TIRANNIA e TIRANNICIDIO

Enciclopedia Italiana (1937)

TIRANNIA e TIRANNICIDIO

Felice BATTAGLIA

. La parola tirannia non ha un senso preciso. Mentre genericamente designa un qualunque abuso del potere pubblico, il problema quando cominci la tirannia, che cosa sia necessario perché l'esercizio dell'autorità, anche legittimamente costituita, degeneri in tirannia, e la sua determinazione in rapporto ad altre forme di governo, sono assai diversamente configurati dalla coscienza dei popoli e dai dottrinarî.

La tirannia, ignota come speciale qualificazione dei cattivi reggimenti politici agli Ebrei, apparve nel nome (ἡ τυραννίς) e nel concetto ai Greci, nel sec. VII a. C. (v. tiranni). Nonostante le benemerenze di alcuni tiranni, in quel tempo, e soprattutto dal sec. VI in poi, la parola acquista senso nuovo e preciso. Opponendosi ai tiranni, i democratici fecero la tirannia oggetto delle loro polemiche, vedendo in essa, intesa come potere arbitrario sia per l'origine sia per l'esercizio, la sintesi del malgoverno. Non solo in conseguenza si proclamò la necessità di un'efficiente difesa dello stato contro di essa (per es., con l'ostracismo), ma si esaltarono coloro che per amore di libertà non esitarono a uccidere il tiranno (v. tiranni).

È più tardi che la pubblicistica si impadronisce del concetto e lo svolge coerentemente. Lo Zeller, approfondendo il tema, ha creduto di rilevare due fasi del suo sviluppo in Grecia, di cui la seconda connessa con la filosofia di Platone. Se in un primo tempo la parola tirannia aveva unicamente significato di governo incostituzionale di uno solo, vale a dire dittatura illegalmente conquistata, anzi imposta, sul popolo, in seguito essa si sarebbe prestata a significare, a prescindere dal titolo originario, ogni potere esercitato con arbitrio. È evidente che, mentre la prima nozione si definisce in sede di diritto pubblico, rispetto al difettoso titolo del potere, la seconda, rispetto all'attività stessa di governo, si colora con elementi morali. Da quest'ultimo punto di vista è tiranno non solo chi si imponga con la forza su un popolo, ma tale diviene chiunque, magistrato singolo o organo collettivo, degeneri. Purtroppo, come osserva l'Ercole, la determinazione dottrinale nello stesso Platone non è così chiara, e nel suo grande discepolo Aristotele i due aspetti del concetto si confondono. Definendo egli la tirannia degenerazione della monarchia, che ha luogo quando chi governa mira all'utile proprio e non a quello collettivo, accentua gli elementi tipicamente morali e la questione del titolo costitutivo passa in seconda linea. Né diversamente è presso gli scrittori successivi: Polibio, Cornelio Nepote, Cicerone. La tirannia, dice quest'ultimo, deriva dalla mancanza della "recta ratio imperandi atque prohibendi". Concetto, cui Seneca darà ulteriore determinatezza e coerente precisione di pensiero.

Se ci sforziamo di chiarire il contenuto morale della dottrina, vediamo come in generale essa si connetta all'idea dell'esistenza di alcuni eminenti principî giuridici, la cosiddetta legge di natura (ϕύσει δίκαιον in antitesi a νόμῳ δίκαιον), la cui deliberata violazione costituisce appunto la tirannia in opposizione alla monarchia, che è governo d'un solo secondo la legge di natura e nel più profondo rispetto dello stesso diritto positivo. Elementi questi che non saranno ignoti all'ulteriore sviluppo del cristianesimo che, derivando il diritto naturale dal volere divino, costituisce per ciò stesso un limite all'esercizio dell'autorità. Tiranno per il cristianesimo è chi viola il diritto naturale e quindi va contro al volere di Dio, misconoscendo i precisi doveri che da quello derivano. Non mancano nella nuova sintesi accanto ai motivi di origine classica dianzi visti altri motivi di pretta derivazione germanica. Il diritto non è solo legato, attraverso la legge di natura, a Dio, ma anche ad un corpo costituito "ab immemorabili" di nazionali e storici costumi, principî fondamentali all'esistenza organizzata di un dato popolo. Tiranno è altresì chi, ritenendosi non vincolato da questi, anzi questi deliberatamente violando, sostituisce l'arbitrio alle forme tradizionali della vita collettiva.

Sorge in tal modo nel pensiero medievale il problema della posizione dei cittadini rispetto al tiranno, quale la letteratura svolge da S. Agostino, a S. Gregorio, a Giovanni di Salisbury, a S. Tommaso. Se per Gregorio Magno ogni potere anche cattivo deriva da Dio e in tutti i casi il tiranno deve essere obbedito, S. Isidoro crede che, venendo meno il tiranno ai fini d'ogni retta attività di governo, la giustizia, ciò basta a sciogliere chiunque dall'obbedienza nei suoi riguardi. Ne deriva presso alcuni la legittimità del tirannicidio stesso, come ci mostra Giovanni di Salisbury, tanto più energicamente sostenuto contro chi alla Chiesa resiste. Un correttivo all'estremismo della dottrina appare nell'Aquinate, il quale pensa che la punizione anche estrema del tiranno spetti in ogni caso alle autorità pubbliche: limitazione che acquista senso con riferimento al complesso sistema delle gerarchie medievali, in cui il ricorso contro le prevaricazioni al giudizio di un'autorità superiore era sempre possibile.

Un abbandono della mera considerazione morale del tirannicidio per quella giuridica, a parte qualche accenno in Marsilio da Padova, ha luogo solo col primo Rinascimento, con Bartolo da Sassoferrato e con Coluccio Salutati. La situazione politica dei comuni italiani e quindi delle nascenti signorie ripete in un nuovo clima storico la specialissima situazione della città-stato ellenica. È allora che Bartolo e Coluccio distinguono la figura di chi è tiranno in quanto opprima nei più diversi modi i sudditi (tirannia exercitio) e quella di chi, comunque governi, non ne ha il giusto titolo (tirannia ex defectu tituli). Contro l'una e l'altra forma della tirannia i secoli XV e XVI, svolgendo motivi classicheggianti (esaltazione delle libertà, celebrazione delle antiche virtù repubblicane), inducono alcuni a rinnovare, mentre le signorie si consolidano e si svolgono nel principato, atteggiamenti estremi nel tirannicidio. Si pensi all'Apologia di Lorenzino de' Medici.

Espressioni queste che, unite a contingenti motivi di polemica religiosa, confluirono nelle esasperate dottrine dei cosiddetti monarcomachi dei secoli XVI e XVII, i quali, muovendo dalla premessa che il principe debba esercitare il potere per il bene del popolo, ritengono che egli, ove manchi a tale officio, divenga tiranno e come tale possa essere legittimamente punito e persino ucciso. Il bene del popolo, purtroppo, è inteso da quegli scrittori, tra cui annoveriamo Ph. du Plessis Mornay, autore delle celebri Vindiciae contra tyrannos, F. Hotman, il Buchanan, il Milton, l'Althusio, secondo che un principe operasse a favore di una data religione, fosse cattolico o protestante. Atteggiamenti monarcomachi non mancano in autori cattolici, specie gesuiti e spagnoli, come Mariana, Molina, Suárez, Bellarmino.

È questa l'ultima formulazione teorica di una dottrina, destinata a svuotarsi di significato nell'età moderna. Se la reazione all'assolutismo presso alcuni liberali inglesi si colorisce di motivi monarcomachi, la teoria liberale dello stato, espressa dalla scuola del diritto naturale, da Locke in poi, e l'instaurazione di ordinamenti progressivamente liberali mirano a fondare saldi organi di tutela, concrete garanzie giurisdizionali, ad istituire corrispettivamente veri e proprî diritti pubblici soggettivi, e quindi non solo ad evitare la possibilità di un governo autocratico, ma, ammesso che questo riesca a formarsi, a limitarne i dannosi effetti e in definitiva a sottoporne le attività a un giudizio pubblico di legalità. È questa la ragione per cui nei secoli XVIII e seguenti, pur potendosi rinvenire frequenti accenni letterarî contro la tirannia, soprattutto nella pubblicistica francese prerivoluzionaria e rivoluzionaria (si pensi all'analisi psicologica della tirannia fatta dal Montesquieu), il significato dottrinale della nozione non ha più l'antica importanza.

Con ciò non si esclude che molti dei motivi che avevano contribuito alla sua formazione, per es. l'esigenza di un diritto naturale limite del potere, non siano altresì alla base delle moderne ideologie liberali. Ma, a parte che la pratica possibilità della tirannia è ognora più ridotta, oggi il sistema dei controlli giuridici e politici e la pressione dell'opinione pubblica sono tali che la figura del despota exercitio appare affatto letteraria. Le moderne dittature facendo appello al popolo, non solo per costituirsi attraverso i plebisciti i titoli giuridici del potere o per sanarli se difettosi, bensì anche per suffragare del consenso nazionale ogni loro attività, appaiono poggiare sulle masse più che le stesse democrazie. Insomma i fenomeni e le teorie accennate a proposito della tirannia hanno significato con riferimento a piccole società politiche e non agli enormi aggregati statali odierni. Oggi i problemi della legalità e della giustizia nello stato sono troppo complessi per acquistar senso nell'antitesi più morale che giuridica di monarchia e tirannia. Il duello tra costituzionalismo e anticostituzionalismo, tra liberalismo e antiliberalismo involge questioni assai più ardue che non siano quelle accennate e ci porta al cuore del problema sostanziale dell'autorità e della libertà.

Bibl.: V. la bibl. alla voce monarchia. Qui si ricordano alcune opere specifiche legate strettamente al tema: Zeller, Über den Begriff der Tirannis bei den Griechen, in Sitzungsberichte der königl. preuss. Akademie der Wissensch. zu Berlin, Berlino 1887; R. Treumann, Die Monarcomachen, Lipsia 1895; G. Heintzeler, Das Bild des Tirannen bei Platon, Stoccarda 1927; E. Emerton, Humanism and tyranny, Cambridge Mass., 1925; F. Ercole, Da Bartolo all'Althusio, Firenze 1932.