Testimonianze - Charlot, ovvero Charlie

Enciclopedia del Cinema (2003)

Testimonianze - Charlot, ovvero Charlie

Francesca Sanvitale

Charlot, ovvero Charlie

Nel febbraio del 1914 faceva il suo ingresso in scena, in due comiche della Keystone, Charlie, ovvero Charlot per la Francia e l'Italia. "Charlie the kid" lo chiamò in seguito Sergej M. Ejzenštejn, cioè il monello che percepisce la miseria della vita con la libertà di un'allegria propria solo del mondo infantile. Charlie the kid di tutto si fa beffe, esprime anche buoni sentimenti ma il mondo degli adulti lo respinge continuamente, è privo di contenuti morali o moralistici perché possiede, come un elisir mozartiano, l'assoluta leggerezza e l'assoluta libertà: Charlot il Vagabondo è dunque l'eterno puer, allegoria e sintesi dell'artista che si produce in una perpetua pantomima della propria creatività dove confluiscono i più svariati intrecci. Ma Ejzenštejn non aveva mai concesso niente alla leggerezza e in buona parte non capiva che la danza mimata dell'eterno puer scaturiva dal suo contrario: dall'esperienza pesante e irrimediabile del dolore, dell'abbandono, della fame, della solitudine. Questi fantasmi mai vinti rimasero con Chaplin per l'intera vita e trovarono in Charlot una geniale sublimazione. In ventidue anni, tanto visse il personaggio Charlot, furono pochi gli aggiustamenti. Un miracolo, dissero, un'epifania subito vincente, nata dall'istinto di un giovane artista già noto nel teatro del music hall.

Si racconta che in un pomeriggio di quel febbraio, Charles Chaplin avesse messo insieme a casaccio, badando solo ai contrasti, indumenti usati, presi da altri costumi: pantaloni troppo larghi e malridotti, giacchetta striminzita, scarpe enormi e indossate con il piede sbagliato per non perderle, bombetta, baffetti ritagliati da altri baffi e bastoncino. E aveva aggiunto quella che sarà la tipica andatura del Vagabondo, nata da un ricordo del vecchio stalliere Rummy Binks, omino pieno di dolori, costretto a camminare dondolandosi appunto come farà molto dopo e per sempre Charlot. Il bambino Charles lo imitava continuamente e la madre e gli altri non riuscivano a trattenere le risate. Chaplin avrebbe precisato in seguito che le decisioni di quel pomeriggio non erano state per niente offerte dal caso ma ci aveva pensato assai mentre andava verso il magazzino e proprio per questo, dal momento in cui era entrato in scena, il personaggio era già nato. Ci possiamo credere. Comunque ne vennero fuori i primi due filmati.

David Robinson, il biografo ufficiale di Chaplin, assicura che girarono per primo La strana avventura di Mabel che sarebbe però uscito qualche giorno più tardi. A parte la filologia, è il secondo cortometraggio, che ha in italiano due titoli, Charlot ingombrante o Charlot si distingue, a rimanere come la sigla del nuovo personaggio. Siamo sulla pista di un'improbabile corsa automobilistica per bambini con auto ricavate da scatole, casse e altri involucri, montate su ruote di ferro, un operatore la deve riprendere e il passante Charlot si mette continuamente in primo piano, scacciato ritorna, con mille astuzie riesce a far disperare operatore e poliziotto e infine, più bambino dei bambini, scappa in pista e inseguito corre a sua volta concludendo la sua performance con uno sberleffo verso gli spettatori. Charlot, insomma, vuole annullare i bambini protagonisti, essere lui l'unica presenza, farsi vedere e applaudire dal pubblico che sta al di là della macchina da presa, l'impudenza del suo narcisismo infantile è proprio il motore delle risate. E in questo filmato, casse, scatole su ruote e via dicendo, già preannunziano le presenze umoristiche dada in Entr'acte di René Clair dieci anni più tardi.

Lo stesso Chaplin ha riconosciuto che il Vagabondo aveva alle spalle Max Linder e inoltre sembrava trasportato di peso, nonostante la sua ridicola e ostentata buona educazione e dignità piccolo-borghese, da Baxter Hall, da Kennington Road, da Lamberth Street: le strade, i quartieri di una Londra amata fino nei più riposti angoli; una Londra scenario fisso, dove passavano personaggi e storie, vita e favola, dove a ogni metro Chaplin aveva visto per anni lo spettacolo della forza inventiva necessaria a sopravvivere. La ricreò alla perfezione per mezzo di Charlot nei vicoli delle sue comiche, nella misera stanza resa funzionale al neonato in Il monello: caffettiera per biberon, sedia di paglia ritagliata per il sederino e così via. Reinventando le forme molteplici del lavoro sconnesso, di chi non sa far niente. Chaplin regala a Charlot e ai suoi comprimari o comparse persino la follia e le caratteristiche di fantasista della madre, si ricorda dei mendicanti che dormivano lungo i lati del Ritz o, come Charles bambino, all'ospizio di mendicità. La parte di sangue ebraico, in lui più che probabile ("no, io non sono ebreo... ma sono sicuro di avere un po' di sangue ebreo"), sembrava dettare alcuni fondamenti del personaggio che pare incrociarsi con elementi dell'umorismo yiddish: ecco il debole umiliato, salvo nella comicità e nella fuga; attraversa perennemente le strade, la città e il mondo perché non appartiene a nessuna terra e ha il dono di dimenticare il tempo. Eccolo adorare la bellezza e l'innocenza, aspirare a una vita di sola gioia e amore. I sogni, gli innamoramenti, le generosità abnormi di Charlot fanno da contrappeso all'insolente, cinica autodifesa.

Il caso, che molti associano al successo immediato, in realtà è solo un inizio acchiappato a volo, la calamita che attira infinite particelle di ricordi e di situazioni, di esperienze condite con una fantasia artistica e tecnica indistricabile dal resto. Essa aiuta ad avvolgere questo incredibile gomitolo dal quale spunterà subito il filo d'oro, straordinariamente semplice, della pantomima, arte che all'epoca del sonoro Chaplin avrebbe difeso e teorizzato. Nel 1936, con Tempi moderni, il Vagabondo Charlot, eroe del cinema muto, recita il suo canto del cigno. Dal posteriore silenzio emergerà l'attore e regista Charles Chaplin costretto all'evoluzione dei tempi, per forza distaccato da quell'arte, senza dimenticarla. In Luci della ribalta ci tornerà sopra guidato dalla memoria e dalla nostalgia: Charlot non c'è più, c'è Calvero, il vecchio attore che rende l'ultimo omaggio a Charlie, monello senza patria; alla comicità degli anni Dieci, Venti. Convincerà Buster Keaton a ritornare sul palcoscenico, ben conscio che da lui richiede un'angosciosa citazione drammatica, un memento senza speranza.

Chaplin scrisse che il segreto dell'arte sta nell'energia ed egli la cercava nel silenzio di una stanza spoglia per molte ore o per giorni interi. Questo gli permetteva, subito dopo, un'ostinazione senza pari nel girare le scene trenta, cinquanta volte; cento volte nel caso del bacio di Adolphe Menjou in La donna di Parigi. Il suo perfezionismo, alleato a un'inventiva che non ammetteva soste, permise negli anni vari miracoli: citare all'infinito sarebbe bello però è impossibile. Una breve esemplificazione sulle gag che richiedevano straordinario lavoro, meravigliosa tecnica? Il sogno di Il monello; Charlot trasformato in pollo, con l'intromissione di un orso nell'inseguimento in La febbre dell'oro e la scena della capanna in bilico nel vuoto, in cui si passa dal modellino alla ripresa dal vero; Charlot nella gabbia del leone in Il circo; l'apparecchio per far mangiare l'operaio in Tempi moderni, Charlot operaio dentro alle ruote del macchinario e così via. Un gomitolo composto di tanti fattori: così si presentano i primi venti anni della vita di Charles Chaplin che confluiscono nel personaggio del Vagabondo. Frequentazione saltuaria delle scuole elementari, analfabetismo strisciante fino alla giovinezza, il padre che forma un'altra famiglia e non dà soldi, che spesso sparisce e muore quando Charles ha solo quattordici anni, la madre amata che entra ed esce dal manicomio, la solitudine di un ragazzino sballottato tra collegi e ricoveri di mendicità, molte volte senza un luogo dove andare a dormire. Centro e palcoscenico di un'esistenza randagia e zeppa di colpi di scena, le luci del music hall che nei primi decenni del secolo era diventato la principale attrazione popolare in Inghilterra, in Europa e in America. Molti dai quartieri disgraziati sognavano di trasformarsi in cantanti, fantasisti o attori. Così fu per il padre e per la madre di Charles. Charlie the kid a quattro anni, con uno spintone nella schiena, si trovò alla ribalta e cantò subito una canzoncina dopo l'altra, eccitato dalle monete che cadevano ai suoi piedi. A ogni artista la vita offre un pozzo per la fantasia, ma l'artista Chaplin esula da un normale uso delle autocitazioni. Charlot percorre capillarmente i luoghi nei quali Chaplin è cresciuto e i fatti, le tecniche necessarie al lavoro nel circo e nel music hall, modifica e innalza l'arte del mimo e della pantomima. Charlot ruba con impudenza ciò che Charles Chaplin aveva visto e imparato: cade di piatto in avanti, gira a vuoto su un piede solo, alza una gamba a compasso, si rotola avanti e indietro in salti mortali e capriole; sa usare il tempismo dei clown giocolieri, i pattini e il trapezio. Può girare scene di pericolo, in mare e in montagna. Avvolge l'infanzia e l'adolescenza del suo inventore con un'ineccepibile, sorvegliatissima mimica, e la vera Londra, pericolosa e disperata, di comicità. Così Chaplin trasferisce nell'arte le avventure innumerevoli, le permea di sé e le distacca insieme.Nel 1903, a quattordici anni, Charles Chaplin aveva recitato per la prima volta nella parte di un fattorino al teatro di Kingston e al teatro di Fulham, e quindi nello Sherlock Holmes di H.A. Saintsbury. Seconda tappa a diciassette anni, è il Casey's Court Circus e nel 1908 arriva il primo contratto con la compagnia di Fred Karno con il quale resterà fino al 1913, anno nel quale firmerà il contratto cinematografico per la Keystone a Los Angeles. Ha ventiquattro anni. Ma ha già viaggiato con Karno in Europa e in America.I cinque anni di esperienza nel music hall e gli insegnamenti di Fred Karno furono essenziali. Ripeterà modificandole persino le sue vecchie macchiette teatrali. Le capacità di mimo, acrobata, trasformista, ginnasta vengono giocate in funzione di quell'arte della pantomima che esalterà in seguito, quando il sonoro insidierà il suo successo. Dunque è dal copione composito del music hall, un po' circo, un po' prosa, e soprattutto varietà, che nasce il singolare apprendista di Karno, per ben ventidue anni fedele come Charlot alla specificità artistica di questo genere teatrale. Messo al mondo Charlot, Chaplin aggiunge subito alle trovate ripetitive degli inseguimenti parossistici, delle slapsticks, delle torte in faccia, un elemento nuovo: la psicologia. Karno la insegnava e spiegava perché era essenziale trasformare i personaggi da burattini sconclusionati a uomini. Proprio la psicologia s'intravede subito in Charlot come singolarità. È la prima volta che un personaggio comico se ne avvale. Ed è il teatro che si allea al cinema quasi inavvertitamente.

Di conseguenza, in poco tempo Charlot riesce a far dimenticare la vecchia comicità, che conclude con lui la sua stagione d'oro. Finisce il montaggio rapidissimo, teorizzato e officiato da David W. Griffith. Le sequenze vengono organizzate narrativamente, l'osservazione dell'ambiente, mai prima considerata essenziale nei cortometraggi comici, diventa portante dell'insieme. Il personaggio è tutt'uno con la sua specifica personalità, non solo con le trovate comiche. L'attore-regista, che tale diventerà Chaplin già nel 1915, attraverso le avventure di Charlot ci offre il mondo intero: sarà la città, la provincia; saranno i mestieri, i tipi sociali, la povertà e dalla povertà l'invenzione della sopravvivenza. Charlot fondava il regno delle gag sempre più fantasiose, in bilico tra invenzione astratta e verità, nelle quali non sarebbe mai stato superato. Ma le gag erano legate indissolubilmente al personaggio, a differenza delle slapsticks non erano ripetibili senza di lui.Un lavoro e una carriera senza soste. Il grafico della fortuna di Charlot non avrà mai cedimenti: 1914, dopo i brevi filmati tradizionali della Keystone, in un lungo film, Il fortunoso romanzo di Tillie o Il romanzo di Tillie, vediamo per la prima e l'ultima volta Charlot spalla di un'attrice comica vecchia maniera, Marie Dresser, allora notissima. 1915, la Essanay: nuovo contratto, aumenta la popolarità e l'autonomia. Quattordici comiche e sfilano l'imbianchino, la banca, lo sguattero, la nave, i poliziotti, il ladruncolo, il gentiluomo. In Charlot a teatro Chaplin riprende il numero teatrale dell'ubriaco nel doppio ruolo di gentiluomo in platea e del fannullone in loggione con un incrocio di gag irresistibili. Siamo già a un punto fermo del grande Charlot. Ritroveremo l'ubriaco e gli ubriachi fino alla perfezione dell'amico ritrovato di notte e rifiutato di giorno in Luci della città.Il diagramma del successo continua a salire con il passaggio alla Mutual Film Corporation. Chaplin ora è un comico pagatissimo, amato, di fama intercontinentale. La sua ossessività viene spronata da un'inventiva instancabile, finisce e si accinge subito ad altro. La partner è di solito la bionda Edna Purviance che deve riassumere nella sua presenza buona i sentimenti positivi che Charlot cerca e desidera, comica dopo comica. Il commesso, il pompiere, il nottambulo, il pattinatore, l'evaso, l'emigrante. Siamo nel 1917: uno stile sempre più definito, la satira sociale sempre più netta e netto il rifiuto della tragedia, mentre, come ha detto lo stesso Chaplin, "è il patetico del quale ho bisogno". Infatti il patetico è un immancabile sottofondo al cinismo dell'inerme, è il suo riscatto per attirare la simpatia universale ma non lo scosta mai troppo a lungo dal comico, permette a qualsiasi traversia o sentimento di provocare le risate.Il primo capolavoro in due bobine è L'emigrante: per 542 metri di pellicola, 27.000 metri di girato, quanto aveva raggiunto Griffith per The birth of a nation. Ma Chaplin ormai è un autore al quale non si può negare niente. Non sapremo mai quanti fagioli è stata costretta a mangiare la povera Edna Purviance per la scena del pranzo, sappiamo che dopo tre giorni la dolce Edna si è ribellata e si è rifiutata di mangiare ancora un solo fagiolo. E non avremo mai idea di quante volte è stata rifatta la gag indimenticabile degli emigranti quando immergono simultaneamente il cucchiaio in una ciotola che passa loro davanti a caso per il beccheggio della nave. Infine un rilievo: la satira sociale diventa esplicita quando gli emigranti, tenuti indietro da una corda, vedono passare vicino alla nave la statua della libertà. Un segnale di cambiamento. Non è un caso che la carriera di Charlot in Tempi moderni si concluda come operaio sfruttato e considerato meno di un oggetto.Per un contratto di un milione di dollari Chaplin diventa egli stesso produttore. È amato, inarrivabile e perfetto: siamo nel 1918, con Vita da cani e Charlot soldato. Anche la guerra è inglobata nelle amare esperienze del povero Charlot ma la gente, la critica, le autorità lo accettano e non osano accusare Chaplin di disfattismo.

A questo punto è impossibile riassumere un tessuto strettissimo di filmati. C'è da rilevare almeno che alcuni dei soliti temi e altri emergenti si trasformeranno e allargheranno nei quattro lungometraggi, riconosciuti come i suoi capolavori. Qui le date rimandano all'industria del cinema in continua evoluzione. E l'evoluzione vale non solo per il cinema ma per la società. Il monello esce nel 1921. La febbre dell'oro nel 1925, nel 1931 Luci della città e nel 1936 Tempi moderni, quando ormai il sonoro da anni aveva cancellato il cinema muto e insidiava decisamente Charlot e l'arte della pantomima. Con Tempi moderni Charlot il Vagabondo prende commiato cantando una canzone senza capo né coda, parodia dei film parlati, ed esce di scena.

Quando cominciò a girare Il monello Chaplin aveva trent'anni e non sappiamo quanto fosse consapevole che da quel momento lui e il suo personaggio sarebbero diventati altro, o almeno d'ora in avanti avrebbero mandato messaggi più complessi; che Charlot avrebbe subito una esplicita coloritura verso la ricerca della poesia, l'aspirazione a una società migliore e un'evidente carica di amarezza sociale, temi alleati comunque alla pantomima, al patetico, al riso. Il patetico con Il monello costringe a seguire una combinazione di contrasti difficilissima: lacrime e risate. Mai Charlot ci ha fatto sorridere: è la risata che prorompe dai suoi guai, dalla sua disperata povertà e si converte all'improvviso, quando meno ce lo aspettiamo, in commozione sincera per i veri affetti, la vera sofferenza del Vagabondo. A questo clown, per la prima volta nella storia dei clown, in Il monello è concesso far piangere. L'inclito pubblico ha licenza di commuoversi sul bambinello abbandonato, sull'improbabile padre trovato per la strada: la vita, con la sua crudeltà, ha fatto irruzione sulla scena di cartapesta. Che dire di Jackie Coogan? Chaplin sostenne che fu proprio il bambino che gli fece pensare a questo film, che fu proprio lui, con la sua vivacità innocente e una permeabilità totale, a dargli l'idea per il film. Può darsi che fosse così, certo è che mai come in Il monello l'autobiografia irrompe in tutti e due i personaggi, li salda in un unico essere indivisibile che la disumanità degli altri vuole dividere. Entra nel film una sbrigliatezza di invenzione che culmina nell'episodio del sogno, dove tutti, i poveri e i cattivi, sono convertiti in angeli che volano. Anche il cagnolino randagio vola con le sue piccole ali, immaginiamo che per la sua vita grama sarà accettato in paradiso, diventa l'arcangelo annunciatore del Dadaismo, del Surrealismo. Il monello inaugura dunque il periodo nel quale la libertà di Charlot si fa incontenibile, più complessa e imprevista. Tecnica e fantasia diventano una cosa sola, continuamente in ebollizione, continuamente alla prova. In La febbre dell'oro quell'inizio alla Griffith, del tutto realistico, nel quale vediamo i cercatori che arrancano nella neve e affrontano faticosamente la montagna, per logica dei generi non dovrebbe prevedere la danza dei panini, la scarpa bollita e divorata come una prelibatezza, eppure è proprio la più dura realtà, denunciata, che adesso Charlot, per le sue eterne, solide caratteristiche, riesce ad assimilare e a capovolgere.

I tempi erano maturi per una cultura che immetteva a pieno diritto le ragioni della fantasia, anzi le proclamava. Veniva dalla Francia, ma anche in America ebbe i suoi entusiasti. Il cinema era un mezzo straordinario per accogliere gli esperimenti artistici e impulsi non solo di satira ma di denuncia sociale. Il dolore e l'ingiustizia, attraverso le avventure di Charlot si mostrano appieno e si trasformano sotto i nostri occhi, con trucchi da consumato giocoliere, nel loro contrario, la risata. Lo aveva sempre fatto, si potrebbe concludere, ma non così, non mettendo in luce gli estremi in tutta la loro evidenza.

L'omaggio alla poesia, attraverso le icone femminili, prende ‒ superata Edna Purviance ‒ l'aspetto angelicato di Virginia Cherril, la ragazza cieca di Luci della città, riconsegnata alla vita e alla vista, quindi restituita al mondo della realtà che non sarà mai di Charlot. In Tempi moderni la poesia si allea alla femminilità adolescenziale e incantevole di Paulette Goddard con tutte le caratteristiche della grazia, della lievità, della innocente malizia. Paulette è la sorella grande del Monello, di Jackie Coogan, come lui diventerà una figurina indimenticabile: l'icona femminile si è fatta carne, è finalmente scesa sulla Terra e la poesia è diventata, inquadratura per inquadratura, commovente. Charlot ha generosamente lasciato che sia la 'monella' a commuoverci, a comunicarci lo stesso impulso eterno verso la bellezza che segretamente, in tutti questi anni, si era portato dietro nei suoi travestimenti e nelle sue peregrinazioni.

Così la realtà diventa altro da sé, appare il gesto puro, la fantasia, l'invenzione che la vince. La fatica e l'ingiustizia del lavoro nella società industrializzata sono temi scottanti e presenti già da anni nel cinema. Registi diversi avevano messo al centro dei loro film il destino dell'operaio, lo sfruttamento dell'uomo nella società capitalistica: da citare almeno À nous la liberté di René Clair (A me la libertà, la traduzione italiana del titolo, cambiando il pronome 'nous' in 'me', elimina un concetto fastidioso in tempi fascisti) che è del 1931, il precedente Metropolis (1926) di Fritz Lang. Con Tempi moderni, attraverso Charlot, Chaplin d'autorità firma per tutti gli altri la sua denuncia che ha un sapore speciale perché il personaggio amato, il muto Vagabondo, con questo film saluta il suo pubblico e se ne va. Ma l'operaio Charlot, all'interno della fabbrica, attraverso una serie di osservazioni paradossali dell'ambiente, ci aveva mostrato prevaricazioni inaudite: la catena di montaggio, i ritmi inumani del lavoro, la sacralità delle macchine, l'equivoco del povero disoccupato scambiato per il capo dei dimostranti e l'ingiusta prigione dove, con un tipico ribaltamento, Charlot ci dimostra che è l'unico luogo nel quale un disgraziato trova pane e tranquillità. Il patetico? Si fa fatica a chiamarlo ancora così benché la tragedia non affiori mai.

Luci della città: Charlot nel lussuoso ristorante comincia a mangiare uno spaghetto attorcigliato per caso a una stella filante che cade dal soffitto. Finito lo spaghetto senza avvedersene egli continua a masticare la stella filante, sale con il viso e non si chiede come mai lo spaghetto s'inerpica verso il soffitto. È una delle tante gag del personaggio Charlot, dura poco, eppure potremmo sceglierla come una definitiva, semplice, geniale metafora: osservate, sembra dire, come trasformo la fame in carnevale, la sposto e l'annullo nel regno delle risate.

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