Deciani, Tiberio

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (2012)

Tiberio Deciani

Michele Pifferi

Tiberio Deciani è figura di passaggio dalla criminalistica di diritto comune a quella dell’età moderna. Fu docente a Padova, erudito sensibile alle proposte metodologiche degli umanisti, stimato consulente, giurista al servizio delle politiche veneziane, e il suo Tractatus criminalis presenta caratteri di forte originalità sia nella struttura espositiva degli argomenti, sia nella parte dedicata all’analisi degli elementi generali del delitto. L’impegno teorico di ridurre i criminalia entro un sistema razionale e deduttivo, in ragione dell’autonomia scientifica raggiunta dalla materia e in funzione delle politiche egemoniche dei principi, avrà una fortuna di lungo periodo nella scienza penale.

La vita

Deciani nasce a Udine il 3 agosto 1509 da nobile famiglia. Dopo aver ricevuto un’educazione umanistica nella città natale, nel 1523 si trasferisce a Padova dove studia diritto sotto la guida di Marco Mantova Benavides e consegue con grandi onori il dottorato in utroque iure il 19 aprile 1529. Ritornato a Udine, sposa nel 1530 la nobile Maddalena Antonini, e affianca all’attività di avvocato e consulente un intenso impegno politico e diplomatico a servizio della città, quale membro prima del Consiglio maggiore e poi dei Settemviri, deputati al governo della città.

Trasferitosi a Venezia nel 1544, in virtù dell’abilità oratoria, unita alla profonda cultura giuridica, si guadagna notevole fama, tanto da essere chiamato ad assistere i nobili veneziani che svolgono funzioni di governo nelle città di Terraferma: nel 1546 è assessore del podestà di Vicenza Lorenzo Venier, nel 1548 ricopre lo stesso incarico a Padova per Bernardo Navagerio e nel 1550 a Verona per Francesco Venier. Mentre si trova a Padova, il 23 aprile 1549 il Senato di Venezia, apprezzandone la capacità di coniugare dottrina e pratica, lo chiama a tenere l’insegnamento di diritto criminale presso lo Studio patavino in sostituzione di Marco Antonio Bianchi; contemporaneamente, viene ammesso nel Collegio dei giuristi di Padova. Il 12 ottobre 1552 il Senato gli affida la seconda cattedra di diritto civile, insegnamento che terrà fino alla morte dopo essere passato nel 1570 alla prima cattedra, posizione di massimo prestigio accademico.

Nell’ambiente padovano instaura rapporti di amicizia e di intenso confronto culturale con colleghi giuristi (tra i quali, oltre al Mantova, Guido Panciroli, discepolo di Andrea Alciato, Jacopo Menochio e Francesco Mantica, suo allievo) e intellettuali di stampo umanistico. I suoi impegni in ambito universitario non si limitano alla docenza: i riformatori dello Studio patavino gli affidano prima, nel 1550, l’incarico di curare l’edizione a stampa degli statuti dell’Università, poi, nel 1562, assieme a Mantova, Girolamo Tornielli e Guido Panciroli, quello di riformare gli statuti stessi, modificati in modo da favorire il controllo del Senato veneziano sullo Studio senza nessun coinvolgimento degli studenti.

Deciani, doctor iuris di apparato al servizio delle strategie di potere di Venezia, per la quale svolge importanti consulenze giuridiche oltre che incarichi diplomatici, il 21 ottobre 1578 viene nominato dal Consiglio dei Dieci consultore in iure della Serenissima, massimo riconoscimento per i giuristi più fedeli alle politiche veneziane. Grazie all’abilità oratoria, alla fama acquisita con l’insegnamento e alle competenze sui molteplici profili del diritto comune, si dedica a una rilevante attività consiliare anche per illustri committenti (oltre al Senato veneziano, gli imperatori Carlo V e Ferdinando I per questioni sulla spettanza di feudi e castelli, i duchi d’Este per lo scontro sulla precedenza con i Medici, la Repubblica di Genova per la confisca dei beni dei Fiesci, il patriarca d’Aquileia Giovanni Grimani accusato d’eresia). Muore a Padova il 7 febbraio 1582.

L’Apologia e la riflessione sul metodo

La lunga esperienza didattica, unita alla solida formazione umanistica, rende Deciani particolarmente attento alle proposte di rinnovamento metodologico della scienza giuridica che segnano la fine del 16° secolo. L’ambiente patavino, caratterizzato da apertura culturale e tolleranza religiosa, favorisce il suo contatto sia con le idee dei seguaci di Alciato, fautori di uno studio storico-filologico dei testi romani e di una rielaborazione ordinata e sistematica del diritto, sia con la rivalutazione della logica aristotelica come giusto metodo per ogni scienza, operata da Giacomo Zabarella (1533-1589).

Senza voler forzare Deciani entro rigide partizioni tra 'culti' o 'bartolisti', ormai superate dalla storiografia, è possibile inquadrarlo come un doctor iuris che somma alla vasta conoscenza del tradizionale apparato di diritto comune anche una raffinata cultura umanistica e riconosce l’importanza del criterio logico-deduttivo nel ragionamento giuridico. È lui stesso ad affermare che nella seconda metà del Cinquecento i giuristi, così come i medici, sono divisi in tre categorie: gli «empiricos», avvocati che si affidano solo alla prassi seguendo la varietà dei casi concreti; i «dogmaticos sive theoricos», i quali spesso, dimenticando la funzione pratica che deve conservare la riflessione giuridica, si perdono in inutili cavilli; i «methodicos», che, rifiutando lo stile medievale delle quaestiones, liberamente uniscono all’ordinata esposizione del diritto digressioni storiche (Tractatus criminalis, 1590, VII, VII, 12, p. 113). Deciani adotta una posizione di equilibrio tra queste factiones, di ciascuna valorizzando i pregi e criticando i limiti.

Tale scelta è evidente nell’Apologia pro iurisprudentibus qui responsa sua edunt, che egli pubblica nel 1579 in risposta alla critica che Alciato, nel XII libro dei Parerga, edito postumo nel 1554, aveva indirizzato nei confronti della giurisprudenza consulente. L’attività consiliare, accusata da quest’ultimo di rappresentare la degenerazione del compito interpretativo del giurista, finalizzata esclusivamente al lucro personale e alla vittoria della causa senza alcun valore scientifico né spessore teorico, è, invece, difesa da Deciani, che, pur richiamando il respondente a un rigore sia morale sia tecnico, ne difende l’utilità pratica e il valore teorico (Rossi, Spagnesi in Tiberio Deciani, 2004). Convinto che il lavoro del giurista sia un connubio tra teoria e prassi, tra universale e particolare, l’attività consiliare consente, a suo parere, un’osmosi tra speculazioni astratte e dimensione applicativa, tra principio generale e caso concreto, poiché

absque cognitione atque arte componendi universalia theoremata cum singularibus negociis, manca est iurisprudentia, sed et inutilis, et ludibrio exposita («senza la conoscenza e l’arte di mettere insieme i teoremi universali con le situazioni particolari, la giurisprudenza è imperfetta, ma anche inutile ed esposta allo scherno»; Apologia pro iurisprudentibus qui responsa sua edunt, 1602, X, 24, p. 8).

Il Tractatus criminalis

L'opera più importante di Deciani è il Tractatus criminalis, edito postumo a opera del figlio Niccolò nel 1590 e rimasto parzialmente incompleto. Considerato da una storiografia ormai datata come la prima espressione di un diritto penale moderno in virtù della cosiddetta parte generale introduttiva (Marongiu 1934; Schaffstein 1938), esso presenta rilevanti profili di originalità rispetto alla criminalistica precedente che, tuttavia, devono essere letti senza attribuire loro improbabili e precorritrici anticipazioni, bensì storicizzandoli in ragione del clima culturale e del contesto politico in cui maturano.

Il Tractatus, composto di nove libri, è organizzato secondo uno schema espositivo nuovo per la materia criminale: affronta questioni terminologiche, risalendo all’origine storico-filologica dei vocaboli utilizzati nel diritto penale e spiegandone poi il corretto significato (libro I); analizza il concetto di delitto in astratto, prima attraverso gli strumenti della logica aristotelica, con cui ne indaga l’origine, le cause, la definizione, gli elementi, poi dilungandosi sul rapporto tra delitto e legge e sulla differenza tra reato e peccato (libro II); descrive le regole processuali (libri III-IV) con quasi esclusivo riferimento al modello accusatorio (Dezza in Tiberio Deciani, cit.); propone le consuete classificazioni dei reati (ordinari e straordinari, privati e pubblici) per poi passare alle descrizioni delle singole figure criminose ripartite secondo il criterio del bene leso (libri V-IX).

I primi due libri sono molto diversi dallo stile delle Practicae, dei trattati tematici o delle stampe di lecturae su leggi o parti del corpo giustinianeo in ambito penale, opere orientate per lo più a spiegare funzioni e modi del processo o a descrivere in modo casistico i comportamenti punibili. I generalia omnia delictorum costituiscono l’aspetto più originale del lavoro decianeo, capaci di caricare di un significato nuovo anche i contenuti attinti con continuità dal deposito del diritto comune. Pur non trattandosi di una parte generale nel senso che tale espressione ha assunto a partire dalle codificazioni moderne, la ricerca di uno spazio teorico in cui definire regole, principi, caratteri del reato in abstracto sive imaginatione segna certamente una forte discontinuità con la letteratura precedente, e avrà una fortuna di lungo periodo nella scienza criminale.

La chiave di lettura per interpretare le ragioni della sperimentazione metodologica del Tractatus deve tener conto sia dell’influenza esercitata su Deciani dall’Umanesimo nell’ambiente padovano, sia della sua volontà di sostenere la politica penale egemonica veneziana. La scelta di scrivere una prima teoria generale del reato presuppone competenze sistematiche che egli ha potuto perfezionare non solo leggendo gli umanisti d’oltralpe, ma anche confrontandosi con docenti dello Studio patavino che già avevano avviato una riflessione sul contractus in genere, elaborando attraverso gli strumenti dialettici una concettualizzazione della categoria generale del contratto (così Pietro Nicolò Moccia, allievo di Deciani, nel Tractatus de contractibus edito nel 1585, o Angelo Matteacci che pubblica nel 1591, con il titolo De via et ratione artificiosa iuris universi, il corso di civile tenuto more gallico due anni prima e costruito attorno al concetto generale di fatto obbligatorio o sinallagma).

L’opzione metodologica del trattato, tuttavia, non può essere intesa solo come una scelta di stile, perché la razionalizzazione del delictum in genere e l’ordinata descrizione dei suoi elementi costitutivi, oltre a testimoniare dell’autonomia scientifica raggiunta dal diritto criminale, veicolano anche una visione politica sulla funzione costituzionale del penale nel Cinquecento. Sistematizzata attorno ad alcuni principi guida, definita nei suoi caratteri necessari, strettamente ricondotta alla dipendenza dalla legge scritta, differenziata dal peccato, la teoria del delictum di Deciani è perfettamente funzionale al modello di penale egemonico, centralizzato nelle mani del principe e strumentalizzato come leva di governo, che gli Stati europei stanno cercando di imporre nel 16° sec. (Sbriccoli in Tiberio Deciani, cit.).

La teoria generale del delitto

Nel Tractatus criminalis Deciani dà questa definizione di delitto:

est factum hominis, vel dictum aut scriptum dolo vel culpa a lege vigente sub poena prohibitum, quod nulla iusta causa excusari potest

è il fatto, la cosa detta o scritta dell’uomo, commesso con dolo o colpa, proibito con pena da una legge vigente, che non può essere giustificato da nessuna giusta causa (Tractatus, cit., II, III, 2, p. 19).

Qui egli non inventa nulla, ma riprende e assembla regulae comuni alla giurisprudenza tardo-medievale: l’operazione di sintesi, tuttavia, ha carattere creativo e implica una valutazione politica.

L’accento posto sul requisito dell’animus delinquendi, sebbene possa considerarsi un principio condiviso nella criminalistica cinquecentesca, assume nel Tractatus un valore costitutivo rafforzato sia dalla chiara delimitazione del significato specifico che i termini dolo e colpa hanno nel diritto penale, nettamente distinto dal loro senso civilistico, sia dalla precisazione che la voluntas, assieme al fatto, è causa materiale del delitto ed elemento sostanziale dello stesso. L’aspetto politicamente più rilevante, al quale Deciani dedica ampio spazio nel libro II, è però il rapporto di dipendenza tra delitto e legge: la lex poenalis è il fulcro dei generalia delictorum, il discorso ruota attorno alla sua potentia, alle sue caratteristiche e ai suoi limiti. Essa diviene il fattore tipizzante e ineliminabile del penale, il criterio discriminante tra lecito e illecito, il confine netto che separa il delictum dal peccatum. Requisito fondamentale inserito nella definizione, la legge è elemento sostanziale e causa formale del reato, perché assegna la formam delicti a un comportamento che prima poteva essere genericamente illecito (per la morale o per il diritto civile), ma comunque non passibile di pena.

In un lungo excursus storico sulle varie leges, da quelle romane agli statuti cittadini, Deciani insiste sull’importanza della legge pubblica scritta come condizione per l’esistenza di un reato e di una pena:

Ad coercenda ergo delicta necessaria fuit lex scripta. Quo factum est, ut nullum delictum puniendum sit, quod lege aliqua non prohibeatur: valet enim consequentia, Actus iste nulla lege punitur, aut prohibetur, ergo delictum non est: nam quod non vetatur, permissum intelligitur.

Per reprimere i delitti fu dunque necessaria la legge scritta. Da ciò ne consegue che non debba essere punito nessun delitto che non sia vietato da una qualche legge: ne deriva la conseguenza che se nessuna legge punisce o proibisce una certa azione, di conseguenza non è un delitto: infatti ciò che non è vietato si deve intendere come permesso (Tractatus, cit., II, V, 10-11, p. 21).

Tale legge, da un lato, come regola certa e fissa, impermeabile agli alterni sentimenti dei giudici, assume un significato di contrasto all’arbitrio dei magistrati e alle pratiche consuetudinarie di composizione dei conflitti, esaltando la potestas del legislatore; dall’altro, traccia un confine netto tra foro interno di coscienza e foro esterno giurisdizionale.

L’obiettivo di Deciani non è certo quello di stabilire un garantistico principio di legalità ante litteram, bensì di legittimare la forza e l’autorità della lex poenalis publica scripta quale espressione della volontà assoluta del sovrano, strumento di supremazia del legislatore, fonte privilegiata che s’impone sui diritti particolari e gli usi.

In questa prospettiva, egli insiste sulla distanza che separa la legge penale da quella morale, assumendo nel pieno Cinquecento una posizione opposta a quella sostenuta dagli esponenti della seconda scolastica, che rivendicavano una coincidenza tra foro esterno e interno proprio sulla base dell’obbligatorietà in coscienza della legge penale e della sovrapposizione tra reato e peccato. Espressione, invece, della distinzione post-tridentina tra potere temporale e spirituale, separati anche se entrambi orientati alla difesa dell’ordine cristiano della società, la tesi decianea è per una diversificazione netta tra il giudice laico, che valuta gli atti esterni dei cittadini in base alle legge, e il confessore, che scruta l’anima del fedele, tra la pena come soddisfazione pubblica del delitto conseguente all’accertamento nel processo della disobbedienza alla norma e la penitenza che attiene alla intima sfera della coscienza (Schmoeckel, in Tiberio Deciani, 2004). Alla base di tale separazione tra fori, dunque, emerge ancora una volta la centralità della legge penale.

Anche il giudice penale, che opera «tanquam repraesentans personam Principis, vel Reipublicae quae ipsi mandavit iurisdictionem» («come rappresentante della persona del Principe, o dello stato che a lui stesso ha delegato la giurisdizione»; Tractatus, cit., II, XIV, 4, p. 33), non può mai decidere in base alla propria personale coscienza, ma deve sempre attenersi strettamente alle risultanze processuali e, dunque, giudicare secundum leges: è un ulteriore argomento che contribuisce a comporre il quadro generale nel quale tutto il sistema penale è governato dalla potestas del sovrano, il quale per mezzo della legge crea i reati, stabilisce la procedura, vincola i giudici, impone le pene.

Nella parte del Tractatus dedicata ai singoli crimini, dove l’autore passa dagli universalia agli specialia, appare una maggiore continuità con la tradizione della criminalistica precedente, anche se la scelta della divisione in base all’oggetto rende comunque l’esposizione più ordinata e razionale: prima i delitti contro Dio, a seguire quelli contro il principe o lo Stato, contro terzi, contro se stessi. Nella descrizione, poi, delle singole fattispecie, Deciani segue, non senza variazioni o contraddizioni, uno schema tipo tripartito: in un primo momento, così come nei generalia, etimologia, definizione, elementi sostanziali e divisioni; poi leggi che disciplinano il reato (romane, canoniche, statutarie, nuove costituzioni dei principi), soggetti attivi, condotte tipiche, forme aggravate, casi particolari ed eventuali scusanti; infine modalità processuali. Per quanto prevalga nettamente, in questa seconda parte, l’interpretazione dei testi giustinianei, non mancano riferimenti alla sua esperienza personale come assessore, alle nuove legislazioni cinquecentesche (in particolare la Costituzione criminale Carolina del 1532), alla particolare dimensione giuridica della Repubblica di Venezia che meglio conosce, con richiami a consuetudini, norme, provvedimenti o pratiche di giudizio di Udine, Padova, Venezia, Vicenza. Sono, questi, una conferma del modello di giurista che descrive nell’Apologia, capace di maneggiare con altrettanta competenza speculazioni dogmatiche e questioni pratiche.

Opere

Nel 1572, a Genova, viene pubblicato il Responsum pro Republica Genuensis.

I primi tre volumi dei Responsorum clarissimi ac celeberrimi iuris utriusque consultissimi Tiberii Decianii sono stampati per la prima volta a Venezia nel 1579, con in appendice la Apologia pro iurisprudentibus qui responsa sua edunt. Imprimendo adversus dicta per Alciatum, Parergon Lib. XII, cap. ultimo; altri due volumi sono editi postumi, a cura del figlio Nicolò, a Udine nel 1594. In seguito, i voll. 1°-4° sono ristampati a Francoforte negli anni 1589-1596, e tutti e cinque, compresa l’Apologia al termine del vol. 3°, a Venezia nel 1602 (si tratta dell'edizione qui utilizzata).

La prima edizione del Tractatus criminalis […] utramque continens censuram è pubblicata a Venezia nel 1590. Seguono altre cinque edizioni senza alcuna differenza testuale: ancora Venezia 1590 (apud Franciscum de Fransciscis senensem, qui utilizzata per le citazioni); Francoforte 1591, poi accresciuta da Pieter Cornelius van Brederode e ristampata, sempre a Francoforte, nel 1613; Torino 1593; Venezia 1614.

Bibliografia

G.G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da' letterati del Friuli, 3° vol., Udine 1780, pp. 376-98.

P. Antonini, Di Tiberio Deciano celebre giureconsulto udinese, Bassano 1858.

A. Marongiu, Tiberio Deciani (1509-1582). Lettore di diritto, consulente, criminalista, «Rivista di storia del diritto italiano», 1934, 7, pp. 135-202, 312-87.

F. Schaffstein, Tiberius Decianus und seine Bedeutung für die Entstehung des Allgemeinen Teils im Gemeinen deutschen Strafrecht, in Deutsche Rechtwissenschaft, hrsg. K.A. Eckhardt, Hamburg 1938, pp. 121-48 ; ora in Id., Abhandlungen zur Strafrechtsgeschichte und zur Wissenschaftsgeschichte, Aalen 1986, pp. 199-226.

I. Mereu, Storia del diritto penale nel ’500. Studi e ricerche, Napoli 1964, pp. 13-72.

E. Spagnesi, Deciani Tiberio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 33° vol., Roma 1987, ad vocem.

E. Holthöfer, Deciani (Decianus), Tiberio (1509-1582), in Juristen. Ein biographisches Lexikon. Von der Antike bis zum 20. Jahrhundert, hrsg. M. Stolleis, München 1995, ad vocem.

I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino 2002, pp. 261-67.

Tiberio Deciani 1509-1582. Alle origini del pensiero giuridico moderno, Atti del Convegno internazionale di studi storici e giuridici, 12-13 aprile 2002, a cura di M. Cavina, Udine 2004 (in partic. M. Sbriccoli, Lex delictum facit. Tiberio Deciani e la criminalistica italiana nella fase cinquecentesca del penale egemonico, pp. 91-119; E. Dezza, Sistematica processuale e recupero del principio accusatorio nel Tractatus criminalis di Tiberio Deciani, pp. 157-75; M. Pifferi, Tiberio Deciani e le origini della ‛parte generale’ nel diritto penale. Ipotesi per una ricostruzione, pp. 177-205; M. Schmoeckel, Der Entwurf eines Strafrechts der Gegenreformation (Prova, pena e penitenza in un sistema post-tridentino), pp. 207-34; G. Rossi, Teoria e prassi nel maturo diritto comune: la giurisprudenza consulente nel pensiero di Tiberio Deciani, pp. 281-313; E. Spagnesi, Tiberio Deciani e il diritto giurisprudenziale. Per l’interpretazione dell’Apologia, pp. 315-31).

M. Pifferi, Generalia delictorum. Il Tractatus criminalis di Tiberio Deciani e la 'parte generale' di diritto penale, Milano 2006.

CATEGORIE
TAG

Marco mantova benavides

Repubblica di venezia

Principio di legalità

Consiglio dei dieci

Francesco mantica