GUARDATI, Tommaso

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 60 (2003)

GUARDATI (Guardato), Tommaso (Masuccio Salernitano)

Fabio De Propris

Fu uno dei tre figli di Margherita (Margaritella) Mariconda e di Loise, membro della nobile famiglia sorrentina dei Guardati, titolata del feudo di Torricella, situato presso Punta Campanella, nel golfo di Salerno, e posseduto fin dal 1181 dal capostipite della famiglia Giacomo. Il G. nacque a Salerno o, meno probabilmente, a Sorrento, attorno al 1410, sotto il segno dell'Ariete, come ricorda egli stesso nel Novellino (a cura di A. Mauro - S.S. Nigro, Bari 1975, p. 251, d'ora in poi Novellino), dunque tra marzo e aprile.

Forse il G. fu il primogenito, poiché portava lo stesso nome del nonno paterno. Il fratello Francesco fu medico, la sorella Ippolita sposò il dottore in legge Bernuccio Quaranta, di Cava de' Tirreni.

Data e luogo di nascita si ricavano da congetture sul padre e sul nonno materno, il nobile salernitano Tommaso Mariconda. Il padre si era infatti trasferito a Salerno per ricoprire il ruolo di segretario di Raimondo Orsini, che nel 1439 era stato nominato principe della città da Alfonso d'Aragona. Loise si stabilì in contrada Plano montis, allora quartiere residenziale della città, e fu incluso tra i nobili del "seggio" del Campo. Nel caso in cui il suo trasferimento fosse avvenuto solo in occasione della concessione del principato all'Orsini, certamente il G. sarebbe nato a Sorrento. Tuttavia è molto più probabile che Loise si fosse stabilito a Salerno già nei primi anni del Quattrocento e lì fosse nato il Guardati. Questi, infatti, nell'esordio della novella XIV, ricorda che il nonno materno, salernitano, "essendo d'anni pieno", gli raccontava spesso delle storie "nella sua fanciullezza" (Novellino, p. 130). Tommaso Mariconda fu assai longevo: già presente ai capitoli matrimoniali del fratello il 5 dic. 1341, risulta in vita ancora nel 1424, con ogni evidenza quasi centenario. Considerando che il nonno dovette raccontare storie al nipote un po' prima del 1424 e che il nipote doveva essere non un infante, ma già un fanciullo, si arriva a determinare per approssimazione l'anno e il luogo di nascita del G. verso il 1410 a Salerno. Sebbene queste congetture coinvolgano memorie esposte dal novelliere in un contesto narrativo, va aggiunto che in molti passi il G. parla di Salerno come della sua città e il Pontano, in un verso dell'epitaffio che gli dedicò, ribadisce che il G. nacque e morì nella medesima città: "Masutius nomen, patria est generosa Salernum; / haec simul et vitam praebuit et rapuit" (De tumulis, I, 36, vv. 5-6). Vi risiedette comunque per tutta la vita, tranne i periodi di permanenza a Napoli, vivendo nella casa paterna con la famiglia.

Gli anni dell'adolescenza trascorsero nel clima torbido e violento del malgoverno di Giovanna II d'Angiò e delle guerre dinastico-civili che caratterizzarono gli ultimi decenni della dominazione angioina. Il nonno materno ebbe notevole importanza per la formazione del novelliere in quanto gli trasmise oralmente le storie della Salerno angioina, oppressa dalle lotte tra i baroni, ma anche vitale nei commerci e nell'economia. A giudicare dalla sua opera narrativa, il G. ebbe un'istruzione di carattere retorico-grammaticale, coronata dalla lettura di opere letterarie toscane (in primis Boccaccio) e in una certa misura anche latine. Inoltre egli fu influenzato dalla Scuola medica salernitana, dove studiò il fratello Francesco, "artium et medicine doctor fisicus", e presso la quale il G. potrebbe aver appreso quelle regole retoriche che avrebbe poi messo in pratica nel suo lavoro di segretario e, artisticamente, nella costruzione del Novellino.

Negli anni della sua giovinezza o della prima maturità è probabile che, seguendo le orme paterne, entrasse al servizio di Raimondo Orsini come segretario, o che godesse comunque dei suoi buoni uffici, grazie ai quali cominciò a frequentare a Napoli la corte aragonese.

Non molto dopo il 1440 il G. sposò la nobile Cristina de Pandis, nativa di Manfredonia, da cui ebbe cinque figli, Loise, Alferio, Vincenzo, Caracciola e Adriana. Tre di essi avrebbero poi intrapreso la vita di religione: Loise (Grano, p. 26, seppur senza spiegare perché, dichiara che invece fu un laico), Vincenzo, frate dell'Ordine dei predicatori e Adriana, monaca di clausura nel monastero di S. Lorenzo a Salerno. Caracciola fu invece damigella di corte della duchessa di Calabria. Nel 1449 il padre Loise doveva essere già defunto, poiché in quell'anno il G. versò personalmente la dote della sorella Ippolita.

Il G., stimolato a Napoli da una vivacità letteraria e da una raffinata cultura umanistica che Salerno non poteva offrire, cominciò ben presto a scrivere novelle spicciolate in volgare, dedicandole a membri della famiglia reale e a personaggi importanti della corte aragonese. Chi lo incoraggiò a intraprendere l'attività letteraria fu, per grato riconoscimento dell'autore stesso, il nobile partenopeo Boffillo Del Giudice. I contatti e le amicizie che il G. strinse nella capitale del Regno inclusero i principali esponenti della famiglia reale e della corte: nobili campani e spagnoli, ambasciatori di varie città d'Italia - Firenze e Venezia in particolare - nonché intellettuali. Tra questi si segnalano il poeta volgare Francesco Galeota e gli umanisti Antonio Beccadelli detto il Panormita, di cui certamente frequentò l'accademia, e Giovanni Pontano. Il G. conobbe senz'altro anche il predicatore francescano conventuale Roberto Caracciolo che, attivo a Napoli dal 1468 al 1473, fu ben accolto a corte e nell'Accademia pontaniana. In una lettera a Ippolita Maria Sforza, moglie di Alfonso II d'Aragona, databile al marzo-aprile 1471 Luigi Pulci dichiarava di essersi ispirato al Novellino per la novella che con la lettera le inviava.

I rapporti del G. con gli Aragonesi furono improntati a una fedeltà indiscussa, benché in alcune novelle l'ambientazione nella precedente epoca angioina sia tratteggiata con toni di rimpianto per la floridezza economica di quei tempi (novelle V, XII, XIX). Anche il fratello del G. fu fedele agli Aragona: Ferdinando I d'Aragona, il 7 marzo 1460, gli affidò l'ufficio di credenziere del fondaco maggiore e della dogana del sale di Salerno. Tale ufficio, forse già ricoperto dal padre, gli fu concesso per intercessione di amici e familiari, tra i quali è senz'altro possibile includere lo stesso Guardati. Tuttavia la prima prova documentata di un riconoscimento del re nei confronti del G. risale solo al 14 nov. 1469. È una lettera da Traetto di Ferdinando I al vescovo di Gaeta Francesco Patrizi nella quale il re di Napoli indicava il G. come "familiare fidele dilecto" da cui aveva ricevuto "grati et accepti servitii" e rinnovava la richiesta al vescovo che concedesse un beneficio nella sua diocesi a uno dei figli del "familiare", forse Loise, richiesta che evidentemente la prima volta era caduta nel vuoto (Mauro, 1924, pp. 201 s.). I servigi che il G. prestava a Ferdinando I furono probabilmente di carattere diplomatico, anche se non di primo piano. È da scartare la congettura avanzata da Paul Renucci che il G. potesse essere stato segretario del re. Due soli documenti testimoniano il lavoro del G. in segreteria: il primo è la ricevuta del versamento di una tassa, vergata l'11 dic. 1465 dal G. nella sua funzione di "prencepale cancelleri" di Roberto Sanseverino (Silvestri; Petrocchi, 1953, pp. 50 s. n. 1); il secondo è un diploma d'investitura concesso da Antonello Sanseverino succeduto al padre e redatto da "M. Guardato secretario" il 12 ag. 1475 (D'Auria Volpe), data che è anche un terminus post quem della morte del Guardati. Infine un accenno contenuto nel Prologo alla terza parte del Novellino circa "tante carte ripiene" (Novellino, p. 181) per Ippolita Maria Sforza potrebbe forse essere letto come la testimonianza non del letterato, ma del segretario.

Gli esordi narrativi del G. si collocano nei primi anni '50. Più precisamente agli anni 1450-57 risale senz'altro la prima stesura di quattro novelle conservate in tre manoscritti fiorentini: l'elegante codice umanistico Landau 17, conservato presso la Biblioteca nazionale e, limitatamente alla novella II, il ms. 2437, conservato presso la Biblioteca Riccardiana e il Magliabechiano II.II.56 ancora della Biblioteca nazionale, che della novella riporta solo l'inizio. Ognuna di queste quattro novelle, poi confluite con alcune varianti testuali e strutturali nella raccolta definitiva a stampa con i numeri II, III, XXI e XXXI, è bipartita in lettera dedicatoria e narrazione vera e propria. Ciò testimonia che i prodotti dell'attività letteraria del G. circolavano nella corte e godevano probabilmente di un certo favore, presentandosi come regalo al destinatario, come umile omaggio, oppure come adempimento di una promessa: sempre, comunque, come elemento di un dialogo di alta società, dove la scrittura si proponeva di nobilitare la materia orale dei racconti. Il G. vanta la verità delle storie da lui narrate e il loro valore parenetico rivendicando un proprio specifico spazio nel panorama culturale aragonese e sapendo cogliere certi umori, anche grevi, del suo ambiente, quali l'albagia, il maschilismo o il senso dell'onore. La sua prosa manca di misura. Al gusto compiaciuto per l'orrido si affianca disarmonicamente la propensione per le tirate moralistiche, i vituperia antifemminili suonano ossessivi, gli attacchi ai religiosi sono sospesi tra ansia di rinnovamento religioso e dissacrazione pura. Il modello, inarrivato, è il Decameron di Boccaccio, cui si aggiunge qualche titolo della novellistica più recente: il Trecentonovelle di Sacchetti, per esempio, le novelle di G. Sermini, per il gusto delle beffe, quelle di G. Sercambi, per i particolari efferati e il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino; in ambito latino, oltre ai classici come Giovenale e Ovidio, il G. dovette avere qualche dimestichezza con testi contemporanei quali il Liber facetiarum di Poggio Bracciolini e le opere del Panormita e di Pontano.

Il G. divulgò le sue novelle spicciolate via via che le scriveva nel corso degli anni '50, per poi raccoglierle in un libro unitario, riscrivendole in funzione dell'insieme attorno agli anni 1470-71 e aggiungendo nel 1474-75 il Parlamento finale. La riscrittura, a giudicare dagli esempi di prima stesura che ci sono pervenuti, fu radicale nello stile e nel contenuto; smussò per esempio i toni più acerbi negli attacchi alle donne e al clero, e rese la narrazione meno prolissa e minuziosa, ma anche più piatta. Di conseguenza, è impossibile stabilire la data di prima composizione delle novelle. Nel Novellino, inoltre, le novelle non sono più bipartite, come nei manoscritti, ma quadripartite in argomento, esordio (costituito da una lettera dedicatoria), narrazione e commento finale, intitolato Masuccio.

Nei primi anni '60 del XV secolo si consumò lo sfortunato tentativo angioino di recuperare il Regno di Napoli, tentativo al quale presero parte anche alcuni esponenti della nobiltà vicini agli Aragona con cui il G. aveva stretto rapporti: primo fra tutti Del Giudice, che nel 1462, con la rotta di Renato d'Angiò, riparò in Francia, ma anche Giovanni Guarna (dedicatario della novella XLIII), che, guidando una fazione armata filoangioina, fu sconfitto da Roberto Sanseverino, barone fedele agli Aragonesi. Nel 1463 Ferdinando I d'Aragona investì Roberto Sanseverino, a ricompensa del suo aiuto, del titolo di principe di Salerno, togliendolo al figlio di Raimondo Orsini, Felice, schieratosi con gli Angioini. Nello stesso anno il G. divenne segretario del nuovo principe di Salerno e forse intensificò i suoi contatti con Napoli, dove Roberto Sanseverino cominciò a costruire un suo palazzo.

Le novelle del G., nelle quali ricorrono da un lato invettive e beffe contro i frati (soprattutto predicatori) e le donne (nobildonne aragonesi escluse), dall'altro esaltazioni delle virtù cavalleresche e virili, talvolta ridotte alla pura avventura sessuale e alla furbizia, dovettero corrispondere ai gusti letterari della corte e alla politica laica della Corona, che spesso si oppose alla Chiesa nel vano tentativo di affrancarsi dal suo controllo temporale.

L'italiano del G., a giudicare dagli incunaboli pervenutici, tutti stampati nell'Italia del Nord sulla base di un autografo e un'editio princeps perduti, ha i tipici caratteri della prosa quattrocentesca prima della raffinata messa a punto operata da Iacopo Sannazaro: una koinè meridionale, con velleità di lingua illustre, ma ancora impastata di dialettalismi, latinismi e finanche ispanismi che a volte donano vivacità alla pagina, ma più spesso la aggravano. Il modello boccacciano, benché (o proprio perché) adottato non pedissequamente, complica e appesantisce la sintassi. Tuttavia lo stile del G. si eleva al di sopra dei livelli raggiunti da scrittori meridionali coevi quali Loise De Rosa e Francesco Del Tuppo e perciò dovette essere visto favorevolmente nell'ambito di una politica di corte volta a promuovere (almeno a partire dal regno di Ferdinando I) l'uso dell'italiano nell'amministrazione e nella vita culturale. La dedicataria del Novellino, inoltre, è Ippolita Maria Sforza, istruita nel greco da Costantino Lascaris e cultrice di letteratura.

Oltre le poche notizie forniteci dai documenti, la maggior parte dei quali segue le successioni dei diritti di patronato della chiesa di S. Maria de Alimundo o de Ulmo, alcune informazioni sul G. si possono ricavare con cautela dal Novellino stesso. A un contatto con l'ambiente della Scuola salernitana possono essere ascritte la frequente reductio alle pure ragioni fisiche, nei suoi personaggi, delle motivazioni all'agire (in primis il sesso e il denaro), l'atteggiamento di diffidenza o di scherno verso ogni spiritualismo, soprattutto se espresso da donne e frati, l'impassibilità di fronte alle ragioni del cuore e il gusto quasi morboso per particolari mostruosi. Da questo punto di vista assumono valore emblematico la citazione di un "testo de Avicenna" alla fine della novella III e il riferimento all'"arte dei prudenti fisici" (Novellino, p. 251) di compensare la violenza di un farmaco con un eccipiente gradevole per spiegare l'alternanza di novelle nella quarta parte. L'esordio della novella XXXIV è occasione per il rapido autoritratto di un G. impegnatissimo che ha trovato un po' di tempo libero per scrivere narrativa, il che non doveva accadere frequentemente. Di tenore simile sono altri esordi (per esempio quello della novella XXXVI), in cui l'invio della novella è denunciato come il tardivo adempimento di una vecchia promessa. Spesso la dedica tende a rinsaldare legami d'amicizia allentati dalla lontananza del dedicatario, magari un ambasciatore, un esule o un alto funzionario; altre volte si sottolinea la proficuità del dialogo culturale intrecciato, tutta a beneficio dell'autore che, schermendosi, tende a presentarsi come vaso della sapienza del dedicatario: è il caso del nobile fiorentino Francesco Bandini della novella XXXV e degli intellettuali della corte aragonese. Talvolta il G. scrive la novella a chi gliel'aveva raccontata oralmente, in un gioco di emulazione e di umiltà al tempo stesso (per es. la novella XLI, a Galeota). Tra la fine della novella VI e l'esordio della novella VII il G. adombra il suo dolore per la prematura scomparsa del fratello Francesco, che morì quindi prima del destinatario Marino Caracciolo, deceduto il 21 marzo 1467. Nel Parlamento de lo autore al libro suo che conclude l'opera il G. piange con un appassionato necrologio la morte improvvisa di Roberto Sanseverino (1474), una tragedia così sconvolgente per il G. da segnare la fine del suo impegno letterario e da impedirgli addirittura il lavoro di revisione; tra le righe si legge anche una manifestazione di disistima verso Antonello Sanseverino. Le incongruenze, dovute alla mancata revisione finale, sembrano denunciare la crisi del rapporto tra il G. e il potere e ciò si può evincere anche da uno dei due sonetti indirizzati al novelliere da Galeota, Se fosse stato al tempo de Vergilio (in Torraca, dove si legge anche l'altro sonetto, Guardato sono assai, Masucio mio), col quale l'autore, rammaricandosi che non ci sia più un Augusto amante delle lettere disposto a concedere un "soave exilio" (v. 4) romano all'amico scrittore, invita il G. a ritirarsi a vita privata in attesa che le brutte acque si calmino e a riconfortarsi al pensiero della fama raggiunta che "non teme de adversario" (v. 12). La fedeltà agli Aragonesi del G. e di tutta la sua famiglia fu infatti considerata negativamente da Antonello Sanseverino, che sarebbe poi divenuto uno fra gli ispiratori della congiura dei baroni contro l'Aragona. Tuttavia nell'esordio alla novella XVIII è rimasto un generoso encomio del figlio di Roberto che vale perciò come riprova del fatto che al Novellino mancò l'ultima stesura e che il lavoro di organizzazione delle spicciolate in un libro unitario subì una battuta d'arresto attorno al 1471. A sostegno dell'ipotesi si aggiungono l'immagine giovanile che Roberto Sanseverino ha nella novella XXX e soprattutto la mancata notizia della morte di Antonio Beccadelli, avvenuta nel 1471. Di contro, va notato che Federico da Montefeltro è citato come duca di Urbino, titolo che ricevette solo nel 1474 (anno che è, per inciso, il terminus post quem della composizione del Parlamento).

Il nonno materno del G., l'8 luglio 1390, a ricompensa dei servizi prestati, aveva ricevuto dalla reggente Margherita di Durazzo la metà dei diritti di patronato della chiesa parrocchiale di S. Maria de Alimundo (l'altra metà fu donata al nobile salernitano Guglielmo Solimena, parente dei Mariconda). La chiesa sorgeva nella contrada Plano montis, dove viveva la famiglia del G., che nella novella XX chiama la contrada "il nostro paese dal Monte". Il G., che aveva ereditato dal nonno metà della sua metà del giuspatronato della chiesa (coerede Marino Mariconda), il 21 luglio 1471 risultava intestatario unico della metà del giuspatronato in questione (Marino gli aveva donato la propria parte) e nella sua qualità di patrono proponeva come rettore della chiesa un don Petrello de Amato. Tre anni dopo, il 4 nov. 1474, il G. e gli altri cointestatari del patronato, i Solimena, proposero come rettore della chiesa il figlio del G. Loise.

Nessuno dei figli del G. ebbe prole e con essi e con il nipote Gian Roberto, l'unico figlio del fratello Francesco, si estinse il ramo salernitano dei Guardati. Il tono asettico con cui Francesco Del Tuppo parla del G. nella lettera dedicatoria premessa alla sua stampa (1476) stonerebbe se l'autore fosse stato ancora vivo. Dunque, il G. morì forse nel 1475, amareggiato dai pessimi rapporti col nuovo signore di Salerno, che tuttavia non causarono la sospensione dal lavoro di segretario. Fiore sposta la data al 1480, fidandosi solo del documento in cui i figli si dividono l'eredità del G. (8 genn. 1480, cfr. Mauro, 1926, p. 36), cioè, oltre agli altri beni, il giuspatronato sulla chiesa di S. Maria de Alimundo, cui Vincenzo, entrato nell'Ordine dei domenicani di Napoli, rinunciò a favore dei fratelli Loise e Alferio. Tutto venne confiscato da Antonello Sanseverino l'8 genn. 1496 a causa della fedeltà dei Guardati alla dinastia aragonese. Il corpo del G. fu sepolto con ogni probabilità nella chiesa di S. Maria de Alimundo. Sulla tomba fu inciso l'epitaffio composto in suo onore da Pontano, ma la lastra ben presto scomparve.

L'influenza sul G. del modello decameroniano, oltre che a livello stilistico, sintattico e narrativo, si avverte anche sul piano strutturale, benché nel suo novelliere manchi una cornice. Il Novellino raccoglie cinquanta novelle, la metà di quelle del Decameron, divise anch'esse a gruppi di dieci e le cinque parti riassumono a grandi linee gli stessi temi del modello.

La prima parte contiene "alcune detestande operazioni di certi religiosi", ovvero truffe, beffe e adulteri architettati da preti, frati o suore (II-IV, VI, IX). Nella metà dei casi però le azioni finiscono male (I, V, VII), i religiosi sono truffati a loro volta (X) o, in un empito di sincerità, ammettono la loro invidia per chi può godere senza impacci delle donne (VIII).

La seconda parte raccoglie "beffe e danni per gelosi ricevuti e altri piacevoli accidenti" ed è anch'essa divisa precisamente in due gruppi di cinque: le novelle XI-XV trattano di adulteri avventurosamente commessi sotto il naso di mariti gelosi, avidi di denaro e stupidi; le novelle seguenti raccontano di beffe, furti e truffe monetarie particolarmente abili perché ai danni di persone di livello sociale e intellettuale elevato. La novella XIX è una beffa sui generis, una suggestiva storia notturna in cui il protagonista perde il suo carico di giubboni da vendere a causa della paura di essere inseguito da un condannato all'impiccagione, scambiato per un "morto vivente".

Il titolo della terza sezione annuncia che "il defettivo muliebre sesso serà in parte crociato": "in parte" perché le novelle misogine, venate alcune di una violenza grottesca, sono solo cinque. Il tema comune è la libidine femminile, irrazionale, irrefrenabile e perciò inquietante, a causa della quale donne di alta condizione sociale, anche sposate, giacciono con mori, nani, schiavi neri, o addirittura col proprio figlio (XXII-XXV, XXVIII). Diverso è il tenore delle altre cinque novelle, in cui le donne dimostrano accortezza e astuzia negli amori illeciti (XXVI, XXIX, XXX) o coraggio virile nel cercare vendetta per essere state tradite dall'amante (XXVII); nella novella XXI, infine, il tema è sì quello di un onorevole sodalizio maschile che ha la meglio sulla passione amorosa, ma va notato che la donna rifiutata si era innamorata nobilmente per fama.

Anche la quarta parte, come le precedenti, è divisa in due. In essa "de materia lacrimevole e mesta, e d'altre piacivole e facete se tratta". L'alternanza, spiega l'autore nell'esordio, è un'idea intervenuta in corso d'opera. In un primo momento avrebbe voluto allestire una serie di dieci novelle tragiche, ma una così lunga sequenza di storie orrorose e lacrimevoli era parsa eccessiva anche a lui. Il sottogruppo aspro contiene alcuni tra i più famosi testi del G.: l'orrida novella dei "lazzari" (XXXI), cioè dei lebbrosi, e la novella di Mariotto e Ganozza (XXXIII), lontana fonte, tramite La Giulietta di Luigi Da Porto, di Romeo and Juliet di W. Shakespeare (sulla novella è stato rilevato il possibile influsso di G. Sermini, a sua volta debitore di Boccaccio, dietro il quale si intravede una selva di spunti narrativi medievali). A esclusione della XXXVII, queste novelle ripropongono con varianti la stessa storia: due giovani si amano, ma il loro amore non può essere approvato dalla famiglia di lei e, dopo alcune peripezie, trovano entrambi la morte. Loise e Martina, per esempio (XXXI), fuggono insieme, ma, per ripararsi da un temporale, si ritrovano in un lazzaretto dove cadono nelle grinfie di lebbrosi perfidi, violenti e a digiuno di donne (XXXI). La novella XXXVII è invece incentrata su due soldati molto amici, Marchetto e Lanzilao (modellati forse su Palemone e Arcita del Teseida boccacciano), che si innamorano della stessa ragazza, duellano per lei e muoiono entrambi. Le novelle giocose trattano di adulteri perpetrati ingegnosamente ai danni di mariti sempliciotti che alla fine vengono abbandonati dalla moglie a favore dell'amante più in gamba (XXXII, XXXIV, XXXVIII, XL). Genere a sé fa la novella XXXIV (esemplata su Decameron, VIII, 8), in cui due amici di basso ceto, ispirati da un'occasione quasi fortuita, decidono di mettere in comune le mogli.

La quinta parte, a somiglianza della decima giornata del Decameron, chiude il libro con "materie notivole e de gran magnificenzie da gran principi usate", presentando però situazioni già affrontate nelle parti precedenti. Le donne nell'ultima decade, come già nella terza, mostrano anche alcune qualità positive, quali arguzia (XLI), forza d'animo (XLIII) e coraggio (XLVI), attribuito per di più alla madre di un "moro". Qualità virili, comunque. Sono gli uomini infatti che brillano nella quinta parte del Novellino, e in particolare i nobili (meglio se re), che sono affascinanti (XLI, XLIII, L) ma fedeli (XLIII), rispettosi del nemico saraceno quando sia anch'egli nobile (XLVI, XLVIII, XLIX), implacabilmente giusti fino all'omicidio quando sia in gioco l'onore (XLII, XLV, XLVII) e riconoscenti del valore altrui anche al di là della nobiltà di sangue (L). Una struttura bipartita è presente in una certa misura anche nella quinta parte, dove le prime cinque novelle alternano protagonisti di stirpe reale (XLII, XLIV) a figure di rango inferiore (XLI, XLIII, XLV), mentre le ultime cinque ruotano tutte intorno a re, sultani o imperatori.

Le dieci giornate decameroniane sono dunque prese a modello e ridotte alla metà, ma sotterraneamente emulate, visto che ogni parte del Novellino è a sua volta divisibile in due. Dietro le continue professioni di insufficienza linguistica e di rozzezza espressiva si intravvede chiaro l'orgoglio di uno scrittore che si pone come eternatore sulla pagina scritta dei valori della dinastia aragonese, in opposizione all'oralità delle prediche dei frati degli Ordini mendicanti, infidi per scarsa moralità o forse per scarsa fedeltà agli Aragonesi. Eloquenti, a questo proposito, i prologhi a ciascuna delle cinque parti e il Parlamento che chiude l'opera. Notevoli sono i prologhi dispari. Il primo introduce l'intero novelliere affidandolo alla protezione di Ippolita Maria Sforza, pregata di inserire il Novellino (così intitolato "per la sua poca qualità", Novellino, p. 3) nella sua biblioteca, dopo averlo magari ripulito da "le molte rugine e da le sue superfluità". All'interno del testo, sull'esempio dell'introduzione alla quarta giornata del Decameron, è contenuta una novella. Il Parlamento, seppure con accenti tragici, dà un tono di compiutezza formale al libro, chiudendo l'opera specularmente al prologo generale con una novella (su Serse e il suddito contadino) che metaforicamente, come la prima, presenta il Novellino come un dono modesto ma affettuoso a Ippolita Maria Sforza, nonché una battagliera apologia dei suoi attacchi contro i falsi religiosi. Il prologo alla terza parte sottolinea la sua posizione centrale con una visione bucolica il cui protagonista è Masuccio in persona, guidato da un Mercurio, "eloquentissimo dio" in cui Nigro ha voluto vedere la figura del Pontano; il Panormita, del resto, era stato salutato come "nuovo Apolline" (XIV). Masuccio s'addentra in un bosco che simboleggia il "putrido, villano e imperfettissimo sesso muliebre" (Novellino, p. 180), oggetto appunto della terza parte. Lungo questa selva oscura (si pensi al "laberinto d'amore" del Corbaccio boccacciano) Mercurio indica a Masuccio le orme del "vetusto satiro Iovenale" e del "famoso commendato poeta Boccaccio" e lo sprona a seguirle. Lo informa quindi che nel mezzo del bosco sorge "il sacrario della pudicizia", locus amoenus di squisita architettura umanistica, riservato alla dedicataria del libro Ippolita Maria Sforza e alle cognate Eleonora e Beatrice d'Aragona, le cui virtù, simboleggiate da una bandiera con un ermellino e il motto "Malo mori quam foedari" (segni dell'Ordine dell'Ermellino fondato da Ferdinando I) le innalzano al di sopra di ogni difetto femminile.

Se i prologhi istituiscono letterariamente un legame con le figure più eminenti del potere, una funzione simile, ma più capillare, è svolta dagli esordi premessi alle singole novelle, che nell'insieme disegnano un'ampia galleria di personalità della corona e della corte aragonese.

Oltre che dagli esordi e dalla caratterizzazione sociale dei personaggi, la fedeltà alla dinastia aragonese del G. traspare dall'ambientazione delle novelle. Ventitré sono ambientate nel Regno di Napoli, soprattutto a Napoli e Salerno. La Sicilia offre l'ambientazione a tre novelle, il resto d'Italia a tredici. All'estero infine si svolgono le prime e ultime novelle della raccolta. I personaggi sono inquadrati, secondo giudizi e pregiudizi di parte aragonese, in tre categorie: sesso, classe sociale, luogo di nascita. Considerando che una donna in genere è dipinta come fedifraga e lussuriosa, se ha qualità positive come il coraggio sarà senz'altro abitante del Regno di Napoli (VI, XXVI, XXVII, XXIX, XXX) o toscana (XXXIII, XLI), araba (XLVI), o veneziana (XXXII). La mantovana esula forse dal gruppo perché ha una tresca con un cardinale (XV). Un uomo in astratto può essere astuto, stupido, nobilmente giusto e coraggioso, frate (e allora sarà lussurioso e avido), violento, giovane e innamorato, amante delle beffe. Un abitante del Regno di Napoli avrà però delle caratteristiche positive, e così i Toscani e i Veneziani; gli altri avranno tratti più o meno negativi. Un contadino sarà più stupido e perciò più soggetto a essere vittima di truffe e beffe. Un abitante di Napoli o Salerno sarà più furbo di chi proviene da città minori come Amalfi o Cava de' Tirreni. Al di fuori di queste coordinate non si colloca alcun personaggio. Ne emerge perciò una caratterizzazione schematica e più spesso asfittica. La narrazione non si basa tanto su motivazioni plausibili, quanto sul susseguirsi incalzante delle azioni.

La critica si è a lungo interrogata su quale sia il nucleo centrale dell'ispirazione masucciana. Luigi Settembrini, in chiave laico-risorgimentale, apprezzò la critica anticlericale, vista come frutto di un umanesimo meridionale che poteva considerarsi un passaporto culturale con cui il Sud entrava nell'Italia unita a testa alta, al passo della modernità positivista. Giorgio Petrocchi giudicò il G. un novelliere essenzialmente comico che dava il meglio di sé nelle agili narrazioni di beffe e truffe riuscite, mentre scadeva nell'orrido quando falliva l'obiettivo. All'opposto Mario Fubini vide nelle novelle dell'orrido e del grottesco il Masuccio più autentico. La critica sociologica ha indagato i rapporti del G. con l'ambiente aragonese, chiedendosi fino a che punto l'ideologia del Novellino rispondesse a una visione personale (abbastanza paradossale è il fatto che un autore di novelle tanto aspre contro i religiosi, vedesse tre dei suoi cinque figli abbracciare la vita religiosa) e quanto invece traducesse in prosa narrativa la visione politica degli Aragona. I critici sovietici sottolinearono, nel 1931, la prospettiva classista e denigratoria delle classi subalterne.

Dalla lettera dedicatoria che Francesco Del Tuppo premise alla sua stampa del Novellino (1476) si ricostruisce la tormentata sorte dell'opera alla scomparsa dell'autore. Il manoscritto originale, subito dopo la morte di Roberto Sanseverino, fu dato in mano all'uditore ecclesiastico che, per il contenuto, lo bruciò. L'opera aveva però già cominciato a circolare e Giovan Marco Cinico ne aveva esemplato già una copia su cui si basarono nel 1476 gli stampatori del primo incunabolo, Del Tuppo e il suo socio tedesco S. Riessinger che, nello stesso anno, stamparono il Quaresimale, una raccolta delle prediche di Roberto Caracciolo. La coincidenza non appare casuale, fa piuttosto pensare a un disegno politico-culturale favorito, se non addirittura finanziato, dalla Corona aragonese, per denunciare la corruzione della Chiesa e in particolare di alcuni esponenti degli Ordini mendicanti che giravano l'Italia spillando denaro agli sprovveduti con un'oratoria truffaldina: una critica che si ritrova, con toni suggestivamente simili a quelli del G. nel coevo Speculum cerretanorum di Teseo Pini.

È possibile che la pubblicazione del Novellino costituisse una sorta di attacco alle forze antiaragonesi interne, cioè ai baroni filoangioini e filopapali che miravano a rovesciare la dinastia aragonese e che i torbidi scoppiati subito dopo la morte del G., sfociati nella congiura dei baroni prima e nell'ingresso a Napoli di Carlo VIII poi, costituissero un clima assai sfavorevole alla diffusione dell'opera. Non si può escludere che gli episodi scabrosi ambientati in luoghi lontani fossero in realtà fatti di cronaca avvenuti nel Napoletano e siano stati valutati come implicito atto d'accusa contro i protagonisti, magari d'alto rango, che perciò presto soffocarono la diffusione dell'opera nell'Italia meridionale (Petrocchi). Certo è che, del primo incunabolo, in breve non rimase più traccia nelle biblioteche del Regno di Napoli e bisogna spostarsi al Nord per seguire la tormentata storia editoriale dell'opera del Guardati. Sulla base dell'edizione del 1476 oggi perduta, a Milano Cristoforo Valdarfer stampò la seconda edizione nel 1483 (Indice generale degli incunaboli [IGI], 6266) e un anno dopo, nel 1484, Battista de' Torti produsse la terza edizione a Venezia (IGI, 6267), sulla quale è esemplato l'incunabolo pubblicato ancora a Venezia per i tipi di Giovanni e Gregorio de' Gregori nel 1492 (IGI, 6268), nonché le numerose cinquecentine che si affollarono nella prima metà del XVI secolo, tutte prodotte in tipografie veneziane, con interventi correttivi sul testo: le edizioni del 1522 e del 1525 aggiornano i destinatari di dieci novelle; l'edizione detta "della Gatta", senza data, molto diffusa, accorcia gli esordi e gli epiloghi moralistici di varie novelle. L'inclusione dell'opera già nel primo Index librorum prohibitorum del 1557-59 segna l'inizio della lunga eclisse editoriale, interrotta nel 1765 da un'edizione stampata "a Ginevra" (in realtà a Lucca), annunciata dalla presenza di undici novelle scelte in un Novelliero italiano allestito da G. Zanetti (Venezia 1754). Il rilancio in grande stile dell'opera si deve a L. Settembrini che ne approntò un'edizione a Napoli nel 1874. La filologia novecentesca non ha prodotto un'edizione soddisfacente. Alfredo Mauro ha allestito un'edizione critica (Bari 1940) basandosi, secondo giudizio personale, tanto sul testo milanese, il più vicino all'incunabolo napoletano perduto, quanto su quello veneziano del 1483, più toscaneggiante (e venezianeggiante). Giorgio Petrocchi, che pure scrisse pagine di critica filologica e letteraria tra le più convincenti sul G., realizzò poi un'edizione critica (Firenze 1957) non esente da contestazioni. Chi del resto, come Salvatore Gentile, ha dedicato un intero volume alle correzioni linguistiche dell'edizione Petrocchi, non ha poi realizzato la promessa edizione. Salvatore S. Nigro, che ha scandagliato a più riprese il testo sul piano letterario, sul piano testuale s'è dedicato a riproporre l'edizione Mauro riveduta e corretta (Bari 1975) e poi addirittura l'edizione Settembrini (Milano 1990).

Tracce dell'opera del G. si rilevano nel Charon di Pontano, tra le carte di Leonardo da Vinci e nel Lazarillo de Tormes. Il gusto masucciano dell'orrido si ritrova in Girolamo Morlini, Matteo Bandello e Giovan Battista (Cinzio) Giraldi. Tommaso Campanella dette un giudizio moralisticamente negativo dell'opera del G., mentre l'abate Giovan Battista Casti trasse dalla novella I la XXXVIII delle sue Novelle galanti. Si segnala per completezza il film di S. Amadio, Come fu che Masuccio Salernitano… (1972).

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