TRASPOSIZIONE

Enciclopedia del Cinema (2004)

Trasposizione

Antonio Costa

Fin dalle sue origini il cinema ha fatto ampio ricorso al repertorio di testi letterari (romanzi, drammi, commedie, fiabe), prima di tutto per trarne ispirazione, ma anche per sfruttare la forza di attrazione di opere già famose. Nell'idea stessa di t. c'è una promessa di visibilità: far finalmente vedere ciò che fino allora era stato solo immaginato. La pratica della messa in scena teatrale di romanzi precede di molto quella della t. cinematografica: essa era già ampiamente diffusa nella prima metà dell'Ottocento. S.S. Prawer (1980) cita al proposito un doppio spettacolo della English Opera House di Londra che, nel 1826, offriva in successione, nella stessa serata, gli allestimenti di Frankenstein di M. Shelley e Il vampiro di Polidori e fa un paragone con un doppio spettacolo che, poco più di un secolo dopo (1931), offriva al pubblico americano la doppia proiezione di Frankenstein (1931) di James Whale e Dracula (1931) di Tod Browning: la domanda del pubblico di vedere il 'film del libro' e i benefici effetti che tutto questo ha sulle vendite del 'libro del film' non solo erano stati anticipati in campo teatrale, ma erano spesso gli stessi adattamenti teatrali a costituire fonti di primaria importanza per le t. cinematografiche (Prawer 1980). Del resto, uno dei primi successi internazionali del cinema delle origini, Le voyage dans la Lune (1902; Il viaggio nella Luna) di Georges Méliès, che derivava almeno in parte da due romanzi di J. Verne (De la Terre à la Lune, 1865; Autour de la Lune, 1870), riprendeva vari spunti dall'operetta Le voyage dans la Lune (1875) di J. Offenbach, messa in scena al Théâtre de la Gaîté per la regia di Adolphe d'Ennery. In effetti, il catalogo della Star Film di Méliès costituisce un corpus che documenta in modo esemplare la politica produttiva, in fatto di trasposizione cinematografica di testi letterari, di una delle prime case di produzione. Da esso risulta che Méliès adattava per il cinema di tutto, dalle fiabe di Ch. Perrault ai drammi di W. Shakespeare, da Robinson Crusoe ai Viaggi di Gulliver, dal Barbiere di Siviglia al Barone di Münchhausen, da Faust di W. Goethe (magari attraverso le opere di Ch.-F. Gounod e di H. Berlioz) a She di H.R. Haggard. Ma dell'opera originale, oltre al riferimento al titolo o a un personaggio (per il Faust era naturalmente quello di Mephisto il suo personaggio preferito, che volle interpretare personalmente), Méliès prendeva solo qualche spunto per l'esibizione di uno o più eventi prodigiosi realizzati attraverso il suo repertorio di trucchi cinematografici che determinò il rapido successo e l'altrettanto rapido declino delle sue vedute. I progressi della tecnica e l'evoluzione del linguaggio cinematografico hanno ben presto permesso confronti più precisi con la narrativa letteraria, sia quella elevata sia quella più popolare, come dimostra lo sviluppo del fenomeno nell'ambito del cinema italiano. G.P. Brunetta parla, a questo proposito, di trasformazione in filmoteca della biblioteca dell'italiano, evidenziando un lavoro sistematico fatto in questa direzione dall'industria cinematografica (2003, pp. 22-27). Dalla Divina commedia di Dante a Malombra di A. Fogazzaro, dalla Gerusalemme liberata di T. Tasso a Pinocchio di C. Collodi, non c'è opera significativa della letteratura italiana che non sia stata più volte adattata per lo schermo. Senza contare, naturalmente, la grande attenzione che il cinema italiano ha riservato alla produzione letteraria internazionale, soprattutto ai grandi romanzi storici ambientati nell'antichità che furono ripetutamente adattati per lo schermo, magari dopo essere stati oggetto di grandi allestimenti teatrali, da The last days of Pompeii di E.G. Bulwer-Lytton a Quo vadis di H. Sienkiewicz. Tuttavia fu la Divina commedia, e in particolare l'Inferno, a giocare un ruolo da molti punti di vista fondativo nel cinema italiano. L'Inferno (1911) di Adolfo Padovan, Francesco Bertolini e Giuseppe De Liguoro, prodotto dalla Milano Films, per quanto non sia il primo film di ispirazione dantesca, viene tuttavia considerato il primo lungometraggio del cinema italiano (Bernardini 1985). Inoltre esso costituisce uno dei primi organici esempi di lavoro di adattamento di un'opera di letteratura alta alle esigenze dello spettacolo cinematografico, passando attraverso il modello delle popolari incisioni di G. Doré. Quella della fortuna di Dante nel cinema (non solo italiano) è una lunga storia che va da L'Inferno del 1911, a proposito del quale una rivista corporativa dell'epoca parlava di "funzione demo-estetica del cinema" (G. Capra Boscarini in "Lux", 16 aprile 1911, pp. 1-32), a un'opera come A TV Dante: The Inferno ‒ Cantos I-VIII, (1989) di Peter Greenaway, in cui le forme della messa in scena di un'opera letteraria si intrecciano con quelle degli ipertesti multimediali. Tra questi due estremi, si può registrare una serie di adattamenti: si trovano singoli episodi trattati nei loro aspetti gotici o romantici, da Pia dei Tolomei (1908) di Mario Caserini, ripreso nel 1958 da Sergio Grieco, a Il conte Ugolino (1909) di Giovanni Pastrone, ripreso poi nel 1949 da Riccardo Freda, ma anche vere e proprie parodie, da Maciste all'inferno (1926) di Guido Brignone a Totò all'inferno (1955) di Camillo Mastrocinque (Dante nel cinema, 1996).

La pratica della t. riguarda soprattutto i best seller e la cosiddetta letteratura di consumo o di genere. I romanzi di scrittori come D. Hammett, R. Chandler, C. Woolrich (alias W. Irish), P. Highsmith sono stati spesso e a volte ripetutamente adattati per lo schermo. Si tratta di autori le cui tecniche narrative erano spesso debitrici del modello cinematografico, senza contare che all'adattamento dei loro romanzi hanno lavorato altri scrittori, magari non meno famosi: per es. alla t. di The big sleep (1946; Il grande sonno) di Howard Hawks, tratto dal romanzo di Chandler, lavorò William Faulkner (assieme a Leigh Brackett e a Jules Furthman), mentre a quella di Strangers on a train (1951; L'altro uomo o Delitto per delitto) di Alfred Hithcock, tratto dal primo romanzo della Highsmith, contribuì, tra gli altri, lo stesso Chandler (Luhr 1982). Se questo intreccio tra fortuna letteraria e fortuna cinematografica ha segnato tutta una stagione del cinema classico hollywoodiano dagli anni Quaranta ai Cinquanta, il fenomeno si è più volte ripetuto nei decenni successivi: si pensi ai romanzi di I. Fleming che hanno per protagonista James Bond, l'agente 007 con 'licenza di uccidere', e alla serie dei film a essi ispirati che costituiscono un fenomeno che ha interessato allo stesso tempo storia della letteratura, del cinema e del costume, in un intreccio inestricabile di effetti di moltiplicazione sui quali esiste un'abbondante letteratura (Del Buono, Eco 1965; Sarno 1996). Passando a un diverso tipo di narrativa, si può notare che spesso la versione cinematografica ha amplificato il successo già per sé stesso clamoroso del romanzo d'origine: si pensi a Doctor Zhivago (1965; Il dottor Zivago) di David Lean o a Der Name der Rose (1986; Il nome della rosa) di Jean-Jacques Annaud, due film che sono riusciti a deludere i cultori delle rispettive opere di B.L. Pasternak e di U. Eco, ma anche ad avvicinare a esse centinaia di migliaia di nuovi lettori in tutto il mondo.

Indipendentemente dai giudizi di valore, c'è un primo aspetto della t. cinematografica di un'opera letteraria che riguarda la fedeltà non tanto allo spirito o alla qualità estetica dell'opera, quanto alla lettera degli enunciati narrativi. Il caso più frequente di mutazioni che un romanzo subisce nella t. cinematografica riguarda il finale adottato, e il fenomeno investe non solo il cinema più dichiaratamente commerciale, ma anche quello d'autore. Si pensi a Brucio nel vento (2002) di Silvio Soldini, tratto da Hier di A. Kristof. Pur avendo il regista e la sceneggiatrice, Doriana Leondeff, fatto un notevole lavoro di t. in immagini dell'universo plumbeo e desolato della scrittrice, l'adozione di un diverso finale, più rassicurante che nell'originale ma anche meno coerente, è il risultato di un conflitto tra le ragioni degli autori e quelle del produttore, tra il rispetto dello spirito dell'opera originale cui il più possibile si attengono gli autori nelle scelte di sceneggiatura e di regia, e le clausole contrattuali, in base alle quali mutamenti di questo tipo rientrano tra le prerogative del produttore che ha acquistato dall'editore i diritti di trasposizione.Più di un secolo di storia del cinema presenta una casistica praticamente inesauribile di t., caratterizzate da diverse metodologie di adattamento e diversi gradi di fedeltà. C'è il caso estremo della presenza fisica dell'autore che legge il proprio testo, come in Fortini/Cani (1976) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, un film 'su' piuttosto che 'da' I cani del Sinai (1967) di Franco Fortini. In questo film, ricavato dal diario tenuto dallo scrittore durante la guerra dei Sei giorni tra Israele e i Paesi arabi (giugno 1967), il qui e ora della lettura di un testo viene restituito tale e quale dalla riproduzione audiovisiva, mentre sono proprio l'atto del leggere e lo spazio fisico circostante, in cui la parola detta risuona, che spingono verso quell'altrove cui il testo letterario dà accesso (ma che occorre continuare a immaginare come avviene appunto durante la lettura). Il caso per molti versi opposto si dà in Intervista (1987) di Federico Fellini, in cui si vede il grande regista alle prese con una t. cinematografica di America di F. Kafka, testo che non sarebbe mai divenuto un film di Fellini ma del cui adattamento si è continuato a parlare in vario modo. In questo caso il qui e ora del film realizzato (Intervista) diventa luogo dell'inaccessibilità del testo (America).

Tra questi due estremi, si colloca una grandissima varietà di casi che possono di volta in volta essere chiamati adattamenti, traduzioni, t., riduzioni, trasferimenti, riscritture (o trascrizioni). Diversi termini utilizzati per definire l'operazione evidenziano altrettante percezioni o diversi aspetti del fenomeno. Le varie sfumature con cui si indica il passaggio dall'opera letteraria allo schermo sembrano riferirsi spesso a un ostacolo, una difficoltà posta dalla differente natura, dal diverso funzionamento dei due mezzi. D'altra parte, i termini abitualmente usati sono spie linguistiche di un atteggiamento di su-bordinazione del mezzo cinematografico all'effetto di senso prodotto dal mezzo letterario: una sorta di priorità che sembra lasciare limitate possibilità di manovra e, allo stesso tempo, richiede una serie di interventi correttivi. C'è tuttavia un termine che per quanto impreciso sembra capace di riassumere tutti gli altri ed è filmare. Eccone un esempio, tratto dalla prima pagina di uno studio su M. Proust e il cinema che si apre, appunto, con la domanda "Si può filmare À la recherche du temps perdu?" (Kravanja 2003). E che l'operazione sia problematica lo dimostrano i tre film ispirati alla Recherche analizzati in tale studio: Un amour de Swann (1984; Un amore di Swann) di Volker Schlöndorff; Le temps retrouvé (1999; Il tempo ritrovato) di Raúl Ruiz e La captive (2000) di Chantal Akermann. Ma ancor più lo dimostrano i vari progetti non andati a termine ai quali hanno in epoche diverse lavorato registi come Luchino Visconti e Joseph Losey in collaborazione con scrittori quali Ennio Flaiano e Harold Pinter e che rappresentano casi di t. che sono rimaste allo stadio di sceneggiatura e non sono mai (o ancora) diventate film (Pinter 1978; Flaiano 1989; Cecchi D'Amico, Visconti 1986). Ma accanto a t. di Proust non realizzate, ce ne sono altre non dichiarate, come per es. All the Vermeers in New York (1990; Tutti i Vermeer a New York) di Jon Jost, che può essere considerato una libera t. di alcuni passi di uno dei volumi di Proust, La prisonnière, senza che i titoli di testa ne facciano menzione (Costa 2002). Il fenomeno non è nuovo: nella storia del cinema sono molti i film la cui fonte letteraria non viene dichiarata o è volutamente occultata. Il caso più celebre è certamente Nosferatu ‒ Eine Symphonie des Grauens (1922) di Friedrich W. Murnau: per non aver dichiarato la sua derivazione da Dracula di B. Stoker e per aver anzi occultato l'origine mutando i nomi dei personaggi il regista, lo sceneggiatore e la casa di produzione, Prana-Film, subirono e persero un processo (Tone 1976, pp. 34-35).

Certamente si può 'filmare' di tutto, che lo si dichiari o meno. Si possono filmare poemi, come è accaduto per La camera da letto di Attilio Bertolucci (1992) di Stefano Consiglio e Francesco Dal Bosco, in cui il poeta viene ripreso mentre procede alla lettura integrale di una sua opera di poesia. E si possono filmare saggi di storia dell'arte, come per la Breve ma veridica storia della pittura italiana di R. Longhi che ha avuto una t. audiovisiva prodotta dall'Istituto Luce per la regia di Maria Bosio (1999), con Sandro Lombardi nel ruolo del famoso critico d'arte intento a tenere le sue lezioni al Liceo Visconti di Roma. O per Tintoret d'après Jean-Paul Sartre ou la déchirure jaune (1983), documentario di Didier Baussy che dichiara fin dal titolo di essere una t. cinematografica degli scritti di Sartre sul pittore veneziano. Si tratta comunque di fenomeni marginali rispetto alla ben più significativa incidenza delle opere di finzione, anche se è da ipotizzare che lo sviluppo della circolazione di opere audiovisive su supporti multimediali darà possibilità di sviluppo a questo tipo di trasposizioni.

Per le opere di finzione, il termine filmare, suggestivo ed efficace, lascia intendere l'esistenza di un universo narrativo, con i suoi luoghi, situazioni e personaggi, un mondo già arredato e abitato, rispetto al quale l'opera del cineasta consisterebbe nella pura ripresa, secondo criteri più o meno selettivi come fa una troupe cinematografica che arrivi in una località, supponiamo turistica, per girarvi un documentario. Naturalmente le cose non stanno così, e tuttavia nelle suggestioni evocate da questa espressione è contenuto un nucleo essenziale: un testo letterario costituisce, a partire dai mezzi specifici della narrazione letteraria (la parola), un universo dotato di una serie di tratti identificabili sul piano visivo rispetto ai quali la messa in scena cinematografica deve operare delle scelte nell'ambito dei propri mezzi specifici. Come ha scritto Marcel L'Herbier, a proposito di Feu Mathias Pascal (1925; Il fu Mattia Pascal) giustamente considerato il migliore tra i film ricavati dal celebre romanzo di L. Pirandello: "Filmare significa dare la parola alla realtà. La realtà non ha avuto una parola da dire nell'adattamento. Per il fatto che non aveva parole per esprimersi. La realtà si esprime solo con le immagini che dà di sé. Tautologia o meno, è evidente che il lavoro delle immagini non potesse essere fedelmente ricalcato su quello delle parole e che bisognasse in ogni momento inventare quando si è dietro la macchina da presa per orientarla verso le immagini sostitutive [images de substitution]" (1979, p. 119). Il confronto di un cineasta con l'universo reale, cui rinvia pur sempre un testo letterario, non riguarda solo il confronto con quell'universo reale evocato dal mezzo letterario, ma anche con gli strumenti utilizzati. La questione delle equivalenze riguarda non solo il piano del contenuto, ma prima di tutto quello dell'espressione. Contro questa tradizione, tipicamente francese, della ricerca delle equivalenze, ci fu la presa di posizione degli autori della Nouvelle vague, che avevano avuto in André Bazin il loro maestro. Bazin, analizzando il film di Robert Bresson Le journal d'un curé de campagne (1951; Diario di un curato di campagna) tratto dal romanzo di G. Bernanos, osserva che a essere trasposto è il "testo letterario" e non tanto il soggetto della narrazione o, in altri termini, che la materia prima del film di Bresson è il testo letterario di Bernanos e non la vicenda narrata. E fa l'esempio dei documentari sulla pittura di Alain Resnais e di Luciano Emmer nei quali la materia prima non è tanto il soggetto del quadro, ma il quadro stesso che viene filmato (Bazin 1951). Sviluppando idee di questo tipo, François Truffaut non solo condusse una circostanziata requisitoria contro gli adattamenti del cinema francese di qualità, vale a dire quelli scritti da Jean Aurenche e Pierre Bost (1954)), ma trovò il metodo per portare a termine la coraggiosa t. cinematografica di Jules et Jim (1962; Jules e Jim) basata su una costante presenza del testo di H.-P. Roché, del suo ritmo e della sua forza di evocazione. Proprio attraverso la combinazione della letterarietà del testo (salvaguardata in quanto tale) e di una messa in scena che costantemente lo reinventa, Truffaut ha effettuato una delle t. più audaci, e per questo memorabili, di un testo letterario (Volpe 1996). Tra l'altro, grazie al suo film, il romanzo di Roché ha avuto una fortuna altrimenti inimmaginabile.

Adattamento e riduzione

Se l'idea di t. considerata in questa accezione presuppone una trasferibilità del testo in quanto tale, quelle di riduzione e di adattamento sembrano riferirsi alla necessità di affrontare problemi di dimensione. Adattamento fa pensare alla necessità di sistemare un qualcosa in uno spazio che non è propriamente il suo. Riduzione è ancor più esplicita quanto a differenti grandezze: qualcosa che è troppo grande per trovare posto nelle dimensioni anguste di un film. Problema peraltro molto concreto, data la durata media di un film. Ma adattamento può alludere anche al processo contrario: passaggio dal piccolo al grande, come il 'piccolo' monologo Novecento di Alessandro Baricco che viene 'adattato' alle esigenze del grande schermo e diventa La leggenda del pianista sull'oceano (1998) di Giuseppe Tornatore. Per chiarire in modo più preciso cosa comporta anche sul piano concettuale l'uso dei termini adattamento e riduzione, ci si potrà riferire alla distinzione, introdotta da Metz, tra veicolo e programma: se un sonetto, come forma metrica, è il veicolo, il soggetto trattato, per es. il tramonto del sole, sarà il programma (Metz 1971; trad. it. 1977, pp. 250-52). Se nell'assetto dell'istituzione cinematografica, in vigore dagli anni Trenta a oggi, per film si intende normalmente un testo audiovisivo della durata media compresa tra l'ora e mezza e le due ore, uno degli aspetti della riduzione o dell'adattamento riguarda appunto un problema di veicolo: Un amour de Swann di Schlöndorff condivide entro certi limiti il programma con la sezione della Recherche di Proust che porta lo stesso titolo, ma è sul piano del veicolo che si concentrano le differenze più vistose e che comportano una serie di scelte linguistiche, stilistiche ed espressive molto differenti. The shining (1997), miniserie televisiva in quattro episodi di Mick Garris scritta da Stephen King, ha più analogie a livello di programma con The shining (1980; Shining) di Stanley Kubrick di quante non ne abbia a livello di veicolo, in quanto la miniserie televisiva con la sua durata di oltre 270 minuti comporta minori problemi di riduzione e di adattamento dell'originario romanzo di S. King di quanti ne comporti il film di Kubrick che dura circa la metà. Qualificando una t. come adattamento o riduzione si fa quindi riferimento anzitutto a un problema di veicolo il quale a sua volta determina una serie di variazioni sul piano del programma. Ed è su questo piano che si impegnano le varie metodologie di analisi e le relative teorie di riferimento: quelle basate sulla classica distinzione, introdotta dai formalisti russi, tra fabula e intreccio (cioè tra il contenuto della narrazione e la forma in cui esso viene presentato; I formalisti russi, 1972); oppure gli studi narratologici (v. narratologia) basati sulla distinzione tra storia e discorso (Chatman 1978); o quelli più recenti che si propongono di definire le varie pertinenze delle pratiche dell'adattamento (McFarlane 1996), della t. e della traduzione (Dusi 2003; Eco 2003). L'esame dell'ampia letteratura critico-teorica disponibile dimostra che ognuno di questi termini può essere usato in differenti accezioni, a seconda che lo si intenda in senso proprio (letterale) o in senso più o meno metaforico. Non c'è dubbio che nel termine traduzione, frequentemente usato anche in contesti non specialistici, ci sia un riferimento al fatto che nel passaggio da un romanzo a un film avvenga una trasformazione determinata da diversi codici o almeno da linguaggi dotati di differenti specificità. Ma se dal piano del discorso comune si passa a quello delle competenze settoriali, risulta evidente che l'approccio muta: in questo caso allora traduzione farà riferimento a una precisa teoria, vale a dire quella della traduzione intersemiotica (cioè tra differenti sistemi semiotici, quali sono appunto un testo letterario e un testo audiovisivo). Una sistematica applicazione della categoria di "traduzione intersemiotica" nello studio di Zazie dans le métro (1960; Zazie nel metrò) di Louis Malle oppure di Le mépris (1963; Il disprezzo) di Jean-Luc Godard, tratto dal romanzo di A. Moravia, permette a Dusi (2003) di far vedere alcuni vantaggi, ma anche i limiti, dell'uso di tale categoria. Più appropriata e praticabile sembra essere la prospettiva di Eco (2003) che, nell'ambito di un ampio studio sui problemi della traduzione, suggerisce un uso più che altro metaforico del termine "traduzione intersemiotica", e propone di ricorrere piuttosto al termine trasmutazione a proposito della t. cinematografica di opere letterarie e di considerare comunque l'adattamento come una "nuova opera". Riferendosi a Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti, Eco mette in evidenza come, rispettando la fabula, i personaggi e luoghi dell'originaria narrazione di Th. Mann, ma non la professione del protagonista (che nel film diventa un musicista), il regista italiano abbia di fatto "tratto spunto dalla storia di Mann per raccontarci la sua storia", proponendo di intendere tale t. in termini di "trasmigrazione di un tema" (Eco 2003, pp. 337-41). Analoghe considerazioni si potrebbero fare, rispettate le dovute proporzioni, a proposito del film Io non ho paura (2003) di Gabriele Salvatores, tratto dal romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti (coautore con Francesca Marciano e lo stesso regista della sceneggiatura): in questo caso si può affermare che la t. cinematografica rende più esplicite quelle relazioni intertestuali implicite nel romanzo, facendo vedere meglio quella trasmigrazione di temi che erano confluiti nel romanzo dalla letteratura e dal cinema di genere (Nisticò 2003).Un film va giudicato per sé stesso, indipendentemente dal testo da cui deriva. Si tratta di un'affermazione spesso ripetuta, tanto dai registi quanto dagli stessi scrittori. Ed è un'affermazione difficilmente contestabile. Spesso capita che la maggior parte degli spettatori che decretano il successo di un film ignorino tutto, a volte anche l'esistenza, dell'opera da cui è tratto. Inoltre, un film scarsamente o per nulla fedele al testo d'origine può risultare valido sia dal punto di vista commerciale sia da quello critico. Mentre non sempre la fedeltà garantisce risultati sicuri. Capita anzi che da un'opera mediocre possa risultare un film di grande valore e di grande impatto commerciale. Come ha giustamente osservato T. Kezich a proposito dei film tratti da opere letterarie, "più che la fedeltà, l'attendibilità o il valore artistico della trasposizione cinematografica, contano l'alone che riescono a suscitare, la forza mitizzatrice che emanano, il fascino che esercitano sulle masse" (1986, p. 84). C'è sicuramente un "effetto alone" che testi letterari e film si scambiano a vicenda. La vita di un romanzo si prolunga anche in t. infedeli. Allo stesso modo i film richiamano pubblico anche grazie alla forza mitica di titoli e personaggi letterari. Ciò conferma quindi l'idea che una t. cinematografica di un testo può essere fruita, valutata e interpretata per sé stessa. Ma nel momento in cui si prende in considerazione la coesistenza di due testi e si guarda, per qualsiasi motivo, alla relazione tra i due, che non è mai univoca ma chiama in causa altri testi, questa relazione non potrà essere che di tipo intertestuale (per es. sotto l'aspetto delle citazione, dell'allusione, del pastiche, della parodia e, eventualmente, del plagio) e intermediale, in quanto la stessa fruizione dei testi letterari attiva modelli di riferimento che si sono imposti in altri media, come dimostra ampiamente molta letteratura contemporanea compresa o meno sotto l'etichetta di post-moderna.

Bibliografia

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