila sui guanti del tesoro imperiale, a cui si fa riferimento in questo caso; in generale le aquile sul 'manto di Carlomagno' presentano anche in senso iconografico discrepanze con le aquile araldiche sveve che non possono essere ignorate.

I pezzi siciliani dei paramenti del tesoro imperiale (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Weltliche Schatzkammer) e i resti di abiti provenienti dal sarcofago dell'imperatrice Costanza a Palermo, ma soprattutto la corona di stoffa, danno anche l'idea più compiuta dei lavori di oreficeria in possesso di Federico II: non bisogna in nessun caso separare l'abito in se stesso dai ricami e dalle guarnizioni con lamine d'oro smaltato e fasce di perle. Le iscrizioni sul manto regale di Ruggero II e sulla sopravveste, l'alba, di Guglielmo II si riferiscono al capo d'abbigliamento nella sua interezza: ciò significa che l'officina reale ‒ il tiraz ‒ era responsabile di tutto ciò che contribuiva a creare l'effetto di sfarzo, quindi sia delle stoffe usate per gli abiti sia dei lavori di oreficeria con cui essi erano decorati.

A questi lavori di oreficeria appartenenti al tesoro imperiale e ai rinvenimenti nelle tombe di Palermo si deve aggiungere la croce-reliquiario del duomo di Cosenza. Secondo la tradizione locale l'imperatore Federico II l'aveva donata in occasione della consacrazione della chiesa nel 1222. Allo stesso gruppo appartiene anche la croce-reliquiario del monastero di Vyšši Brod (Hohenfurt; oggi conservata a Praga, Tesoro della cattedrale), datata intorno al 1230. Non è noto per quale via quest'opera sia giunta in Boemia, probabilmente già nel XIII secolo.

Fra i lavori di oreficeria più antichi del gruppo si possono annoverare la croce-reliquiario nel duomo di Napoli ed entrambi i piatti di legatura che l'arcivescovo Alfano (1163-1182) donò alla cattedrale di Capua. Josef Deér ha aggiunto a questo gruppo il braccio-reliquiario di s. Biagio conservato nel Tesoro del duomo di Dubrovnik. Tutte queste opere, però, sono state datate all'epoca di re Guglielmo II, quindi interessano solo indirettamente Federico II. In alcuni casi anche le lamine smaltate sulle mitrie di Scala e su quella di Linköping (Stoccolma, Statens Historiska Museum) sono state attribuite all'officina reale palermitana, un'ipotesi tuttavia dubbia in riferimento alla mitra di Scala e decisamente da escludere per quella di Linköping.

Sono caratteristiche dei lavori eseguiti nell'officina reale di Palermo alcune peculiarità, tra cui l'uso di piastre con filigrana vermicolare straordinariamente sottile movimentate per lo più da lamine smaltate: l'esempio più pregevole è la guaina della spada da cerimonia del tesoro imperiale. Nelle lamine smaltate si può riconoscere una spiccata predilezione per i motivi ornamentali. È di secondaria importanza stabilire se le lamine smaltate figurate sulle suppellettili liturgiche siano bizantine o originarie dell'Italia meridionale ‒ talvolta vengono fatte simili distinzioni ‒ in quanto nel Meridione normanno e svevo lavoravano artisti di provenienza disparata; in certi casi, oltretutto, smalti di origine e di epoche diverse erano riuniti su uno stesso oggetto, come per esempio dimostra la croce già menzionata di Vyšši Brod.

È possibile intuire solo in maniera molto limitata quali altri lavori di oreficeria possedesse Federico II. Senz'altro in quest'ambito le perdite sono state anche più consistenti in confronto a opere in altro materiale, una circostanza che può essere riconducibile alla possibilità di reimpiego del metallo smaltato. Un pezzo unico era il gioiello rinvenuto nel 1781 all'interno del sarcofago dell'imperatrice Costanza d'Aragona, noto unicamente dall'ottima riproduzione disegnata da Francesco Daniele, la cui funzione non è certa: è stato interpretato come un gioiello da petto, una fibbia o anche una parte della cintura. In ogni caso, questo pezzo non ha nulla a che fare con i lavori dell'officina palermitana con cui talvolta è stato messo in relazione. Lotte Kurras lo ha infatti ricollegato in modo convincente alla croce ornata con frammenti di corone conservata nel Tesoro del duomo di Cracovia e con i pezzi di oreficeria connessi a quest'opera (Budapest, Magyar Nemzeti Múzeum; Londra, Victoria and Albert Museum). La studiosa ha avanzato l'ipotesi che fosse già in possesso dell'imperatrice in quanto risalente al suo primo matrimonio con re Emerico d'Ungheria (m. 1204). Irene Hueck ha localizzato quest'officina a Venezia.

La corona sul ciborio di Stoccolma ‒ un tempo reliquiario contenente il cranio di s. Elisabetta ‒, che in base alle fonti fu posta dallo stesso Federico II sul capo della santa nel 1236, è un lavoro della stessa officina che ha creato la cassetta-reliquiario della santa custodita nella chiesa di S. Elisabetta a Marburgo. Questa corona potrebbe essere un dono dell'imperatore, ma non un'opera appartenente al suo tesoro.

Fonti e Bibl.: A. Weixlgärtner, Die Weltliche Schatzkammer. Neue Funde und Forschungen I, "Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien", 1, 1926, pp. 78 ss.; E.H. Byrne, Some Mediaeval Gems and Relative Values, "Speculum", 10, 1935, pp. 177 ss.; Y. Hackenbroch, Italienisches Email des frühen Mittelalters, Basel-Leipzig 1938; P.B. Cott, Siculo-Arabic Ivories, Princeton 1939; H. Wentzel, Die Monolithgefässe aus Bergkristall, "Zeit-schrift für Kunstgeschichte", 3, 1939, pp. 281 ss.; G. Bruns, Staats-kameen des 4. Jahrhunderts nach Christi Geburt, Berlin 1948; J. Deér, Der Kaiserornat Friedrichs II., Bern 1952; H. Wentzel, Der Augustalis Friedrichs II. und die abendländische Glyptik des 13. Jahrhunderts, "Zeitschrift für Kunstgeschichte", 15, 1952, pp. 182 ss.; H. Fillitz, Katalog der Weltlichen und Geistlichen Schatzkammer, Wien 1954; Id., Die Insignien und Kleinodien des Heiligen Römischen Reiches, ivi 1954; P.E. Schramm, Kaiser Friedrichs II. Herrschaftszeichen, "Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften in Göttingen. Phil.-Hist. Klasse", ser. III, 36, 1955; H. Wentzel, Die Kaiser-Kamee am Gemmenkreuz in Brescia, "Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung", 62, 1955, pp. 63 ss.; P.E. Schramm, Herrschaftszeichen und Staatssymbolik, III, Stuttgart 1956, pp. 767 n. 2, 884-906; H. Fillitz, Herrschaftszeichen: gestiftet, verschenkt, verkauft, verpfändet. Belege aus dem Mittelalter, "Nachrichten der Akademie der Wissenschaften in Göttingen. Phil.-Hist. Klasse", 5, 1957, pp. 161-226; A. Lipinsky, Sizilianische Goldschmiedekunst im Zeitalter der Normannen undStaufer, "Das Münster", 10, 1957, pp. 73 ss. e 158 ss.; H. Wentzel, Die mittelalterlichen Gemmen der Staatlichen Münzsammlung zu München, "Münchner Jahrbuch der Bildenden Kunst", ser. III, 8, 1957, nr. 16, pp. 43 e 52; J. Deér, The Dynastic Porphyry Tombs of the Norman Period in Sicily, Cambridge, Mass. 1959; H. Wentzel, Zur Diskussion um die staufischen Adler, "Kunstchronik", 12, 1959, pp. 1 ss.; Id., Staatskameen im Mittelalter, "Jahrbuch der Berliner Museen", 4, 1962, pp. 51 ss.; L. Kurras, Das Kronenkreuz im Krakauer Domschatz, Nürnberg 1963, pp. 94 s.; M. Schuette-S. Müller-Christensen, Das Stickereiwerk, Tübingen 1963, pp. 28 s.; I. Hueck, De opere duplici Venetico, "Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz", 12, 1965, pp. 16 s.; E.H. Kantorowicz, Kaiser Friedrich II., München 1965, p. 25 (Ergänzungsband, p. 15); F. Steenbock, Der kirchliche Prachteinband im frühen Mittelalter, Berlin 1965, nr. 92, pp. 190 s.; E. Nau, Meisterwerke staufischer Glyptik, "Schweizerische Numismatische Rundschau", 45, 1966, pp. 145 ss.; Kl. Wessel, Die byzantinische Emailkunst vom 5. bis 13. Jahrhundert, Recklinghausen 1967, nr. 50, pp. 165 s., e nr. 56, pp. 178 ss.; E. Nau, Staufer-Adler, "Jahrbuch der Staatlichen Kunstsammlungen von Baden-Württemberg", 5, 1968, pp. 21 ss.; E. Kovács, Romanische Goldschmiedekunst in Ungarn, Budapest 1974, nrr. 31-38, pp. 33 e 61; Die Zeit der Staufer, I, Stuttgart 1977, pp. 607 ss., 671-697; H. Fillitz, Das Kunstgewerbe der romanischen Zeit in Böhmen, in Romanik in Böhmen, a cura di E. Bachmann, München 1977, pp. 252 s.; P.E. Schramm, Herrschaftszeichen und Staatssymbolik. Nachträge aus demNachlass, ivi 1978, pp. 52 s.; Id.-Fl. Mütherich, Denkmale der deutschen Könige und Kaiser, ivi 1981, nrr. 179-181, 183, 186, 190, 196-202, 204-206, 208, 213-214, pp. 110-112; H.R. Hahnloser-S. Brugger-Koch, Corpus der Hartsteinschliffe des 12. bis 15. Jahrhunderts, Berlin 1985; G. Rotter-S. Krenn, Kunsthistorisches Museum Wien. Weltliche und geistliche Schatzkammer, Wien 1987, pp. 134-145, 173 s.; L. von Wilckens, Die textilen Künste. Von der Spätantike bis um 1500, München 1991, pp. 183 s.; B. Pferschy-Maleczek, Zu den Krönungsinsignien Kaiser Friedrichs II., "Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung", 100, 1992, pp. 214 ss.; Arti figurative e arti suntuarie, in Federico e la Sicilia, dalla terra alla corona, Palermo 1995, pp. 63-91; R. Distelberger, Die Kunst des Steinschnitts, Wien 2002, nrr. 1-8, 17, 18, pp. 25 ss.

Traduzione di Maria Paola Arena

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata