TIMOTEO

Enciclopedia Italiana (1937)

TIMOTEO

Silvio Rosadini

Personaggio del Nuovo Testamento (Atti, XVI, 1-3). Quando, verso il 50, S. Paolo ripassò per Listri, gli fu mostrato questo discepolo (probabilmente da lui condotto alla fede nel primo viaggio verso il 45), figlio di donna giudea convertita al cristianesimo e di padre pagano. Tuttavia la madre, che Paolo dice (II Tim., I, 5) essere chiamata Eunice, come la sua nonna Lois, lo aveva ben istruito nelle Sacre Scritture. Paolo lo prese seco quale coadiutore, e, congiuntamente ad altri presbiteri gli impose le mani (I Tim., IV, 14; II Tim., I, 6); indi T. poté assistere Paolo nella fondazione delle chiese di Filippi, Tessalonica, Berea, da cui fu rimandato a visitare i Tessalonicesi; raggiunse poco dopo l'Apostolo a Corinto, e così il suo nome appare nelle due lettere da qui scritte ai Tessalonicesi. Continuando ad accompagnare Paolo, nel terzo viaggio di missione dovette con lui molto lavorare all'evangelizzazione di Efeso e delle città vicine; da Efeso fu inviato a Corinto per riportare in quella città la pace e la fiducia verso Paolo. Anche quando l'Apostolo, tornato a Gerusalemme, vi fu fatto prigione, T. era con lui, ma poco appresso appare ritornato in Asia, a continuarvi il suo apostolato. Tuttavia a Roma dovette ricongiungersi con l'Apostolo in catene, giacché il suo nome si trova insieme con quello di Paolo nelle lettere a Filemone, ai Colossesi, ai Filippesi; è molto probabile che in questo tempo anch'egli fosse per breve tempo gettato in carcere (Ebrei, XIII, 23). Con la iiberazione di Paolo e sua, intraprese nuovi viaggi, si recò in Giudea (Ebr., ivi), poi fu messo a capo delle chiese della provincia d'Asia, corse quindi a visitare il suo maestro a Roma, vicino ormai a dare la sua vita per la fede (II Tim., IV, 20); e tornato a Efeso, conforme a quello che la tradizione ce ne riferisce (Eusebio; le Costitut. Apost.; Atti apocr.), vi chiuse anch'egli la sua vita col martirio.

Dirette a questo discepolo, che fu carissimo a Paolo (I Cor., IV, 17; 16, 10; Filipp., II, 23), esistono due lettere inserite nell'epistolario paolino del Nuovo Testamento.

Prima Lettera. - In essa l'Apostolo, dopo aver ricordato alcuni falsi dottori che si dilettavano di genealogie interminabili, dispute e favole, ammonisce il discepolo prediletto che abbia cura di conservare integro e immutato l'insegnamento da lui ricevuto (capp. I-II). Passa poi a dare alcune istruzioni per il buon governo della chiesa: che si facciano preghiere per ogni ceto di persone, dagli uomini e dalle donne fedeli, le quali però nella chiesa devono indossare abiti modesti e tacere, non appartenendo a loro l'insegnare. Quanto all'eleggere i nuovi ministri, attenda Timoteo che i proposti ad esser vescovi presbiteri siano di costumi irreprensibili, sappiano ben governare la propria casa, bene educare i proprî figli, e siano di fede provata. Similmente chi vorrà essere diacono conviene che stia lontano da vizî, che anche la sua sposa sia morigerata, la loro casa ben condotta; e sia costui provato prima di essere assunto all'ufficio (capitolo III). Tornando ai falsi dottori, ricorda non doversi meravigliare se ne appariscono: era stata già predetta la loro venuta. Non è vero che sia proibito lo sposarsi o il mangiare alcuni cibi: cerchi adunque T. di evitare questi errori, come le altre favole sparse da costoro (cap. IV).

Tornando a parlare dei varî gradi e uffici nella Chiesa, ricorda a T. innanzi tutto che si diporti verso i vecchi come un figlio, verso i giovani come un compagno, verso le matrone con rispetto e verso le giovani con prudenza e castità. Quanto alle vedove da esser elette agli uffici ecclesiastici, sieno almeno sessagenarie, di vita santa, dedite alle opere di pietà e castità. I presbiteri che ben presiedono e lavorano sono degni di doppio onore; se poi alcuno di essi venisse accusato, T. non accetti l'accusa se non corroborata da più testimonî, e, se realmente vi fu colpa, se ne faccia la correzione pubblicamente. Stia però sempre bene attento Timoteo a non imporre a nessuno le mani con troppa fretta (cap. V). Di nuovo ammonisce T. di metter in guardia i fedeli contro i falsi dottori; egli poi viva in modo da esser di esempio a tutti. Conservi la dottrina ricevuta e sé stesso incorrotto per l'avvento glorioso del Signore. La grazia del Signore sia con lui (cap. V).

Seconda Lettera. - Questa non contiene che una serie di esortazioni affinché il discepolo prediletto adempia bene il suo ufficio. Nel prologo l'Apostolo ricorda il suo affetto per T.: nelle sue preghiere lo ha sempre presente, ricorda le sue lacrime, la sua sincera fede, e ora desidera ardentemente di rivederlo (I,1-5). Risusciti T. in sé la grazia ricevuta per l'imposizione delle mani. Non v'è poi da arrossire delle catene dell'Apostolo, il quale ha ricevuto da Dio una missione così elevata per i meriti di Gesù condannato a morte per noi. Molti dell'Asia lo abbandonarono, mentre Onesiforo non ebbe vergogna della sua prigionia e venne a visitarlo. Timoteo si faccia adunque forte nella grazia di Cristo, lavori come un buon soldato e la dottrina appresa dall'Apostolo la affidi a sua volta ad altri fedeli, che siano idonei a ben insegnare. Pensi alla ricompensa che Cristo darà ai suoi veri seguaci (I, 6; II, 15). Fugga le vane dispute, che portano all'empietà, come è avvenuto in Imeneo e Fileto che sostengono esser già avvenuta la risurrezione; insegni piuttosto la verità con semplicità; fugga le passioni giovanili; sia mansueto con tutti; soltanto tenga lungi questi falsi dottori che resistono alla verità come Jamnes e Mambre fecero a Mosè. Non tema le persecuzioni giacché tutti quelli che vogliono vivere in Gesù Cristo sosterranno persecuzioni. Né si stanchi dal predicare, esortare, correggere; vegli, lavori, eserciti il suo mìinistero come un buon soldato (II, 16; IV, 5). Paolo sente avvicinarsi la sua immolazione, ha combattuto la buona lotta, conservato la fede, compiuta la sua missione, ed ora aspetta la corona di giustizia, che il Signore, giusto giudice, gli renderà nel glorioso avvento del Cristo. Nessuno assisté l'Apostolo nella sua prima difesa, ma Dio lo liberò dalla bocm del leone: ora da tutti è abbandonato, solo Luca è con lui; si affretti adunque T. a venire a visitarlo, venga presto, prima dell'inverno. Lo salutano Eubulo, Pudente, Lino, Claudia e tutti i fratelli. "Il Signore Gesù Cristo sia con il suo spirito" (IV, 6-22).

La questione dell'autenticità di queste due lettere, come di quella di Tito, le quali tutte vengon dette "pastorali", perché trattano del modo di pascere il gregge di Cristo e dei pastori della Chiesa, è anche oggi molto dibattuta fra i critici, e mentre i cattolici le ritengono genuini scritti di Paolo, gli altri hanno proposto e propongono sentenze molto diverse. Queste tre lettere furono rigettate da Marcione, ma solo perché dirette a private persone e sembra che anche Basilide abbia fatto lo stesso; poi in tutte le chiese fino al principio del secolo XIX furono ritenute come genuine, senza discussione. C. Smidt e poi lo Schleiermacher furono i primi a elevare dubbî sulla I Timoteo, dubbî che condussero a rigettarle tutte e tre, per opera di alcuni pochi fra i razionalisti (Bleek, Neander, Ritschl). Un nuovo impulso alla critica negativa fu dato da F.C. Baur, il quale vi volle vedere il riflesso di dottrine gnostiche e di una gerarchia ecclesiastica, che giudicò appartenere alla metà del sec. II; ebbe anch'egli i suoi seguaci, ma poi, meglio conosciute le condizioni della Chiesa negl'inizî del sec. II, i suoi argomenti non parvero decisiví. Con Credner (1836) comincia una nuova epoca: egli reputò che le "pastorali" erano un'elaborazione fatta verso la fine del sec. I, ma su biglietti autentici di Paolo diretti a Timoteo e Tito o forse ad altri; quest'ipotesi fu abbracciata da molti (Harnack, von Soden, Clemen, M. Dibelius, Knopf), i quali tuttavia non sono concordi nello stabilire quali siano i frammenti autentici e quanta l'estensione di essi. Altri rimangono nel dubbio di qualsiasi autenticità, come B. Weiss, Deissmann, oppure condividono insieme con i cattolici la sentenza di genuinità, quali Zahn, Wohlemberg, Ramsay.

Se pertanto si attendesse solo alla tradizione, la questione sarebbe certo risolta come per altre lettere ritenute da tutti paoline, giacché non solo fino dalla prima metà del sec. II esse appaiono ricevute senza alcun contrasto nella Chiesa, come si vede dal Fram. Muratoriano (lin. 60-63), in molti luoghi di Ireneo (Contra Haer., III, 14,1, 7), Clemente di Alessandria (Strom., I,1), Origene (Patrol. Graeca, XIV, 1303-6), Tertulliano (Adv. Marcion., V, 21), Efrem Siro, ecc., ma anche prima presso i cosiddetti Padri apostolici, cioè presso coloro che trattarono o con gli Apostoli o con i discepoli immediati di essi, troviamo queste lettere (le quali portano nella loro intestazione il nome di Paolo quale autore), usate e citate come gli altri libri della Scrittura; così Clemente Romano alla fine del sec. I se ne serve in maniera tale (I Cor., II, 9,1; XXXII, 4; XLV, 7; LX, 40, ecc.), che H. Holzmann suppose esserne forse stato autore lo stesso Clemente (ipotesi del tutto improbabile); né mancano allusioni in Ignazio martire (107 circa); ma specialmente in Policarpo (Filipp., IV,1) che cita verbalmente (I Tim., VI, 7-10) e non tralascia le altre pastorali. Molto più abbondano queste citazioni nelle lettere dello pseudo-Barnaba e in S. Giustino martire. Invero gli avversarî dell'autenticità ricorrono anche qui a ragioni tratte dalla critica interna: dicono che la lingua, lo stile sono troppi differenti dalle genuine di Paolo. È ciò vero? Senza dubbio troviamo un discreto numero di parole (circa 100) altrove non usate, come più di rado vi s'incontrano le predilette di Paolo; lo stile poi è certamente più familiare e semplice. Ma chi non sa quanto in un medesimo individuo simili cose cambino con il mutare delle persone a cui si scrive? La sola materiale considerazione stilistica e linguistica, senza riferimenti a queste circostanze esterne, non ha valore decisivo. Si oppone che le condizioni della Chiesa nelle pastorali appaiono più evolute specie nella gerarchia, che le dottrine ivi impugnate appartengono agli gnostici del sec. II, che le persone di Paolo, T., Tito appaiono in circostanze storiche ignote e inverosimili. Ebbene, che le dottrine e le condizioni della Chiesa vi appaiano maggiormente evolute non è da meravigliarsi: dopo 30 anni circa dalle prime fondazioni è chiaro che qualche evoluzione nelle società cristiane avvenne, come suol essere di ogni società, ma sarebbe facile mostrare come le dottrine son rimaste nella loro sostanza le stesse. Quanto alla gerarchia, già in Filippesi I,1, Paolo ricorda i vescovi e i diaconi; in Atti, XIV, 23, si dice che, fino dal primo viaggio missionario, egli pose nelle comunità cristiane presbiteri che le reggessero: pastori poi o superiori dei fedeli appaiono quasi in ogni epistola paolina (I Tess., V, 12; I Cor., XVI, 15; Rom., XII, 8; Col., IV, 17), anzi è bene notare come qui il termine πρεβύτερος-ἑπίσκοπος designi lo stesso ufficio, mentre già al principio del sec. II in Ignazio Martire l'ἑπίσκοπος è unico in ogni chiesa e ben distinto dai πρεσβύτεροι. Le dottrine poi dei falsi dottori non appaiono essere quelle degli gnostici del sec. II, come voleva C. Baur; non si trova in esse quel dualismo accentuato che era alla base dei sistemi gnostici: questi falsi maestri hanno tutti in comune un qualche giudaismo, vogliono esser νομοδιδάσκαλοι (I Tim., I, 7), appartengono ai circoncisi (Tit., I, 10), fanno questioni o propagano favole giudaiche (Tit., I, 14; III, 9), genealogie interminabili (I Tim., I, 4), insegnano l'astinenza da alcuni cibi, proibiscono il matrimonio (I Tim., IV, 3), dei quali elementi solo questi ultimi potrebbero fondarsi in dottrine gnostiche, quantunque non necessariamente: l'intero quadro adunque ci mostra che noi ci troviamo di fronte a errori in uno stadio anteriore ai sistemi gnostici del sec. II, a una specie di sincretismo allora in Oriente assai diffuso, e che in modo non molto differente si riscontra già nelle lettere della cattività (Coloss., Filipp., Efes.).

Restano le circostanze storiche, specialmente sui viaggi di Paolo, indicati in queste lettere, ì quali non hanno riscontro nella narrazione degli Atti o nelle altre lettere paoline. Ma è evidente che gli Atti, terminando con l'affermazione che Paolo rimase per due anni prigione a Roma (Atti, XXVIII, 30) non raccontano quello che avvenne dopo quel biennio; né tutto narrano anche del precedente periodo. Ora, anche prescindendo dalle lettere pastorali, non è difficile mostrare, fondandosi su altri documenti (Clem. Rom., Framm. Murat), anzi sulle lettere stesse della cattività, che Paolo dovette esser liberato da quella prima prigionia romana e che intraprese altri viaggi, specialmente nella Spagna e in Oriente. Del resto se le lettere provenissero da un falsario, avrebbe egli, per rendersi credibile, inventato nuovi viaggi, nuove circostanze, nuove persone, a prima vista discordanti da quanto si conosceva di Paolo?

La sentenza poi di A. Harnack e di altri, che vorrebbero vedere in queste lettere piccoli frammenti autentici, biglietti di Paolo, amplificati da un redattore, non solo si trova aver contro tutta la tradizione, la quale ignora tale ipotesi, ma anche mal si concilia con l'unità di lingua, stile, dottrina, che pervade le lettere pastorali in ogni loro parte, cosicché i partigìani di tale supposizione non si trovano d'accordo nel determinare il numero, la qualità e l'estensione di tali supposti frammenti.

Da tutto ciò, dunque, è lecito dire che la tesi tradizionale dell'attribuzione anche di queste lettere a Paolo non urta contro difficoltà insolubili o molto gravi.

Se poi le lettere sono autentiche, è chiaro che, fondandosi su quanto si è detto circa le circostanze storiche in esse contenute, non vi è periodo più conveniente nella vita di Paolo da assegnarsi alla loro composizione, se non il tempo dopo la prima prigionia romana, cioè dal 62-63 fino alla morte del grande Apostolo.

Bibl.: Fra gli autori più recenti che hanno trattato delle lettere pastorali (I-II Timoteo, e Tito) meritano di esser ricordati: E. v. Soden, Die sogen. Pastoralbriefe, 2a ed., Friburgo in B. 1893; J. Maier, Die Hauptprobleme der Pastoralbriefe Pauli, Münster 1910; M. Meinertz, Die Pastoralbriefe des heil. Paulus, ivi 1913; E. Bosio, Le Epistole pastorali a T. e Tito, Firenze 1913; A. Padovani, Brevis comment. in Epistolas ad Thess. et Timotheum ac Titum, 2a ed., Parigi 1913; I. Knabenbauer, Commentarius in S. Pauli Epistolas ad Thessalonic., ad Timotheum, ad Titum et ad Philemonem, ivi 1913; G. Wohlemberg, Die Pastoralbriefe, 2a ed., Lipsia 1923; H. E. Hillard, The Pastoral Epistles of St Paul, Londra 1919; E. Ruffini, La gerarchia della Chiesa negli Atti degli Apostoli e nelle lettere di S. Paolo, Roma 1921; J. Parry, The Pastoral Epistles. Introduction, Text a. Commentary, Cambridge 1920; P. N. Harrison, The problem of Pastoral Epistles, Londra 1921; M. Dibelius, Die Pastoralbriefe, 2a ed., Tubinga 1931.

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