TITTA, Ruffo Cafiero, detto Titta Ruffo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TITTA, Ruffo Cafiero detto Titta Ruffo

Giancarlo Landini

– Nacque a Pisa il 9 giugno 1877, da Oreste Titta e da Amabile Sequenza, che vivevano al n. 19 di via Carraia.

La famiglia, proveniente da Gombitelli, frazione di Camaiore nelle Alpi Apuane, era di fede socialista: il che spiega la scelta del secondo appellativo imposto al figlio. Quanto al primo, il padre, capo-officina presso la fonderia Bederlunger, nonostante la contrarietà della madre, scelse il nome di un suo cane da caccia, ucciso accidentalmente in una battuta, cui era molto affezionato: a carriera avviata, Ruffo invertì il primo nome con il cognome, ritenendo che suonasse meglio.

Ruffo Cafiero era il secondo di sei tra fratelli e sorelle: Ettore (1875-1957), diplomatosi in clarinetto, composizione e direzione d’orchestra all’Accademia di Santa Cecilia, autore di un’opera, Malena (composta nel 1905, mai rappresentata), e destinato a una bella carriera di maestro di canto negli Stati Uniti; e le sorelle Fosca, promettente soprano, Nella, Settima e Velia, poetessa. Nel 1912 Velia, durante una vacanza all’Abetone, conobbe Giacomo Matteotti, uomo politico, deputato e segretario del Partito socialista unitario, nel 1916 lo sposò con rito civile, prima che fosse mandato al confino in Polesine come antinterventista. Velia difese con coraggio la memoria del marito, barbaramente ucciso dai fascisti il 10 giugno 1924, e ne reclamò la salma affrontando direttamente Benito Mussolini, che ordinò di tenerla sempre sotto stretto controllo e gioì apertamente della sua morte (1938).

La famiglia si trasferì presto a Roma e Ruffo entrò come fabbro nell’officina del padre, ma per i continui scontri, dovuti all’indomito carattere di entrambi, si allontanò temporaneamente da casa, lavorando nei dintorni di Roma. Ritornatovi, vi riprese una vita più ordinata e tranquilla in una famiglia dove la musica era diventata di casa grazie agli studi del fratello, che egli accompagnò al teatro Costanzi ad ascoltare una recita della Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni con Roberto Stagno e Gemma Bellincioni. La presenza in casa, come pensionante, del baritono Oreste Benedetti, portò Ruffo a scoprire le potenzialità della propria voce e a coltivarla. Fu ammesso all’Accademia di Santa Cecilia, assegnato per la recitazione alla classe di Virginia Marini, celebre attrice, e per il canto a quella di Venceslao Persichini. Ma per la vicendevole incomprensione con il maestro, Ruffo abbandonò presto la scuola, spinto da una natura ribelle. Nel 1897 partì per Milano, per incontrare il baritono pisano Lelio Casini, da cui prese qualche lezione, anche se emerse con chiarezza la sua tendenza all’autodidattismo. Tuttavia l’ambiente milanese lo mise in contatto con il mondo impresariale, che gli offrì l’occasione del debutto al teatro Costanzi di Roma il 9 aprile 1898, Araldo nel Lohengrin di Richard Wagner, poi Enrico nella Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti. All’inizio di una brillante carriera, dapprima nei teatri del Sud, poi di tutta la penisola, debuttò in parti che divennero in seguito altrettanti cavalli di battaglia: Rigoletto e Conte di Luna nel Trovatore di Giuseppe Verdi (Livorno, teatro Alfieri; in agosto ripeté Il trovatore al Politeama Pisano, segnando così il suo debutto nella città natale), Don Carlo nella Forza del destino di Verdi (Catanzaro, Comunale); nel 1899 Don Sallustio nel Ruy Blas di Filippo Marchetti (Palermo, Massimo), Marcello nella Bohème di Giacomo Puccini (Catanzaro, Comunale), Renato in Un ballo in maschera di Verdi (Acireale, teatro Bellini), Barnaba nella Gioconda di Amilcare Ponchielli (Catania, Nazionale), Alfonso XI nella Favorita di Donizetti (Catania, Nazionale), Valentino nel Faust di Charles Gounod (Salerno, Municipale), Escamillo nella Carmen di Georges Bizet (Padova, Garibaldi), Alfio e Tonio in Cavalleria rusticana e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo (Bologna, Duse); nel 1900 Germont nella Traviata (Genova, Carlo Felice) e Don Carlo nell’Ernani (Ferrara, Tosi-Borghi), entrambe di Verdi. In quell’anno intraprese la prima tournée nell’emisfero australe, in Cile, a Santiago, Valparaiso, Talca, Concepción: debuttò come Nelusko nell’Africana di Giacomo Meyerbeer, Gérard nell’Andrea Chénier di Umberto Giordano e Jago nell’Otello di Verdi. Divise i tre anni successivi tra l’Italia – debuttò come Scarpia nella Tosca (Palermo, Massimo), valendosi dei consigli di Eugenio Giraldoni, che aveva creato il personaggio nella prima assoluta dell’opera di Puccini, e come Nabucco nell’Aida di Verdi (Trieste, La Fenice) –, l’Egitto (al Cairo e ad Alessandria), una seconda tournée in Sudamerica, con il debutto nel 1902 al Colón di Buenos Aires (cantò Aida, L’africana, Il trovatore e la prima locale della Zazà di Leoncavallo); mentre nell’aprile del 1903 fu alla Fenice di Venezia con Il trovatore, tornandovi in novembre per Nabucco, dopo essersi esibito al Covent Garden di Londra nella Lucia di Lammermoor, debuttandovi come Figaro nel Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini. Al gennaio-aprile del 1904 risale l’unica presenza alla Scala di Milano, in Rigoletto, Germania di Alberto Franchetti e Griselda di Jules Massenet: forte fu la sua delusione per non aver potuto cantare l’opera di Verdi sotto la direzione di Arturo Toscanini, che pure lo aveva scelto, dopo averlo ascoltato. In autunno tornò nel capoluogo lombardo al Lirico, feudo di Casa Sonzogno, debuttando come Gleby nella Siberia di Giordano, Michonnet nell’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, e riprendendo il Cascart nella Zazà. Nel 1905 fu in Russia, a Odessa e San Pietroburgo, dove debuttò nel Demone di Anton Rubinštejn. Poi fu al teatro Sarah Bernhardt di Parigi, per la grande stagione dell’opera italiana patrocinata da Edoardo Sonzogno, partecipando alle prime francesi di Siberia e Fedora di Giordano, accanto al Loris di Enrico Caruso e alla Fedora di Lina Cavalieri, «la donna più bella del mondo». Eseguì il Prologo dei Pagliacci in concerto, mentre il 18 ottobre al Lirico di Milano cantò come Frate Bonifacio nella prima locale del Jongleur de Notre-Dame di Massenet. Nel 1906 tornò a San Pietroburgo, debuttò a Kiev e al teatro Imperiale di Mosca. Nel 1907 si alternò tra San Pietroburgo, Monte Carlo, dove debuttò come Malatesta nel Don Pasquale di Donizetti, Mosca, Berlino, Bucarest, Varsavia. In gennaio al teatro São Carlos di Lisbona debuttò nell’Amleto di Ambroise Thomas, che fu poi una delle sue opere preferite e che, su sua insistenza, Sonzogno gli allestì nell’ottobre al Lirico di Milano. Nel 1908 debuttò al teatro Real di Madrid con Rigoletto, tornò a Monte Carlo, nell’aprile al San Carlo di Napoli cantò La Gioconda, L’africana, Rigoletto, poi fu a Barcellona e da lì intraprese una nuova tournée in Sudamerica, dove tornò negli anni dal 1909 al 1911; si produsse intanto a Monte Carlo, a Napoli, al Costanzi di Roma e nel dicembre del 1911 all’Opéra di Parigi con Rigoletto, ripreso l’anno successivo con Caruso, che egli ebbe per partner nella prima locale della Fanciulla del West di Puccini.

Nel 1912 debuttò negli Stati Uniti, dove, seppure non continuativamente, fu presente fino al 1932. Iniziò con Amleto di Thomas il 19 novembre al Metropolitan Theater di New York (da non confondersi con la più celebre Metropolitan Opera), poi al Metropolitan Opera House cantò dal 1922 al 1929, Aida, Il barbiere di Siviglia, Andrea Chénier, La cena delle beffe (Giordano), di cui, il 2 gennaio 1926, interpretò la prima locale, Ernani, La Gioconda, Pagliacci. A New York comparve ripetutamente in concerto alla Carnegie Hall (1912, 1928), all’Hyppodrome (1912, 1914, 1920, 1921, 1922), al Saint Denis (1914), al teatro di Manhattan (1915, 1920, 1921), all’Hotel Commodore (1920), al Lexington Theater (1920), all’Hotel Biltmore (1921), ai WEAF Studios (1926, 1928), al Mecca Temple (1927), al Sam H. Harris Cinema (1929), in concerto e in opere. Negli Stati Uniti fu attivo all’Auditorium di Chicago nel 1912, 1913, 1920, cantandovi Rigoletto, Amleto, Pagliacci, Cristoforo Colombo di Franchetti, Il barbiere di Siviglia, Don Giovanni, Pagliacci, Thaïs di Massenet, Andrea Chénier e l’Edipo re che Leoncavallo scrisse espressamente per lui; compì tournées che toccarono il Metropolitan di Philadelphia, l’Auditorium di Milwaukee, la Armory Hall di Boston, la Music Hall di Cincinnati, il Broadway di Buffalo, il Coliseum di Dallas, il Philharmonic Auditorium di Los Angeles, e ancora Seattle, Portland, Denver, Kansas City, Saint Louis, Saint Paul. Nel 1915 e nel 1916 fece due tournées in America Latina, che toccarono il Nacional dell’Avana, Buenos Aires, Santa Fe, Montevideo, San Paolo, Rio de Janeiro. Ritornato in Europa, nel novembre del 1916 si esibì a Nizza nei Pagliacci in uno spettacolo per le truppe.

Tornato in Italia, si arruolò; fu destinato prima a Roma e poi a Terni, ma nel 1917 fu richiesto dall’Opéra di Parigi per spettacoli organizzati a beneficio delle vittime della guerra e delle truppe, per poi riprendere il servizio militare in patria. In Europa fu a Milano per l’ultima volta nel 1914 con Il barbiere di Siviglia, con Amelita Galli-Curci, che riprese al teatro Corso di Bologna e al Verdi di Firenze, dove cantò anche Amleto; a Barcellona nel 1916 e nel 1925, dove cantò nella prima locale della Cena delle beffe, a Madrid nel 1913, 1916, 1918, 1927 e 1929; nel 1922 tenne concerti alla Queen’s Hall di Londra, nel 1925 cantò a Budapest e a Berlino. Nel 1918 ricomparve in America Latina, dove tornò regolarmente fino al 1931.

Nel 1919 a Roma si fece costruire un lussuoso villino, noto come villino Titta Ruffo, in via Sassoferrato 11, nel quartiere Parioli. Nella seconda metà degli anni Venti cominciarono a manifestarsi i segni del declino, dovuti al costo umano ed emotivo di un’attività così intensa, oltre che a un metodo di canto originale e non sempre ortodosso. Gli ultimi cinque anni di carriera si svolsero in Europa, a eccezione di due concerti, tre recite di Amleto e cinque di Tosca al Colón di Buenos Aires e di una selezione da Carmen alla Music Hall di Radio City a New York. Diede concerti a Vienna, Parigi, Bruxelles, Varsavia, Stoccolma, Copenaghen, Amsterdam, L’Aja, Nizza, Pau, Ginevra, Madrid, Londra; cantò Il barbiere di Siviglia a Bucarest e Atene, Tosca a Cannes. Chiuse la carriera il 10 marzo 1934 al Casino de la Jetée-Promenade di Nizza, interpretando alcune scene dell’Amleto.

In seguito all’omicidio Matteotti, ordinato da Mussolini, Ruffo, che al funerale del deputato socialista portò il feretro sulle spalle, venne boicottato dal regime, ingiustamente tacciato di essere un sovversivo; da qui la decisione di non cantare più in Italia. Rientrato in patria per motivi personali, nel 1937 venne arrestato. Fu scarcerato dopo pochi giorni per le vibrate proteste dell’opinione pubblica internazionale, ma costretto a non lasciare il Paese e a dividere la sua vita tra Bordighera e Firenze. Alla notizia dell’arresto di Mussolini il 25 luglio 1943 Ruffo spalancò le finestre della sua abitazione e intonò la Marsigliese, mentre una folla esultante, riconosciutolo, si radunò sotto casa sua.

Morì a Firenze il 5 luglio 1953. Aveva sposato Lea Fontata nel 1907; dal matrimonio nacquero due figli, Velia e Titta jr. (Ruffo si era convinto che lo strano nome datogli dal padre gli avesse portato fortuna).

Ruffo si accostò al fonografo nel 1904 incidendo una prima serie di dischi per la Pathé Frères. Sull’esempio di Caruso, intuita l’enorme importanza del disco, nel 1907 incise una nutrita serie di 78 giri per la HMV, destinati a grande successo anche per la fonogenia della sua voce di baritono; seguì una nuova serie di incisioni per la Victor americana nel 1912, poi altre ancora per HMV nel 1913, 1914, 1920, 1921 e 1923, fino agli elettrici Victor del 1929, in un repertorio che comprendeva i suoi cavalli di battaglia, le canzoni più popolari, ma anche tre brani da Malena, l’opera composta dal fratello.

Titta Ruffo dev’essere considerato artista di portata storica, uno dei più importanti e famosi di tutti i tempi, per l’eccezionalità dello strumento vocale e il fenomenale temperamento d’artista. Possedeva una voce di baritono fuori dal comune per il colore intenso, brunito nei centri, per la vibrazione degli armonici, per lo squillo degli acuti (fino al si naturale), svettanti e imperiosi come quelli di un tenore. In possesso di una buona tecnica, Ruffo conosceva l’arte dell’emissione sul fiato, del suono appoggiato, legato e adeguatamente proiettato; la gamma era omogenea, formata da suoni maschi e pastosi. Aveva però compreso che i tempi richiedevano un canto più intenso e incisivo di quello praticato fin lì dai baritoni di scuola romantica, che da Francesco Graziani e Victor Maurel si era tramandata a Giuseppe Kaschmann e a Mattia Battistini, diretto rivale di Ruffo. Aveva capito che il baritono doveva lasciarsi alle spalle le emissioni chiare e puntare su suoni scuri che si differenziassero da voci di tenore e di soprano timbrate come quelle di Caruso o di Rosa Ponselle, reggerne il confronto e dare credibilità ai personaggi. Una prova di questa impostazione è nell’incisione del duetto Sì, pel ciel marmoreo giuro!, dall’Otello verdiano, che Ruffo, allo zenit delle sue possibilità, realizzò con Caruso l’8 gennaio 1914. Un altro esempio è offerto dalle numerose incisioni di pagine dell’Amleto di Thomas, cavallo di battaglia di Ruffo e opera allora assai popolare. All’interpretazione forbita dei predecessori Ruffo ne sostituì una giocata su suoni scuri, per rendere lo spleen e l’alone noir che caratterizzano il protagonista dell’opera. Ruffo affrontò i suoi personaggi alla luce di letture vaste e approfondite, spinto da una viva curiosità di sapere. Il canto andò sempre unito allo studio attento dei costumi, del trucco e della recitazione. La ricerca di realismo non gli impedì di sfoggiare una pregevole palette dinamica, trasferita sul pantografo di una voce possente e proporzionale alla dovizia sonora delle risorse canore. Ruffo contribuì a fissare il repertorio dei grandi baritoni del Novecento. All’Enrico della Lucia di Lammermoor, al Figaro straripante del Barbiere di Siviglia, seguirono i personaggi più in voga di Verdi: Rigoletto, di cui deve essere considerato interprete storico, Renato, Don Carlo dell’Ernani, di cui metteva in risalto l’imperio, l’irresistibile potenza di dominio, o quello feroce della Forza del destino. Disegnava un Barnaba (La Gioconda) e uno Jago (Otello) quasi luciferini, giocando proprio sui suoni sulfurei della voce. Fondamentale fu il suo contributo alla scuola verista, di cui sostenne sia i titoli minori, dalla Cena delle beffe a Zazà, da Siberia fino all’Edipo re di Leoncavallo, sia i titoli di maggior successo, come Cavalleria rusticana e Andrea Chénier; il suo Tonio (Pagliacci), improntato a un realismo lombrosiano e servito da un canto forse senza paragoni, divenne il modello di riferimento. Come Caruso, Ruffo contaminò la vocalità romantica con quella verista: in tal senso, se rimane indiscutibile il fenomeno vocale, l’interprete del repertorio ottocentesco può destare qualche perplessità in un’epoca come la nostra segnata dalla cosiddetta belcanto renaissance. Giacomo Lauri Volpi, che lo classificò tra i cantanti attori, mise in risalto le insidie del suo metodo di canto, che lo logorò anzitempo, offrendo bensì ai giovani baritoni un modello inimitabile per la sua eccezionalità, ma fuorviante per chi ne volle seguire le orme, come accadde a Gino Bechi, il suo più celebre epigono. I dischi di Ruffo, quasi tutti straordinari, testimoniano soluzioni spesso esorbitanti rispetto alla lettera delle partiture (per esempio, la cadenza, irresistibile, del brindisi nell’Amleto, le corone interminabili ecc.), e offrono dunque un prezioso documento per lo studio della prassi esecutiva dell’epoca.

La sorella Fosca nacque a Pisa il 7 ottobre 1879. Debuttò al teatro Quirino di Roma nel 1903, Leonora nel Trovatore. Iniziò una carriera che la portò in numerosi teatri italiani, anche se di secondo piano, come il Rossini di Venezia, il Verdi di Padova, il Politeama Duca di Genova della Spezia, il Politeama e il Circolo Babilonia di Pisa; nel 1906 cantò nel Trovatore a San Pietroburgo con il fratello. Fosca Titta aveva in repertorio opere di Verdi, ma anche titoli della Giovane Scuola, come La bohème, Manon Lescaut di Puccini e Iris di Mascagni. Per la Gramophone Records incise quattro facciate a 78 giri, tra cui, il 10-11 luglio 1907, il duetto Leonora-Luna nel Trovatore. Cantò fino agli anni Venti; al ritiro, sposò un importante industriale milanese, Emerico Steiner. Il loro figlio, Guglielmo Steiner, detto Mino, ebbe parte attiva e importante nella lotta di liberazione: cadde vittima dei nazifascisti, che nel 1944 lo arrestarono e lo deportarono; morì il 27 febbraio 1945 a Ebensee, campo satellite di Mauthausen. Fosca morì a Milano nel 1957.

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