TIBURZI, Domenico Luigi, detto Domenichino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TIBURZI, Domenico Luigi detto Domenichino

Giulio Tatasciore

– Nacque il 28 maggio 1836 a Pianiano, frazione del comune di Cellere, un borgo nell’alto Viterbese ai confini settentrionali della Maremma laziale, all’epoca nello Stato pontificio. Primogenito del bracciante Nicola e di Lucia Attili, ebbe due fratelli minori, Paolo e Giovanni.

Fu un’infanzia disagiata quella del futuro brigante, idealizzato già in vita come giustiziere sociale e vendicatore degli ultimi. Ancora bambino e pressoché analfabeta venne posto alle dipendenze di un pastore locale, destinando la paga di garzone al magro bilancio familiare. Rientrato a Cellere durante l’inverno del 1852, si adattò al mestiere del padre, palesando tuttavia un temperamento irrequieto e violento. Denunciato per pascolo abusivo, venne ripetutamente inserito nelle liste di ricercati per furto e scampò all’imputazione per insufficienza di prove. Una certa passione per donne, gioco e vino ne esacerbò l’attitudine litigiosa, rendendone frequenti le intemperanze pubbliche. Proprio all’esterno di un’osteria, il 17 dicembre 1864, si consumò il duello a colpi di pugnale che gli valse l’arresto per aggressione armata e la prima, breve esperienza carceraria.

Frattanto, orfano di madre dal 1855 e di padre dal 1865, il 29 maggio 1859 aveva sposato Veronica Dell’Aia, dalla quale ebbe due figli, Luciano nel 1863 e Nicola nel 1867. Il matrimonio consentì a Domenichino, così soprannominato per via della statura minuta, di risollevare in qualche misura il proprio prestigio sociale. Mediante l’intercessione dei parenti della moglie, infatti, riuscì a farsi assumere da due possidenti di Cellere in qualità di buttero, ossia come pastore a cavallo, mestiere tradizionale delle pianure maremmane.

Nel marzo del 1867 la polizia lo segnalò tra gli aderenti all’Associazione castrense, un’organizzazione repubblicana, unitaria e antipapale. Questo circolo patriottico, fondato nel 1848, seguitò a operare clandestinamente anche dopo la caduta della Repubblica romana e durante il restaurato governo pontificio. I cospiratori, coordinati da importanti possidenti della zona, sfruttavano le opportunità logistiche offerte dalla selva del Lamone, ai confini con il territorio toscano. Forse reclutato dal compaesano Francesco Mazzariggi, di famiglia benestante e noto agitatore politico, Tiburzi avrebbe operato da staffetta portaordini.

Più che illuminare l’attività politica – a lungo rimasta oscura – le cronache criminali fanno risalire al 1867 la metamorfosi dell’anonimo buttero in leggendario brigante. Secondo il mito del ‘livellatore’ sociale, egli uccise Angelo Del Buono avendolo costui multato dell’esorbitante cifra di 20 lire per aver raccolto un fascio d’erba nella tenuta dei marchesi Guglielmi. Nel rifiutare «la mano che il pastore gli stendeva, quasi implorante», l’inflessibile custode avrebbe tradito il patto di classe tra «disgraziati», scatenandone la rabbia vendicatrice (P. Bargellini, Tiburzi, Firenze 1955, p. 23). L’omicidio avvenne effettivamente la notte tra il 23 e il 24 ottobre 1867. Domenichino, insieme ad altri butteri, era sconfinato nei territori dei Guglielmi per recuperare alcuni buoi. Intercettato da Del Buono e da un collega, il gruppo venne redarguito, ma fu quando i guardiani umiliarono i pastori requisendone il bestiame che il fucile di Tiburzi esplose due colpi, uno a vuoto, l’altro mortale.

L’episodio non ebbe conseguenze immediate, poiché le autorità, senza testimonianze decisive, attribuirono il delitto a ignoti. Fu lo stesso Tiburzi ad attirare l’attenzione facendosi arrestare, il 5 agosto 1868, per una prosaica ubriachezza molesta. Pochi giorni di detenzione bastarono a far sì che qualcuno, forse il custode sopravvissuto, si convincesse a raccontare i fatti. Il 15 settembre successivo i gendarmi prelevarono i testimoni della sparatoria e il tribunale di Civitavecchia, acclarate le responsabilità di Tiburzi, lo condannò a diciotto anni di lavori forzati, con sentenza del 21 agosto 1869. Seppur scampato alla pena capitale in virtù dell’attenuante della provocazione, nei giorni della presa di Porta Pia l’ormai galeotto languiva nel bagno penale della stessa Civitavecchia.

Nell’aprile del 1872, dietro sua richiesta, Tiburzi fu trasferito nella struttura di Porto Clementino, nei pressi di Tarquinia, ove i detenuti erano addetti alla raccolta del sale. Da qui, il 1° giugno, egli riuscì a evadere insieme a Domenico Annesi, detto l’Innamorato, e Antonio Nati, detto Tortorella. Nel gennaio del 1873 Tiburzi, nascosto nel bosco del Lamone, entrò in contatto con il latitante Domenico Biagini, detto il Curato. Con questa collaborazione iniziò il ciclo operativo della cosiddetta banda del Lamone, un sodalizio criminale dall’organigramma ristretto e mutevole, che estese la propria influenza su una vasta zona dell’alto Viterbese e del basso Grossetano.

L’attività dei briganti, capitanati da Tiburzi solo a partire dal 1877, si assestò intorno al ruolo, piuttosto tradizionale, di polizia privata dei grandi proprietari terrieri, che li utilizzavano come braccio armato nella repressione della piccola delinquenza e nel controllo del territorio. Il sodalizio trasformò «il crimine in un contratto» (A.G. Bianchi - G. Ferrero - S. Sighele, Il mondo criminale italiano, II, Milano 1893, p. 245), poiché il servizio era ricompensato con la cosiddetta tassa sul brigantaggio, un tributo versato in denaro o beni materiali a Tiburzi e sodali, pochi ma capaci di mobilitare una fittissima rete di conniventi, protettori e informatori.

Questa forma parallela di gestione della sicurezza pubblica venne perfezionata nel tempo. In quasi venticinque anni i briganti collezionarono condanne in contumacia per un ricco campionario di estorsioni, ricatti, incendi, stupri, sequestri di persona e omicidi. Plateale quello commesso da Tiburzi nel 1874, quando si vendicò in pubblica piazza di qualcuno che, pare, aveva tentato di sedurre la donna sbagliata. Donna Veronica morì di malaria pochi mesi dopo, ma il ricordo della moglie non impedì al brigante di circondarsi di prostitute e amanti. Alla sua mano o ai suoi ordini vanno ascritte ulteriori uccisioni di cui furono vittime, fra gli altri, elementi interni alla stessa banda, vecchi manutengoli allettati dall’ingente taglia di 10.000 lire o sospetti informatori dei carabinieri.

Il regime di terrore, all’apparenza mai gratuito, era bilanciato da generose elargizioni ai favoreggiatori di ceto popolare, funzionali ad aumentarne la fedeltà e alimentare la fama del Robin Hood maremmano. Un’immagine romantica che stride con quella del brigante impegnato a sedare, con il fucile spianato, gli scioperi organizzati nei latifondi da mietitori o braccianti stagionali. Oppure con quella dello stesso Tiburzi che dispone l’esecuzione di un suo gregario, colpevole di aver azzardato un ulteriore ricatto ai danni del marchese Guglielmi, tra i principali contributori della comitiva.

La banda del Lamone acquisì grande notorietà nei primi anni Novanta dell’Ottocento. Sollecitati da interrogazioni parlamentari, dapprima Francesco Crispi, poi Giovanni Nicotera e infine Giovanni Giolitti annunciarono, da ministri dell’Interno, una stretta sull’ordine pubblico. Sotto il governo Giolitti il risultato più eclatante fu, nel 1893, il controverso rinvio a giudizio di ottantanove persone accusate di associazione a delinquere, estorsione o favoreggiamento. La batteria di imputati era formata in gran parte da proletari, pastori e contadini, ma includeva anche amministratori fondiari, segretari comunali e notabili locali. Il processo, celebrato a Viterbo, produsse condanne relativamente lievi e illuminò solo in parte le altolocate connivenze politiche di Tiburzi, ancora latitante. Nondimeno, esso riuscì ad azzoppare una solida organizzazione verticistica che peraltro coinvolgeva nel ruolo di tesoriere il figlio prediletto del capobrigante, Nicola.

Il dibattimento, seguito dalla stampa e dalla folla assiepata in aula, attirò l’attenzione degli osservatori internazionali e ispirò il primo reportage giornalistico sul tema, pubblicato a puntate da Adolfo Rossi, corrispondente del giornale La Tribuna, e poi raccolto in volume (Nel regno di Tiburzi, Roma 1893). La figura ossimorica che ne emerse – icona dell’arretratezza morale, sociale ed economica del territorio maremmano, ma anche personaggio pittoresco incarnante un disperato ribellismo – fece così ingresso nello scenario politico nazionale compromesso dallo scandalo della Banca Romana. Se ne appropriò Filippo Turati, che sulla Critica sociale attribuì a Giolitti il profilo del celebre criminale (La triplice incarnazione di Tiburzi, ovvero Tiburzi finto birro, finto politico e finto magistrato, 1893, dietro lo pseudonimo di Pupilio Fratti). In contrasto con la corruzione dei salotti romani la propaganda socialista trasfigurò Tiburzi nel «solitario campione di una onestà che la dominazione borghese ha fatto scomparire dal mondo», definizione che i redattori del settimanale satirico L’asino coniarono per lanciarne, sempre nel 1893, la provocatoria candidatura al Parlamento.

Mentre correva voce che Tiburzi fosse nascosto a Roma, o addirittura a Parigi, il cerchio si chiuse. All’iniziativa giudiziaria seguì un’efficace riorganizzazione logistica della pubblica sicurezza nei circondari di Viterbo e Grosseto. Nella piovosa notte tra il 23 e il 24 ottobre 1896 il fuorilegge riparò, con il luogotenente Luciano Fioravanti, presso il casale del mezzadro Nazzareno Franci, in località Forane, nella zona di Capalbio. Lì vennero sorpresi da una pattuglia di carabinieri in perlustrazione. Fioravanti riuscì a fuggire. Il sessantenne Tiburzi, invece, fu ferito alle gambe e poi freddato con un colpo alla testa. Il cadavere fu trasportato al cimitero di Capalbio, dove il fotografo Ausonio Ulivi lo immortalò in abiti briganteschi, appoggiato a una colonna. Il corpo venne regolarmente sepolto, mentre secondo un’infondata leggenda popolare esso sarebbe stato inumato metà dentro e metà fuori dalla terra consacrata.

Ciò che restava del cervello fu spedito all’antropologo criminale Cesare Lombroso, il quale ipotizzò che Tiburzi «non fosse un delinquente nato, ma un criminaloide» (Il cervello del brigante Tiburzi, in Nuova Antologia, 1896, vol. 66, n. 19), sancendo la preminenza delle cause ambientali rispetto ai fattori ereditari e congeniti. Il che finiva per collimare con l’imponente mitografia popolare edificatasi, a cavallo tra Otto e Novecento, attraverso ballate (R. Corradini, Domenico Tiburzi celebre assassino, Civitavecchia 1897), racconti aneddotici (Storia del celebre bandito Domenico Tiburzi, Firenze 1910), cronache (G. Mitten, Tiburzi, Milano-Buenos Aires 1906) e romanzi (Il brigante Domenico Tiburzi, Milano 1910).

Se questi testi non nascondevano le contraddizioni rivelate anche nelle Memorie autentiche del famoso brigante Domenico Tiburzi lasciate da lui stesso (Roma 1896), il ritratto di spietato assassino diffuso all’epoca del processo di Viterbo (Il brigantaggio nel Viterbese, Valentano 1893) si impose soltanto durante il fascismo. Allora l’immagine di una Maremma pacificata e modernizzata favorì il trasferimento dell’alone eroico sui rappresentanti dell’ordine pubblico (J. Gelli, Banditi, briganti e brigantesse nell’Ottocento, Firenze 1931). Il mito del ‘Re della macchia’ perse coerenza, ma continuò ad arricchirsi di nuovi dettagli fino alla sintesi – citata – proposta da Piero Bargellini nel 1955. Negli anni Settanta e Ottanta del Novecento apparvero poi testi ibridi che, pur ricorrendo agli archivi locali, tornavano a contestualizzare l’icona di Tiburzi nel quadro della lotta tra oppressi e oppressori, alimentando una velata critica al tradimento della classe contadina da parte della rivoluzione risorgimentale.

Da ultimo si è assistito al recupero in chiave folkloristica della figura di Tiburzi, vista come patrimonio identitario di una piccola patria maremmana genuinamente popolare, ormai scomparsa eppure ancora viva nella memoria locale. Capita così che la macabra fotografia del brigante si trasformi in etichetta dei prodotti enogastronomici made in Maremma e che i luoghi del brigantaggio acquisiscano valore memoriale negli itinerari turistico-culturali, anche mediante le iniziative di enti istituzionali. Una tendenza che, dopo il film Tiburzi, diretto nel 1996 da Paolo Benvenuti, è stata rinfocolata da canzoni – Il brigante Tiburzi, scritta da Massimo Bubola e interpretata dalla Barnetti Bros Band nell’album Chupadero!, del 2009 – e ulteriori iniziative editoriali.

Fonti e Bibl.: Gli studi più documentati su Tiburzi sono quelli dello storico locale Alfio Cavoli, tra cui si segnalano Il giustiziere di Cellere. Storia degli omicidi di D. T., Pisa 1975; T. L’ultima notte, Valentano 1994 e T. La leggenda della Maremma, Valentano 1996. Con A. La Bella - R. Mecarolo, T. senza leggenda, Valentano 1995, si tenta di demitizzarne la biografia utilizzando le carte del processo di Viterbo. Questi lavori, tuttavia, non sfuggono al filtro ideologico del bandito sociale imposto su Tiburzi da E.J. Hobsbawm, Primitive rebels. Studies in archaic forms of social movement in the 19th and 20th centuries, Manchester 1959 (trad. it. I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino 1966, p. 27). Sebbene manchi un ripensamento storiografico del caso, il tema del brigantaggio nell’Italia centrale è stato rivisitato a partire da J.A. Davis,Conflict and control: law and order in nineteenth-century Italy, London 1988 (trad. it. Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Milano 1989), e Una società violenta. Morte pubblica e brigantaggio nell’Italia moderna e contemporanea, a cura di D. Angelini - D. Mengozzi, Manduria 1996. Infine, la vicenda di Tiburzi è stata sistematizzata nel Museo del brigantaggio di Cellere, il cui catalogo (T. è vivo e lotta insieme a noi, a cura di V. Padiglione - F. Caruso, Arcidosso 2011) è improntato alla patrimonializzazione etnoantropologica. Sulle implicazioni di simili approcci ha ragionato M. Cattaneo, Brigantaggio e patrimonio culturale. Una riflessione su alcune recenti tendenze museali e turistiche, in Il capitale culturale, 2013, n. 8, pp. 159-173.

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