Tribunali penali internazionali

Diritto on line (2014)

Gabriele Della Morte

Abstract

Gli sforzi diretti all’istituzione di una giurisdizione penale internazionale a carattere permanente hanno attraversato, con alterne vicende, tutto il corso del novecento. Infatti, nonostante l’esperienza dei Tribunali militari internazionali di Norimberga e di Tokyo (istituiti, rispettivamente, nel 1945 e nel 1946), si è dovuto attendere quasi mezzo secolo (e cioè il 1998) per giungere all’approvazione di un trattato istitutivo di una Corte penale internazionale.

Le ragioni per le quali quest’ultima Corte si differenzia dai Tribunali ad hoc per l’ex Iugoslavia e per il Ruanda, che l’hanno preceduta, o ancora dai Tribunali ibridi o internazionalmente assistiti, che l’hanno seguita, sono numerose. Tra le tante, due meritano particolare attenzione. Innanzitutto, essa ha un carattere permanente, ed è quindi istituita ex ante, e non ex post. Inoltre, essa ha una vocazione universale: la relativa istituzione, pur nei limiti del sistema giurisdizionale adottato nel concreto, non è stata immaginata per una particolare situazione (ad hoc). Come si evince dallo studio qui proposto, si tratta di due elementi di indubbia rilevanza.

Le origini

L’idea di provvedere all’istituzione di una giurisdizione penale internazionale è relativamente recente. Infatti, al di là di taluni episodi di interesse prevalentemente storico (quale, ad esempio, l’incriminazione del governatore di Breisach, Peter Von Hagenbach, avvenuta nel 1474 dinanzi a dei giudici di diversa provenienza), un autentico sforzo in tale direzione si registra solo al termine del primo conflitto mondiale, in particolare nel quadro del Trattato di Versailles, firmato il 28.6.1919.

Attraverso la stipula di tale Accordo le potenze vincitrici della prima guerra mondiale cercarono di tradurre dinanzi ad una Corte internazionale il kaiser tedesco Guglielmo II. Quest’ultimo era incriminato sulla base di un’imputazione di dubbio valore giuridico, e cioè per violazione della «international morality and the sanctity of treaties» (art. 227, par. 1 del Trattato). Il processo non ebbe mai luogo giacché l’ex imperatore si rifugiò nei Paesi Bassi e questi ultimi non concessero mai l’estradizione sulla base di alcuni argomenti espressi in due note diplomatiche, rispettivamente del 24.1.1920 e del 6.3.1920. Con la prima si sottolineò come i Paesi Bassi non potessero ritenersi vincolati dagli obblighi derivanti dal Trattato anzidetto, dal momento che non ne erano parte. E, con la seconda, si ricordò che l’estradizione non trovava applicazione nell’ipotesi di delitti politici, e che anzi per coloro accusati di tali fattispecie trovava applicazione il diritto d’asilo.

Ulteriori testimonianze dei vani tentativi diretti all’affermazione delle responsabilità individuali penali in sede internazionale nel corso dei primi decenni del ventesimo secolo, sono fornite dalle disposizioni del Trattato di Sèvres, del 10.8.1920, e dal progetto per una Convenzione per la prevenzione e la repressione del terrorismo, approvato a Ginevra il 16.11.1937. Il primo, ideato come uno strumento giuridico che permettesse il riconoscimento delle responsabilità dei Turchi per lo sterminio della comunità armena compiuto nel 1915, non fu mai ratificato. Né miglior fortuna ebbe il secondo, che prevedeva anche l’istituzione di un tribunale internazionale incaricato di giudicare le fattispecie di terrorismo. Anche quest’ultimo non entrò mai in vigore e rimase, di fatto, lettera morta.

I Tribunali militari internazionali

Lo scenario muta con l’approssimarsi della fine della seconda guerra mondiale. Infatti, già con la Dichiarazione di Mosca del 30.10.1943 le forze alleate manifestarono l’intenzione di processare i più alti gerarchi nazisti. E tale convincimento trovò un’espressa formalizzazione l’8.8.1945, quando Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione Sovietica e Governo provvisorio della Repubblica francese stipularono gli Accordi di Londra con annesso lo Statuto (St.) del Tribunale militare internazionale di Norimberga.

La data della sottoscrizione dell’8.8.1945 merita una breve riflessione: appena due giorni prima, il 6.8.1945, gli alleati sganciarono l’ordigno nucleare su Hiroshima, e appena un giorno dopo, il 9.8.1945, fu sganciata una seconda bomba nucleare su Nagasaki. Pertanto, l’accordo istitutivo del Tribunale militare internazionale di Norimberga fu sottoscritto da una potenza che nel medesimo periodo stava eseguendo i primi bombardamenti nucleari. Questa apparente coincidenza merita di essere sottolineata. Essa anticipa la vibrante critica che sarebbe stata mossa avverso questo tipo di esperienza: e cioè che si sia trattato di un modello in cui vincitori giudicavano i vinti.

Il Tribunale iniziò i propri lavori il 18.10.1945 a Berlino, salvo poi trasferirsi a Norimberga per due motivi principali. Innanzitutto per una ragione simbolica: si trattava della città tristemente nota per le cd. “leggi di Norimberga” del 1935; e in seguito per una ragione pratica: all’epoca era una delle poche città tedesche a conservare intatto un palazzo di giustizia dotato di prigione.

Le udienze si svolsero dal 20.11.1945 all’1.10.1946, un tempo certamente breve per giudicare i «maggiori criminali di guerra le cui violazioni non hanno una particolare collocazione geografica» (art. 1, St.). Ma va sottolineato come il Tribunale si sia occupato soltanto di un numero ristretto di accusati (24 persone imputate, oltre a sei organizzazioni criminali); in tal senso l’art. 7 St. prevedeva che la situazione ufficiale di un accusato – ad esempio il fatto che si rivestisse il ruolo di Ministro – non potesse essere considerata né come una causa di esclusione della responsabilità penale, né come un motivo di riduzione della pena (specularmente il fatto di avere agito sulla base di ordini superiori, pur non potendo rappresentare una ragione di esclusione, poteva costituire un motivo di riduzione della pena – art. 8 St.). Il rischio che si è cercato di esorcizzare attraverso queste norme era quello che la responsabilità penale fosse più debole allorché il potere era più forte. Da tale prospettiva è ben comprensibile quale fosse la portata innovatrice del processo di Norimberga. Quello che sarebbe in seguito divenuto il passo più noto dell’intera sentenza: «sono degli individui, e non dell’entità astratte, che commettono i crimini per i quali s’impone la repressione» (cfr. Judgement, 1946, 1, 223), indica proprio questo: per quanto si possa agire in nome dello Stato, tale circostanza non coprirà le responsabilità individuali di chi ha compiuto una delle violazioni contemplate nello Statuto (rispettivamente: crimini contro la pace, con particolare riferimento all’aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, art. 6 St.). E infatti, nonostante l’assenza di Hitler e di Goebbels (morti suicidi), a Norimberga furono incriminati alcuni tra i più rilevanti responsabili politici: Goering (Federmaresciallo del Reich), Ribbentrop (Ministro degli affari esteri), Frick (Ministro degli interni), Schacht (Ministro dell’economia), e altri.

Le critiche, in parte, sono note, e ad alcune abbiamo già fatto rapidamente cenno supra. Innanzitutto, che non si sia trattato di tribunali autenticamente internazionali quanto piuttosto di corti “interne” gestite dalle forze che occupavano il territorio (in tal senso, per la dottrina italiana, v. Quadri, R., Diritto internazionale pubblico, V ed., Napoli, 1968, 421 ss.); in secondo luogo, che i tribunali militari internazionali rappresentassero una sorta di “giustizia dei vincitori”; ancora, che si sarebbe verificata un’eccezionale compressione dell’insieme di norme che compongono il diritto al giusto processo.

Risulta difficile ribattere in modo esaustivo a tali obiezioni. Se sotto il primo profilo si può sostenere che in ogni caso la natura internazionale del Tribunale è rilevabile nel fondamento pattizio degli Accordi summenzionati (che furono in seguito ratificati da altri Stati), le accuse mosse sul piano della giustizia dei vincitori e delle garanzie processuali non sembrano prive di presupposto. Eppure, alcune considerazioni appaiono opportune: in primo luogo, non è mai metodologicamente corretto esaminare un’esperienza storica alla luce delle sensibilità attuali; in secondo, il processo di Norimberga fu certamente svolto all’insegna di una grande celerità (resa possibile anche dalla schiacciante quantità di elementi probatori prodotti in giudizio, tra i quali figurava diverso materiale audiovisivo – la circostanza merita di essere rammentata perché ha rappresentato un significativo precedente). In sintesi, se la questione della natura internazionale appare discutibile e quella della giustizia dei vincitori appare incontrovertibile, sul tema del fair trial occorre procedere ad una serie di distinguo: a solo titolo di esempio, a Norimberga non era prevista la possibilità di presentare una regolare istanza di appello ma solo una straordinaria richiesta di grazia (peraltro mai concessa). D’altronde la stessa Corte, ancorché “imparziale”, non era del tutto “indipendente”, dal momento che era composta da quattro giudici in rappresentanza di ciascuno degli Stati che avevano partecipato alla sottoscrizione originaria degli Accordi di Londra.

Tuttavia, anche sottostimare l’importanza di tale esperienza potrebbe rappresentare un errore di valutazione. Quando il 12.4.1950 la Commissione di diritto internazionale enunciò i «principi di diritto internazionale» riconosciuti nella Carta di Norimberga (come richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione n. 95 (I) del 11.12.1946), le violazioni rubricate all’art. 6 St. come «crimini rientranti nella giurisdizione della Corte» (v. supra) erano divenuti «crimini di diritto internazionale» (cfr. l’art. 41, par. 5, doc. A/CN.4/22).

L’esperienza di Norimberga non restò isolata. L’anno successivo fu proclamata l’istituzione di un ulteriore Tribunale militare internazionale per «la punizione dei maggiori criminali di guerra dell’Estremo Oriente» (così l’art. 1 St. del Tribunale militare internazionale di Tokyo). Quest’ultimo fu creato ad opera di un proclama speciale del Comandante supremo degli Alleati in Oriente, Generale McArthur, il 19.1.1946. Esso fu caratterizzato, oltre che da una minore notorietà – quanto meno in Europa – anche da una minore coesione al suo interno. A tale riguardo, merita di essere ricordata l’opinione dissenziente che il giudice Radhabinod Pal appose alla sentenza. Il ragionamento critico era improntato ad una disapprovazione del doppio standard applicato dalla Corte. Secondo il giudice di origine indiana non si potevano utilizzare due misure nella valutazione, rispettivamente, della condotta giapponese e delle forze alleate. E tale tipo di considerazione aveva certamente un significato emblematico se rapportata al bombardamento atomico delle città giapponesi di Hiroshima e di Nagasaki.

I Tribunali penali internazionali ad hoc per l’ex Iugoslavia e per il Ruanda

Per quanto discussa – e discutibile – possa essere stata l’esperienza dei Tribunali militari internazionali istituiti al termine del secondo conflitto mondiale, essa ha rappresentato un significativo impulso all’istituzionalizzazione di un sistema di giustizia penale internazionale.

Tuttavia, nonostante le grandi aspettative che hanno caratterizzato gli anni immediatamente successivi al 1945, occorrerà attendere la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda (1989) per assistere ad una concreta realizzazione delle prime iniziative dirette alla creazione di un modello di giurisdizione penale internazionale permanente. Ma prima ancora dell’istituzione di una Corte penale internazionale, tali modelli hanno assunto la forma di giurisdizioni locali, create ad hoc per rispondere a delle gravi atrocità nei confronti delle quali la comunità internazionale si è dimostrata sostanzialmente imponente. Ci riferiamo ai Tribunali per l’ex Iugoslavia, prima, e per il Ruanda, poi.

Istituito dalla Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 827 del 25.3.1993, il primo Tribunale ad hoc – quello per l’ex Iugoslavia – è stato creato per rispondere alle violazioni compiute nel quadro dei conflitti che già a partire dall’anno precedente accompagnavano il processo di disgregazione della Repubblica socialista federale di Iugoslavia (sul punto v. Bassiouni, M.C., Indagine sui crimini di guerra nell'ex Jugoslavia L'operato della Commissione degli esperti del Consiglio di sicurezza e il suo Rapporto finale, Milano, 1997).

Il fondamento giuridico di tale Tribunale è stato a lungo dibattuto. Infatti, nonostante la Risoluzione n. 827 sia stata adottata dal Consiglio di sicurezza ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite – che attribuisce a quest’ultimo dei poteri speciali in materia di minacce alla pace, di violazioni della pace e di atti di aggressione – alcuni dubbi interpretativi restano sospesi, con particolare riferimento a quale sia la norma della Carta ONU che attribuisca al Consiglio di sicurezza il potere di istituire organi giurisdizionali. La tesi espressa dal Segretario generale delle Nazioni Unite è semplice: il fondamento del Tribunale andrebbe ricercato innanzitutto nella disposizione di cui all’art. 29 della Carta, che autorizza il Consiglio a creare quegli organi sussidiari che ritenga necessari per l’adempimento delle sue funzioni (cfr. Report of the Secretary General Pursuant to Paragraph 2 of Security Council Resolution 808, doc. S/25704, 3.5.1993). Tuttavia, un simile argomento non è al riparo da critiche: «dato che il problema, che resta in tal modo irrisolto, consiste proprio nel dimostrare che tali funzioni ricomprendano anche quelle di carattere giurisdizionale» (in tal senso Picone, P., Sul fondamento giuridico del Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, in CI, 1996, 3 ss.). Un’interpretazione “autentica” è stata elaborata in un caso nel quale è stata sollevata una questione relativa alla legittimità dell’istituzione del Tribunale medesimo (cfr. la Decision on the Defence Motion for Interlocutory Appeal Jurisdiction del 2.10.1995, emessa dalla Camera d’appello del Tribunale ad hoc per l’ex Iugoslavia nel caso Tadić, IT 94-1-AR72). La conclusione è stata nel senso della legittimità dell’istituzione, in particolare alla luce di un’interpretazione evolutiva dell’art. 41 della Carta delle Nazioni Unite dedicato alle misure non implicanti l’uso delle forza che il Consiglio di sicurezza può adottare in caso di minaccia alla pace, di violazione della pace o di atti di aggressione (e l’ampia argomentazione convince, nonostante il permanere di alcuni dubbi di carattere logico-formale: ragionando a contrario ... che valore avrebbe potuto avere una decisione d’invalidità del Tribunale emessa dai medesimi giudici di quest’ultimo? sull’importante decisione v., ex multis, Sassoli, M., La première décision de la Chambre d’appel du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie: Tadić compétence in RGDIP, 1996, 101 ss; e Warbrick, C., Rowe, P., The International Criminal Tribunal for Yugoslavia: The Decision of the Appeals Chamber on the interlocutory Appeal on Jurisdiction in the Tadić Case, in ICLQ, 1996, 691 ss.).

Tutto ciò premesso, il Tribunale, con sede all’Aja (Olanda), è articolato in tre organi principali: il Procuratore, le Camere, e il Cancelliere.

Il primo dirige l’organo d’accusa: è il responsabile delle investigazioni, della raccolta delle prove e, più in generale, della persecuzione dei crimini. Eletto dal Consiglio di sicurezza su indicazione del Segretario generale delle Nazioni Unite, il Procuratore esercita le proprie funzioni in maniera indipendente, non ricevendo alcuna istruzione dai governi, dalle organizzazioni internazionali o da parte degli altri organi del tribunale.

I giudici, per la cui nomina sono richieste grandi doti di imparzialità e integrità, oltre che competenze specifiche nel campo del diritto internazionale e penale, sono oggi in numero di 16 (ai quali occorre aggiungere nove giudici ad litem). Eletti dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla base di una lista preparata dagli Stati membri con l’ausilio del Segretario generale e del Consiglio di sicurezza, sono distribuiti in Camere di primo grado (che possono essere suddivise in sezioni composte da tre giudici) e in una Camera d’appello (che opera in formazione di cinque elementi ed è diretta dal Presidente del Tribunale, eletto dagli stessi giudici permanenti). Più importante ancora, l’organo d’appello è comune ai due Tribunali ad hoc. Si è trattato di una scelta elaborata per garantire il rispetto del principio di nomofilachia, cioè di uniforme interpretazione del diritto. E di tale intenzione era espressione anche l’originaria scelta di istituire un unico ufficio del Procuratore, comune ad entrambi i Tribunali ad hoc, che si è deciso di scindere in un secondo momento.

Quanto, infine, al Cancelliere, sarebbe meglio riportare il nome inglese – Registry – perché, di fatto, si tratta di un organo che dispone di un potere molto più ampio e vario di quello attribuito solitamente alle cancellerie. Difatti, le funzioni svolte del Registry sono diverse, e si spazia dall’amministrazione delle aule in cui si celebrano i processi (e che vengano sovente videotrasmessi, in diretta o differita), ai complessi servizi di traduzione: oltre alle lingue di lavoro del tribunale – il francese e l’inglese – occorre ricordare che gli accusati hanno il diritto di utilizzare la propria lingua madre, che nel caso del Tribunale per l’ex Iugoslavia può essere il bosniaco, il croato, il serbo, o ancora l’albanese o il macedone. A tali compiti si aggiungono quelli perseguiti da talune sezioni speciali, come quella di aiuto alle vittime e ai testimoni, oppure quella dedita all’assistenza legale. Anche le unità detentive dove gli accusati sono trattenuti in custodia cautelare sono sotto la responsabilità del Registry. Ed è sempre quest’ultimo che sovrintende le diverse forme di cooperazione tra il Tribunale e gli Stati: si tratta di un aspetto di primaria importanza, dal momento che da una corretta cooperazione dipendono questioni quali la cattura delle persone accusate (giova rammentare che tali Tribunali non dispongono di forze autonome di polizia).

Le competenze del Tribunale ad hoc per l’ex Iugoslavia – qui assunto come esempio dei Tribunali ad hoc (vedremo in seguito alcune piccole differenze con quello per il Ruanda) – sono le seguenti.

Per quanto concerne le competenze ratione loci e temporis (cioè il dove e quando del fatto penalmente rilevante) esse sono definite all’art. 1 St., dove si sancisce che il Tribunale è abilitato a giudicare le violazioni gravi compiute sul territorio dell’ex Iugoslavia a partire dal 1991.

La competenza ratione personae è definita all’art. 7 St., dove si ricorda che solo le persone fisiche sono interessate dai provvedimenti dei Tribunali. I diversi titoli della responsabilità individuale – art. 7, par. 1 St. – concernono chiunque ha: «pianificato» (come nel caso dei dirigenti politici), «incitato a compiere» (come nel caso dei dirigenti di giornali o altri media), «ordinato» (come nel caso dei superiori gerarchici), «compiuto», o «in ogni altro modo aiutato o incoraggiato» (questa è la fattispecie di più difficile interpretazione, dal momento che l’istituto dell’aid and abetting è estraneo alla tradizione giusromanistica), a «pianificare, preparare oppure eseguire» i crimini che saranno in seguito specificati (va rilevato che, salvo, per il caso di genocidio, il semplice tentativo non è preso in considerazione).

Inoltre, nel regolamentare ulteriormente il regime di responsabilità individuale, l’art. 7 St. prende in considerazione talune situazioni concernenti specificamente i governanti, i superiori gerarchici e gli esecutori.

Per quanto riguarda i primi, l’art. 7, par. 2 St., ricorda che il ruolo ricoperto da un accusato – ad esempio un Capo di Stato o altro alto funzionario – non rappresenta una causa di esenzione delle responsabilità penale né una circostanza di riduzione della pena (e infatti, al momento in cui è stato incriminato, Slobodan Milosevic ricopriva ancora la carica di Presidente). Una ratio in parte simile sottende la disposizione di cui all’art. 7, par. 3 St.: la circostanza per la quale uno dei reati sui quali il Tribunale esercita la propria potestà giurisdizionale sia stato compiuto da un subordinato non esonera il superiore gerarchico dalla responsabilità penale se quest’ultimo sapeva o avrebbe dovuto sapere che il subordinato si apprestava a compiere tale atto (e, ciò nonostante, non abbia adottato alcuna misura per impedirlo o per punirne gli autori). Da ultimo, tale disposizione è completata da una norma concernente gli esecutori (art. 7, par. 4 St.): il fatto che un accusato abbia agito in esecuzione di un ordine non lo esonera dalla responsabilità penale ma può essere solo preso in considerazione come motivo di riduzione della pena.

Per quanto attiene alla competenza ratione materiae: lo Statuto del Tribunale ad hoc per l’ex Iugoslavia prende in considerazione le infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra del 1949 (quali – ad esempio – l’omicidio intenzionale oppure la tortura o i trattamenti inumani, ex art. 2 St.); le violazioni delle leggi o dei costumi di guerra (quali l’impiego di armi tossiche oppure le distruzioni di centri abitati non giustificate da esigenze militari, art. 3 St.); il genocidio (e cioè una serie di atti, quali gli attentati gravi all’integrità fisica o mentale, compiuti con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, art. 4 St.); e i crimini contro l’umanità (definiti come una serie di gravi condotte – quali lo sterminio – dirette contro la popolazione civile, art. 5 St.).

Dato il carattere essenzialmente interno del conflitto degenerato in Ruanda si assiste, sotto quest’ultimo profilo, a una significativa differenziazione negli Statuti dei Tribunali ad hoc. In particolare, la competenza materiale del Tribunale per il Ruanda, istituito dal Consiglio di sicurezza attraverso la Risoluzione n. 955 dell’8.11.1994 e con sede ad Arusha (Tanzania), è definita attraverso il crimine di genocidio (art. 2 St.), i crimini contro l’umanità (art. 3 St.), e le violazioni dell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra e del Secondo Protocollo Addizionale (art. 4 St.).

Infine, sempre in tema di delimitazione della potestà giurisdizionale di tali istituzioni, le disposizioni di cui agli artt. 9 e 10 St. regolano le ipotesi di conflitti di giurisdizione tra il Tribunale ad hoc e i tribunali nazionali. A tale riguardo, sebbene tanto i giudici interni quanto quelli internazionali abbiano la facoltà di esercitare la propria giurisdizione sulle fattispecie prese in considerazione, la concorrenza è risolta in senso favorevole al Tribunale internazionale che può, in ogni stato e grado avocare a se il procedimento (art. 9 St.). Tale prevalenza è ribadita dalla disposizione che sancisce il divieto di ne bis in idem (art. 10 St.): da un lato si sancisce che nessuno possa essere tradotto dinanzi ad un giudice interno se sia stato già oggetto di un accertamento giudiziale da parte del Tribunale internazionale; dall’altro si prevede che i giudici internazionali possano procedere ad un nuovo accertamento nei casi in cui il fatto sia stato rubricato a livello interno come un reato ordinario, o ancora nelle ipotesi in cui il procedimento nazionale non sia stato condotto in modo diligente, indipendente o imparziale, o sia stato disegnato allo scopo di sottrarre l’accusato dall’accertamento delle responsabilità penali in sede internazionale.

Per quanto concerne il procedimento, esso si ispira al modello accusatorio con alcune influenze del modello inquisitorio, ed è contraddistinto dall’assenza dell’obbligo di esercizio dell’azione penale (che si rivelerebbe in ogni caso impossibile, dato il rapporto tra l’insieme delle violazioni e le risorse concretamente disponibili). Esso è dettagliatamente disciplinato dal Regolamento di procedura e di prova, una sorta di codice di procedura redatto dai medesimi giudici chiamati a darne applicazione (cfr. l’art. 15 St.). La sentenza, che nel massimo dei casi può raggiungere la detenzione a vita (essendo esclusa la pena capitale), è destinata ad essere eseguita in uno degli Stati che hanno firmato un accordo che sancisce la possibilità di ospitare i condannati.

In chiusura e sintesi, a più di venti anni dalla nascita dei tribunali ad hoc appare difficile tracciare un bilancio univoco di tali esperienze. Sotto il profilo dell’impatto, si può certamente osservare che dopo alcuni primi anni di “rodaggio” i Tribunali ad hoc abbiano esercitato una discreta influenza, accompagnando, talvolta, dei rilevanti mutamenti negli assetti di potere (come nel caso della “caduta” del Presidente Milosevic). Sotto un profilo più strettamente giuridico si è certamente trattato di un insostituibile laboratorio giurisprudenziale: l’incessante lavoro di interpretazione e cesellatura tanto delle norme di diritto internazionale umanitario quanto di quelle sui diritti umani (ad esempio in tema di equo processo) ha dato un significativo slancio allo sviluppo del diritto internazionale penale, colmando diverse lacune in materia. Ciò nonostante, dati i costi, anche economici, e gli ostacoli, anche politici, che i Tribunali ad hoc hanno incontrato lungo il proprio cammino, l’evoluzione della tutela penale – condotta in sede internazionale – delle più gravi violazioni è progredita in altre direzioni. Innanzitutto nel senso dell’istituzione di una Corte a carattere permanente e a vocazione universale, e in seguito verso la previsione di tribunali misti o internazionalmente assistiti.

La Corte penale internazionale

Il Trattato sulla Corte penale internazionale, il cui relativo Statuto istitutivo è stato adottato a Roma il 17.7.1998 con 120 voti a favore, 21 astensioni e 7 voti contrari (Cina, Libia, Iraq, Israele, Stati Uniti, Qatar e Yemen), è entrato in vigore il 1.7.2002.

A partire da tale data (dies ex quo della competenza irretroattiva della Corte, cfr. gli artt. 22 e 24 St.) i crimini originariamente contemplati nella competenza per materia dello Statuto di Roma rientrano a pieno titolo nella giurisdizione della Corte, salvo quanto sarà in seguito specificato in materia di complementarità e di condizioni per l’esercizio dell'azione penale.

Le fattispecie incluse nella competenza ratione materiae sono: crimini di guerra (art. 8 St.), crimini contro l'umanità (art. 7 St.), genocidio (art. 6 St.), e a tale lista va aggiunto il crimine di aggressione, la cui definizione è stata approntata al termine della conferenza di revisione del 2010 (art. 8 bis St.). Tuttavia, relativamente a quest’ultima fattispecie occorre una specificazione: l’operatività di tale crimine è subordinata alla previa risoluzione di una serie di articolate condizioni la cui determinazione appare – al momento in cui si scrive – ancora incerta (v., sul tema, Della Morte, G., La conferenza di revisione dello Statuto della Corte penale internazionale e il crimine di aggressione, in Riv. dir. intern., 2010, 697 ss.).

Relativamente alla competenza ratione personae, essa concerne le sole persone fisiche (art. 25 St.) maggiori di 18 anni al momento della commissione del crimine (art. 26 St.). Anche in questo caso sono previste delle norme specifiche nel caso dei superiori gerarchici e degli esecutori materiali. Cominciando da questo ultimi, si sancisce il principio delle cd. “baionette intelligenti”: la circostanza per cui un crimine sia stato compiuto sulla base di un ordine di un superiore (tanto civile quanto militare) non esonera la persona che lo ha compiuto dalle proprie responsabilità, a meno che non si tratti: (a) di un ordine da eseguire sulla base di un obbligo legale; (b) di un ordine che non si sapeva che fosse illegale; (c) di un ordine che non fosse manifestamente illegale (a tale riguardo occorre aggiungere che l’ordine di compiere un genocidio è sempre manifestamente illegale). Diversamente, ai superiori gerarchici non è riconosciuta alcuna immunità (art. 27 St.), ed è inoltre sancito un regime particolare nel caso in cui siano i propri subordinati ad avere compiuto delle condotte criminose (art. 28 St.): nel caso di un comandante militare, sarà ritenuto responsabile chi, pur «sapendo o avendo dovuto sapere» che le forze sottoposte al suo comando o controllo effettivo eseguivano o si apprestavano a compiere uno dei crimini rientranti nella competenza della Corte, non abbia adottato alcuna misura «necessaria e ragionevole» per impedirlo o per punirne gli autori; contrariamente, nel caso in cui il superiore gerarchico non eserciti una funzione di tipo militare, il regime di responsabilità appare meno stringente e lo Statuto attribuisce la responsabilità dei crimini compiuti dai subordinati sottoposti all’autorità e al controllo effettivo a condizione che: (a) il superiore sia stato «deliberatamente negligente» nel valutare le informazioni che indicavano «chiaramente» che un crimine fosse o stesse per essere compiuto; (b) detti crimini siano legati ad attività effettivamente collegate alla «responsabilità e al controllo effettivo» del superiore; e (c) il superiore non abbia preso tutte le misure necessarie e ragionevoli per impedire o reprimere l’esecuzione dell’attività criminosa.

Passando all’esame della competenza ratione loci, il potere dei giudici della Corte – che siedono all’Aia (Paesi Bassi) – si articola in vario modo.

Innanzitutto, bisogna specificare che la Corte è complementare ai tribunali interni degli Stati (Preambolo e art. 1 St.): i soli casi in cui l’organo d’accusa internazionale è legittimato ad agire sono quelli in cui i giudici dello Stato più direttamente coinvolto – ad esempio lo Stato nel cui territorio sia avvenuto il crimine – non siano in grado di esercitare l’azione penale o non intendano farlo (e sarà la stessa Corte a decidere sul punto, secondo il principio della competenza sulla propria competenza, art. 17 St.).

In secondo luogo, nel quadro di tale carattere complementare, il potere dei giudici della Corte è stato delineato secondo due direttrici principali che delimitano – in senso lato – la relativa competenza territoriale. Nel caso in cui l’azione della Corte sia attivata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla base di una risoluzione adottata nel quadro delle misure necessarie al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (ergo ai sensi del capitolo VII della Carta ONU, che garantisce ai cinque membri permanenti del Consiglio – Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti – un potere di veto), la giurisdizione si estende in qualunque parte del mondo e nei confronti di qualunque cittadino (artt. 12 e 13.b St.). Negli altri casi di attivazione, su richiesta di uno Stato che abbia ratificato il Trattato oppure su iniziativa spontanea del Procuratore internazionale (artt. 12, 13.a e 13.c St.), occorrerà invece che il crimine sia stato compiuto nel territorio di uno Stato parte al Trattato oppure ad opera di un relativo cittadino.

A questo occorre aggiungere che, oltre al potere di azionare la giurisdizione nei casi in cui altrimenti risulterebbe impossibile – si pensi, per esempio, all’ipotesi di crimini compiuti nel territorio e ad opera di cittadini di uno Stato che non abbia aderito al Trattato sulla Corte – il Consiglio di sicurezza è provvisto di un potere di tipo speculare, che consiste nella sospensione di ogni attività del Procuratore per un periodo di dodici mesi, eventualmente rinnovabili, qualora le esigenze di mantenimento della pace lo richiedano (art. 16 St.). Ne consegue che, nel quadro del corpus iuris del Trattato sulla Corte, il ruolo dell’organo esecutivo delle Nazioni Unite si delinea come centrale. Esso è il solo custode di una doppia chiave, che consente l'attivazione o l’interruzione dell’azione penale nelle ipotesi in cui, altrimenti, risulterebbe impossibile azionare la giurisdizione.

Altro perno fondamentale è rappresentato dal regime di cooperazione. Dal momento che la Corte non dispone né di polizia né di carceri proprie, l’efficacia del relativo operato dipende dalla collaborazione degli Stati. E questo vale per l’intero iter del procedimento, dal momento della cattura e della raccolta delle prove a quello dell’esecuzione dell’eventuale sentenza di condanna, il cui limite è fissato in trent’anni o, per i casi più gravi, nell’ergastolo, con la significativa esclusione della pena di morte (art. 77 St.).

In definitiva, la Corte presenta una natura non priva di contraddizioni. Da un lato, appare ideata per garantire i diritti dei singoli individui nelle ipotesi in cui gli Stati non siano in grado o non intendano provvedere autonomamente (ci riferiamo innanzitutto al diritto delle vittime ad ottenere giustizia, e in secondo luogo al diritto degli accusati a ricevere un equo processo). Dall’altro, si tratta comunque di un’istituzione fondata su quella medesima sovranità statale che s’intendere – idealmente – superare: essa non opera che attraverso la cooperazione degli Stati e secondo le regole definite dalle delegazioni governative nel corso dei negoziati.

I Tribunali ibridi o internazionalmente assistiti

Da ultimo, ancorché si tratti di un assortimento variegato di esperienze profondamente diverse, occorre presentare un rapido cenno ai tribunali ibridi o internazionalmente assistiti.

Si tratta di un insieme di esperienze nate nel corso degli ultimi anni, che includono (inter alia): la Corte speciale per la Sierra Leone (fondata su di un accordo tra le Nazioni Unite e il Governo della Sierra Leone); le Camere straordinarie per la Cambogia (stabilite da una legge interna promulgata con riguardo a talune disposizioni pattizie); il Tribunale speciale per il Libano (fondato su di un accordo tra le Nazioni Unite e la Repubblica libanese); i cd. Panel con giurisdizione esclusiva sulle gravi violazioni in Timor Est (stabiliti dall’amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite operante in tale Paese); l’utilizzo di giudici e procuratori internazionali in Kosovo (deciso dalla relativa amministrazione interinale delle Nazioni Unite).

L’elenco non è da considerarsi esaustivo: a secondo dei criteri adottati può restringersi come allargarsi. Pertanto, anche in considerazione delle profonde divergenze che intercorrono tra ciascuna di queste giurisdizioni, non è questa la sede più opportuna per entrare nel dettaglio. Eppure, in una prospettiva di sintesi, un tratto comune merita di essere rilevato: al di là del dibattito sulla natura autenticamente internazionale di ciascuna di tali esperienze, esse rappresentano la più recente evoluzione delle tendenze dirette ad istituzionalizzare la giustizia penale internazionale.

Fonti normative

Treaty of Peace between the Allied and Associated Powers and Germany, Versailles, 28.6.1919; Treaty of Peace between the Allied and Associated Powers and Turkey, Sèvres, 10.8.1920; Convention on the Prevention and Punishment of Terrorism, Ginevra, 16.11.1937; Agreement for the Prosecution and Punishment of the Major War Criminals of the European Axis, and Charter of the International Military Tribunal, Londra, 8.8.1945 (istitutivo del Tribunale militare internazionale di Norimberga); Special Proclamation Ordering the Establishment of an International Military Tribunal for the Far East, 19.1.1946 (istitutiva del Tribunale militare internazionale per l’estremo oriente); Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 827 del 25.5.1993 (istitutiva del Tribunale ad hoc per l’ex Iugoslavia); Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 955 del 8.11.1994 (istitutiva del Tribunale ad hoc per il Ruanda); Trattato istitutivo della Corte penale internazionale, Roma, 17.7.1998 (entrato in vigore il 1.7.2002); United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, Regulation n. 2000/6 On the Appointment and Removal from Office of International Judges and International Prosecutors, 15.2.2000; United Nations Transitional Authority in East Timor, Regulation n. 2000/15 On the Establishment of Panels with Exclusive Jurisdiction Over Serious Criminal Offences, 6.6.2000; Agreement between the United Nations and the Government of Sierra Leone pursuant to Security Council Resolution n. 1315, 14.8.2000; Agreement between the Royal Government of Cambodia and the United Nations concerning the prosecution under Cambodian law of crimes committed during the period of democratic Kampuchea, Phnom Penh, 6.6.2003; Agreement between the United Nations and the Lebanese Republic on the establishment of a Special Tribunal for Lebanon annesso alla Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 1757, 30.5.2007.

Bibliografia essenziale

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Sui Tribunali ad hoc: Bassiouni, C.M., Manikas, P., The Law of the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, New York, 1996; Fronza, E., Manacorda, S. (dir.), La justice pénale internationale dans les décisions des Tribunaux ad hoc, Milano, 2003; Jones, J.R.W.D., The practice of the International Criminal Tribunals for the former Yugoslavia and Rwanda, II ed., New York, 2000; Klipp, A.-Sluiter, G. (eds.), Annotated Leading Cases of International Criminal Tribunals, 3 vols., Antwerp, 2001; Lattanzi, F.-Schabas, W.A. (eds.), Essays on the Rome Statute of the International Criminal Court, vol. I e II, Ripa di Fagnano Alto, rispettivamente, 1999 e 2004; Morris, V.-Scharf, M., An insider’s Guide to the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia: A Documentary History and Analysis, New York, 1995; Id., The International Criminal Tribunal for Rwanda, 2 vols., New York, 1998.

Sulla Corte penale internazionale: Carlizzi, G.-Della Morte, G.-Marchesi, A.-Laurenti, S. (a cura di), La Corte penale internazionale problemi e prospettive, Napoli, 2003; Cassese, A.-Gaeta, P.-Jones, J.R.W.D. (eds.), The Rome Statute of the International Criminal Court. A Commentary, Oxford, 2002; Lee, R.S. (ed.), The International Criminal Court: The Making of the Rome Statute Issues, Negotiations, Results, The Hague, 1999; Politi, M.-Nesi, G. (eds.), The Rome Statute of the International Criminal Court, A Challenge To Impunity, Dartmouth, 2001; Schabas, W., The International Criminal Court – A Commentary on the Rome Statute, Oxford, 2010; Triffterer, O., Commentary on the Rome Statute of the International Criminal Court. Observers’ Notes, Article by Article, II ed., Baden-Baden, 2008.

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