Tossicodipendenza

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Tossicodipendenza

Vittorino Andreoli

Sommario: 1. La dipendenza come disturbo. 2. Dalla relazione alla dipendenza. 3. Il bisogno di metamorfosi. 4. L'oggetto transizionale. 5. Le sostanze tossiche. 6. Intervenire prima della dipendenza. 7. La tossicodipendenza come relazione tra sostanza, personalità e società. □ Bibliografia.

1. La dipendenza come disturbo

La nascita dell'attuale fenomeno della tossicodipendenza si lega al biennio 1968-1969, quando le cronache dettero notizia dell'esistenza di gruppi di giovani che consumavano sostanze stupefacenti: è l'epoca del barcone sul Tevere, dei night clubs in Versilia. A caratterizzare questo periodo è certamente la diffusione di un fenomeno che già esisteva, ma che ora si impone all'attenzione per il fatto di interessare gruppi e non singoli. Peraltro, i riferimenti alla dipendenza da qualche sostanza stupefacente si perdono nella notte dei tempi, fino a mescolarsi con riti religiosi di intere comunità.

Nel nostro paese, prima della seconda guerra mondiale l'abuso di morfina era diffusissimo nel personale sanitario, in particolare tra i medici; tuttavia, la sostanza tradizionale d'abuso è l'alcool etilico, il quale possiede le caratteristiche di una droga in quanto è capace di indurre dipendenza. Proprio perché ‛droga storica', c'è la tendenza a trattare l'alcool come un problema a parte, quasi che non meriti la considerazione negativa generalmente associata alle nuove droghe; invece, l'alcool etilico - come tutte le altre droghe - induce dipendenza e con essa la necessità di continuarne l'uso per non incorrere in quei sintomi di astinenza e in quelle conseguenze che, fino al recente passato, potevano essere mortali, come ad esempio il delirium tremens. È indubitabile, tuttavia, che l'unica differenza tra gli oppiacei (morfina, eroina) e l'alcool etilico sta nel fatto che nel caso di quest'ultimo è necessario un periodo di consumo molto più prolungato per dare dipendenza. Va inoltre aggiunto che il diffuso consumo ha fatto sviluppare una sorta di resistenza all'alcool nella popolazione italiana che, quindi, rispetto ad altre popolazioni (come quelle negre e asiatiche), deve assumerne quantità più elevate per provare quegli effetti che altrove sono determinati da dosi inferiori. La stessa situazione si riscontra in paesi che hanno una ‛droga nazionale' differente: gli abitanti delle Ande, per esempio, resistono meglio degli Europei all'effetto della coca.

La nostra seconda droga nazionale è il tabacco: anche in questo caso si rilevano stati di dipendenza fino a manifestazioni di astinenza fisica di notevole gravità, tanto da arrivare alle convulsioni e al coma.

Il fenomeno della tossicodipendenza, manifestatosi nel nostro paese (e contemporaneamente in altri Stati europei) alla fine degli anni sessanta, sembra aver ripercorso con un decennio di ritardo quanto era già accaduto nel Nordamerica: esso sembra quindi ricollegarsi a caratteristiche proprie del mondo industrializzato occidentale, anche se certamente vi è uno stretto legame con le leggi del mercato nero e quindi con lo sviluppo di quelle organizzazioni criminali che - mirando ad alti profitti - tendono ad allargare sempre più il loro mercato.

Sarebbe tuttavia riduttivo limitare il fenomeno della dipendenza alle droghe. Esso ha un più ampio significato: si può essere dipendenti anche dagli affetti, oppure dal potere. Lo schiavismo, ad esempio, ha generato una dipendenza che rende difficile la disintossicazione e il raggiungimento della libertà, così come le monarchie assolute hanno prodotto una dipendenza divenuta persino oggetto di venerazione: insomma, il fenomeno della dipendenza è da ricondurre alla storia della libertà dei singoli e di intere popolazioni. Tra dipendenza e libertà vi è una chiara antinomia. Nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, il grande inquisitore, allorché incontra Cristo ritornato sulla terra, dice che l'uomo rinuncia volentieri alla libertà per poter ottenere un pezzo di pane sicuro da un padrone. Anche questa è dipendenza: dipendenza dal potere.

Una delle principali e più tipiche forme di dipendenza dell'attuale momento storico è la dipendenza dal televisore, che è una dipendenza totale poiché allo spettatore rimane solo la possibilità di spegnere l'apparecchio: una volta messa in atto, tale possibilità può dar luogo a sensazioni di solitudine, di abbandono, di ‛inesistenza', vale a dire a una serie di sintomi che sono in tutto e per tutto quelli dell'astinenza. In casi in cui una intera popolazione è stata privata del televisore per un black-out di qualche giorno, si è assistito a vere e proprie crisi ansiose, esplosioni di rabbia, intolleranza, difficoltà a sopportare le frustrazioni: un quadro di tipo nevrotico che si è risolto soltanto con la ripresa dei programmi. Questo fenomeno può essere paragonato a una condizione di lutto, cioè alla perdita di un legame essenziale, anche se si tratta di un legame subito, poiché gli argomenti e le modalità con cui esso viene espletato sono imposti. Analoga la dipendenza da Internet, che ha generato quella diffusa sindrome nota come Internet Addiction Disorder.

Una relazione di dipendenza si può stabilire anche con il lavoro, tanto da soffrire di una crisi astinenziale durante i fine settimana o, in modo ancor più grave, con il pensionamento, quando è chiaro che la perdita è irrimediabile e definitiva. Ci si sente deprivati del ruolo, della propria funzione sociale, dell'immagine che ci si è costruiti all'interno dell'ambiente familiare: si tratta di un lutto drammatico, anche se non cancella l'esistenza di nessuna persona cara.

Recentemente è stato descritto un lutto da potere, evidenziato in uomini potenti inquisiti o comunque ‛detronizzati', una sindrome tale da condurre alla depressione grave e persino al suicidio. Non sempre tali sintomi hanno carattere di gravità, ma in ogni caso rappresentano dei sostanziali limiti al comportamento. Ci sono madri che non sanno distaccarsi dai propri figli, indipendentemente dall'età che questi hanno raggiunto, e che quindi operano - sia pure inconsapevolmente - per rendere impossibile un matrimonio o l'accettazione di un lavoro che si dovrebbe svolgere lontano da casa. Il concetto di dipendenza, in conclusione, non è nato con la droga e non è connesso soltanto con le sostanze chimiche, bensì rappresenta una modalità delle relazioni interpersonali.

La dipendenza da eroina esprime bene e porta al limite il concetto di dipendenza: mostra i segni di un vero e proprio disturbo, cioè di una malattia. Non è detto che l'uso iniziale di eroina sia l'espressione di una patologia del consumatore, ma è certo che la dipendenza è di per sé una malattia: intesa psicologicamente prima che somaticamente. Si assiste allo sviluppo di un vero e proprio stile di vita che sovverte ogni regola precedente: il futuro si limita al ‛prossimo buco' ed è totalmente condizionato dalla necessità di reperire la quantità di sostanza necessaria. Uno scopo che non accetta alcuna restrizione e che, dunque, rende possibili reati contro la proprietà e contro la persona sino al limite estremo dell'assassinio. L'eroina tende a diventare un legame esclusivo: essa elimina tutto ciò che non sia consono al suo stesso consumo. Nessuna amante è così invadente e totalizzante: scompare, per esempio, la libido e quindi l'istinto di conquista sessuale, giacché il tossicodipendente va verso un rapporto a due - individuo-sostanza - assoluto. Una vita ridotta a queste dimensioni ha poco di umano ed è sicuramente anti-sociale, poiché rende gli altri inutili e probabilmente dannosi per la continuazione del consumo di eroina. Quando l'uomo si riduce a una vena per iniettare eroina è un uomo malato, a cui resta ben poco di umano: si tratta - non vi è dubbio - di un caso estremo, che serve però anche a rappresentare il fenomeno delle relazioni con le sostanze d'abuso.

La categoria diagnostica che la dipendenza richiama è il disturbo ossessivo: l'esistenza viene ridotta a un'idea dominante che si traduce in una liturgia, in un rito - necessario anche se inutile - che si ripete automaticamente. All'origine si avverte un'angoscia che ha carattere ingravescente e che viene spostata su un gesto che sembra liberatorio, anche se in realtà tale gesto, appena eseguito, rimette a nudo l'intensa angoscia dal quale era nato: l'ansia si traduce insomma in un gesto apparentemente liberatorio e tutto si accentra sul bisogno di ripeterlo secondo sequenze e rituali che finiscono per diventare la vera e unica preoccupazione del soggetto. Il comportamento tossicodipendente può dunque essere letto come disturbo ossessivo, vale a dire come il ripetersi automatico dell'assunzione di una sostanza per liberarsi dall'angoscia derivante dalla crisi di astinenza e da una percezione di sé totalmente inadeguata. Il reperimento della sostanza finisce per essere l'unico motivo dell'esistenza, la quale si riduce pertanto a un'affannosa ricerca della droga.

2. Dalla relazione alla dipendenza

La dimensione sociale dell'uomo si caratterizza per le relazioni che egli stabilisce con oggetti e persone; e la relazione può essere definita come un legame che si costituisce allo scopo di soddisfare bisogni o di ottenere vantaggi. A seconda dell'obiettivo che perseguono, le relazioni possono essere distinte in due gruppi: quelle fondate prevalentemente sulla razionalità e quelle che invece sono sostenute dall'affettività. Il termine ‛prevalente' è necessario, dal momento che non è possibile separare nettamente gli affetti dalla ragione: essi, infatti, nell'agire quotidiano dell'uomo si trovano embricati e si condizionano vicendevolmente. Certamente, tra una relazione d'affari e una amorosa vi è un abisso, ma sarebbe un errore considerare l'amore privo di ogni sostegno razionale e d'altra parte negare una colorazione affettiva a una relazione d'affari alla quale si legano delle aspettative.

L'uomo sociale viene bene rappresentato dalla fitta rete di relazioni in cui egli è inserito; una rete nella quale è difficile vederlo come individuo, in quanto è sempre il polo di una relazione costituita da due o più soggetti in comunicazione. La dipendenza entra in questa cornice e finisce per essere una relazione esclusiva e obbligata.

Nella storia del singolo uomo alcune relazioni sono una costante: basti pensare a quella madre-figlio nelle prime fasi di vita, senza la quale il bambino non potrebbe vivere poiché dalla madre ottiene nutrimento e affetto. In questo caso si parla anche di simbiosi, a sottolineare che il bambino non si distingue dalla madre, ne è un'appendice. La rottura di questo legame, nelle società ‛primitive' determina la morte del bambino, in quelle ‛civilizzate', invece, ci sono madri sostitutive, più o meno ‛artificiali'. È questo l'esempio di un legame essenziale, di un bisogno primario: il latte che il bambino ottiene nella relazione con la madre gli è indispensabile.

Esistono anche legami che non sono necessari: appartenere a un club alpinistico non è essenziale alla sopravvivenza, anche se l'esclusione può essere motivo di frustrazione per coloro che desiderano farne parte. Alcune relazioni non necessarie in origine possono diventarlo una volta che il legame si sia costituito: una relazione d'amore - nel momento in cui si interrompe - può dare la sensazione che non si possa esistere senza di essa. La gelosia è l'espressione di questa essenzialità ed esprime, appunto, la paura di essere deprivati di un legame indispensabile: per paradosso, ogni azione diventa guidata dalla paura della perdita e dalla difesa da chi può determinare quella perdita.

Esistono infine relazioni indifferenti, che si costituiscono e si sciolgono con grande rapidità e senza lasciare residui.

In questo gioco delle relazioni, alcune diventano così strette da condizionare l'esistenza e le sue modalità di espressione. Una delle relazioni altamente condizionanti è il legame nevrotico, che si caratterizza - per usare l'espressione di Gregory Bateson - per un doppio legame. Con tale espressione si vuole indicare l'impossibilità di reciderlo: nel momento in cui si prova a farlo, infatti, ci si sente liberati, ma nello stesso tempo si è presi da un senso di colpa per esorcizzare il quale siamo indotti a ristabilirlo. Non appena ciò avviene, riemerge il desiderio di romperlo e così si ritorna a un comportamento ripetitivo che è sempre all'interno del legame, o meglio di un doppio legame. Molte delle relazioni umane sono stabili perché nevrotiche.

In ogni legame di dipendenza si distinguono un inizio, una fase di esercizio e una di cronicizzazione. L'inizio pone la questione se l'instaurarsi di una relazione sia espressione di libertà: questa domanda, applicata a un legame con una sostanza stupefacente, significa discutere se il ‛primo buco' sia frutto di una libera scelta. Occorre dire che questo termine è carico di una forte ambiguità e rimanderebbe alla vasta trattazione propria della filosofia e del diritto: da una parte sta l'idea che la libertà sia sempre ‛dentro la macchina' e quindi condizionata, dall'altra l'ipotesi che esistano scelte totalmente libere e quindi legate soltanto alla decisionalità di un soggetto. A noi spetta accennare da una parte al cervello e dall'altra all'inconscio.

Gli studi sul sistema nervoso centrale hanno mostrato che assieme ad aree perfettamente strutturate secondo le indicazioni del codice genetico, ve ne sono altre, plastiche - come i lobi temporali e parietali, dove si collocano le attività cognitive e creative - la cui strutturazione dipende anche dall'esperienza del singolo e dunque dall'ambiente in cui egli vive. Tali aree sono influenzate dai geni soltanto per quella parte che, nel corso della loro strutturazione, porta a costituire gli elementi nervosi capaci di rispondere alle sollecitazioni dell'ambiente. Sono zone ‛sfuggite al gene', almeno nel senso che il loro sviluppo è determinato, più che da un controllo genetico, da una sorta di ‛disposizione a': non si tratta peraltro di una ‛fuga' totale, poiché rimane il condizionamento dipendente dagli elementi che si uniranno nelle strutture cerebrali non determinate. Nel migliore dei casi, pertanto, la libertà deve tener conto della costituzione fisico-chimica del cervello, che è un organo plastico: una libertà assoluta non potrebbe nascere dalla materia, ma da una dimensione esclusivamente spirituale.

Il concetto di inconscio elaborato da Sigmund Freud sta a indicare che la decisione dell'uomo non è da attribuire solo a un processo cosciente e dunque volontario, poiché esistono motivazioni di altro tipo che spingono ad agire e di cui non si ha consapevolezza. Ciò significa che il nostro comportamento è condizionato da spinte che noi ignoriamo, il che potrebbe portarci a credere di aver fatto una scelta libera, mentre si è trattato di un ‛preformato' inconscio.

Sono molti i dubbi, scaturiti anche dalla biologia, che, seguendo lo schema delle psicologie razionalistiche della seconda metà dell'Ottocento, sono stati avanzati relativamente alla possibilità di una libera scelta: secondo tale approccio, un comportamento è guidato prima dal capire e poi dal volere, ed è comunque condizionato. Si tratterà quindi di valutare il grado di tale condizionamento, ma è sempre difficile escluderlo del tutto. Questa digressione aveva lo scopo quanto meno di sedare gli entusiasmi di coloro secondo cui la razionalità rappresenta la forza per risolvere le relazioni di dipendenza attraverso il controllo sulla loro origine.

Basta far riferimento ad alcuni sentimenti per renderci conto dei condizionamenti. La paura modifica le nostre percezioni e finisce per farci attribuire al mondo attorno a noi caratteristiche particolari, ci mostra cioè un mondo più aggressivo, impietoso. E tutto ciò può favorire comportamenti che in condizioni di tranquillità e di serenità non avremmo mai assunto. La malinconia rallenta il tempo, che così scorre infinito dando un volto nuovo alle nostre sensazioni: ci si sente inutili, anche quando la valutazione esterna attesti un valido impegno e un nostro chiaro significato. La malinconia ci porta insomma a scegliere comportamenti che mai avremmo adottato anche solo in sua assenza, e tanto meno in una situazione caratterizzata dall'ottimismo.

La paura è una grande protagonista del comportamento: nella prima adolescenza (10-16 anni), essa si configura essenzialmente come ‛paura di non piacere', quindi di non essere accettati e di rimanere soli, esclusi in particolare dal gruppo dei coetanei, divenuto quello di riferimento, in sostituzione delle figure parentali proprie dell'infanzia. La voglia di essere accettati si deve dunque confrontare con la paura di non piacere, per vincere la quale gli adolescenti sono disposti a fare tutto ciò che il loro gruppo richiede: se vi è diffuso l'uso di sostanze stupefacenti, l'adolescente sceglierà di usarle e lo farà senza che vi sia un desiderio per la droga, il quale rappresenta un bisogno secondario rispetto a quello primario di appartenenza al gruppo.

Abbiamo così parlato dell'inizio di una relazione, al quale segue la fase dell'uso relazionale. Per capire le modalità con cui una relazione viene portata avanti, occorre valutare alcune caratteristiche della relazione stessa. La prima è l'intensità del rapporto, che può essere saltuario, periodico, oppure così frequente da occupare tutto il tempo. Un rapporto saltuario non è programmato e quindi la relazione si esprime casualmente, episodicamente. La periodicità è invece organizzata: essa può riguardare l'incontro del sabato, oppure occasioni in cui regolarmente si gioca al pallone o si frequenta un club. È continuativa, invece, quando si sta sempre insieme e, nei momenti in cui si è fisicamente separati, l'uno pensa all'altro o si continua a stare insieme per telefono. Accade infatti frequentemente di assistere alla situazione in cui due giovani che stanno per lasciarsi si accordano per chiamarsi al telefono non appena abbiano raggiunto la rispettiva abitazione. In quest'ultima modalità viene sottolineata la necessità che uno ha dell'altro, come se esistessero in quanto coppia e non individualmente. Una vera e propria dipendenza, una sorta di simbiosi.

Un'altra caratteristica, oltre all'intensità del rapporto, è la motivazione del legame: alcune motivazioni sono così forti da ‛incollare' i due individui l'uno all'altro, mentre altre, se pur continue, non risultano altrettanto coinvolgenti. Insomma, sono ben diversi i casi in cui il legame si fonda su una relazione sessuale oppure sull'approfondimento di un problema filosofico: nel primo interviene la forza degli affetti e la libido, nel secondo un gioco della ragione.

Uno dei collanti relazionali, in particolare nel mondo giovanile, è costituito dal ‛proibito': se i genitori contrastano una relazione, possono renderla indissolubile, non tanto perché questa sia effettivamente gratificante per chi la vive, quanto piuttosto per il fascino del proibito che scaturisce dall'opporsi al divieto.

Insomma ogni relazione va analizzata al di là degli stereotipi per rilevare le motivazioni che la costituiscono. Ed è in questa visione che va valutato il dolore che segue a ogni ventilato distacco, dolore che a volte è assimilabile a una vera e propria sindrome da astinenza. Si è quindi portati a ristabilire il legame proprio per superare il dolore che consegue alla sua lacerazione e non certo per godere degli effetti intrinseci al legame stesso: il legame viene cioè perpetuato per non sentire gli effetti negativi della sua mancanza.

Ogni relazione tende infine a consumarsi: siamo così alla fase della rottura. Essa può verificarsi perché è cessata la motivazione, sia razionale che affettiva, del legame; può essere consensuale oppure imposta da uno dei due componenti, e in quest'ultimo caso può dar luogo - per la resistenza che l'altro oppone - a una situazione on-off, cioè al continuo riaccendersi e spegnersi della relazione stessa.

Una relazione è simile a un viaggio in cui si ha la partenza, il viaggio vero e proprio e il ritorno: e sarà bene vederlo come un fatto unitario, proprio perché ciascuna fase influisce sull'altra. Così il ritorno potrà subito far risorgere le esigenze che avevano dato l'avvio al viaggio e che ora portano al bisogno di ripeterlo. D'altra parte la metafora del viaggio si applica alla stessa esistenza e alle esperienze che la caratterizzano, tant'è che essa è usata anche per descrivere la relazione con una sostanza stupefacente, una droga.

3. Il bisogno di metamorfosi

Ogni uomo aspira a certe realizzazioni e dunque a un cambiamento: talora la metamorfosi è modesta, talora è come quella del personaggio kafkiano Gregor Samsa, che da uomo diventa insetto. Il bisogno di metamorfosi è molto diffuso anche in un'epoca come la nostra, non certo animata dall'esigenza di totale ricostruzione e rinnovamento che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra. Ci sono epoche storiche e fasi dell'esistenza in cui il cambiamento sembra più sentito. L'adolescenza è certamente l'età in cui è più forte il bisogno di trasformarsi e in cui, di fatto, si verifica un cambiamento fisico, psicologico e sociale. È l'epoca dello specchio, di una continua verifica di se stessi, di un interrogarsi sulla propria ‛oscenità': a volte si verificano casi in cui adolescenti bellissimi, che tuttavia non si piacciono, si sottopongono a una serie di metamorfosi che incominciano con il trucco del viso e proseguono con l'abbigliamento del corpo, con l'attaccarsi da tutte le parti oggetti o tatuaggi. Tentativi per sembrare diversi, per assomigliare ai propri amici e nascondere tutto quanto non appare accettabile. Alla metamorfosi del corpo si aggiunge il cambiamento della propria personalità e allora ci si atteggia a piccoli eroi, si imitano i divi del momento e si cerca di diventare simili a chi ha raggiunto il successo e piace. Così si cerca la via per la metamorfosi psicologica: l'alcool, la nicotina e le nuove droghe assolvono questo compito, dando più o meno rapidamente una percezione di sé totalmente variata. Non si è più timidi, ma disinibiti, non si avverte più la paura, ma si ha la sensazione di essere dei titani.

Lo ‛sballo' è una metamorfosi rapida che permette di trasferirsi in un mondo nuovo dove tutto appare modificato e già questo ha il sapore di una grande avventura: non si è più se stessi, non più in quella forma in cui non ci si piace. Lo ‛sballo' permette a un ranocchio di sentirsi un principe azzurro, a un fallito di essere come Achille. In una società all'insegna del successo, se si è perdenti si può sempre ricorrere allo ‛sballo' e si diventa eroi della notte, di un sabato sera.

Le relazioni promuovono metamorfosi. Nell'innamoramento si pensa sempre e solo alla persona amata, con la quale ci si sente bene e lontani dalla quale si sente di non poter più vivere: si tratta di una relazione sconvolgente, capace di modificare ogni gerarchia che prima ordinava la propria vita. L'amore non è sempre trasporto fisico, può avere le caratteristiche dell'amicizia; ma anche in questo caso l'esistenza muta, poiché si è scoperto un punto di riferimento, di sicurezza, un aiuto capace di cancellare quella paura quotidiana che ha costituito un freno all'entusiasmo; persino una relazione con un nemico muta le regole dell'esistenza. Insomma, le metamorfosi si coniugano con le relazioni e la vita spinge alla ricerca di nuove esperienze. Spesso basta un incontro e può cambiare il corso dell'esistenza; talvolta non si trovano persone e allora si ricorre a oggetti o a sostanze.

Il concetto di relazione si può ulteriormente ampliare fino a ipotizzare relazioni immaginarie, fatte di idee o ideologie. È straordinaria la relazione che intercorre tra un eremita e il suo Dio: una entità che talora prende corpo e si fa persona per condividere fisicamente una grotta sulle montagne. È il grande capitolo della relazione con il sacro: Santa Teresa d'Avila divide la propria cella con il Cristo crocefisso e lo vede distaccarsi dalla croce per unirsi a lei in un abbraccio infinito e passionale. Anche con le ideologie si possono stabilire legami esclusivi, di un fanatismo che ricorda l'amante che vede la bellezza nella propria donna e solo in lei: legami che possono indurre una totale dipendenza, che non ci permette di vivere senza di essi. È la relazione il punto fondamentale del comportamento umano: la modalità di percepire l'altro e dunque di porsi nei confronti del mondo e del suo significato. Le relazioni fanno parte del vissuto e quindi di un'esperienza individuale che sfugge a ogni misurazione che volesse avere il carattere dell'obiettività. Il singolo misura il mondo in modo assolutamente soggettivo e non classificabile: tale soggettività può portare a confondere una persona con un oggetto, o per lo meno a considerarli equivalenti.

4. L'oggetto transizionale

Ognuno di noi, in qualche momento della propria esistenza, ha sperimentato un legame con un oggetto. Di solito si tratta di un ‛oggetto transizionale', ossia di una cosa che sostituisce una persona. Il ‛dono' ha talora la funzione di parlare del donatore anche in sua assenza; nel caso di una fotografia, si avrà anche una sostituzione visibile. Purché caricato di particolare significato, un segno potrà sostituire anche un'idea, un'ideologia, un credo religioso: si può inserire un distintivo dentro l'asola della giacca, tenere da qualche parte una medaglietta che rappresenti la Madonna o il Padre Eterno. Gli esempi sono infiniti: dalla classica coperta di Linus al fazzoletto che il tenore Luciano Pavarotti tiene nella mano sinistra durante le sue esibizioni canore.

Il rapporto persona-oggetto acquista un particolare significato quando si parla dell'abuso di sostanze stupefacenti: è sempre indispensabile decodificare il significato di quell'uso e dunque occorre chiedersi se non rappresenti in qualche modo un oggetto transizionale. In questo senso si è parlato della droga come del latte materno, a simboleggiare il bisogno di una madre, del suo aiuto. Occorre sempre valutare se la sostanza stupefacente non sia la maschera di una persona, se essa esprima il bisogno di una relazione che viene simbolizzata dal momento che non è possibile goderla direttamente. Molte volte la droga è l'effigie di una persona assente, di un bisogno relazionale che si è inaridito fino a farsi polvere e sostanza chimica. Si tratta di bisogni ‛spostati', ed è ciò che si verifica, ad esempio, quando un bambino, non potendo giocare con la mamma, si accontenta di un oggetto che questa gli ha regalato. In questo modo si sostituisce una relazione umana con una cosa. La droga va dunque inserita tra le relazioni uomo-oggetto.

Questo rapporto sostitutivo è evidente nel mondo giovanile. Se un giovane non è protagonista nel quotidiano e dunque non riceve anche piccole gratificazioni, tenderà a compensare tale mancanza con gesti eclatanti ed eroici. E così egli diventa lo pseudoeroe del sabato sera, dei giochi ad alto rischio che si traducono in sfide mortali.

Analogamente può essere considerato il fenomeno droga: sostituto di relazioni umane mancate o comunque assenti. Se molti giovani fossero aiutati dai genitori a controllare e superare le proprie paure, non diventerebbero drogati, perché non avrebbero necessità di difendersi con strumenti chimici.

È ampiamente dimostrato che l'abuso di alcool fino alla dipendenza è legato alla malinconia e alle varie manifestazioni della depressione. Poiché nessuno aiuta chi si sente momentaneamente incapace e si svaluta, allora ci si rivolge all'alcool che immediatamente dà un po' di sicurezza. Il lavoro che poteva essere svolto da una o più persone è stato sostituito da una sostanza chimica, il cui abuso può portare a danni fisici oltre che alla dipendenza di tipo psicologico.

5. Le sostanze tossiche

Riportando la nostra attenzione alle sostanze stupefacenti, si deve affrontare un altro tema generale: quello dei criteri in base ai quali si distingue un tossico da un farmaco e da un placebo (inteso come sostanza neutra, cioè senza effetto). Si tratta di un tema di grande rilievo: basti pensare all'ipotesi di una normativa che voglia separare nettamente sostanze lecite e illecite, dannose o invece terapeutiche; il criterio adottato condizionerà gli elenchi compilati sul rischio di abuso e di danno. La storia della tossicodipendenza annovera molti esempi di sostanze passate dalla farmacopea alle liste dei tossici. La morfina ha rappresentato l'antidolorifico più usato ed è poi diventata, assieme all'eroina, una delle sostanze più dannose, la droga per eccellenza. Le anfetammine erano comunemente prescritte fino al 1966, inserite fra gli psicostimolanti: ci sono generazioni di studenti che le hanno assunte per vincere la fatica di un esame o lo stress. Sono entrate nella storia del Terzo Reich, perché venivano assunte dai piloti prima delle missioni, così come nella guerra del Vietnam venivano usate per aumentare l'attenzione dei piloti che dovevano volare a lungo. Oggi, uno dei loro derivati, l'ecstasy, è il prototipo dello ‛sballo' da discoteca.

L'effetto non è da attribuire soltanto alla composizione chimica, che fa sì che alcune sostanze siano stupefacenti e tossiche e altre terapeutiche, bensì alla quantità assunta. L'esempio più tradizionale è quello dell'alcool etilico: secondo alcuni, a basse dosi l'alcool è un alimento, mentre ad alte dosi diviene un tossico con massima azione sulle cellule del fegato e del cervello. Si calcola che oltre 30.000 persone all'anno muoiano per intossicazione diretta o indiretta da alcool etilico.

Considerazioni analoghe si possono fare per la nicotina, il cui effetto, misurato sulla mortalità, è ancora più drammatico: ben 80.000 morti all'anno. Sul parametro della quantità, molte sostanze consumate d'abitudine diventerebbero proibite. E ciò vale per molti farmaci: la streptomicina a dosaggi elevati ha effetti altamente tossici sull'apparato uditivo; le benzodiazepine, che controllano le crisi d'ansia, a dosaggi venti-trenta volte superiori a quelli terapeutici possono causare la morte.

Un altro elemento che incide sull'effetto di una sostanza è la modalità di somministrazione: la stessa sostanza agirà in maniera differente se assunta per bocca o iniettata in vena, e in modo ancora diverso se inalata. Ecco perché quando si parla di una sostanza occorre sempre aggiungere in che dose e per quale via è stata introdotta nell'organismo.

I derivati della canapa indiana sono disponibili come marijuana (l'apice delle foglie della pianta femminile) o come éashêsh (la resina secreta dalla pianta in una certa fase del suo sviluppo o l'olio che si ottiene per estrazione dalla resina). Fumando questi composti si otterrà un effetto enormemente differente a seconda della concentrazione di principio attivo, che è massima nell'olio e minima nella marijuana. L'olio di éashêsh è però anche iniettabile in vena e l'effetto non è solo quantitativamente ma qualitativamente diverso, con azione tossica nettamente differenziata. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

Occorre tuttavia affrontare un'altra dimensione del problema: la soggettività di ciò che viene definito tossico o terapeutico. È universalmente accettato che gli antibiotici esercitano un'azione terapeutica su un'infezione generale. La differenza tra rilievo obiettivo e soggettivo si riduce a entità che non sono in grado di capovolgere i giudizi: l'attesa potrà essere superiore rispetto al risultato, che in ogni caso rimane positivo e dunque terapeutico. Ben diversa è la valutazione di un'azione che riguardi gli aspetti psicologici o affettivi della personalità. Un farmaco tranquillante somministrato a un maniacale che si trova in pieno benessere e manca completamente della consapevolezza della malattia verrà considerato tossico dal paziente, il quale non solo non condividerà il giudizio del medico (obiettivo), ma farà di tutto per non assumere quel farmaco. Analogamente si può dire per l'alcool etilico: chi vive una condizione di emarginazione - sentendosi inadeguato all'ambiente, svalutato e perciò depresso - giudicherà l'azione di metamorfosi prodotta dall'alcool come terapeutica e non darà la minima importanza all'avvertimento circa i danni epatici e cerebrali che ne potranno conseguire. Ciò che per il medico è tossico viene soggettivamente valutato come terapeutico. Questa considerazione si può applicare anche alle altre droghe: per il soggetto che vive quotidianamente uno stato di frustrazione, di dolore psichico, di fallimento e che non riesce a intravedere una soluzione per le resistenze opposte dall'ambiente in cui si trova, l'eroina diventa una terapia che lo distoglie da ogni forma di preoccupazione e gli rende il mondo esterno lontano, come se non lo toccasse affatto; e anche se gli fosse dato per certo che l'uso dell'eroina lo condurrà inevitabilmente a morire, ciò non servirebbe a farlo smettere perché comunque la vita senza eroina è per lui un male peggiore. Insomma, le dimensioni del vissuto - che sono strettamente individuali - possono trovarsi in contrapposizione con ciò che su base statistica e scientifica viene considerato obiettivo: ne deriva che tentare di distogliere dall'uso di una sostanza adducendone la tossicità è illusorio, poiché il vantaggio soggettivo che essa offre è superiore al danno tossico paventato. In più, mentre l'effetto gradito al soggetto è immediato, quello temuto è spostato nel tempo e comunque lontano dall'esperienza attuale: tutto ciò rende problematica non solo la definizione di tossico in senso generale, ma ancor più la dimensione a cui rapportarla.

Da ultimo occorre ricordare che gli effetti sono ampiamente condizionati dalle attese che accompagnano l'uso di una sostanza: l'effetto placebo ne è la prova più evidente. L'attesa produce effetti in tutto sovrapponibili a quelli del farmaco assente: essa è riducibile a un atteggiamento psicologico che certamente ha un ruolo nella maggior parte delle azioni chimiche e persino in quelle meccaniche. Esiste un effetto placebo legato alla droga al punto che alcuni giovani provano la sua azione anche quando ne hanno assunto una quantità insufficiente a produrla. La dimensione soggettiva è dunque straordinariamente importante e oggi viene spiegata non più come risultato di meccanismi tipicamente psicologici, come la suggestione, bensì dell'attività biochimica. Sappiamo, per esempio, che un depresso è maggiormente soggetto a malattie organiche, incluso il tumore, rispetto a soggetti che siano in buon equilibrio affettivo o in stato euforico; ed è stato dimostrato che esiste un rapporto tra affettività e sistema immunitario, rapporto che può essere responsabile dei processi alla base delle malattie infettive e della moltiplicazione cellulare che, senza controllo, dà origine a un cancro.

La percezione degli effetti prodotti dalle sostanze di abuso è completamente diversa nei consumatori abituali e in coloro che non ne hanno mai assunte. Questi ultimi ne hanno una visione negativa, come se i consumatori fossero dei masochisti alla ricerca dell'autodistruzione. Si tratta di una visione che interpreta le preoccupazioni della società e che porta a demonizzare il fenomeno. I consumatori, invece, ne hanno una percezione positiva, al punto che essi tendono a parlare della loro esperienza in termini entusiastici, fino a considerarla una fonte essenziale di piacere.

È impossibile definire il piacere in termini non soggettivi, proprio perché il gusto ha amplissime variazioni, tanto che si può arrivare a provare piacere nel dolore e si può godere avvicinandosi sempre più alla morte. Vi è poi la dimensione prospettica: la società accusa le droghe di produrre effetti dannosi a distanza di anni, i consumatori si limitano al carpe diem e dunque all'esperienza singola nella quale il piacere presente prevale nettamente sulla percezione del possibile danno futuro. Non c'è dubbio che l'uso della droga trova una motivazione nella ricerca del piacere, che può anche significare compenso di frustrazioni abituali; il grado di piacere che ciascuno di noi prova dipende quindi anche dall'abituale condizione di frustrazione in cui vive. Il nostro stato d'animo attuale risente di quello precedente e quindi si può provare piacere per il solo fatto di essersi tolti un sassolino dalla scarpa.

La nostra società dovrebbe considerare il piacere con più attenzione, vincendo una componente fortemente luterana che è penetrata nella cultura di alcune regioni italiane. Se i giovani non trovano piacere nei loro impegni abituali, scuola e lavoro, cercheranno di procurarselo in altro modo, inseguendo esperienze strane, ‛eroiche'. Esiste un piacere dell'eroe, consistente nel cercare situazioni estreme nelle quali poter mostrare il proprio valore: l'eroe sfida la morte e percepisce il piacere proprio mentre sente vicina la propria fine. Talvolta i giovani sembrano cercare la morte come esperienza ‛esilarante' di vita.

Le campagne antidroga, basate sulla evidenziazione del pericolo di morte che l'uso delle droghe comporta, non hanno mai avuto alcuna efficacia, contribuendo semmai a eroicizzare il fenomeno. Il rapporto AIDS-eroina non ha spostato il comportamento dei consumatori abituali: al contrario, l'ha posto sul più alto piedistallo del coraggio. Un gruppo, sempre più ampio, di uomini e donne privilegia relazioni a rischio attraverso sia la sessualità che la droga; le ‛prove di coraggio' esprimono d'altra parte il desiderio di azioni che comportano un alto rischio di morte.

Il consumo di sostanze stupefacenti qualche volta è causa di morte improvvisa, come nell'overdose. Secondo alcuni studiosi, la droga produrrebbe costantemente, oltre a questi suicidi ‛rapidi', dei suicidi ‛lenti', al punto che la relazione individuo-sostanza potrebbe essere interpretata come un ‛abbraccio mortale'. Certamente la dipendenza è una morte sociale e psicologica, anche quando il corpo resiste: essa corrisponde dapprima a un restringimento e poi al soffocamento di tutte le potenzialità razionali e affettive che si possono esprimere nella propria esistenza.

Anche la morte viene percepita diversamente nel mondo adulto e in quello giovanile. Ciò dipende certamente dalla cultura, per esempio da come la morte viene rappresentata alla televisione o al cinema: la ‛morte spettacolo' non ha nulla a che fare con la reale fine dell'esistenza; essendo sempre immediata, non conosce il dolore, l'agonia, non attiva la nostalgia, ossia quel ritornare al passato trovando momenti significativi nel legame con chi ora sta per scomparire. La ‛morte spettacolo' è poi bella in termini estetici, non rappresenta più un mistero e neppure il dramma dello stesso esistere. È anche morte eroica, sempre inserita in gesta straordinarie, oppure addirittura transitoria, poiché chi muore in uno spettacolo ritorna in scena in quello successivo. Se è questa la percezione della morte che ha un giovane, essa perde gran parte della sua drammaticità e può persino essere ricercata. Dunque, l'affermazione che alla fine del percorso della tossicodipendenza non c'è altro che la morte non solo non aiuta a spaventare, ma può persino rendere quel viaggio ancor più affascinante. Ecco perché in ogni storia di tossicodipendenza personalità e società sono intrinsecamente connesse.

6. Intervenire prima della dipendenza

Negli ultimi anni si è affermata la tendenza a studiare il fenomeno dipendenza nella sua fase iniziale, seguendo quindi un criterio contrapposto a quello dominante, focalizzato sull'analisi delle caratteristiche della dipendenza ormai instaurata. Tale tendenza nasce dalla considerazione delle difficoltà incontrate nei tentativi di risoluzione terapeutica dello stato di dipendenza, difficoltà che hanno fatto ritenere più razionale un intervento basato su un piano preventivo. Rimane certamente possibile uscire dalla tossicodipendenza; tuttavia, anche nel migliore dei casi, rimangono evidenti cicatrici della malattia. Si deve ottenere l'interruzione del consumo e, dunque, la rottura del legame: e non è facile competere con la forza di quest'ultimo, sostituendogli terapeuticamente una relazione che, almeno nell'immediato, riesca a dare lo stesso risultato.

La strategia preventiva risulta di gran lunga più razionale proprio perché si attiva durante la fase del consumo occasionale o periodico e comunque quando il legame non si è ancora fortemente costituito. Abbiamo già ricordato che la dipendenza si instaura solo con l'uso continuativo, ritmato in modo che la sostanza sia sempre presente e attiva nell'organismo.

Analizzando nel tempo il percorso verso la tossicodipendenza, si rilevano le seguenti tappe: conoscenza della droga e di qualche amico che la usa, immaginazione di sé come consumatore, desiderio di provare, prova, desiderio di riprovare. Un processo che si svolge in gran parte nell'immaginario, un vero e proprio procedimento mentale, che è lo stesso che ritroviamo anche alla base della curiosità, dell'esperienza e dunque della conoscenza. Ciò permette di sottolineare in maniera decisa che la prima esperienza con la droga non ha nulla di patologico e può rientrare in quei processi di apprendimento che gli stimoli educativi finiscono per promuovere.

In una ricerca incentrata sulle caratteristiche della personalità di tre gruppi di adolescenti - il primo composto di individui che sostenevano di non aver mai usato alcuna droga e di escludere la possibilità di farlo in futuro; il secondo composto di consumatori; il terzo da chi ne aveva fatto uso qualche volta ma non aveva ripetuto l'esperienza - emerse, in maniera sorprendente, che il profilo di personalità più vicino alla normalità apparteneva al gruppo di chi ne aveva fatto esperienza ma non aveva stabilito una stretta relazione; il gruppo dei prevenuti mostrava i segni di una forte rigidità e i consumatori i segni di una personalità dipendente. Il problema dunque non è l'attrazione iniziale e l'eventuale prova, quanto piuttosto la capacità critica di analizzare l'esperienza, di attribuirle un significato e quindi di bloccare la scelta di ripetere l'assunzione. È diventato questo il punto su cui fondare il processo preventivo: una prevenzione che ha ancora carattere educativo e che quindi coinvolge la famiglia, la scuola e non certamente le strutture sanitarie. Queste ultime hanno avuto un'eccessiva importanza proprio per avere accentrato l'attenzione sulla dipendenza e, dunque, sulla malattia. Insomma, è come se prendessimo in considerazione l'uso delle bevande alcoliche nello stadio della cirrosi epatica: ci troveremmo di fronte a un rapporto esclusivo con medici e ospedale. L'attenzione va invece rivolta all'inizio dell'esperienza: si deve avere il coraggio di dire che un'esperienza attentamente criticata è meglio di un'esperienza negata perché proibita e severamente punita. Si lascia aperta una possibilità che ha il fascino del peccato. L'attenzione va diretta all'esperienza nel tentativo di controllare il bisogno di ripeterla. Tale bisogno ha assunto una denominazione specifica - craving - con la quale si intende il desiderio di assumere una sostanza di cui si siano provati gli effetti. Insomma, il desiderio acquista di specificità, è orientato verso quella sostanza e quindi promuove un'esplorazione che permette di ritrovare la sostanza e le condizioni per riprovare. Alla base del fenomeno della dipendenza vi è dunque il desiderio. Il desiderio è la capacità di un soggetto di immaginarsi diverso da come egli è in quel momento, una diversità che egli riscontra nelle condizioni che seguono l'uso di quella sostanza: dalla sensazione nell'immaginario partirà il progetto per poter realizzare nel concreto quella immagine di sé. Per la prevenzione dei comportamenti indesiderati è sempre necessario attuare una terapia basata sull'analisi del desiderio. Quando ci si trova di fronte a comportamenti estremi, come l'uccidere, si può constatare come l'omicidio avvenga spesso in una fase in cui è già stato più volte consumato ‛dentro la testa'. È nello spazio tra desiderio di assumere nuovamente una sostanza e la sua consumazione reale che si deve porre in maniera decisiva l'intervento preventivo, che non è un'azione di impedimento, ma prima di tutto di ascolto per cercare di capire ciò che spinge a provare di nuovo. Conoscendo queste motivazioni si potranno proporre alternative all'uso desiderato; la prevenzione è sempre intervento sui desideri. Essa si configura come un aiuto affinché la critica all'esperienza già fatta sia più puntuale e completa, un aiuto perché il singolo superi il proprio craving. Ogni impedimento esterno, la sostituzione, cioè, della volontà del singolo con un Super-Io, avrà una debole e temporanea efficacia.

7. La tossicodipendenza come relazione tra sostanza, personalità e società

La tossicodipendenza consiste, dunque, in una relazione tra un soggetto e una sostanza. Le modalità attraverso cui tale relazione si esprime dipenderanno dalle proprietà della sostanza e dalle caratteristiche specifiche della personalità, quest'ultima intesa come l'insieme degli elementi affettivi e intellettivi di ciascuno. È stato dimostrato che gli elementi caratterizzanti si delineano nel primo periodo della vita - in particolare nei primi tre anni - in cui si realizza il processo di identificazione-separazione: è in questa fase che si struttura la personalità di base che potrà poi arricchirsi ma che non cambierà facilmente. Gli effetti di una stessa droga saranno sperimentati in modo differente da un soggetto estroverso e da uno introverso; e naturalmente una identica personalità modificherà il proprio comportamento in maniera diversa se userà eroina o uno psicostimolante come l'anfetammina. Bisogna evitare l'estremo schematismo, proprio perché molte sono le tipologie della personalità e molte le sostanze con effetti tra loro opposti.

La relazione tra sostanza e individuo si svolge poi in una data società e quindi in una precisa cultura dalle quali sarà influenzata. Una cultura che accetti favorevolmente l'alcool e il tabacco farà più fatica a controllare la diffusione di nuove sostanze tossiche: incorrerà nella contraddizione di promuovere un superalcolico e, nello stesso tempo, di condannare l'uso dei derivati della canapa indiana. Una società rispettosa delle norme, e quindi con un preciso senso del limite, potrà invece controllare la diffusione di comportamenti antisociali in maniera più efficace rispetto a una società irrispettosa di ogni regola e principio. Analoghe considerazioni si potranno fare se uno Stato persegue in maniera decisa la lotta al traffico delle sostanze proibite o se invece dimostra disinteresse e magari connivenza. Da queste osservazioni si può desumere che la tossicodipendenza è sempre il risultato di tre fattori: il consumatore, la sostanza usata e l'ambiente sociale in cui questa relazione si esprime. È necessario analizzare sempre tali fattori, non solo per capire il caso, ma anche per programmare ogni intervento terapeutico. Se la spinta motivazionale principale nasce da un disagio familiare, è chiaro che assieme all'interruzione dell'uso della sostanza si dovrà tendere a rimuovere o a elaborare la situazione che contribuiva a promuoverlo, intervenendo su quel desiderio di fuga che ha preso il ‛treno' della tossicodipendenza. Questo criterio dovrà chiudere l'inutile dibattito sulle responsabilità, che ora vengono fatte gravare sul soggetto, ora sulla disponibilità della droga al mercato nero, ora sulla micro- e macrosocietà. Si dovranno prendere in considerazione tutte e tre le componenti e verificare l'importanza di ciascuna nel caso specifico: è evidente che se il fattore sociale fosse quello predominante, su di esso dovrebbe essere incentrato l'intervento terapeutico; se invece si trattasse della personalità, occorrerebbe intervenire per modificarne caratteristiche e struttura. Per questo motivo ogni intervento dovrà necessariamente essere personalizzato, come del resto accade sempre nella prassi clinica.

Dalla società dipende anche la maniera in cui viene percepito il tossicodipendente; ne derivano anche i criteri previsti per il suo trattamento. Negli anni 1968-1969, quando il fenomeno della droga assunse un nuovo volto, era in vigore una legge del 1954 che poneva sullo stesso piano consumatore e spacciatore: veniva punito chi ‟comunque detenga" sostanze stupefacenti. Sotto questa legislazione il consumatore veniva dunque condannato alla detenzione, prevista per un minimo di tre anni. Si avvertì subito la necessità di una modifica, per la cui realizzazione si dovette comunque aspettare fino al 1975, quando una legge che aveva come principio ispiratore la cura - e che quindi separava nettamente lo spaccio dal consumo - depenalizzò il consumatore in quanto malato, inviandolo a specifiche strutture sanitarie. Questa nuova legge interpretava l'atteggiamento sociale diffuso, che era divenuto contrario alla punizione. Ben presto si sviluppò però una nuova reazione, favorita dalla facile giustificazione di ogni consumo e dalla constatazione che lo spacciatore dimostrava di essere sempre un consumatore per godere della comprensione sanitaria. A distinguere il consumatore dallo spacciatore sarebbe dovuta servire la ‟modica quantità", ossia un certo quantitativo di sostanza detenuto per uso personale, che nella pratica non si è mai riusciti a quantificare con esattezza e che pertanto fluttuava ampiamente. A questo punto vi fu un ulteriore cambiamento di mentalità, con il riaffermarsi di un orientamento punitivo: la nuova legge del 1990 è infatti decisamente punitiva, anche se in modo mascherato: essa propone la cura come alternativa al carcere e in questo caso affida il consumatore a una comunità. In tal modo, la legge più recente interpreta adeguatamente il vissuto sociale, che - in modo ambivalente - sostiene sia l'ipotesi dell'assistenza, sia quella della punizione esemplare. Un atteggiamento che nella pratica impedisce di punire così come di curare.

Queste variazioni di rotta, nel breve periodo di venticinque anni, hanno generato una schiera di operatori delle tossicodipendenze, ora intesi come operatori sanitari, ora come educatori. Sono nate organizzazioni ospedaliere con gerarchie professionali, dai primari agli assistenti, nonché numerose comunità condotte con i criteri più disparati e non sottoposte a controllo. Si è formato così un piccolo esercito di operatori dipendenti dalle tossicodipendenze; i tossicodipendenti hanno bisogno della droga e gli operatori dei tossicodipendenti, senza i quali entrerebbero in una crisi di astinenza sociale, prima fra tutte la disoccupazione. Quando dominava il principio della cura e la delega era data ai medici si enfatizzò l'uso dei farmaci sostitutivi, rimpiazzando così il consumo di droghe illecite con l'approvvigionamento di droghe lecite (come il metadone); quando invece sono prevalse le teorie psicologico-ambientali, si sono limitati i farmaci e sono prevalsi approcci psicoterapeutici individuali e di gruppo, o sociali in comunità.

La tossicodipendenza, valutata nella prospettiva che abbiamo cercato di delineare, diventa uno stile di vita: e ciò serve anche a comprendere quanto riduttivo sia parlare solo di sostanze e di effetti farmacologici. La tossicodipendenza esprime un modo di vivere: si tratta perciò di un fenomeno caratterizzato da una dimensione esistenziale. Un fenomeno, quindi, in continuo mutamento proprio perché cambiano i giovani, la società e anche le sostanze, nel senso che a una se ne sostituisce un'altra in grado di promuovere delle mode; nell'ultimo decennio abbiamo assistito, in Italia, alla perdita di dominio dell'eroina e a una progressiva sostituzione (tuttora in corso) con sostanze stimolanti come la cocaina e i derivati anfetamminici, il più noto dei quali è l'ecstasy. Sotto la spinta delle nuove sostanze è cambiato il mercato e anche lo stile di vita.

L'eroina è definita una droga solitaria, perché produce un progressivo distacco dalla partecipazione sociale: un ‛ritiro' che riguarda anche gli affetti, come se il mondo fosse lontano, ovattato, non più coinvolgente e intrigante. Si tratta quindi di una sostanza che rende passivi, incapaci di reagire. Gli stimolanti sono invece di segno opposto e servono a dare una carica a tutte le funzioni vitali: incrementano il desiderio sessuale, la voglia di stare con il gruppo, di muoversi. Insomma sostanze socializzanti, che riducono persino il tempo dedicato al sonno, per seguire l'imperativo del ‛vivere'. Se è facile vedere il tossicodipendente da eroina che vaga per la città, assente, senza una meta, il consumatore di cocaina è invece iperattivo, in confabulazione, pieno di progetti anche se non riesce poi a portarli a termine.

Questo cambiamento è stato promosso da molti fattori: dagli interessi del mercato nero in primis, ma anche dalla campagna di lotta all'eroina, per i pericoli delle malattie da siringa, per il rischio di overdose, per le epatiti. Inconsapevolmente, la campagna antieroina ha promosso la cocaina e gli anfetamminici che non possedevano alcuna delle caratteristiche negative sottolineate. Non vengono somministrati per via endovenosa, sono stimolanti, permettono di mantenere un certo inserimento sociale (il lavoro, per esempio), non danno alcun segno esterno di malattia e così madri e padri sono ingannati da una apparente iperattività. Si tratta di un cambiamento che ha messo a soqquadro ogni presidio terapeutico organizzato per affrontare l'eroina, i cui metodi e principî non si adattano alle nuove sostanze e ai loro effetti.

Gli psicostimolanti si coniugano positivamente con la vita da discoteca, che richiede un impegno fisico considerevole, uno stress da rumore: la cocaina e in particolare l'ecstasy riescono a fornire l'energia per superare questa prova ‛eroica'. Si è così identificata una sostanza che favorisce lo stile del sabato sera, della discoteca, legato a una modalità eroica di trascorrere il fine settimana nel tentativo di compensare giorni consumati senza gratificazioni. Si sopporta la quotidianità proprio perché si pensa e si parla del sabato sera, del vero momento vitale, aiutato dagli psicostimolanti.

L'ecstasy interpreta uno stile di vita e lo favorisce: una situazione che testimonia come il fenomeno della tossicodipendenza non sia avulso dall'attuale momento storico e dalla presente società, ma ne costituisca una diretta espressione. È un errore pensare che questo fenomeno si risolva con la sola eliminazione delle sostanze, dal momento che esse sono un segno della visione del mondo e della crisi in cui versano i giovani del nostro tempo. Il problema centrale sono i giovani in questa società, e solo se si capiranno e soddisferanno i loro bisogni il fenomeno della tossicodipendenza verrà ridimensionato, sperabilmente fino a perdere di attualità. L'errore è di inseguire i sintomi periferici tentando di eliminarli attraverso la creazione delle squadre antidroga, di quelle per impedire la violenza negli stadi, di quelle per combattere le bande minorili, e così via; si tratta invece, evitando ogni legge speciale, di riattivare le famiglie e le scuole, i quartieri e lo Stato perché si promuova un sistema di vita che tenga conto anche dei giovani, dei loro bisogni e desideri. Gli interventi speciali sono la prima espressione del fallimento, poiché indicano che si è ancora lontani dalla comprensione del fenomeno e si agisce non sulle sue cause, bensì solo sui suoi effetti.

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