Trasferimento del lavoratore

Diritto on line (2017)

Marina Brollo

Abstract

Il trasferimento del lavoratore costituisce uno strumento di flessibilità gestionale ma, nel contempo, è una vicenda complessa dato che vede contrapposti interessi produttivi-organizzativi del datore e interessi familiari-sociali del lavoratore, quindi è situata al centro del conflitto tra libertà e sicurezza. La norma-base è oggi contenuta nell’art. 2013 c.c., come modificato, nel 1970, dall’art. 13 st. lav., e confermato, nel 2015, dall’art. 3, del d.lgs. n. 81 (cd. Jobs Act). La normativa ricerca un punto di equilibrio fra gli interessi in gioco. Quest’ultimo, tuttavia, risulta influenzato dall’adattamento evolutivo coltivato, sul piano interpretativo, dalla giurisprudenza le cui sentenze riflettono l’evoluzione normativa e della negoziazione collettiva, il mutato contesto del mondo del lavoro e lo spirito dell’epoca della flessibilità e instabilità.

La modifica del luogo di lavoro

Il trasferimento del lavoratore consiste nella modificazione del luogo di svolgimento del lavoro, cd. “mobilità interna”, a carattere potenzialmente “definitivo”, cioè non temporaneo.

In base alle norme civilistiche, il «luogo dell’adempimento» può essere determinato dalle parti del contratto individuale oppure può desumersi dalla natura della prestazione (art. 1182, co. 1, c.c.). Combinando la previsione con gli obblighi di informazione del datore (v. infra, § 4) se ne deduce che la determinazione del luogo di lavoro all’atto dell’assunzione è precisata con un accordo: può svolgersi nei locali aziendali (fabbrica o ufficio) o fuori di essi (anche lavoro a domicilio (Lavoro a domicilio), telelavoro, smart working), a seconda del tipo di mansioni.

La modifica del luogo di lavoro (cd. trasferimento) – fino al 1970, in assenza di una disciplina legale – è rientrata nel normale esercizio del potere direttivo dell’imprenditore, all’epoca privo di specifici limiti e in un contesto di licenziamento libero. Sulla disciplina specifica, emanata in contemporanea con un irrigidimento del potere di licenziamento (l’art. 18 st. lav.), si rinvia al prossimo § 2.

Il trasferimento è una vicenda modificativa del luogo di lavoro importante e delicata per entrambi i contraenti: per il datore, è uno strumento di flessibilità (Flessibilità [dir. lav]) gestionale della forza lavoro, per cui è una leva per una gestione efficiente delle risorse umane; per il lavoratore, è un evento che coinvolge la sfera familiare, relazionale ed esistenziale, specie quando comporta il cambio di residenza.

Pertanto, può mettere in gioco interessi potenzialmente confliggenti anche in quanto calato in un contesto nazionale di scarsa mobilità territoriale a causa di noti fattori di freno derivanti da ragioni storiche, demografiche ed economiche.

Il trasferimento è anche una vicenda complessa sul piano fattuale e giuridico dato che, nella pratica, la modifica può trasformarsi in un’estinzione del rapporto di lavoro. Il trasferimento può anticipare o addirittura mascherare una risoluzione del rapporto di lavoro: sono numerosi i casi in cui il lavoratore si dimette a causa del trasferimento, oppure viene licenziato perché lo rifiuta. Dato il nesso inevitabile fra le norme limitative del licenziamento e quelle del trasferimento, su diversi aspetti la regolamentazione di quest'ultimo si è sviluppata all'ombra del progredire della prima.

Se così è, la recente rarefazione delle tutele del licenziamento – nei confronti di tutti i lavoratori (a seguito dell’art. 1, co. 37-42 della l. 28.6.2012, n. 92, cd. riforma Fornero, che ha riscritto l’art. 18 st. lav. e modificato la l. n. 604/1966), o solo dei nuovi assunti (a seguito dell’art. 1, co. 7 della l. delega 10.12.2014, n. 183 e del d.lgs. 4.3.2015, n. 23 sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti) – potrebbe avere ricadute importanti sulla disciplina del trasferimento, nel senso di aumentarne gli aspetti di adattabilità e di flessibilità.

Infine, si segnala che le innovazioni tecnologiche, in particolare quelle digitali, la globalizzazione e le nuove modalità produttive e organizzative stanno cambiando il profilo del perimetro spaziale dell’impresa. Ciò alimenta una duplice tendenza: da un lato, una iper-connessione dei lavoratori intrappolati in una totale dipendenza da digital device a casa o in qualsiasi altro luogo, con rischi di cd. tecno-stress dato che sfumano i confini tra vita privata e vita professionale; dall’altro, un tendenziale smembramento, frantumazione e frammentazione dei confini tradizionali del luogo di lavoro, anche con inedite figure di mobilità del lavoratore.

La disciplina legale del trasferimento del lavoratore

La norma base: l’art. 2103 c.c., co. 8

La prima regolamentazione organica del trasferimento trova posto nella disciplina del mutamento delle «Mansioni del lavoratore», cioè nell’art. 13 della l. 20.5.1970, n. 300, cd. statuto dei lavoratori, che riscrive l’art. 2103 c.c. La novella, bon grè mal grè, ha resistito all’usura del tempo: ancor oggi è la norma-base, dato che l’art. 3, del d. lgs. 15.6.2015, n. 81 (cd. Jobs Act ), nella revisione dell’art. 2103 c.c. – ribattezzato «Prestazione del lavoro» – ha confermato, per il trasferimento del lavoratore, la disciplina vigente, con l’unica novità di attribuirgli un comma autonomo, l’ottavo. Il nuovo art. 2103 c.c. disciplina la figura del trasferimento del lavoratore «da un'unità produttiva ad un'altra» (…) «per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive» (co. 8) e conferma la nullità di ogni patto contrario (co. 9).

Nonostante l’ambigua lettera della disposizione per cui il lavoratore «non può essere trasferito (…) se non per comprovate ragioni (…)», il legislatore bilancia i contrapposti interessi coinvolti, su un piano di proporzionato equilibrio: riconosce ad ogni datore di lavoro – imprenditore o non imprenditore, privato o pubblico (v. infra, § 2.3) – il potere di mutare il luogo di esecuzione della prestazione per garantire la più proficua utilizzazione spaziale del dipendente; introduce dei limiti volti a procedimentalizzare e restringere l'area di esercizio di quel potere a tutela del contrapposto interesse personale del lavoratore a non essere “sradicato” dal centro delle sue relazioni di lavoro, sociali e affettive.

Sin dalla versione statutaria, si è ritenuta confermata l'esistenza di un potere unilaterale del datore di modificare il luogo della prestazione lavorativa – inerente al potere direttivo, al potere organizzativo o allo jus variandi, secondo le diverse ricostruzioni privilegiate dalla dottrina – in ogni caso, senza il consenso del lavoratore. Ma tale potere non è più libero, bensì è irrigidito da una tecnica imperniata su una cd. “norma generale” analoga a quella prevista per il giustificato motivo obiettivo di licenziamento.

La questione più rilevante concerne l’individuazione, per un verso, del raggio di azione legittima del potere del datore e, per altro verso, della portata del diritto di resistenza del lavoratore. Sicché, l’interpretazione di questa norma ci pone al centro dello snodo cruciale del moderno diritto del lavoro, tra il co. 1 e il co. 2 dell’art. 41 Cost., cioè tra la libertà economica del datore e il diritto del lavoratore alla dignità umana, quindi al cuore del conflitto tra libertà e sicurezza.

È pacifico che la nullità di ogni patto contrario (co. 9, art. 2103 c.c.) riguarda gli accordi sia individuali sia collettivi, con qualche perplessità in merito alla portata della “contrarietà” dei patti. L'opinione più diffusa ammette la legittimità del trasferimento cd. “a domanda” del lavoratore, seppure con le dovute cautele di un controllo sulla validità del consenso prestato dal dipendente, in base ai principi generali sui vizi della volontà.

Le altre norme

Oltre i vincoli previsti, in via generale, dell’art. 2103 c.c. novellato, restano in vigore le altre disposizioni statutarie specificamente limitative del potere di trasferimento, ma in un nuovo contesto di indebolimento della tutela reale in caso di licenziamento illegittimo. Vanno, quindi, ricordati: l’art. 15, co. 1, lett. b ), st. lav. secondo cui è nullo qualsiasi patto o atto diretto a discriminare il lavoratore (anche) «nei trasferimenti» (declinati al plurale e senza riferimenti all’unità produttiva); l’art. 22 st. lav. che sottopone il trasferimento «dall’unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali unitarie» (durante e sino alla fine dell’anno successivo a quello dell’incarico) a nulla osta dell’associazione sindacale di appartenenza; l’art. 7, co. 4, che sembra vietare il trasferimento cd. disciplinare (v. infra, § 6).

In occasione del trasferimento, il datore ha l’obbligo di fornire al lavoratore l’aggiornamento della formazione obbligatoria, sufficiente e adeguata, in materia di salute e sicurezza (Salute e sicurezza sul lavoro) e, ove previsto, l’addestramento specifico (art. 37, co. 4, lett. b ), d.lgs. 9.4.2008, n. 81).

Infine, l’art. 8, d.l. 13.8.2011, n. 138, convertito con modifiche nella l. 14.9.2011, n. 148, attribuisce alla cd. «contrattazione collettiva di prossimità» (Contratto collettivo aziendale) la possibilità di realizzare – attraverso «specifiche intese», a livello aziendale o territoriale, con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati – deroghe alla disciplina fissata non solo nei contratti collettivi nazionali ma anche nella legge: lo fa, entro certi limiti e con precise finalità, per una serie di materie. Rispetto alla disciplina legale del trasferimento, le facoltà derogatorie si possono esercitare in almeno due possibili aree: di una semplificazione della nozione di trasferimento, anche facendo ricorso ad un criterio di mera distanza chilometrica (v. infra, § 3); di una tipizzazione delle ragioni oggettive di trasferimento (v. infra, § 5).

Il trasferimento nelle pubbliche amministrazioni: cenni

Per i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, all'originaria disciplina speciale del trasferimento, di cui all'art. 32 del d.P.R., 10.1.1957, n. 3, si sovrappone – ma solo per i lavoratori “privatizzati” – la nuova regolamentazione di cui al t.u. del pubblico impiego (d.lgs. 30.3.2001, n. 165 e s.m.i.).

Per un verso, l’art. 2, co. 2, del t.u. rinvia alle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato, quindi alla disciplina base del trasferimento di cui all’art. 2103 c.c. (v. infra, § 2.1).

Per altro verso, per l’art. 30, co. 1-2 (come novellato, da ultimo, dall’art. 4, d.l. 24.6.2014, n. 90, conv. con mod. della l. 11.8.2014, n. 114) del citato t.u., il trasferimento dei dipendenti pubblici può aver luogo nel contesto delle procedure, di complicata e tormentata regolamentazione, di mobilità obbligatoria e volontaria del personale nella stessa o in altre amministrazioni.

La nozione cd. “tecnica” di trasferimento

Ai sensi dell’art. 2103 c.c., è soggetto alla limitazione della necessaria giustificazione oggettiva il (solo) spostamento «da una unità produttiva ad un’altra»; da qui l’interesse e l’importanza dell'individuazione della nozione giuridica di trasferimento. Dato che la formula legale incardina il termine alla modifica in relazione all’unità produttiva, l’interpretazione prevalente opta per una nozione di trasferimento “in senso tecnico” che valorizza quale «elemento di qualificazione assorbente» (Liso, F., La mobilità dei lavoratori in azienda: il quadro legale, Milano, 263) il concetto di unità produttiva. Solo che quest’ultimo, a sua volta, risulta enigmatico e di non facile applicazione. Da qui una querelle che ha visto perdente la tesi “pluralista” e vincente quella di una nozione “unitaria” e generale dell’unità produttiva modellata sulla dimensione organizzativa (come articolazione organizzativa dotata di autonomia tecnico-funzionale: Cass., 14.6.1999, n. 5892; Cass., 26.5.1999, n. 5153) che svaluta il requisito della spazialità e quindi della necessità dello spostamento territoriale. Ne consegue che per gli spostamenti del dipendente all’interno della medesima unità produttiva – seppur con significativi mutamenti geografici del luogo di esecuzione (ad es. da un quartiere ad un altro di una grande metropoli) – non si applica la regola della giustificazione (Cass., 14.6.1999, n. 5892; Cass., 22.5.2005, n. 6117; per Cass., 3.6.2000, n. 7440 non è trasferimento lo spostamento da un reparto all’altro). Viceversa, la giustificazione è necessaria per un trasferimento anche all’interno dello stesso stabile se si cambia unità produttiva (Cass., 7.2.1987, n. 1315). La nozione di trasferimento “in senso tecnico” appare coerente con la ratio di tutelare interessi del lavoratore anche diversi dal mero aggravamento delle condizioni territoriali di svolgimento della prestazione, quali la carriera e le relazioni interpersonali nel luogo di lavoro.

Tuttavia la giurisprudenza più recente sembra recuperare – in sintonia con la tradizione sindacale, con l'interpretazione pre-statuto e il linguaggio fattuale/ordinario – una diversa nozione “in senso geografico” dando rilevanza essenziale all’allontanamento del dipendente dal luogo di lavoro, anche senza il cambio della residenza, quasi che il trasferimento rechi con sé un'insopprimibile e immanente idea di una variazione minima dell'elemento topografico (ad es. al di là del confine comunale; Cass., 18.5.2010, n. 12097; Cass., 26.5.1999, n. 5153).

Infine, la giurisprudenza più recente tende ad unificare le varie nozioni di trasferimento – generale, discriminatorio o dei dirigenti sindacali – sul modello della norma base di cui all’art. 2103 c.c., seppur permangono resistenze che tengono conto delle differenti espressioni lessicali e di contesto sia dell’art. 15, sia dell’art. 22 st. lav.

Forma e procedura della comunicazione

Una questione controversa concerne i requisiti formali e procedurali del trasferimento. La discussione ruota intorno al significato da attribuire all'aggettivo «comprovate» che caratterizza le ragioni del trasferimento, ed alle sue potenziali implicazioni riguardo al “come”, “quando” e “cosa” della comunicazione.

Rispetto al “come”, è pacifico che l’art. 2103 c.c. non prevede una forma di comunicazione del trasferimento o uno specifico obbligo di preavviso. Spesso è la contrattazione collettiva, ove applicabile, che impone l’obbligo di comunicare per iscritto il trasferimento, stabilendo anche termini di preavviso.

Nel silenzio della legge, secondo i principi generali, la forma è libera, per cui è ammessa anche la comunicazione orale del trasferimento (Cass., 18.4.2012, n. 6041; Cass., 5.1.2007, n. 43; Cass., 2.2.1996, n. 914; Cass., 3.3.1994, n. 2095, favorevole alla comunicazione orale anche dei motivi), fatte salve le previsioni del contratto collettivo. Contra, un orientamento minoritario richiede la forma scritta, vuoi tramite l'applicazione analogica della disciplina dei licenziamenti, vuoi per considerazioni pragmatiche di buon senso.

Viceversa, nel silenzio della legge e della contrattazione, l’obbligo di un congruo preavviso, salvo particolari casi di urgenza, pare deducibile, in modo flessibile e ragionevole, dai principi di esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 c.c.), specialmente quando il trasferimento sia tale da costringere il lavoratore a cambiare la propria residenza.

Il secondo nodo da sciogliere riguarda il momento (il “quando”) in cui sorge l'obbligo per il datore di comunicare al lavoratore i motivi che hanno determinato il trasferimento. La dottrina attribuisce al termine «comprovate» significati differenti: per l’orientamento prevalente, di onere o obbligo di comunicazione preventiva o tempestiva (tesi “forte”, seguita in prima battuta anche da Cass., S.U., 26.1.1979, n. 594); per l’orientamento minoritario, di attribuzione al datore dell'onere processuale della prova, per cui la verifica delle ragioni giustificative dell'atto è rinviata all'eventuale fase giudiziale (tesi “debole”).

Viceversa, l'orientamento giurisprudenziale prevalente, specie della Suprema Corte, opta per una esegesi “mediana” che assimila – per via analogica – la fattispecie del trasferimento a quella del licenziamento individuale applicando la disciplina di cui all'art. 2, co. 2-3, l. n. 604/1966, (poi parzialmente modificato dall'art. 2, l. 11.5.1990, n. 108) (Cass., S.U., 15.7.1986, n. 4572, seguita dalla giurisprudenza dominante), differenziandosi così da entrambe le tesi dottrinali. Pertanto, le ragioni non devono essere comunicate contestualmente al trasferimento, ma più tardi (entro 7 giorni) e soltanto se il lavoratore ne fa esplicita richiesta nel rispetto del termine di decadenza (di 15 giorni) ai sensi dell’(ora abrogato) art. 6, co. 2, l. n. 604/1966, come novellato dalla l. n. 108/1990 (Cass., 9.1.1987, n. 87; Cass., 25.5.1996, n. 4823).

Per tale orientamento, il mancato adempimento dell’allegazione e prova delle ragioni richieste determina l’inefficacia sopravvenuta del trasferimento (Cass., 28.10.2013, n. 24260). Qualche sentenza recente, però, ritiene che, in caso di mancato adempimento, è sufficiente che il datore provi in giudizio i motivi effettivi del trasferimento (Cass., 5.1.2007, n. 43 e Cass., 17.5.2010, n. 11984), optando per un ritorno alla citata tesi “debole”.

Da ultimo, l’interpretazione analogica potrebbe condurre all’opposta tesi “forte” della motivazione contestuale per i trasferimenti successivi all’entrata in vigore della riforma Fornero. La riscrittura dell’art. 2, co. 2, l. n. 604/1966 (modificato dall’art. 1, co. 37, l. n. 92/2012) prevede che «la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato» determinando la cancellazione di una motivazione non contestuale. Nel contempo, la novella dell’art. 18, co. 6, st. lav. prevede che il licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione (ai sensi dell’art. 2, co. 3, l. n. 604/1966) diventa … “efficace” con l’attribuzione al lavoratore di una mera indennità risarcitoria. Sicché, dopo la riforma Fornero, emergono intricati nodi interpretativi in relazione alla comunicazione dei motivi del trasferimento e del relativo regime sanzionatorio.

Per il primo, è da verificare se la novella influenzerà un revirement della giurisprudenza nel senso indicato di una comunicazione contestuale dei motivi del trasferimento. Oppure la giurisprudenza, abbandonando il criterio dell’analogia legis, potrebbe mantenere l’impostazione tradizionale di un onere-obbligo di motivazione soltanto a seguito della richiesta del lavoratore trasferito. O ancora – come ritiene una prima pronuncia (così Trib. Roma, 4.3.2014, in Riv. it. dir. lav., 2014, II, 547) – si potrebbe giungere alla conclusione del venir meno di qualsiasi obbligo di comunicazione in capo al datore. In tal caso, però, si ritornerebbe ad un trasferimento “al buio”, senza possibilità per il lavoratore di conoscere subito le ragioni del trasferimento, in vista di un’eventuale impugnazione.

Il nodo del regime sanzionatorio, invece, risulta meno intricato per i contratti c.d. “a tutele crescenti” – ma solo per i nuovi assunti (di regola, dopo il 7.3.2105) – a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, che modifica ulteriormente la disciplina del regime sanzionatorio dei vizi formali e procedurali del licenziamento.

Inoltre ai sensi dell’art. 32, co. 3, lett. c ), l. 4.11.2010, n. 183, l’impugnazione del trasferimento – anche qui ad imitazione di quella del licenziamento – è soggetta ad un doppio termine di decadenza «con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento» per impedire il protrarsi di situazioni di incertezza, ri-sollevando il dubbio circa la necessità di forma scritta di tale atto.

Infine, per garantire la trasparenza delle condizioni di lavoro, il datore di lavoro, in applicazione del d.lgs. 26.5.1997, n. 152 (di attuazione della dir. 91/533/CEE), deve comunicare «per iscritto» al lavoratore (a pena di sanzione amministrativa), ma soltanto «entro un mese dall’adozione», la modifica di vari elementi del contratto, tra i quali è espressamente menzionato «il luogo di lavoro», nonché, ai sensi del novellato d.lgs. 21.4.2000, n. 181, deve comunicare il trasferimento, entro 5 giorni, al servizio competente.

La giustificazione del trasferimento

Per quanto concerne “cosa” il datore debba comunicare, si rammenta che il lavoratore può essere trasferito in modo legittimo solo in presenza di «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive» (art. 2103 c.c.): per es. la soppressione delle mansioni, la contrazione dell’attività nella sede di provenienza, l’incremento nella sede di destinazione, la copertura di un posto vuoto, la riorganizzazione dell’unità produttiva di partenza, ecc.

L’onere della prova del giustificato motivo oggettivo del trasferimento grava sul datore di lavoro (sul quando v. supra, § 4). Il trasferimento privo della giustificazione è contrario alla disposizione imperativa del co. 8 dell’art. 2103 c.c. e, quindi, nullo secondo i principi civilistici.

Trattandosi di scelte economiche relative alla migliore dislocazione del personale, ai sensi del co. 1, dell'art. 41 Cost., il giudice non può sindacarle nel merito (principio consolidato nella giurisprudenza: Cass., 2.3.2011, n. 5099; ora esplicitato anche dal legislatore: art. 30, l. n. 183/2010) sotto il profilo dell’opportunità e/o dell'adeguatezza economico-organizzativa o del carattere inevitabile del trasferimento, nonché sotto il profilo della inutilizzabilità del lavoratore presso la sede originaria (Cass., 12.12.2002, n. 17786; Cass., 19.6.2008, n. 16689; contra Cass., 14.6.1999, n. 5892). Pertanto la verifica del giudice si concentra su un duplice controllo: in primis, sull'esistenza e attendibilità (seria, effettiva, attuale e non solo futura o eventuale) delle ragioni, con qualche incertezza circa l’ampiezza della modifica (per una tesi, in entrambe le sedi di provenienza e di destinazione; per altra tesi, anche soltanto in una); in secundis, sul nesso di causalità tra le ragioni e il trasferimento (Cass., 2.3.2011, n. 5099; Cass., 18.2.94, n. 1563; Cass., 8.1.87, n. 55).

Nella scelta di chi trasferire tra più dipendenti secondo un orientamento in via di emersione vanno rispettati il principio di non discriminazione e i criteri di ragionevolezza e correttezza (art. 1175 e 1375 c.c.), attribuendosi rilevanza alle diverse situazioni soggettive che possono rendere il provvedimento datoriale più gravoso (Cass., 18.10.1996, n. 9086; Cass., 28.7.2003 n. 11597; contra, per la libertà di scelta, Cass., 17.3.2001, n. 3882; Cass., 2.8.2002, n. 11624).

Il cd. “trasferimento disciplinare”

Ai sensi dell’art. 2103 c.c., il datore può trasferire il lavoratore solo per ragioni oggettive, senza alcun riferimento alle condizioni soggettive di svolgimento dell’attività lavorativa (v. supra, § 5). Inoltre il co. 4 dell’art. 7 st. lav. non consente di adottare sanzioni disciplinari che comportino «mutamenti definitivi del rapporto di lavoro». Pertanto l’orientamento classico (e tutt’ora prevalente della dottrina e della giurisprudenza di merito) nega il ricorso al trasferimento in funzione disciplinare, in quanto contrario a norme imperative di legge.

Viceversa, l’iter evolutivo della giurisprudenza della Suprema Corte, per tappe graduali (a partire da Cass., 6.3.1975, n. 832; Cass., 17.3.2009, n. 6462), e una parte della dottrina più recente (Levi, A., Il trasferimento disciplinare del prestatore di lavoro, Torino, 2000, 137) sono pervenuti al riconoscimento del trasferimento disciplinare.

Il riconoscimento dell’istituto prende il via dal trasferimento per cd. “incompatibilità ambientale” quale provvedimento non disciplinare in cui i motivi soggettivi vengono travasati nelle conseguenze che ne derivano (tensioni nei rapporti personali o contrasti nell'ambiente di lavoro) in termini di effetti disorganizzativi (Cass., S.U., 24.7.1986, n. 4747; Cass., 16.4.1992, n. 4655; Cass., 1.9.2003, n. 12735; ma v. anche Cass., 1.9.2006, n. 18917, sul diritto del dipendente al trasferimento in caso di sindrome ambientale depressiva).

Di fatto, il trasferimento per incompatibilità ambientale è utilizzato spesso come strumento alternativo o aggiuntivo alle sanzioni disciplinari per cui l’orientamento giurisprudenziale prosegue oltre riconoscendo la legittimità del trasferimento per motivi disciplinari, laddove incluso dalle parti sociali nel codice disciplinare (Cass., 9.5.1990, n. 3811; Cass., 21.11.1990, n. 11233; Cass., 28.9.1995, n. 10252; Cass., 2.4.2003, n. 5087, rispettando la procedura disciplinare).

I divieti di trasferimento unilaterale

Lo Statuto dei lavoratori tutela espressamente alcune situazioni personali con specifici divieti di trasferimento unilaterale (artt. 7, 15, 22), come segnalato nel § 2.2. Dopo lo Statuto sono intervenute altre norme, a carattere speciale, per disciplinare, in senso ulteriormente restrittivo (con il consenso del lavoratore), il trasferimento di figure peculiari di lavoratori.

Dapprima l’art. 27, l. 27.12.1985, n. 816, successivamente abrogato e riformulato dal t.u. sugli enti locali (rispettivamente artt. 274 e 78, d.lgs. 18.8.2000, n. 267) rafforza la posizione degli amministratori locali – per il (solo) periodo del mandato: C. Cost., 26.2.1998, n. 28 – anche con richiesta di avvicinamento al luogo di svolgimento del mandato amministrativo.

Successivamente gli artt. 21 e 33, l. 5.2.1992, n. 104 (come modificati dalla l. 8.3.2000, n. 53, che ha eliminato la condizione della convivenza, e dalla l. n. 183/2010, che ha eliminato la condizione della continuità assistenziale che avevano alimentato difficoltà ricostruttive) la tutela è prevista per le persone handicappate gravi e per i loro familiari o affidatari con riferimento anche alla «sede» di lavoro più vicina, ma solo «ove possibile», al proprio domicilio (Cass., S.U., 27.3.2008, n. 7945; Cass., 5.9.2011, n. 18223). In tale ipotesi emerge la questione della distinzione tra il diritto a non essere trasferito senza consenso, che è assoluto, e quello a essere trasferito per avvicinamento, che va contemperato con le esigenze dell’organizzazione (Cass., S.U., 9.7.2009, n. 16102). Tuttavia, anche il lavoratore adibito all’assistenza a una persona handicappata può essere trasferito in assenza di consenso in caso di incompatibilità ambientale che si pone come causa di disorganizzazione aziendale (Cass., S.U., 9.7.2009, n. 16102), lo stesso vale per il lavoratore portatore di handicap (Cass., 5.11.2013, n. 24775). Nel contempo, per la Suprema Corte, il limite dell’intrasferibilità senza il consenso vale anche in caso di assistenza a un disabile non grave, in assenza di particolari ed eccezionali urgenze del datore (Cass., 7.6.2012, n. 9201).

L’art. 56, d.lgs. 26.3.2001, n. 151 riconosce, al termine del congedo di maternità/paternità (Congedi di maternità e di paternità [dir. lav]), un divieto di trasferimento (oltre il comune) non consensuale alla lavoratrice madre (Lavoratrici madri), o in mancanza al padre, fino al compimento di un anno di età del bambino.

Infine, frequente è l’utilizzo da parte della contrattazione collettiva della clausola di cd. “intrasferibilità unilaterale” a partire da una certa età anagrafica e/o di servizio.

Fonti normative

Art. 41 Cost.; art. 2103 c.c.; artt. 7, 13, 15 e 22, l. 20.5.1970, n. 300; art. 3, d.lgs. 15.6.2015, n. 81.

Bibliografia essenziale

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