TOMBE

Federiciana (2005)

TOMBE

MMaurizio Delli Santi

Nel dicembre 1250, Federico II di Svevia moriva a Castelfiorentino nell'Alta Puglia: il corpo, secondo le cronache, fu avvolto da un saio cistercense, semplice nella foggia e umile nella simbologia. Berardo, arcivescovo di Palermo, insieme con il figlio illegittimo dell'imperatore, Manfredi, fece traslare i resti mortali nella città isolana. Qui, furono assegnati gli onori postumi consoni alla potenza, militare e intellettuale, dello "Stupor Mundi". Risulta ovvio, dunque, che quelle spoglie furono collocate in un grande sarcofago di porfido. Questo manufatto non è l'unico realizzato nel marmo egiziano e presente, nell'isola, per onorare la gloria di re e regine. Sarcofagi di porfido rosso sono stati collocati nella cattedrale di Palermo e in quella di Monreale: essi sono databili tra il 1145 e il 1194. Due dei sarcofagi oggi a Palermo erano collocati precedentemente a Cefalù, e furono oggetto di committenza (1145), mediante intervento di spoglio in Roma, da parte di Ruggero II. Egli, nonostante la volontà testamentaria, non usufruì di quei manufatti, che invece Federico II (previo trasferimento nel 1215) destinò a se stesso e al padre Enrico VI. Un altro sarcofago in porfido rosso si trova a Monreale, ed era stato eseguito per Guglielmo I, prima del 1183; un altro sarcofago, a Palermo, destinato a Guglielmo II o a Tancredi, prima del 1194, fu adoperato per la madre di Federico II, Costanza d'Altavilla (Romanorum imperatrix, semper augusta et regina Siciliae).

Ad ogni modo, per Ruggero II, si provvide ad un apposito monumento funerario, che si presenta a cassa in lastre di porfido sovrapposte e sormontato da un coperchio a doppio spiovente. Va qui citato, ratione materiae, anche il monumento sepolcrale di Ruggero I (m. 1101), sito un tempo nella chiesa della Ss. Trinità di Mileto (in Calabria), e oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che presentava, oltre alla voluta sontuosità del baldacchino, anche (per la prima volta nell'età non romana) un'architrave in porfido rosso, signum di potenza regia che influenzerà la successiva architettura funebre dei sovrani normanno-svevi, che ricercherà sempre l'equilibrio tra rispetto verso il magistero della Chiesa e manifestazione dell'autonomia politica.

Nel duomo palermitano risiede invece il sepolcro della prima moglie di colui che fu il "Puer Apuliae", Costanza d'Aragona (m. 1222): il marmo usato è, in questo caso, il cosiddetto proconnesio (o marmo di Proconneso). Questa scelta, con buona probabilità, non va attribuita a una precisa volontà di distinguere la stretta regalità dell'ascendenza di Federico II (Altavilla e Hohenstaufen) da quella della consorte (che fu comunque imperatrice), bensì alla penuria in loco del raro porfido, che poteva trovarsi in forma di colonne solo nella città di Roma. Il sarcofago presenta scene di caccia e soprattutto una serie di 'rilavorazioni' tipiche di altri esemplari di quel periodo in Sicilia, così da indurci a ritenere esistenti una serie di opifici scultorei in tal senso specializzati.

Lo stesso sarcofago di un figlio di Federico, Enrico (VII), morto nel 1242, posto nel duomo di Cosenza, non è in porfido, ma anch'esso in proconnesio. Caratterizzato da scene di caccia (al cinghiale di Caledonia) in bassorilievo, rappresenta il mito di Meleagro e Atalanta, ed è databile quale manufatto di epoca romano-imperiale. Di Manfredi, principe di Taranto e sopravvissuto a Corrado IV ed Enrico (VII), sappiamo soltanto che morì in un campo di battaglia a Benevento, nel febbraio del 1266, ma si ignora il luogo della sua effettiva sepoltura. Nella cattedrale di Andria, invece, sono accolte ‒ per volere di Federico II ‒ le spoglie di due delle sue mogli, Isabella d'Inghilterra e Iolanda di Brienne. Sotto il presbiterio della chiesa si trova la cripta paleocristiana, che un tempo sorgeva a livello della strada. L'abside presbiteriale, di forma semicircolare, è costituita da un pilastro che sostiene due archi formanti il deambulatorio. Nel pronao sono situati i loculi dove oggi si trovano due lastre con epigrafe, a memoria della sepoltura delle due regine.

Sostanzialmente, attraverso questo breve excursus si deduce la presenza di un elemento tipico della classicità nell'epoca normanna-sveva: ma non si tratterà di mero reimpiego (v. Antico, reimpiego e imitazione dell') bensì di un vero e proprio manus facere, nel senso che i marmi antichi (porfido rosso e proconnesio) vengono nuovamente lavorati, decorati, scolpiti. Tra i marmi citati, la pietra che più caratterizza l'età romana, simboleggiando per un lunghissimo arco di tempo ‒ attraverso l'architettura ‒ il potere e la dignità dell'Impero, è il porfido rosso: il nome, anticamente porphyrites, deriva dal suo peculiare colore, tipico della porpora (porphyra). Il porfido rosso, proveniente da cave site nel deserto orientale dell'Egitto, anche in ragione della sua intrinseca e naturale bellezza, divenne ‒ già al tempo di Augusto ‒ il materiale principe per tutti quegli impieghi, architettonici o di corredo artistico, che venivano concettualmente collegati alla funzione regia o imperiale, per la quale il colore rosso porpora era elemento di caratterizzazione.

Il momento di massima utilizzazione di questo materiale coincide con l'egida del potere di Diocleziano. In quel periodo, infatti, muta rapidamente la concezione dell'imperatore: da magistratus diviene sovrano, attraverso un processo di progressiva 'deificazione' che porterà a ritenere la figura imperiale dotata di elementi di soprannaturalità. Il governo monarchico, così configurato, previde un complesso cerimoniale, celebrativo del nuovo culto assolutista, che determinò come necessario l'ampio utilizzo di strutture architettoniche ed elementi decorativi in porfido rosso, simbolo esclusivo del potere imperiale. Al corpo stesso del sovrano, impregnato di un'aura di sacralità, doveva essere assegnata, al cessare delle sue funzioni vitali, la medesima regalità che aveva distinto la sua esistenza. Pertanto, anche per la sepoltura imperiale fu utilizzato il porfido rosso, a partire dalle ceneri di Nerone.

Successivamente, per le loro peculiarità di struttura, vanno ricordati l'enorme sarcofago di Adriano e l'urna funeraria di Settimio Severo: le spoglie di altri imperatori, dall'età di Costantino fino alla metà del V sec., venivano adagiate in semplici ma ampie arche (sarcofagi monumentali) di porfido. L'ultimo imperatore a ottenere l'onore della sepoltura in una tomba di porfido fu Marciano (450-457): dopo di lui, nessun imperatore fu più sepolto in sarcofagi di questo materiale lapideo. La vita terrena di colui che aveva governato genti e città doveva necessariamente concludersi con l'elevazione di un sarcofago, destinato ad accogliere le spoglie regali: la scelta del porfido era dunque non un'opzione, bensì quasi un vincolo, simbolico e architettonico. In alcuni casi, l'intero ciclo della vita si accompagnava all'utilizzo del porfido: alcuni imperatori nacquero 'nella porpora' (cioè in stanze ricoperte di porfido), a sottolineare la genìa regale, così da essere associati al titolo 'porfirogenito' (così, ad esempio, Costantino VII). La stanza di porpora, sita nel palazzo imperiale di Costantinopoli, si palesava come una struttura (orientata verso il mare) a forma di cubo sormontata da una piramide, interamente rivestita del marmo in questione, dalle lastre pavimentali fino a tutte le pareti, e probabilmente frutto di spoglio dall'antica Roma.

Le cave del porfido rosso si trovano nel deserto orientale egiziano e, precisamente, sul monte che dal colore della porpora prende il nome di Mons Porphyrites o Mons Igneus, monte di fuoco, chiamato adesso Gebel Dokhan, monte di fumo o fumante. Le cave di porfido furono oggetto di intenso lavoro di scavo ed estrazione, ma tale attività cessò intorno alla prima metà del V sec.; per i periodi successivi, qualsivoglia operazione di trasporto e utilizzo di porfido va letta come intervento di reimpiego da spoglio o semplice movimentazione di materiali marmorei giacenti da tempo.

Il marmo di Proconneso (o proconnesio), invece, è bianco latte, a piccoli cristalli, quasi completamente privo di impurità. Del proconnesio conosciamo altre due tipologie rilevanti: una tendente al ceruleo, a cristalli medio-grandi, utilizzata nella scultura; la seconda, a cristalli grandi, è bianca con striature blu, ed è più usualmente fruita in architettura. In età classica questo marmo, chiamato comunemente proconnesium dal luogo di provenienza, veniva anche indicato come cyzicum, dalla città di Cyzico posta di fronte al Proconneso che, almeno in epoca imperiale, era il centro di raccolta del materiale e di amministrazione delle cave. Il marmo veniva estratto in varie zone dell'isola di Marmara (Turchia), ricca ‒ per ragioni geologiche ‒ di questo materiale lapideo, tanto da possederne in gran copia per tutta l'isola e con diverse varietà dello stesso marmo. Il proconnesio è uno dei marmi bianchi più famosi dell'antichità: oltre che per la naturale bellezza della pietra, ciò fu dovuto anche alla facilità di trasporto, data la posizione strategica dell'isola, incuneata all'interno di rotte di traffici commerciali. Pur risultando fragile agli agenti atmosferici, fu marmo utilizzatissimo, anche in ragione della sua economicità: e le cave, nonché i reperti archeologici, testimoniano prelievi continui e in gran quantità.

Se sin dall'età arcaica il suo uso ha conosciuto un incremento continuo, che aumentò poi in tutta l'epoca romana; l'acme fu raggiunto ‒ anche simbolicamente ‒ con la costruzione della nuova Bisanzio di Costantino il Grande. La diffusione geografica dell'uso del proconnesio è ampia, abbracciando l'Asia Minore, la Siria e la Bitinia, la Tracia, la Mesia, la Dalmazia, le coste adriatiche dell'Italia e, ovviamente, Roma. Esso era impiegato per vari elementi architettonici ‒ quali colonne, trabeazioni, capitelli ‒ e decorativi, come lastre di rivestimento e crustae. Oltre che per gli edifici, il proconnesio ha avuto uno specifico utilizzo già in epoca romana (nel II e III sec. d.C.), anche per sarcofagi, soprattutto nel modello 'a ghirlande' e in quello a 'vasca'.

Fonti e Bibl.: F. Daniele, I regali sepolcri del Duomo di Palermo riconosciuti e illustrati, Napoli 1784 (riprod. anast. Palermo 2002); R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, I-IV, Roma 1892-1912; R. Delbrück, Antike Porphyrwerke, Berlin-Leipzig 1932; G. Lugli, Roma antica, Roma 1946; V. Tusa, I sarcofagi romani in Sicilia, Palermo 1957; M.L. Lucci, Il porfido nell'antichità, "Archeologia Classica", 16, 1964; Agostino del Riccio, Istoria delle Pietre. Ripr. facs. del Ms. 230 della Biblioteca Riccardiana, a cura di P. Barocchi, Firenze 1979; A. Giuliano, Motivi classici nella scultura e nella glittica di età normanna e federiciana, in Federico II e l'arte del Duecento italiano. Atti della III settimana di studi di storia dell'arte medievale dell'Università di Roma (Roma, 10-20 maggio 1978), a cura di A.M. Romanini, I, Galatina 1980; R. Gnoli, Marmora Romana, Roma 1988; Splendori di pietre dure. L'arte di corte nella Firenze dei Granduchi, a cura di A. Giusti, Firenze 1988; I. Herklotz, "Sepolcra" e "Monumenta" del medioevo, Roma 1990; P. Pensabene, Contributo per una ricerca sul reimpiego e il "recupero" dell'Antico nel Medioevo. Il reimpiego nell'architettura normanna, "Rivista dell'Istituto Nazionale d'Archeologia e Storia dell'Arte", ser. III, 13, 1991; Id., Contributo per una ricerca sul reimpiego e il "recupero" dell'Antico nel Medioevo. I portici cosmateschi a Roma, ibid., 14-15, 1992; L. De Lachenal, Spolia. Uso e reimpiego dell'antico dal III al XIV secolo, Milano 1995; Marmi antichi, a cura di G. Borghini, Roma 1997; G. Alfano-L. Lazzarini-F. Santalucia-M. van Molle, I materiali lapidei del portale e del finestrone di Castel Maniace a Siracusa, "Bollettino dell'Accademia Gioenia di Scienze Naturali", 33, 2000; L. Lazzarini, Le pietre antiche colorate reimpiegate nei monumenti normanni della Sicilia Occidentale, ibid.; Marmi antichi e pietre dure, a cura di D. Del Bufalo, Galatina 2000; I marmi colorati della Roma imperiale, catalogo della mostra (Roma, Mercati di Traiano, 28 settembre 2002-19 gennaio 2003), a cura di M. De Nuccio-L. Ungaro, Venezia 2002.

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