TRAPIANTI

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1981)

TRAPIANTI

Gino Doria
Fabrizio Trecca

. Biologia. - Introduzione. - I t. di organi, tessuti, o cellule suscitano da molti anni l'interesse di medici e biologi. Infatti, è molto antica l'idea di sostituire parti malate del corpo con le stesse parti sane prelevate da un donatore della stessa specie o di specie animale diversa. Questa speranza è però stata quasi sempre delusa dalla constatazione del rigetto del trapianto. Le ragioni di questi insuccessi non derivano dalle difficoltà di ordine tecnico relative al prelievo, alla conservazione e all'atto chirurgico del trapianto: queste difficoltà per numerosi organi e tessuti sono state infatti superate con soluzioni adeguate e soddisfacenti. La causa del rigetto dei t. è di natura biologica ed è stata identificata in differenze genetiche e antigeniche fra donatore e ricevente, tali da determinare l'insorgenza nel ricevente di una reazione immunitaria che provoca la morte e il rigetto del trapianto. Infatti, se si trapianta un tessuto come la cute fra individui antigenicamente identici, il t. viene nutrito dai vasi dell'ospite, persiste, e funziona idefinitamente. Se, invece, donatore e ricevente sono diversi così che la cute del donatore possieda antigeni assenti nel ricevente, il t. ben presto diventa sede d'infiammazione: il derma diventa edematoso e infiltrato da linfociti e macrofagi, la circolazione sanguigna si arresta, i vasi si rompono, l'epidermide si sfalda, le cellule della cute e quelle immigrate dall'ospite muoiono, e infine il tessuto trapiantato, ormai diventato necrotico, viene eliminato e sostituito dall'epidermide rigenerante dell'ospite.

La reazione di rigetto del t. è di natura immunologica. Infatti, mentre un primo t. di cute può essere rigettato in circa due settimane, se si pratica un secondo t. proveniente dallo stesso donatore o da individuo ad esso identico il rigetto avviene in un tempo più breve (risposta secondaria), anche se l'intervallo di tempo fra i due t. è stato molto lungo. La reazione immunitaria di rigetto è sistemica, così che un secondo t. proveniente dallo stesso donatore subirà un rigetto accelerato indipendentemente dal sito anatomico in cui sarà stato trapiantato. L'accelerazione del rigetto è specifica per successivi t. provenienti dal primo donatore o da individui ad esso identici, e non si verifica per t. incompatibili antigenicamente diversi dal primo. Gli antigeni che inducono nell'ospite la reazione di rigetto del t. sono denominati antigeni dell'istocompatibilità e sono controllati geneticamente. Pertanto, il destino di un t. dipende da due fattori fondamentali: il primo riguarda le differenze genetiche e antigeniche fra donatore e ricevente, il secondo riguarda i fenomeni immunologici che provocano il rigetto.

Istocompatibilità. - L'istocompatibilità e l'istoincompatibilità sono le proprietà biologiche da cui dipendono rispettivamente l'attecchimento e il rigetto di un dato t. in un determinato ospite. Un t. è definito istocompatibile se tutti i suoi antigeni sono presenti nell'ospite, istoincompatibile se possiede antigeni assenti nell'ospite. Nel primo caso, il t. attecchisce indefinitamente, nel secondo caso può essere rigettato dalla risposta immunitaria dell'ospite.

I t. possono essere classificati con diversi criteri: 1) con riferimento alla relazione genetica fra donatore e ricevente, donde la seguente distinzione: a) isotrapianto, o t. isogenico o t. singenico, quando donatore e ricevente sono geneticamente identici (nella specie umana è il caso dei gemelli monocoriali); b) allotrapianto o t. allogenico, quando donatore e ricevente appartengono alla stessa specie animale ma sono geneticamente diversi; c) xenotrapianto o t. xenoenico, quando riguarda individui di specie diversa; 2) con riferimento alla regione anatomica in cui l'organo prelevato viene trapiantato: a) t. ortotopico, se la sede è la stessa; b) t. eterotopico, se la sede è diversa; c) t. ausiliario, se l'organo viene collocato nella stessa regione anatomica ma senza asportare l'organo preesistente, cosicché le funzioni dei due organi si sommano.

Le cause e modalità del rigetto dei t. sono state studiate principalmente nel topo, specie che meglio di altre consente l'allestimento di ceppi puri (inbred), ciascuno costituito da individui geneticamente identici. Gli esperimenti di t. di cute in topi ibridi di prima (F1) e seconda (F2) generazione derivati da due ceppi puri parentali (P) tra loro istoincompatibili (cioè che rigettano t. reciproci di cute) hanno dimostrato che l'attecchimento di cute P avviene in tutti gl'individui Fi mentre in individui F2 l'attecchimento è meno frequente del rigetto. Inoltre, il t. di cute Fi è sempre rigettato da individui P, mentre la cute F2 attecchisce sempre in individui F1. Secondo la teoria genetica (Little, 1914, e Haldane, 1933) che spiega questi risultati sperimentali, l'attecchimento di un t. di cute, così come di altri tessuti normali o tumorali, dipende da geni situati in numerosi loci cromosomici, definiti dell'istocompatibilità o loci H. Ciascun gene presenta numerose forme alleliche, tutte codominanti. La teoria genetica presuppone che a ogni allele corrisponda un singolo antigene dell'istocompatibilità sufficientemente "forte" da indurre sempre, in un ospite che ne sia sprovvisto, il rigetto del t. che lo possiede, e che non esistano prodotti antigenici d'interazione genica, allelica o non-allelica. Pertanto, se k è il numero di loci H a cui differiscono i due ceppi parentali, la frequenza di attecchimento di un t. parentale in riceventi F2 è (3/4)k. Così, è stato trovato nel topo che l'attecchimento di t. allogenici è controllato da una ventina di loci H autosomici e da loci dei cromosomi sessuali X e Y. La teoria genetica dei t. conserva la sua utilità anche se soffre di alcune limitazioni, come l'arbitrarietà del tempo prefissato per definire l'attecchimento di un trapianto. Altre limitazioni derivano dalla scoperta che a un allele di un locus H "maior" corrisponde più di un antigene "forte" e che esistono anche loci H "minor" cui corrispondono antigeni "deboli". Questi antigeni inducono rigetti molto lenti, sono meno efficaci in t. eterozigoti che omozigoti (dosaggio allelico), e possono produrre un effetto sinergistico quando esistano differenze a più loci H "minor".

La teoria genetica dei t. è basata su dati sperimentali ottenuti in animali di laboratorio selezionati secondo particolari schemi d'incrocio. In popolazioni naturali, come quella umana, è possibile applicare la stessa teoria genetica e calcolare la probabilità di attecchimento di un allotrapianto quando si conosca il grado di parentela fra donatore e ricevente e il numero di loci H per i quali essi differiscono. Il calcolo si applica solo a grandi popolazioni di individui in equilibrio genetico (legge di Hardy e Weinberg) che differiscano per geni H autosomici determinanti antigeni "forti". Consideriamo una popolazione di individui in equilibrio genetico che possano differire a un solo locus H con due soli alleli, Ai e A2, le cui frequenze siano rispettivamente p e q. Quindi i genotipi e le loro frequenze sono: A1A1, p2; A1A2, 2pq; A2A2, q2. Le probabilità di attecchimento per le principali combinazioni di donatore-ricevente sono le seguenti: tra individui scelti a caso, p4 + 2pq + q4; tra genitore e figlio, p3 + 2pq + q3; tra fratelli o sorelle, p2(p + =⃓q)2 + 2pq + q2(q + =⃓p)2. Poiché p + q = 1, la probabilità di attecchimento è minore nel primo caso, maggiore nel secondo, massima nel terzo. Se gl'individui della popolazione considerata differiscono a livello di un solo locus H con più di due alleli, e se gli n alleli sono equifrequenti, la probabilità di attecchimento di un allotrapianto per ognuna delle tre combinazioni di donatore-ricevente sono riportate nella tab. 1. Con l'aumentare del numero di alleli decrescono le probabilità di attecchimento e si açcentuano le differenze fra le tre combinazioni. Trattandosi di alleli equifrequenti, le percentuali tabulate sono valori minimi. Sia P la probabilità di attecchimento di un allotrapianto per una delle combinazioni di donatore-ricevente in una popolazione di individui che possono differire a un singolo locus H. Se, com'è stato dimostrato dagli esperimenti nel topo, esistono più loci H indipendenti, per es. k, la probabilità di attecchimento di un allotrapianto diventa Pk. Infatti, se donatore e ricevente sono due fratelli scelti da una popolazione di individui che differiscono a 20 loci H, a ciascuno dei quali esistono 2 alleli equifrequenti, la percentuale di attecchimento del t., che nel caso di un singolo locus H è 78,1, diventa (0,781)20 = 0,007 = 0,7%.

La classificazione dei loci H in "maior" e "minor" è basata sull'analisi del potere immunogenico degli antigeni controllati dai geni di ciascun locus H. Questa analisi immunogenetica è stata realizzata nel topo mediante t. fra individui congenici, cioè fra individui che differiscono soltanto a un singolo locus H denominato locus differenziale. Così, è stato visto nel topo che differenze antigeniche controllate dal locus H-2 inducono una risposta immunitaria che è più vigorosa di quella causata da differenze ad altri loci e difficilmente inibita da agenti immunosoppressivi. La predominanza di uno sugli altri loci H, come nel caso del locus H-2 del topo, trova riscontro anche in altre specie animali, come il ratto, il pollo, e l'uomo. Il locus H-2 per la sua maggiore rilevanza nel determinare il rigetto di un allotrapianto è stato più intensamente studiato degli altri loci e ha rivelato una notevole complessità. Contrariamente alla difficoltà con la quale differenze antigeniche ad altri loci inducono la formazione di anticorpi, è relativamente facile ottenere alloantieorpi contro specificità antigeniche controllate dal locus H-2 e presenti su eritrociti e leucociti. Infatti, mediante reazioni di agglutinazione ed emolisi con emazie o di citotossicità con linfociti è stato possibile scoprire e analizzare la complessità genetica del locus H-2. In ceppi inbred sono state identificate finora 56 specificità antigeniche controllate da alleli del locus H-2. Nei ceppi inbred si conoscono almeno 62 cromosomi con diverso H-2, ciascuno dei quali determina un gruppo di specificità o aplotipo. Molte di queste specificità sono comuni a più aplotipi derivati per ricombinazione o mutazione da 9 aplotipi geneticamente indipendenti. Lo studio di topi selvatici ha rivelato l'esistenza di almeno altri 30 cromosomi indipendenti diversi al locus H-2 dai 9 cromosomi dei ceppi inbred, suggerendo un esteso polimorfismo genetico per questo sistema. La rmolteplicità delle specificità antigeniche controllate dal locus H-2 indica che si tratta di un locus complesso, costituito da una serie di geni associati o pseudoalleli, ereditati in blocco, ciascuno dei quali determina almeno una specificità. L'idea che invece di un locus puntiforme si tratti di un complesso di regioni cromosomiche ha trovato conferma nella dimostrazione che entro il complesso H-2 può avvenire interscambio fra cromosomi omologhi con percentuale media di ricombinazione fra le due regioni estreme, denominate K e D, pari a 0,5. Gli antigeni H-2 rivelabili serologicamente e denominati SD (Serologically Defined) sono controllati dalle regioni K e D. Alcune specificità antigeniche sono dette private o sottotipiche perché ciascuna è limitata a un singolo cromosoma H-2 e alla regione K oppure D. La stessa specificità, tuttavia, può essere presente anche in altri cromosomi derivati da quello originario per ricombinazione o recente mutazione. Altre specificità sono dette pubbliche o supertipiche perché ciascuna è distribuita su numerosi cromosomi H-2 geneticamente indipendenti e può essere determinata a volte dalla regione K, altre volte dalla regione D, altre volte ancora dalle due regioni insieme. L'intervallo fra K e D è sufficientemente ampio da potere accomodare 500-1000 geni. Infatti si conoscono numerosi caratteri, diversi dagli antigeni delle regioni K e D, controllati da geni contenuti nel complesso H-2. Questi caratteri sono: variazioni quantitative e qualitative della sieroproteina Ss, differenze quantitative nella risposta anticorpale a certi antigeni, resistenza dell'ibrido a certi trapianti parentali, resistenza o suscettibilità a certi virus oncogeni. I geni che controllano i primi due caratteri sono stati mappati in due regioni del complesso H-2, denominate rispettivamente S e I; più incerta è la posizione per gli altri caratteri. Pertanto, a partire dal centromero le regioni del complesso H-2 sono disposte nel seguente ordine: K, I, S, D (tab. 2). I loci Ss e Slp della regione S controllano una β-globulina cui sembra essere associata attività complementare. La regione I ha sottoregioni A, B, J, E, C che controllano la risposta immune contro alcuni polipeptidi sintetici, alloantigeni, e proteine native a dosi limitanti. Animali che non possiedono un dato allele ai loci di queste sottoregioni non manifestano immunità cellulare e mostrano parziale o totale difetto nella produzione di anticorpi contro un determinato antigene. Ciascuno dei loci della regione I determina la presenza di alloantigeni denominati Ia, rivelabili serologicamente sui linfociti B e T, ma più facilmente sui B, su cellule epidermiche, macrofagi, e spermatozoi. Non sono stati trovati antigeni Ia in emazie, cervello, rene e fegato. Gli antigeni Ia sono diversi da quelli determinati dai loci H-2K e H-2D sia per la distribuzione cellulare (gli antigeni K e D sono presenti in tutti i tipi cellulari) sia perché sono polipeptidi con minore peso molecolare (30.000 invece di 45.000).

In colture miste di linfociti allogenici si osserva trasformazione in blasti e proliferazione. Questa reazione, denominata MLR (Mixed Lymphocyte Reaction), è determinata da differenze antigeniche controllate dal complesso H-2; essa è considerata l'equivalente in vitro della reazione di un t. allogenico di cellule linfoidi contro l'ospite, denominata GVHR (Grafr Versus Host Reaction). I geni per gli antigeni che stimolano la MLR sono separabili mediante ricombinazione da H-2K e H-2D e sono mappati, quelli più immunogenici nella regione I quelli meno immunogenici nelle altre regioni del complesso H-2. T. di cute fra topi congenici che differiscono solo nella regione I sono rigettati rapidamente. Questi antigeni non sono rivelabili serologicamente e sono denominati LD (Lymphocyte Defined) o LAD (Lymphocyte Activating Determinants). La capacità di dare luogo a MLR in colture di linfociti incompatibili per differenze antigeniche non controllate dal complesso H-2 è pure sotto controllo di un gene, denominato MLRC (Mixed Lymphocyte Reaction Capacitating), localizzato nel complesso H-2 ma senza, per ora, una precisa posizione. Linfociti che hanno manifestato una MLR possono lisare, in una seconda coltura, linfoblasti allogenici, identici o cross-reagenti coi linfociti stimolanti la MLR. Questa reazione litica, denominata CML (Cell-Mediated Lympholysis), avviene in assenza di anticorpi e complemento. Gli antigeni bersaglio nella CML sono quelli controllati da H-2K e H-2D, cioè gli antigeni dell'istocompatibilità rivelabili serologicamente e denominati SD. Infatti, linfociti che sono stati stimolati in una MLR da linfociti allogenici con antigeni LD diversi non manifestano CML contro linfoblasti che, pur avendo gli stessi antigeni LD dei linfociti stimolanti usati nella MLR, abbiano gli stessi antigeni SD dei linfociti stimolati. In generale, la positività della CML richiede una MLR positiva. La CML è considerata l'equivalente in vitro della reazione di rigetto del t. di cute.

Secondo l'Organ Transplant Registry compilato a cura dell'American College of Surgeons e dei National Institutes of Health degli Stati Uniti, il tipo e il numero di t. d'organo nel mondo eseguiti sull'uomo a partire dal 1953 fino al 10 maggio 1976 sono stati i seguenti (in parentesi il numero di t. ancora funzionanti e il tempo più lungo di sopravvivenza): rene, 25.108 (10.300; 20 anni); cuore, 309 (59; 7,5 anni); fegato, 268 (33; 6,2 anni); polmone, 37 (0; 10 mesi); pancreas, 49 (1; 3,9 anni). Il numero di loci e alleli dell'istocompatibilità nell'uomo è stato valutato dall'analisi dei dati di sopravvivenza di t. di rene e di t. sperimentali di cute. Tuttavia, anche nell'uomo, l'analisi genetica è complicata da alcuni fattori, come l'incertezza nello stabilire un limite di tempo per definire l'attecchimento o il rigetto del t., l'interferenza di differenze antigeniche deboli, e il trattamento immunosoppressivo nel caso dei t. di rene. I risultati sono compatibili con diversi modelli, quali un locus H con 304 alleli oppure due loci H l'uno con 4 l'altro con 8 alleli. È stato accertato che la sopravvivenza dei t. di rene e cute nell'uomo è maggiore tra fratelli o sorelle, intermedia tra padre e figlio, minima tra individui scelti casualmente (tab. 3). Il t. di rene tra gemelli monozigoti, tra i quali non è geneticamente possibile una reazione d'istoincompatibilità, ha mostrato un tempo di sopravvivenza molto lungo, in un caso 20 anni, benché non indefinito. Infatti, dopo il quinto anno si nota una diminuzione della frequenza degli attecchimenti, probabilmente per la ricorrenza della stessa malattia che ha colpito il ricevente, favorita dall'identica predisposizione genetica.

Nell'uomo le cellule del sangue possiedono antigeni della istocompatibilità comuni a organi e tessuti, quali il rene e la cute. Di qui l'importanza di tipizzare donatori e riceventi per la costituzione antigenica dei globuli rossi (sistemi ABO e P) e dei linfociti (sistema HLA) allo scopo di scegliere il miglior donatore.

Mentre nel topo l'iniezione di globuli rossi da donatore incompatibile per H-2 non sensibilizza contro un t. di cute dallo stesso donatore, nell'uomo è stato trovato che l'iniezione di globuli rossi da un donatore AB a individui O successivamente trapiantati con cute da altri donatori AB e O provoca rigetto accelerato del t. AB (risposta secondaria) e lento del t. O (risposta primaria). Se donatore e ricevente sono compatibili per il sistema ABO, l'incapacità dei globuli rossi a sensibilizzare contro un t. di cute indica che gli eritrociti non possiedono quantità significative di altri antigeni dell'istocompatibilità.

Il complesso HLA (Human Leucocyte Antigens) è molto simile a H-2 nel topo. Gli antigeni del sistema HLA non sono tuttavia presenti sui globuli rossi, ma sono distribuiti su leucociti e tutti i tessuti e organi finora esaminati. La tipizzazione per questi antigeni viene comunemente eseguita sui linfociti mediante un saggio citotossico con numerosi antisieri, ottenuti da donne multipare o da individui politrasfusi, per stabilire l'identità o il grado di cross-reazione antigenica fra le cellule del ricevente e quelle dei possibili donatori. La compatibilità per il sistema HLA favorisce l'attecchimento dei t., soprattutto tra fratelli o tra padre e figlio (in minor misura tra individui scelti a caso). Infatti si è visto che la sopravvivenza del t. di rene dopo 4 anni è 92% tra fratelli compatibili e 43% tra fratelli incompatibili; 81% tra padre e figlio compatibili e 68% tra padre e figlio incompatibili. Lo studio di famiglie e popolazioni ha rivelato che il sistema HLA è controllato da 3 loci geneticamente associati, denominati LA (HLA-A), Four (HLA-B), e AJ (HLA-C). La ricombinazione fra i loci estremi LA e AJ è 0,8%. Analogamente ai loci H-2K e H-2D, i loci HLA determinano gli antigeni SD. Anche nell'uomo come nel topo esiste un locus principale (MLC o HLA-D) che controlla gli antigeni LD rivelati dalla MLR. Questi loci sono mappati sul cromosoma 6 nel seguente ordine: centromero, MLC, Four, AJ, LA. Ciascun locus del complesso HLA possiede una serie di alleli codominanti. A ciascun allele corrisponde una specificità privata o sottotipica; esistono anche specificità pubbliche o supertipiche che sono comuni ad antigeni diversi ma determinati da alleli di una stessa serie. Ogni antigene è composto da due frammenti uniti non-covalentemente: l'uno è un glicopeptide di p. m. 30.000 nel quale risiede la specificità, l'altro è un polipeptide di p. m. 11.000-12.000 di struttura costante in antigeni codificati da loci diversi e molto simile alla β-2-microglobulina, una proteina presente nei linfociti umani. Questa proteina presenta molte omologie con la sequenza dei campi di 100 aminoacidi che compongono la parte costante delle immunoglobuline. Dalla capacità del campo CH3 delle immunoglobuline di legarsi alle membrane cellulari deriva il suggerimento che gli antigeni HLA siano unità di riconoscimento della membrana cellulare. Si tenga presente che la scelta del donatore di un dato organo basata solo sulla tipizzazione dei linfociti è resa incerta dalla possibilità che gli antigeni del sistema HLA non siano ugualmente distribuiti nei vari tessuti. Nel topo, infatti, diversi loci H controllano antigeni strutturalmente diversi che differiscono anche per localizzazione e concentrazione tissutale.

Nell'uomo, come nel topo, l'antigenicità dei linfociti del ricevente e del donatore può essere studiata anche mediante colture miste di linfociti (MLR). Quando questi sono allogenici, alcuni di essi si trasformano in linfoblasti e si dividono. La reazione è tanto più estesa quanto maggiore è la differenza antigenica fra ricevente e donatore. Per stabilire se la trasformazione è dovuta alla stimolazione dei linfociti del ricevente da parte dei linfociti del donatore o viceversa, si può bloccare con mitomicina la reattività di una delle due popolazioni cellulari. Con la tecnica della MLR è stato visto che combinazioni di linfociti di individui identici ai loci A, B e C del sistema HLA manifestano una reazione positiva, molto spesso se gl'individui sono geneticamente non correlati o solo nell'1% dei casi se fratelli o sorelle. Se, invece, gl'individui non sono identici a questi loci del sistema HLA la reazione è quasi sempre positiva e di notevole entità, sia che si tratti di individui geneticamente correlati o non correlati. Questi risultati, oltre all'esistenza di alcuni casi di reazione negativa fra linfociti di fratelli o sorelle incompatibili ai loci A, B e C hanno permesso d'ipotizzare l'esistenza del locus MLC nell'uomo. L'importanza di questo locus per l'istocompatibilità è sostenuta dall'osservazione di un prolungamento dell'attecchimento di t. di cute fra donatori e riceventi i cui linfociti siano negativi nella MLR. Tuttavia, poiché il massimo prolungamento dell'attecchimento si osserva quando donatore e ricevente sono identici sia nei loci A, B e C sia nel locus MLC, la tipizzazione dei linfociti per i due tipi di antigeni SD e LD diventa necessaria per la scelta del miglior donatore. L'importanza dello studio dei due tipi di antigeni SD e LD è sottolineata anche dai risultati ottenuti nella CML (Cell Mediated Lympholysis) con linfociti umani. Infatti anche nell'uomo, come nel topo, gli antigeni LD sono i più importanti per l'iniziale attivazione e proliferazione cellulare nella MLR, nella quale si generano le cellule effettrici per la CML. Tuttavia, l'azione litica nella CML non sembra diretta contro gli antigeni LD bensì contro gli antigeni SD. Pertanto, nel caso di trapianto incompatibile, gli antigeni LD potrebbero essere responsabili della sensibilizzazione dei linfociti del ricevente, mentre la presenza degli antigeni SD sarebbe necessaria per l'azione citotossica dei linfociti sensibilizzati con conseguente distruzione e rigetto del trapianto.

Rigetto. - Nella maggior parte dei casi il rigetto di un allotrapianto di organo o tessuto solido è dovuto alla diretta partecipazione di cellule linfatiche. È stato dimostrato che un allotrapianto di cute B, attecchito permanentemente in un ospite A reso ad esso immunologicamente tollerante, può essere rigettato se l'ospite è iniettato con cellule di linfonodi o milza provenienti da animali di ceppo A immunizzati da un allotrapianto di cute B. Le risposte immunitarie che portano all'eliminazione di t. di organo o tessuti solidi sono spesso associate a un'infiltrazione di cellule mononucleate, in particolare linfociti e macrofagi, che sono responsabili del rigetto. I linfociti sensibilizzati dagli antigeni dell'istocompatibilità originano nelle aree linfatiche timo-dipendenti, cioè nella zona paracorticale dei linfonodi e nella zona periarteriolare della polpa bianca della milza. Per stimolazione antigenica i piccoli linfociti di queste zone si differenzimo in immunoblasti che proliferano generando una larga popolazione di piccoli linfociti circolanti che possono raggiungere il trapianto. Dai risultati di esperimenti in vitro si può desumere che i linfociti sensibilizzati esercitano un'azione citotossica diretta sul t. o mediata dalla liberazione di linfotossine. Inoltre, a seguito della reazione con gli antigeni del t., i linfociti sensibilizzati liberano sostanze capaci di richiamare e arrestare nel t. i macrofagi dell'ospite e di stimolare l'attività fagocitaria di queste cellule. Risultato di questi fenomeni è la morte del trapianto. Il rigetto di un t. è accompagnato dalla comparsa di anticorpi nel siero del ricevente che possono reagire col t. o, in vitro, con altre cellule del donatore. Gli anticorpi circolanti, tuttavia, non sono quasi mai responsabili del rigetto del trapianto. Infatti siero prelevato da animali di ceppo A immunizzati con un allotrapianto di cute B e iniettato a ospiti A che hanno ricevuto un t. dallo stesso donatore B non accelera il rigetto di questo trapianto. La presenza di anticorpi circolanti non solo non provoca quasi mai il rigetto ma spesso favorisce l'attecchimento di un t. incompatibile. È possibile che anticorpi non citotossici combinandosi con gli antigeni cellulari del t. li mascherino e proteggano dall'attacco dei linfociti sensibilizzati. Bisogna ricordare, tuttavia, che allotrapianti di cellule dissociate, linfoidi o epiteliali, sono rapidamente eliminati da anticorpi circolanti. Inoltre, allotrapianti di rene in individui già sensibilizzati sono frequentemente rigettati da anticorpi. T. xenogenici di cute quasi sempre sono rapidamente eliminati da una risposta anticorpale; molto più raramente anche t. allogenici di cute possono essere rapidamente rigettati da anticorpi. La risposta immunitaria che comunemente provoca il rigetto dei t. è una tipica risposta d'ipersensibilità di tipo ritardato come quelle che si manifestano nelle infezioni microbiche o nel rigetto dei tumori. Il significato biologico di questa forma di reattività che si oppone all'arbitrio di un t. incompatibile può essere trovato nel valore selettivo del meccanismo di difesa dell'organismo contro il mondo microbico in cui si è evoluta la specie oppure nella funzione di sorveglianza che il sistema immunitario esplica verso l'insorgenza di mutanti somatici, per es. cellule tumorali, eliminandoli e mantenendo costante il fenotipo dell'organismo.

Alcuni tessuti incompatibili privilegiati possono essere trapiantati con successo e alcuni siti privilegiati possono accettare tessuti incompatibili senza reazione immunitaria. La resistenza al rigetto di allotrapianti di cartilagine sembra dipendere da uno strato protettivo di sialomucina che maschera gli antigeni e respinge mediante le sue cariche elettriche negative i linfociti sensibilizzati provvisti di cariche negative. Alcuni siti, come il cervello e la camera anteriore dell'occhio, sono privilegiati perché mancano di tessuto linfoide e possiedono particolari barriere contro il passaggio in circolo degli antigeni e l'ingresso dei linfociti sensibilizzati. Anche il feto e il trofoblasto (di origine fetale) possono essere considerati, per la presenza di antigeni paterni, un allotrapianto innestato nella madre. Si tratta di t. privilegiato perché normalmente non si osserva interruzione della gravidanza, nonostante che il trofoblasto nella specie umana sia continuamente in contatto con sangue materno fin dal momento della formazione della placenta. Il mancato rigetto del feto è stato attribuito a) a presenza di sialomucina sulle cellule del trofoblasto la quale maschera gli antigeni fetali e repelle i linfociti sensibilizzati; b) diminuita capacità immunitaria della madre durante la gravidanza per variazioni ormonali o perché cellule del trofoblasto passate nella circolazione materna inducono uno stato di tolleranza verso gli antigeni di origine paterna; c) impianto del feto in tessuto materno privilegiato per l'assenza di linfociti nell'endometrio.

Se un t. di tessuto allogenico o xenogenico contiene cellule immunologicamente competenti, queste possono reagire contro gli antigeni dell'ospite contrastando la reazione opposta di rigetto del trapianto. Se l'ospite è immunologicamente deficiente, per es. dopo panirradiazione con raggi X, e gli sono state iniettate cellule di midollo osseo o milza o altri tessuti linfatici prelevate da un donatore allogenico adulto, si può osservare la comparsa di una grave malattia, spesso mortale, dovuta alla reazione del t. contro l'ospite (GVHR). Analogamente, se un neonato immunologicamente immaturo, e quindi incapace di rigettare un t. estraneo, riceve cellule linfatiche allogeniche, esso manifesta un arresto della crescita e gravi danni del sistema linfatico dovuti alla reazione delle cellule trapiantate contro l'ospite. Anche la GVHR è una reazione d'ipersensibilità di tipo ritardato dovuta alla sensibilizzazione di linfociti T derivati dal trapianto contro gli antigeni dell'istocompatibilità dell'ospite.

L'immunità contro t. incompatibili può essere soppressa dalla somministrazione di cortisone, antagonisti dell'acido folico quali l'ametopterina, analoghi della purina quali la 6-mercaptopurina, raggi X, o siero antilinfocitario, cioè di agenti chimici, fisici, o biologici capaci di distruggere i linfociti dell'ospite. Si tratta di immunosoppressivi aspecifici, i quali debilitano tutte le capacità immunitarie dell'organismo, sia quelle per il rigetto del t., sia quelle per la difesa contro gli agenti patogeni dell'ambiente. La soppressione specifica della risposta immunitaria contro un t. senza alterare altre risposte contro altri antigeni, può essere realizzata sia per paralisi selettiva del sistema immunitario, esponendolo agli stessi antigeni del t. a dosi e tempi opportuni (tolleranza immunitaria), sia per protezione degli antigeni del t. dall'attacco dei linfociti sensibilizzati, somministrando anticorpi specifici a dosi e tempi opportuni (facilitazione immunologica).

Bibl.: R. Billingham, W. Silvers, The immunobiology of transplantation, Londra 1971; E. Thorsby, The human major histocompatibility system, in Transplant. Rev., vol. 18 (1974), pp. 51-129; J. Klein, Biology of the mouse histocompatibility-2 complex, New York 1975; G. D. Snell, J. Dausset, S. Nathenson, Histocompatibility, ivi 1976.

Chirurgia. - Ai fini terapeutici, al t. si ricorre per sostituire un organo gravemente e irreversibilmente lesionato con un organo sano proveniente da un altro soggetto, vivente o cadavere, appartenente alla stessa specie animale. L'organo viene connesso con il ricevente attraverso anastomosi vascolari (si ricostituisce, cioè, la via arteriosa di afflusso e la via venosa di scarico del sangue); e in alcuni casi (per es., rene e fegato), occorre anche ricostituire la via di eliminazione dei prodotti elaborati dall'organo trapiantato (ossia, nei casi esemplificati, uretere e vie biliari, rispettivamente).

La definizione di t. implica pertanto una distinzione tra questo e l'innesto. Nell'innesto non si eseguono delle connessioni vascolari e gli scambi avvengono per lo più per via linfatica tra ospite e tessuti trapiantati. In questo caso avverranno delle reazioni biologiche completamente diverse da quelle che si hanno in un organo trapiantato. Esempi tipici d'innesto sono rappresentati dalla sostituzione della cornea e dei lembi cutanei. T. e innesto rappresentano le forme della chirurgia più modema che è, appunto, quella sostitutiva, comprendente anche le sostituzioni di organo o parte di essi con organi artificiali. Autotrapianto è quel t. in cui il donatore è anche il ricettore.

Cenni storici. - La storia dei t. veri e propri risale all'inizio di questo secolo. L'austriaco E. Ulman nel 1907 tentò i primi t. di reni su cani e capre. A. Carrel mise a punto delle tecniche di anastomosi vascolari ancora oggi in uso nelle tecniche di trapianti. Nel 1950 A. Lawlor di Chicago eseguì il primo t. di rene di cui si abbia completa documentazione. Nel 1951 il francese M. M. Servelle trapiantò il rene di un ghigliottinato su una giovane ventunenne con rene unico congenito affetto da nefrite cronica ipertensiva. La paziente morì 19 giorni dopo l'intervento. Secondo altri autori il primo t. eseguito con pieno successo fu quello di rene compiuto da F. J. Murray tra gemelli monocoriali nel 1955. Gli organi finora trapiantati sono stati rene, fegato, polmone, pancreas, intestino, cuore. È stato anche trapiantato il midollo osseo e risultati interessanti si sono avuti affrontando il problema del t. del cervello.

Qui accenneremo soltanto agli aspetti chirurgici dei t., alle indicazioni, e allo stato attuale e alle prospettive degli organi artificiali.

Reperimento e conservazione degli organi. - Ai fini della terapia chirurgica, possibili donatori di organo sono gli esseri umani appena deceduti o viventi e i primati subumani.

È intuitivo che nel caso di persone viventi si può ricorrere soltanto agli organi pari, e, in pratica, al rene. Dal cadavere, in linea teorica, potrebbero essere prelevati tutti gli organi per il trapianto. Il prelievo deve avvenire non appena sia stata accertata la morte clinica e quindi entro il più breve lasso di tempo possibile. Nel caso delle altre specie, i primati subumani (babuino e scimpanzè) possono costituire una straordinaria fonte di organi. Ad essi si è ricorso per il rene e per il cuore in t. ausiliari. Un organo prelevato ad animale di altra specie può supplire egregiamente alle funzioni del corrispondente organo umano. Due reni di Pongidae, particolari specie di scimmie del peso di 40-50 kg, possono depurare un organismo umano del peso di 60-70 kg. L'elemento che differenzia la funzione renale di queste Pongidae da quella del rene umano è la bassa soglia di eliminazione di potassio, legata al tipo di alimentazione che comporta una cospicua eliminazione urinaria di tale elemento. È necessario ancora uno studio approfondito e completo delle costanti fisiologiche, del metabolismo, dei fenomeni immunoematologici ed emodinamici di questo animale. Vanno inoltre risolti complessi problemi relativi alla istocompatibilità.

La conservazione degli organi comprende varie tecniche che consentono il t. senza che l'organo risulti danneggiato per un certo lasso di tempo che può essere teoricamente anche di qualche settimana. Fondamentalmente per questo scopo si ricorre all'ipotermia, alla perfusione contintia, alla somministrazione di ossigeno in iperbarismo e al rallentamento dei processi metabolici con mezzi farmacologici.

L'ipotermia, deprimendo tutti i processi metabolici, riduce il fabbisogno di ossigeno e di principi nutritivi. La tecnica dell'ipotermia, usata in modo isolato, porta l'organo a una temperatura di poco al di sopra del punto di congelamento.

La perfusione continua associata all'ipotermia ha permesso, nel caso dei reni, una buona conservazione per circa 48 ore. Per l'adozione di questa tecnica è necessario disporre di una buona pompa, di un ossigenatore, e di un liquido di perfusione rappresentaio da soluzioni sintetiche, plasma, crioprecipitati o soluzioni diluite di albumina umana.

L'uso di ossigeno iperbarico migliora l'ossigenazione tessutale, consentendo una diffusione più intensa.

Il rallentamento farmacologico del metabolismo è ancora poco più di un'ipotesi di lavoro, non potendosi al momento disporre di una sostanza farmacologica dotata di un effetto non solo sicuro ma irreversibile.

È stato anche prospettato il ricorso al "surgelamento", una tecnica tuttavia ancora irrealizzabile. Teoricamente, essa potrebbe consentire la conservazione per settimane e mesi permettendo quindi la realizzazione di "banche degli organi". In pratica, i problemi legati a queste metodiche appaiono di difficile soluzione, specie per ciò che riguarda lo scongelamento, dopo il quale non si ha una ripresa funzionale dell'organo in questione.

In conclusione, le attuali tecniche di conservazione concedono al chirurgo che deve eseguire il t. un periodo di tempo variabile dalle 24 alle 48 ore dal momento del prelievo, quindi un lasso di tempo più che sufficiente al trasporto di organi prelevati anche in nazioni diverse da quelle dove viene eseguito il trapianto.

Problemi di tecnica chirurgica. - I problemi chirurgici dei t. di organo non si esauriscono nel puro atto operatorio, e cioè nella semplice connessione vascolare e funzionale dell'organo nell'individuo ospite, ma - come è intuibile da quanto sopra esposto - abbracciano tutto l'iter che precede l'intervento vero e proprio. Scopo del chirurgo che esegue un t. è quello di ripristinare una situazione anatomica quanto più possibile simile alla normale, ricostruendo pertanto le connessioni vascolari e le eventuali vie escretrici.

Il t., come già ricordato, può essere ortotopico o eterotopico (ed eccezionalmente ausiliare). I t. di cuore, fegato, polmoni, intestino, sono del primo tipo; quelli di rene e pancreas del secondo tipo.

Questo genere di chirurgia deve rispondere a due esigenze ben precise: rapidità di esecuzione e funzionamento del trapianto. Fondamentale per il successo è la meticolosa organizzazione e programmazione degli atti operatori, sia del prelievo, sia del t. vero e proprio. Sono necessarie due équipes: una eseguirà il prelievo, l'altra il trapianto. La prima dovrà usare tecniche e accorgimenti affinché gli organi prelevati non corrano il rischio di divenire inutilizzabili: il prelievo va eseguito con tecnica rigorosa, tenendo conto delle diverse necessità anatomiche e funzionali del singolo organo. L'équipe che eseguirà il t. dovrà aver programmato in modo estremamente preciso i tempi necessari alla preparazione del ricettore, onde poter eseguire con tutta tranquillità il t. di organo. Nel caso del t. di rene (di cui sono stati oramai eseguiti oltre ventimila interventi) i risultati sono buoni e la pratica è entrata ormai nella routine clinica delle insufficienze renali, sia acute, sia croniche.

L'intervento viene attuato su pazienti che non possono essere curati altrimenti, e che non abbiano una delle rare controindicazioni all'intervento (emiplegia, nefropatia mielomatosa, ecc.). L'organo viene suturato nella fossa iliaca destra o sinistra, a seconda degli orientamenti dei vari autori. A circa cinque minuti dall'anastomosi tra arteria renale e arteria ipogastrica e vena renale con vena iliaca esterna, il deflusso urinario, dopo una fase di arresto, si ripristina spontaneamente; a questo punto si anastomizzano le vie escretrici renali con varie tecniche che mirano tra l'altro a evitare il reflusso di urina.

Il t. di cuore trova indicazione in pazienti in fase terminale con cardiopatie estese di tipo evolutivo, aneurismi gravi del ventricolo sinistro, cardiomegalie giganti.

La tecnica è quella messa a punto da N. Shumway e R. Lower. Ovviamente il donatore può essere solo un soggetto ormai deceduto. Sul recettore viene eseguito, in circolazione extracorporea, il distacco dei ventricoli dall'inserzione degli atri; l'aorta e l'arteria polmonare sono sezionate in prossimità delle cuspidi valvolari. Il prelievo dal donatore viene effettuato in toto, mantenendo una perfusione delle coronarie in ipotermia. Il t. viene eseguito anastomizzando la parete atriale del donatore e del ricevente; si passa poi all'anastomosi dell'arteria polmonare e dell'aorta. Ristabilita la perfusione coronarica, il cuore viene riportato a temperatura normale e le pulsazioni riprendono spontaneamente o dopo defibrillazione. I risultati sono discutibili anche se in parte sono stati positivi. Sebbene il rischio del rigetto sia minore per il cuore che per il rene, data la più semplice costituzione antigenica del primo organo rispetto al secondo, va però sottolineato che un deficit funzionale del cuore trapiantato comporta la morte, non essendo possibile disporre, come per il rene, di un apparato artificiale (v. emodialisi) che assicuri la sopravvivenza. Nel 1974 Ch. Barnard ha eseguito anche un t. eterotopico ausiliare. Al cuore malato del paziente è stato affiancato un nuovo cuore. Sono stati collegati tra di loro i due atri sinistri, l'aorta del donatore con quella del ricevente e infine l'arteria polmonare del donatore con l'atrio destro del ricevente.

In seguito sono stati eseguiti altri t. di questo tipo utilizzando anche cuori di babuino. L'intervento avrebbe il vantaggio di consentire l'asportazione del cuore trapiantato in caso di rigetto senza conseguenze letali.

Tumori epatici primitivi, atresia delle vie biliari, cirrosi epatica rappresentano indicazioni al t. del fegato, intervento che sull'Uomo è stato eseguito in oltre 200 casi, secondo la tecnica ideata da T. Starzl.

I risultati sperimentali sono migliori di quelli clinici, poiché il prelievo da cadaveri comporta un inevitabile danno ischemico. Il problema del rigetto è minore che per altri organi: fenomeno, questo, non ancora completamente chiarito e che viene attribuito ora a un minore potere antigene dei tessuti epatici, ora alla produzione di una globulina antirigetto originatasi dal fegato trapiantato, ora a uno stato d'immunità iperattiva indotta dal nuovo organo nell'organismo del ricevente.

Il t. del fegato può essere ortotopico, o eterotopico ausiliario (che non comporta l'epatectomia del ricevente ma che comunque, in caso di rigetto, non permette la sopravvivenza dell'ospite) o eterotopico suppletivo (che in caso di rigetto consente la sopravvivenza, non interferendo con la circolazione venosa intestinale).

L'intervento - che richiede la collaborazione di due équipes - consta di tre fasi, di cui le prime due sono sovrapponibili e riguardano l'exeresi del fegato del donatore e del ricevente. Si passa quindi alle connessioni del fegato con il ricevente: collegamento delle vie di deflusso e poi di quelle di afflusso; infine anastomosi biliodigestiva tra coledoco e duodeno (o tra coledoco e digiuno) per assicurare il deflusso biliare.

Il primo t. di polmone (1963) fu eseguito da J. Hardy su un paziente che sovravvisse 18 giorni.

Altri t. hanno avuto una sopravvivenza più breve. F. Derom ha destato sorpresa ottenendo una sopravvivenza di 10 mesi. Le indicazioni riguardano tutti i casi di grave e irreversibile insufficienza respiratoria conseguenti a enfisema, bronchiectasie, polmone policistico, silicosi, asbestosi e anche nel cancro del polmone, allorché una pneumonectomia totale non sia tollerata per le precarie condizioni dell'organo residuo.

Il t. del pancreas potrebbe risolvere il problema del diabete grave: con questa indicazione è stato eseguito da G. Kelly, nel 1967, il primo t. associato a quello renale.

Il pancreas è stato asportato in blocco con il duodeno e reimpiantato nella fossa iliaca sinistra. La rivascolarizzazione di questo t. eterotopico si è ottenuta anastomizzando segmenti di aorta con l'origine del tripode celiaco all'arteria iliaca comune, mentre la vena porta è stata anastomizzata alla vena iliaca comune. Sia la secrezione endocrina che quella esocrina sono apparse soddisfacenti anche se i pazienti sono deceduti nell'arco di quattro mesi. All'autopsia le isole di Langerhans si sono dimostrate ben conservate. Si richiede per questo tipo di t. la risoluzione di alcuni problemi di tecnica.

R. Lillehei nel 1967 ha eseguito il primo t. di intestino tenue su una donna di 46 anni colpita da infarto intestinale.

Circolazione sanguigna e movimenti peristaltici risultarono pressoché normali ma la paziente morì dopo 12 ore per embolia dell'arteria polmonare. Seguirono tentativi di altri autori, ma la maggiore sopravvivenza fu di tre mesi.

Scarsi risultati ha portato il t. di milza, eseguito per primo da T. Starzl su pazienti affetti da cancro all'ultimo stadio, col presupposto teorico di poter scatenare una reazione di tipo antiblastico.

Successivamente fu trattato un bambino con ipogammaglobulinemia congenita: la malattia non migliorò. Analogo deludente risultato si è avuto in un caso di emofilia.

Il cervello è l'organo immunologicamente privilegiato fra tutti; ciò deriverebbe, tra l'altro, dalla mancanza di un sistema linfatico e dalla presenza della barriera ematoencefalica. Il vantaggio immunologico è però controbilanciato da fattori altrettanto importanti, come l'incapacità del tessuto cerebrale a sopravvivere oltre un breve lasso di tempo all'arresto circolatorio o alla sottrazione del flusso ematico; per cui si richiede un immediato reinserimento metabolico nel letto circolatorio dell'ospite.

La complessa architettura vascolare extracranica rende difficile la scheletrizzazione di essa senza che si abbia da un lato la detrazione di flusso e dall'altro un'impalcatura vascolare riallacciabile al ricevente.

È infine necessario mantenere un soddisfacente bilancio omeostatico all'organismo del ricevente durante la rimozione di un cervello vitale dal donatore. Questi problemi sono stati in parte risolti da R. J. White di Cleveland.

In passato furono eseguiti esperimenti anche su decapitati. Il francese R. Lamborde perfuse la testa di un decapitato, e fino a otto minuti dopo la morte la stimolazione della zona di Rolando comportò qualche movimento facciale.

Gli esperimenti di W. Demikov suscitarono sensazione. Fu trapiantata tutta la porzione superiore di un piccolo animale su uno di taglia più grossa. Il t. dimostrò una reattività all'ambiente: la testa del piccolo animale beveva latte, mordeva la testa del ricevente e presentava altre manifestazioni indipendenti dall'ospite.

Gli studi più interessanti si devono comunque a White, il quale ha messo a punto una tecnica complessa per isolare completamente la circolazione cerebrale nel cane e nella scimmia. Il cervello così preparato viene mantenuto irrorato e vitale attraverso una macchina cuore-polmone che provvede appunto all'ossigenazione e alla circolazione ematica dell'organo. La vitalità è stata valutata secondo diversi parametri, tra i quali l'attività metabolica e quella encefalografica. Secondo White le prospettive di un t. cerebrale potrebbero risiedere nel t. di una testa in toto, che sarebbe tecnicamente più facile del cervello isolato.

Il bilancio che si può trarre dopo una ventennale esperienza consente di affermare che si tratta di interventi giustificati, che però vanno eseguiti solo in centri altamente specializzati. Il rischio operatorio che la chirurgia dei t. comporta è, in linea di massima, paragonabile a quello che si ha in complesse operazioni addominali o in quelle a cuore aperto. In alcupi casi il rischio è anche minore. La prognosi a distanza può essere in qualche modo paragonabile a quella degl'interventi palliativi per neoplasie maligne. Un giudizio più esatto sarà comunque formulabile solo fra qualche anno, allorché si potrà disporre di dati più idonei alla valutazione della sopravvivenza. Molto verosimilmente si arriverà al trattamento del rigetto. Per il reperimento degli organi forse si potrà disporre di primati subumani, selezionati geneticamente come donatori di organi.

Alternative al trapianto di organo. - Un'altra affascinante prospettiva della chirurgia sostitutiva nasce dello sviluppo delle moderne tecnologie, e quindi dalla possibilità di sostituire alcune parti del nostro corpo con apparecchiature artificiali.

La sostituzione di organi artificiali rappresenterebbe, secondo molti studiosi, un'alternativa ai t. di organo, non esistendo in questo caso il problema del rigetto. A questo innegabile vantaggio si contrappongono però delle difficoltà di ordine tecnico che per ora relegano questo ambizioso problema nel campo del futuribile. Appare insolubile, con la sola eccezione del cuore, l'applicazione permanente di un organo artificiale.

Esistono diverse condizioni morbose che determinano un danno di un organo con deficit grave e permanente di esso. In molti casi è possibile sostituire le funzioni temporanee e permanenti dell'organo.

Tra le sostituzioni temporanee ricordiamo l'impiego del rene artificiale (emodialisi), di respiratori artificiali e di varie macchine per circolazione extra-corporea. In altre situazioni si possono utilizzare strumenti tipo pace-maker, che normalizzano il ritmo cardiaco in modo permanente o per un lungo periodo, in caso di blocchi atrio-ventricolari. Si tratta di apparecchi miniaturizzati costituiti da elettrodi e da uno stimolatore del volume di un pacchetto di sigarette. Tale apparecchio viene inserito nel sottocutaneo del paziente e l'elettrodo può essere inserito o sulla superficie anteriore del ventricolo sinistro, previa toracotomia (pace-maker interno o pericardiaco) o attraverso la giugulare (pace-maker endocardico) fino all'apice del ventricolo destro. I pace-maker sono ormai di una perfezione tale da possedere la capacità di autoregolarsi, adattandosi al naturale ritmo cardiaco allorché il cuore funzioni normalmente o subentrando con una frequenza fissa (circa 70 impulsi al minuto) allorché si scateni la crisi (pace-maker on demande).

Esistono poi protesi per sordi, per laringectomizzati, e apparecchi per ciechi, atti a fornire al paziente, in base al principio del radar e del sonar, informazioni sulla distanza degli ostacoli, mediante stimoli acustici.

Tutti gli strumenti menzionati potenziano dunque o sostituiscono in parte permanentemente una data funzione di un organo, però lasciato in sito. Diverso è il problema allorché si voglia sostituire definitivamente un organo, o parte di esso, irreparabilmente compromesso.

A tale scopo è possibile sostituire segmenti vascolari, ossa e ricostruire articolazioni ricorrendo a strutture artificiali costruite con materiali assai diversi. Con tubi di dacron o di teflon, materiali flessibili, elastici e idropellenti si può sostituire l'aorta con le sue biforcazioni; è possibile ovviare a stenosi della carotide, ripristinare una circolazione efficiente in un rene ischemico per ostruzione all'arteria renale, ecc.

Per altre sostituzioni di organi o loro parti si ricorre anche a leghe metalliche, tra le quali più idonea sembra essere quella di vitallio (composta da cromo, cobalto, molibdeno).

Il metallo ideale per un impianto dev'essere inerte, incorruttibile, duttile e talmente resistente da sopportare, senza rompersi e senza piegarsi, le sollecitazioni a cui viene sottoposto. La gomma siliconata, silastic, può essere adoperata per una protesi mammaria o facciale, ma anche per ricostruire una trachea. Con questa sostanza si sta sperimentando la realizzazione di polmoni artificiali: facendo scorrere il velo di sangue sulla superficie di tubi, costruiti con questa sostanza e nei quali fluisca ossigeno, può avvenire una diffusione che sarebbe analoga all'ossigenazione.

Disponiamo di arti artificiali bioelettrici (v. protesi) in grado di compiere movimenti complessi come la rotazione del polso o la flessione e l'estensione delle dita; si sta studiando, mediante sistemi di feed-back, la possibilità di dotare le protesi di una "sensibilità" tattile o termica, di tipo cibernetico. In cardiochirurgia sono ormai da tempo sperimentate le valvole artificiali.

Nonostante i buoni risultati, sussistono però dei problemi: il pericolo di infezioni e di deconnessione delle protesi, l'emolisi e la trombosi che si determinano in conseguenza del contatto del sangue con i materiali costitutivi della protesi; la necessità d'impiegare materiali la cui resistenza deve ovviamente protrarsi per tutta la vita dell'individuo. All'interno del corpo umano esistono delle condizioni svantaggiose per la resistenza dei materiali; ciò vale per qualsiasi organo artificiale interno, sia per le sollecitazioni meccaniche, sia per la natura corrosiva dei liquidi organici con cui devono venire a contatto.

Queste difficoltà si oppongono attualmente alla realizzazione di un cuore artificiale totale completamente interno, che cioè possa essere inserito con la sua fonte di energia all'interno del corpo umano.

Va precisato ora che il cuore rappresenta l'unico organo che possa essere costruito artificialmente: ciò dipende dalla sua struttura relativamente semplice e dalla sua funzione eminentemente meccanica. Infatti, per gli altri organi, una realizzazione artificiale in grado di sostituire integralmente le funzioni, e per di più miniaturizzata (in modo da poter essere totalmente interna nell'organismo) appare per ora irrealizzabile.

Il rene normale, per es., svolge dei processi fisico-chimici di filtrazione, riassorbimento e secrezione molto complessi, che per il momento è assolutamente impossibile imitare artificialmente. Uguale discorso è valido ai fini del fegato e del pancreas, veri e propri laboratori chimici del corpo umano; per il cervello, poi, non è possibile nemmeno formulare l'ipotesi. Rimane dunque la possibilità di realizzare un cuore. Questo organo è una complessa pompa muscolare con un delicato sistema di valvole che imprime un flusso direzionale al sangue. La pompa possiede un suo sistema di controllo che ne regola ritmo e frequenza in maniera autonoma. La definizione di "cuore artificiale" può solo applicarsi a una protesi cardiaca totalmente impiantabile all'interno dell'organismo, così da consentire un reinserimento del portatore nella vita sociale; sono quindi esclusi altri dispositivi, di supporto alla circolazione, che implichino la presenza all'esterno di più o meno ingombranti apparecchiature di controllo o sistemi fornitori di energia. La realizzazione di un cuore artificiale implica evidentemente un complesso programma di collaborazione interdisciplinare. Oltre tutto, questo progetto è in parte vincolato da scelte politiche: per es., il plutonio, prescelto come combustibile per pile nucleari, è generalmente riservato per il funzionamento di apparecchiature militari e spaziali.

I problemi principali che riguardano la creazione del cuore artificiale sono dunque fondamentalmente tre: scelta dei materiali, delle fonti di energia e caratteri dei dispositivi di controllo. I requisiti del materiale sono fondamentalmente relativi alla durata (e quindi alla già citata resistenza di ordine meccanico e biologico) nonché agli eventi trombotici ed emolitici.

Buone speranze sembrano riposte nel silastic rinforzato da dacron. Il silastic non è permeabile e il sangue non vi aderisce, donde lo scarso rischio della formazione di trombi. Il dacron "velour" permette il depositarsi di fibrina proveniente dal sangue circolante, su cui ulteriormente si stratificano le cellule endoteliali, che tappezzano i vasi arteriosi e le cavità cardiache. Si costruisce in tal modo una "neoparete fisiologica" che riduce notevolmente il formarsi di coaguli all'interno di questi apparati meccanici.

Tutti i tentativi di sostituire il cuore con un dispositivo meccanico si dividono fondamentalmente in due categorie: sostituzione totale e parziale. La parziale è stata attuata ricalcando due principali modelli. Il primo è il ventricolo artificiale di M. De Bakey, azionato ad aria compressa e sincronizzato con l'azione del cuore in modo da scaricare il lavoro, permettendo il recupero delle fibre miocardiche. Il secondo è il booster heart di A. Kantrowitz, che consiste in un tubo di silastic senza valvole, inserito in una gabbia semirigida in cui viene pompata aria e anidride carbonica. Un'estremità è suturata all'aorta ascendente, l'altra all'aorta discendente. Entrambi i modelli, più che un cuore artificiale, rappresentano in definitiva una forma sofisticata di circolazione assistita.

Per la sostituzione totale, che implica ovviamente l'asportazione dell'organo naturale, sono state sperimentate oltre una trentina di modelli in pompe cardiache, ora azionate da motori elettrici, ora ad acqua o ad aria compressa. Per quanto riguarda la fonte di energia atta ad alimentare il funzionamento del cuore artificiale, bisogna considerare più requisiti, come la lunga autonomia e la compatibilità biologica.

Le fonti di energia da considerare sono in pratica di due tipi: fonti nucleari, per la loro forte concentrazione energetica, e pile a combustione biologica che si avvicinano alle fonti di energia derivate dal metabolismo umano.

Ricerche in quest'ultimo campo sono state abbastanza promettenti ma i risultati saranno valutabili soltanto tra alcuni decenni. Più probabile sembra l'applicazione nucleare, utilizzando pile che sfruttino il decadimento dei radioisotopi. Anche in questo caso i problemi da risolvere sono notevoli e tra i più disparati, andando dalla miniaturizzazione alla valutazione e quindi alla protezione degli eventuali danni prodotti nell'organismo dall'energia radiante.

I dispositivi di controllo di un cuore artificiale devono regolare fondamentalmente sei parametri: frequenza cardiaca, gittata cardiaca, grado di aspirazione, rapporti tra sistole e diastole, forma della curva pressoria.

Il dispositivo di controllo ha lo scopo in pratica di rispondere alle normali richieste dell'organismo e alle rapide modificazioni circolatorie indotte dalle esigenze funzionali sotto sforzo; da ricordare inoltre che va mantenuto un equilibrio costante fra la gittata dei due ventricoli, evitando gli effetti, assai pericolosi, di un ristagno di sangue a monte del ventricolo meno attivo. Tali dispositivi, infine, devono essere di dimensioni tali da poter essere inseriti nel corpo umano.

Tutti i cuori artificiali finora sperimentati sono stati del tipo esterno, nel senso che la fonte di energia era esterna al corpo del paziente e di notevoli dimensioni. L'applicazione clinica è stata di natura temporanea per risolvere fatti acuti d'insufficienza cardiaca.

In questi casi il cuore artificiale era l'unica possibilità per tenere in vita il paziente, come è accaduto in occasione del rigetto di un cuore trapiantato che fu di necessità asportato. L'esito fu comunque infausto.

Il cuore artificiale esterno rappresenta solo una tappa verso le soluzioni definitive di un organo interno. Un risultato più che promettente verso questo obiettivo è stato raggiunto sul finire del 1967 dal bioingegnere R. Bosio del Centro ricerche di bioingegneria di Castiglione Torinese.

In questo centro è stato realizzato un cuore modello FTA 56 N e applicato a una donna dopo un intervento di cardiochirurgia ad opera di M. Turina, della clinica universitaria di Zurigo. Anche in questo caso l'applicazione è stata del tipo esterno, ma le sue dimensioni e i principi che ne hanno reso possibile la costruzione, fanno ritenere che questo modello possa divenire il prototipo del cuore artificiale interno. È costituito da una pompa biventricolare, a forma pseudoellittica per ogni ventricolo, con membrana di silicone tubolare e valvole artificiali. La posizione della membrana viene regolata da un sensore a controllo elettronico. L'azione cardiaca dotata di regolazione automatica consente una distribuzione del volume sanguigno in modo equilibrato.

Bosio definisce il suo cuore artificiale "di tipo fluidico"; in altri termini le funzioni dell'organo artificiale vengono sviluppate utilizzando l'interazione dinamica dei fluidi (liquidi o gas) anziché elettricità o dispositivi meccanici.

Questo modello di cuore artificiale può essere anche definito un cuore bionico perché ispirato al più semplice dei cuori esistenti in natura: quello di certi animali inferiori, di tipo tubulare, ossia costituito da uno spessimento muscolare disposto come un manicotto lungo un'arteria; la contrazione del manicotto e l'esistenza di due valvole unidirezionali all'interno del manicotto stesso determinano e regolano il flusso del sangue, riducendo al minimo i vortici e le resistenze.

In conclusione, la chirurgia sostitutiva ha raggiunto, sia nel campo dei t. di organo sia in quello degli organi artificiali, risultati che solo pochi anni fa potevano sembrare fantascientifici; un'ipotesi per il futuro è estremamente problematica. Fra qualche decennio, forse, si addiverrà a una sorta di "ingegneria" biologica che contemplerà, accanto a modificazioni o trasferimenti di materiale genetico, anche la realizzazione di ibridi tra varie specie o tra varie macchine. Tutto ciò pone interrogativi di natura etica addirittura drammatici; ma il cammino della scienza è inarrestabile e non ha senso opporsi ad essa. È solo una questione di scelte da parte nostra e di libero arbitrio, affinché ogni progresso sia rivolto al bene dell'umanità.

Bibl.: Ch. N. Barnard, A human cardiac transplant, in Sud African medical Journal, 41 (1967), p. 1271; R. Cortesini, C. V. Casciani, Il trapianto d'organo, Torino 1968; T. E. Starsle, L. Bretschneider, G. C. Grotr, Recent development in liver transplantation, in Advances in transplantation, p. 633, Munksgaard, Copenaghen 1968; P. Stefanini, R. Cortesini, C. V. Casciani, Il trapianto del rene, in Recenti progressi in Medicina, vol. XLIV, n. 4, apr. 1968; T. F. Trecca, Concetti, realizzazioni e prospettive della bioingegneria, ibid., vol. L, n. 2, febbr. 1971; R. Lillehei, O. Ruiz, Il trapianto di intestino, in Clin. Chir. North America, 4 (1973), p. 1165; V. Mercati, S. Bartoccini, Z. Margiacchi, I trapianti d'organo, Perugia 1976.

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