Tributi regionali

Diritto on line (2015)

Simone Cociani

Abstract

Esaminata l’evoluzione della finanza regionale, viene illustrata la cornice costituzionale entro la quale risulta iscritta la disciplina generale dei tributi regionali. Dunque, all’esito dell’emanazione del d.lgs. 6.5.2011, n. 68, in attuazione della legge delega 5.5.2009, n. 42, vengono brevemente passati in rassegna i singoli prelievi regionali.

La finanza locale e regionale in Italia

Il tema dei tributi regionali va inquadrato tenendo presente l’evoluzione che la finanza pubblica del nostro Paese ha registrato nel corso del tempo. Al riguardo, fin dai tempi dell’Unità d’Italia, si privilegiò un assetto della finanza pubblica idealmente informato al principio della separatezza delle fonti, nel senso che avrebbero dovuto risultare distinti i cespiti imponibili assegnati al sistema statale rispetto a quelli assegnati ai concorrenti (sub)sistemi locali. Ciò, avrebbe dovuto assicurare il massimo di autonomia alle istituzioni locali e, nel contempo, il pieno sfruttamento della materia imponibile. Tuttavia, nella sua concreta applicazione, la finanza locale risultò da subito caratterizzata da una notevole commistione rispetto a quella statale. Difatti, la parte più rilevante dei tributi locali si caratterizzava per il ricorso a fattispecie impositive alquanto simili a quelle dei corrispondenti tributi erariali, in concreto determinando una sovrapposizione dei tributi espressione dei vari livelli di governo, finendo tutti insieme per gravare sulle pressoché medesime manifestazioni di ricchezza.

Tale stato di cose – progressivamente aggravatosi anche in relazione alle sempre crescenti necessità finanziarie che, dal canto loro, determinarono il ricorso ad una legislazione tributaria per lo più episodica – rimase sostanzialmente immutato fino all’epoca della concreta istituzione delle regioni (cfr. l. 16.3.1970, n. 281), pressoché contestuale all’avvio della riforma tributaria generale di cui alla legge delega 9.10.1971, n. 825. L’assetto della finanza pubblica che ne scaturì – a parte alcuni meri simulacri di autonomia tributaria regionale o locale (es. ILOR e INVIM) – risultò chiaramente influenzato da una visione generale di tipo centralista, a sua volta tale da condurre all’affermazione del primato del principio della finanza derivata quale regola generale di “riparto” nelle relazioni finanziarie cd. “multilivello”. Difatti, da una parte la stessa legge n. 281/1970 aveva espressamente previsto l’attribuzione alle regioni di quote di gettito derivante da tributi erariali, dall’altra la riforma in parola portò con sé una consistente riduzione del numero dei tributi propri di regioni ed enti locali, di per sé in grado di assicurare un gettito pressoché trascurabile. Si noti, poi, che anche i tributi regionali “propri” all’epoca introdotti costituivano un numerus clausus di prelievi tutti pressoché interamente disciplinati dalla legge statale che, invero, ben poco spazio di autonomia – per lo più finanziaria – lasciava agli enti territoriali. Conseguentemente la maggior parte delle risorse finanziarie necessarie a garantire lo svolgimento delle funzioni istituzionali affidate a regioni ed enti locali proveniva, quasi interamente, da trasferimenti erariali. E, in ogni caso, i pochi tributi propri formalmente assegnati alle regioni – stante l’inesistenza di concreti poteri in ordine alla configurazione della fattispecie impositiva, ovvero della stessa base imponibile – non potevano essere ritenuti strumenti espressivi di un’effettiva autonomia tributaria dei rispettivi enti. Insomma, il quadro complessivo della finanza pubblica, all’indomani della riforma tributaria degli anni settanta del secolo scorso, risultava tale da comprimere fortemente sia l’autonomia tributaria che la potestà impositiva degli enti territoriali.

Noti sono i guasti che tale assetto della finanza pubblica determinò. Invero, un decentramento su base regionale e locale del solo potere di spesa, quello sì, ottenuto da parte delle ccdd. Autonomie locali, non accompagnato da un coerente decentramento anche dell’autonomia normativa e della potestà amministrativa in materia tributaria, in uno con un sistema di finanziamento fondato sul criterio della spesa storica, cd. “a piè di lista”, favorì la generale deresponsabilizzazione del ceto politico e degli amministratori regionali e locali. Tale stato di cose, unito alle già gravose conseguenze della crisi finanziaria che interessò il nostro Paese a far tempo dalla metà degli anni settanta del secolo scorso, non tardò ad imporre all’attenzione del Parlamento la necessità di procedere al deciso risanamento delle finanze pubbliche, non disgiunto dalla moralizzazione della stessa classe politica.

Dunque, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta del secolo scorso, anche sulla spinta di alcune pressioni politiche che recentemente hanno trovato una qualche espressione positiva negli istituti che vengono raggruppati sotto il nome di “federalismo fiscale”, cominciò a farsi strada un indirizzo legislativo volto a perseguire una qualche autonomia, sia politica che finanziaria, in favore di regioni ed enti locali. Nel quadro della ora richiamata tendenza, infatti, è possibile accennare alla più generale revisione del sistema delle autonomie locali (cfr. l. 8.6.1990, n. 142), nonché dell’autonomia finanziaria delle regioni (cfr. d. lgs. 21.12.1990, n. 398). All’interno della menzionata cornice si procedette nella direzione di aumentare il grado di autonomia tributaria di regioni ed enti locali, ciò anche per effetto dell’introduzione di nuovi tributi – all’epoca definiti “propri” – come l’imposta comunale sugli immobili (ICI) e, successivamente, l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP). Tuttavia – deve senz’altro rilevarsi – nella disciplina di questi nuovi tributi, un ruolo centrale il legislatore statale ritenne di continuare a riservare a se stesso:  veniva, infatti, mantenuto a livello centrale il potere di stabilire i caratteri fondamentali delle introdotte fattispecie impositive, ancorché fosse stato assegnato alla periferia il potere di intervenire sulla misura delle aliquote, beninteso nel rispetto di un minimo e un massimo già fissati con legge statale, così come pure il potere di “attivare” alcune agevolazioni, anche in questo caso già compiutamente previste dalla legislazione statale. L’assetto della finanza regionale che ne scaturì – ancora una volta – non poté dirsi come davvero autonomo rispetto alla finanza statale, anche perché, in sostanza, il primo risultava imperniato su meccanismi compartecipativi rispetto a tributi erariali (addizionale regionale IRPEF), oltre che su un tributo la cui disciplina era apprestata prevalentemente ad opera della legge statale e il cui gettito, solamente, risultava destinato alle singole regioni (IRAP). Entrambi i prelievi ora richiamati, nell’intenzione del legislatore, dovevano assicurare una base imponibile complessiva alquanto ampia (rectius: generalizzata) e stabile, gravando l’addizionale IRPEF su tutte le persone fisiche residenti nel territorio della singola regione e gravando l’IRAP su tutte le attività economiche svolte sul territorio regionale, di tal guisa assicurando un’adeguata fonte di finanziamento rispetto alle funzioni assegnate agli enti territoriali.

Il cd. “federalismo fiscale”

Come accennato, il dibattito politico e dottrinale intorno al tema del cd. “federalismo fiscale” si è fatto via via più intenso nel corso degli anni novanta del secolo scorso. In questo quadro sono state ipotizzate varie leggi di riforma che, per quanto attiene alla materia tributaria, risultavano tutte volte a ridurre il peso dei tributi erariali, intendendosi spostare il baricentro dell’imposizione fiscale “dal centro alla periferia”. Peraltro, l’espansione del potere impositivo di regioni ed enti locali avrebbe dovuto risultare in qualche modo correlata – specialmente con riferimento ai prelievi locali – al fenomeno della cd. “commutativizzazione” del prelievo fiscale, nel senso che il potere impositivo degli enti periferici avrebbe dovuto essere giustificato in ragione dei servizi resi dagli enti stessi ai loro cittadini, di tal guisa potendosi aumentare la quota di gettito impiegata a vantaggio dei territori dai quali il gettito stesso era stato prelevato. Tutto ciò, da un lato, avrebbe dovuto condurre ad una responsabilizzazione degli amministratori regionali e locali in ordine all’assunzione degli impegni di spesa e delle decisioni di prelievo e, dall’altro, avrebbe dovuto favorire un aumento della consapevolezza in capo agli amministrati, potendo gli elettori confrontare i benefici arrecati da opere e servizi pubblici rispetto al peso – reso più immediatamente visibile – dei tributi prelevati per finanziarli, il tutto secondo il noto schema circolare “vedo-voto-pago”.

Nell’ambito di questa tendenza si inscrive l’ampliamento del potere regolamentare, specie di comuni e province, in ordine alla disciplina delle loro entrate, ferma restando la determinazione, ad opera della legge statale, delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e dell’aliquota nella sua misura massima (cfr. art. 52, d.l. 15.12.1997, n. 446). Tale potere regolamentare – a ben vedere – è fondamentalmente limitato all’organizzazione ed alle modalità di applicazione dei vari tributi, anche attraverso la possibilità di affidarne l’accertamento, la liquidazione e la riscossione a soggetti terzi, pubblici o privati.

Quanto alla dimensione più propriamente sostanziale dell’imposizione, il federalismo fiscale ha portato con sé una certa rivalutazione del cd. “principio del beneficio”. In quest’ottica, si è infatti tornati ad ipotizzare che i tributi, specie se regionali e locali, potessero assumere quale presupposto anche il vantaggio economico in capo al singolo contribuente derivante dallo svolgimento di una data funzione da parte dell’ente, funzione appunto da finanziarsi con uno specifico prelievo. Nell’ambito di questa cornice teorica, come accennato, si è assistito alla “detributarizzazione” di alcuni prelievi, basti pensare alla trasformazione della tassa sull’occupazione degli spazi ed aree pubbliche (TOSAP) in canone (cd. COSAP), ovvero alla istituzione di veri e propri tributi di scopo.

Il federalismo fiscale così ipotizzato, da declinarsi nella sua modalità solidale, ovvero cooperativa, presuppone poi l’introduzione (rectius: il rafforzamento) di meccanismi perequativi volti ad assicurare a tutti i livelli di governo di erogare – almeno non al di sotto del loro livello minimo-essenziale – quei servizi pubblici (es. cura della salute) correlati ai diritti fondamentali ed irriducibili, a prescindere dagli squilibri territoriali e dalle differenti capacità fiscali per abitante dei singoli territori (cfr. artt. 38 e 61, d. lgs. n. 446/1997; art. 10, l. 13.5.1999, n. 133; art. 7, d. lgs. 18.2.2000, n. 56). Quanto sopra dovrebbe avere l’ulteriore merito di coinvolgere tutti gli enti territoriali e locali nel perseguimento degli obiettivi di risanamento delle finanze pubbliche, con una corresponsabilizzazione in caso di mancato raggiungimento degli stessi (cfr. art. 28, l. 23.12.1998, n. 448).

La riforma del titolo V della Costituzione

La riforma del titolo V della Costituzione, introdotta, a seguito del positivo esito del referendum consultivo, con legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, ha profondamente modificato l’assetto istituzionale e del governo territoriale, in particolare accentuando l’autonomia di regioni ed enti locali. Tale riforma, teoricamente coerente con la dinamica evolutiva dei principali stati democratici, ha impresso una svolta verso un sistema istituzionale fondato sui principi di equiordinazione, autonomia, sussidiarietà e autogoverno responsabile, anche al fine di meglio garantire le libertà civili e politiche.

Per quanto attiene alla potestà legislativa, il nuovo testo dell’art. 117 Cost. ha equiparato la legge regionale e quella statale, letteralmente rovesciando la precedente impostazione che vedeva la legge statale esercitare una funzione pressoché tutoria rispetto alla legge regionale. Conseguentemente, lo stesso ambito di operatività della funzione legislativa fino ad allora esercitata dal Parlamento ha finito per ridursi sensibilmente, appunto per effetto dell’affermazione di una potestà legislativa autonoma delle regioni. Più in dettaglio, il nuovo art. 117 Cost. prevede un’elencazione tassativa delle materie di legislazione esclusiva riservate allo Stato tra le quali – per quanto in questa sede interessa – può menzionarsi il sistema tributario e contabile dello Stato, oltre alla perequazione delle risorse finanziarie. Indi, lo stesso art. 117 indica una serie di materie riservate alla legislazione concorrente Stato-regioni, tra le quali merita di essere ricordato il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, subito dopo specificandosi che nelle materie di legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Infine, il medesimo art. 117 Cost. afferma, poi, che spetta alle regioni – nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – un’autonoma potestà legislativa generale, di tipo residuale, in riferimento ad ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

Il nuovo Titolo V ha poi innovato profondamente il quadro istituzionale anche con riferimento al tema dell’autonomia finanziaria. L’attuale testo dell’art. 119 Cost., infatti, ha affermato il passaggio da un sistema accentrato di finanza derivata, ad un sistema fondato sull’autonomia di entrata e di spesa in cui, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci e concorrendo ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea, i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni, che hanno risorse autonome, stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Essi, poi, dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio. Ancora, il terzo comma dell’art. 119 in parola afferma che la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante, di tal guisa attribuendo allo Stato la funzione di garantire a tutti i cittadini i livelli minimi di uguaglianza, non solo formale ma anche sostanziale, a prescindere dal territorio di residenza. Dunque, il nuovo assetto costituzionale, con particolare riferimento alle relazioni finanziarie tra i vari livelli di governo, nel mentre ha inteso garantire l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa di ciascun ente, ha altresì inteso segnare il passaggio da un sistema in cui lo Stato aveva una funzione pressoché assistenzialistica, ad un sistema fondato sulla responsabilità: dovendo ogni livello di governo garantire con le proprie risorse l’esercizio delle funzioni pubbliche a ciascuno attribuite, specie quelle connesse ai diritti fondamentali della persona, salvo l’intervento del fondo perequativo (alimentato con quote dell’addizionale regionale IRPEF e della compartecipazione al gettito IVA) effettuato tuttavia non più sulla base della spesa storica ma sulla base dei cd. “costi standard” calcolati in capo alla regione che funge da benchmark.

Il ruolo della giurisprudenza costituzionale

Avendo l’art. 117 Cost. assegnato alla legislazione statale il compito di determinare i principi fondamentali del coordinamento nelle materie di legislazione concorrente e, tuttavia, non avendo lo Stato prontamente esercitato questa sua prerogativa, ciò ha indotto non pochi a ritenere che, nell’attesa, tali principi fondamentali del coordinamento potessero anche essere desunti dal sistema vigente, altrimenti il legislatore statale avrebbe pure potuto impedire sine die l’attuazione della riforma. Pertanto la dottrina ha enucleato, quali principi fondamentali: la razionalità e coerenza dei singoli istituti tributari rispetto all’intero sistema tributario nel suo complesso, con la conseguente individuazione di un divieto di sovrapposizione di basi imponibili; la semplificazione del sistema e degli adempimenti; la limitazione delle agevolazioni che configurino una limitazione dannosa della concorrenza; la trasparenza e l’efficienza delle decisioni e dell’amministrazione del prelievo. Dunque, in quest’ottica, alcune regioni, dopo aver valorizzato particolarmente la loro competenza legislativa – viceversa svalutando forse oltremisura le prerogative statali nello stabilire limiti al concreto esercizio dell’autonomia tributaria regionale – hanno finito per assumere iniziative legislative in materia tributaria su cui, ben presto, è stata chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale.

La Consulta, nel decidere sui numerosi conflitti di competenze tra Stato e regioni, non ha tardato ad affermare che queste non avessero il potere di incidere su tributi già compiutamente disciplinati con legge dello Stato, ovvero su tributi caratterizzati dagli stessi presupposti o dalle stesse basi imponibili di tributi erariali già vigenti, di tal guisa limitando l’autonomia tributaria regionale a ben pochi e marginali prelievi “di scopo”, ovvero caratterizzati da presupposti per lo più a matrice “corrispettiva”, diversi da quelli dei tributi statali (cfr. C. cost., 26.9.2003, nn. 296 e 297, 15.10.2003, n. 311), quanto meno in attesa della legge statale di coordinamento di cui sopra (cfr. C. cost., 26.1.2004, n. 37). Conseguentemente, fino all’emanazione di tale legge statale di coordinamento, poi introdotta con legge delega n. 42/2009, alla Corte costituzionale unicamente è spettato regolare la risoluzione delle non poche controversie via via prospettatesi nell’attuazione del nuovo Titolo V. Ciò ha portato al risultato, specie in materia tributaria, che proprio la giurisprudenza costituzionale ha finito per fissare le regole del riparto delle competenze tra legislazione statale e regionale. Ebbene, nell’esercizio di questa delicata funzione di “supplenza”, la Corte costituzionale risulta essersi ispirata a particolare prudenza nel contemperare la portata innovativa del nuovo quadro costituzionale rispetto alle esigenze di coerenza complessiva del sistema tributario (pre)esistente, oltre che rispetto alle pulsioni autonomiste di cui alcune leggi regionali si erano fatte portatrici. Tale corso giurisprudenziale ha tuttavia finito per comprimere – forse oltremisura – l’autonomia finanziaria e tributaria degli enti territoriali, inducendo ad accentuare le critiche all’indirizzo di una concezione statalista del coordinamento finanziario e della finanza pubblica nel suo complesso (cfr., seppur riferita alle regioni a statuto speciale, C. cost., sent. 15.4.2008, n. 102), non a caso paragonata ad un “albero storto”. In quest’ottica il Giudice delle leggi ha più volte ribadito che per tributi regionali cd. “propri” debbono intendersi (solo) quei prelievi istituiti e disciplinati dalla legge regionale, conseguentemente negando agli enti territoriali di intervenire rispetto a prelievi, istituiti e regolati da leggi statali, ancorché il relativo gettito, peraltro derivante da un presupposto riferibile al territorio regionale, fosse destinato ad alimentare la finanza territoriale. Con riferimento a casi del genere la Corte ha così finito per elaborare la nozione di tributi regionali propri “derivati”, cioè istituiti e in massima parte pure regolati da leggi statali, da distinguersi rispetto ai tributi regionali propri “in senso stretto”, come detto istituiti e regolati esclusivamente da leggi regionali anche perché collegati a materie residuali non espressamente riservate al legislatore statale (di cui all’art. 117, co. 4, Cost.), ove solo i secondi risultano (istituibili e quindi anche) modificabili con legge regionale, sempreché ciò avvenga nel rispetto, non tanto dei principi fondamentali del coordinamento col sistema tributario statale (come detto imposto dall’art. 117, co. 3, Cost.), quanto nel rispetto del più ampio vincolo costituito dall’esigenza di preservare l’armonia in riferimento all’intero ordinamento tributario nel suo complesso.

In definitiva, la giurisprudenza costituzionale ha così finito per confermare pressoché immutata la persistenza e la valenza in materia tributaria del disposto di cui all’art. 23 Cost., dovendo dipendere ogni iniziativa del legislatore regionale – specie in materia di tributi regionali propri derivati – dalla previa emanazione di una legge statale volta a determinare sia i principi generali dell’ordinamento tributario nel suo complesso, sia i principi fondamentali del coordinamento, attribuendosi così allo Stato, anche a regime, la facoltà di individuare i limiti e gli spazi entro cui consentire l’esplicitazione delle prerogative riconosciute a regioni ed enti locali.

Quanto alle regioni a statuto speciale, la Corte costituzionale ha riconosciuto ad esse una maggiore autonomia rispetto a quelle a statuto ordinario, dovendo escludersi – rispetto alle prime – l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 117 e 119 Cost., se ed in quanto più restrittive rispetto a quelle dei singoli statuti speciali, poiché approvati con legge costituzionale. In ogni caso, anche per tali regioni dotate di speciale autonomia, dovendo il legislatore di queste rispettare il vincolo dell’armonia con la Costituzione, è loro precluso istituire e disciplinare tributi aventi rationes in contrasto con quelle degli omologhi tributi statali, pur potendo i tributi regionali delle sole regioni a statuto speciale – all’opposto di quelli delle regioni a statuto ordinario – avere presupposti sovrapponibili a quelli degli omologhi tributi statali (cfr. C. cost., n. 102/2008).

La legge delega 5 maggio 2009, n. 42

Il descritto quadro costituzionale ha finalmente trovato il suo completamento con l’emanazione, in attuazione dell’art. 119 Cost., della legge delega n. 42/2009, con cui sono stati fissati i criteri direttivi ai quali debbono attenersi i decreti legislativi volti a concretamente disciplinare il cd. “federalismo fiscale” introdotto a seguito della riforma costituzionale del 2001.

Per quello che in questa sede interessa, la legge delega n. 42/2009 dichiara esplicitamente le sue disposizioni come volte a stabilire, in via esclusiva, i principi generali del federalismo fiscale e quelli fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, di tal guisa finendo per riaffermare un primato centralistico che, invece, la stessa riforma del Titolo V aveva inteso (quanto meno) correggere. Peraltro la stessa delega, nel disciplinare le entrate di natura tributaria, assegna prevalentemente a compartecipazioni al gettito di tributi erariali e a tributi regionali e locali di tipo derivato (dunque in massima parte istituiti e disciplinati dalla legge statale) la funzione di assicurare il finanziamento di regioni ed enti locali, lasciando ai tributi regionali propri in senso stretto (istituiti cioè dalle regioni con proprie leggi e riferiti a presupposti non già assoggettati a tributi erariali) un ruolo pressoché marginale. A quest’ultimo riguardo deve poi osservarsi che, quanto ai principi generali del federalismo e a quelli fondamentali del coordinamento, la legge n. 42/2009 elenca, quali principi e criteri direttivi della delega, in particolare: la razionalità e la coerenza dei singoli tributi e del sistema tributario nel suo complesso; la semplificazione di questo e la riduzione degli adempimenti a carico dei contribuenti; la trasparenza del prelievo; l’efficienza nell’amministrazione dei tributi; il rispetto dei principi dello Statuto dei diritti del contribuente; il coinvolgimento dei diversi livelli istituzionali nel contrasto all’evasione e all’elusione; l’attribuzione di risorse autonome ai vari enti territoriali e locali in relazione alla rispettive competenze, secondo il principio di territorialità e nel rispetto dei principi di solidarietà, sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza; la non alterazione della progressività del sistema tributario e il rispetto del principio della capacità contributiva; l’esclusione di ogni doppia imposizione sul medesimo presupposto (salve le addizionali); la tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio in modo da favorire la corrispondenza tra responsabilità finanziaria e amministrativa; la continenza dell’interesse espresso dall’elemento materiale del presupposto del tributo rispetto agli interessi compresi nell’elencazione delle materie attribuite alle competenze regionali e la responsabilità nell’imposizione di tributi propri.

Risulta quindi piuttosto evidente che alle regioni sono lasciati spazi di intervento alquanto limitati, potendo le stesse istituire tributi regionali propri in senso stretto unicamente su presupposti che non siano già stati precedentemente occupati dal legislatore statale, ovvero potendo esse intervenire su tributi regionali propri, di tipo derivato, limitatamente alla misura dell’aliquota o prevedendo esenzioni, detrazioni e deduzioni in ogni caso sempre nei limiti fissati dalla legge dello Stato. Ma vi è di più. In base alla citata legge delega, al legislatore statale è concesso introdurre tributi che si sovrappongano alle basi imponibili e alle aliquote di tributi regionali propri derivati, non potendo viceversa esso intervenire sui tributi regionali propri in senso stretto.

È dunque fin troppo evidente che l’assetto affermato con la legge n. 42/2009 finisce per tradire i principi di autonomia e responsabilità affermati non solo nella stessa legge di delega ma, soprattutto, posti alla base della riforma costituzionale del 2001, con il rischio di non favorire quei virtuosi comportamenti sul lato della spesa che tanta rilevanza hanno recentemente assunto anche al fine di perseguire il risanamento della finanza pubblica nel suo insieme.

In definitiva, l’autonomia tributaria regionale “in senso stretto” non potrà che esplicitarsi – nel rispetto dei limiti posti dal diritto comunitario – attraverso il ricorso a tributi di scopo o corrispettivi, sempreché aventi un presupposto diverso da quello dei già esistenti tributi erariali (e regionali propri di tipo derivato).

L’attuazione della delega in materia di tributi regionali

Per quanto concerne i tributi regionali, la legge n. 42/2009 ha avuto attuazione ad opera del d.lgs. 6.5.2011, n. 68. Così come per la legge di delega, anche il relativo decreto di attuazione dedica la maggior parte delle sue disposizioni ai profili finanziari, riservando a quelli tributari uno spazio indubbiamente minore.

Volendo ora passare brevemente in rassegna i tributi regionali così come disciplinati dal d.lgs. n. 68/2011 (poi modificato, per quanto in questa sede interessa, dal d.l. 13.8.2011, n. 138) è possibile osservare che, tra questi, è certamente da ricomprendersi l’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche residenti (ovvero domiciliate) nelle regioni a statuto ordinario. A mente degli artt. 2 e 6 del predetto decreto, essa è rideterminata, con d.P.C.m. all’esito di un apposito procedimento, in modo tale da garantire al complesso delle regioni a statuto ordinario entrate corrispondenti al gettito assicurato dall’aliquota base vigente rispetto ai trasferimenti statali e alla compartecipazione soppressi. È, poi, appena il caso di rilevare che, a far tempo dal 2012, ciascuna regione potrà aumentare o diminuire (ad esempio anche concedendo apposite esenzioni e detrazioni d’imposta) l’aliquota della propria addizionale – rispetto all’aliquota base fissata dal d.l. 6.12.2011, n. 201 in misura pari all’1,23% – entro i limiti all’uopo fissati (attualmente il limite massimo, per il 2014, corrisponde al 2,33%). Al riguardo è possibile osservare che il potenziamento dell’addizionale regionale all’IRPEF trova la sua “causa finanziaria” nella (pressoché) corrispondente riduzione dei trasferimenti statali.

A ciascuna regione spetta poi una compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto, calcolata al netto di quanto devoluto alle regioni a statuto speciale e delle risorse destinate all’Unione europea. A far data dall’anno 2013 le modalità di attribuzione del gettito della compartecipazione IVA sono stabilite in conformità del principio di territorialità che, a sua volta, tiene conto del luogo in cui avviene il consumo dei beni e servizi gravati da IVA (cfr. art. 4).

Quanto all’IRAP, il cui gettito è destinato alle singole regioni, a mente dell’art. 6 si ha che, a decorrere dal 2013, ciascuna regione a statuto ordinario può ridurre le aliquote fino ad azzerarle, così come pure può disporre deduzioni dalla relativa base imponibile, purché nel rispetto della normativa comunitaria e degli orientamenti della Corte di giustizia. I relativi effetti finanziari, si noti, restano però esclusivamente a carico del bilancio della singola regione che ha disposto le riduzioni di aliquota, non potendo nemmeno dar luogo a forme di compensazione alternative pena – come noto – la violazione del divieto di concedere aiuti di stato a fronte di misure selettive. Si noti poi che la riduzione di aliquota non risulta ammessa se la singola regione abbia già aumentato l’addizionale regionale IRPEF oltre lo 0,5%.

Ancora, l’art. 8 del d.lgs. n. 68/2011 prevede “ulteriori” tributi regionali quali: la tassa per l’abilitazione all’esercizio professionale; l’imposta regionale sulle concessioni statali dei beni del demanio marittimo; l’imposta regionale sulle concessioni statali per l’occupazione dei beni del patrimonio indisponibile; la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche regionali; le tasse sulle concessioni regionali; l’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili; la tassa automobilistica regionale; gli altri tributi riconosciuti dalla legislazione vigente alle regioni a statuto ordinario.

Per quanto attiene alla dimensione “dinamica”, merita segnalare che l’art. 9 del decreto n. 68/2011 assicura il riversamento diretto alle regioni dell’intero gettito derivante dall’attività di recupero riferita ai tributi regionali propri di tipo derivato e alle addizionali alle basi imponibili dei tributi erariali disciplinati nel predetto decreto. Infine, il successivo art. 10 prevede che le regioni possano definire mediante un’apposita convenzione, con il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle Entrate, le modalità gestionali e operative dei tributi regionali, mentre le attività di controllo, rettifica, accertamento e contenzioso in materia di IRAP e addizionale regionale IRPEF rimangono in capo all’Agenzia delle Entrate.

Il principio costituzionale dell’equilibrio di bilancio e il suo impatto sulla finanza regionale

Il quadro complessivo sinora tracciato in materia di tributi regionali deve necessariamente tener conto delle recenti innovazioni legislative (anche di rango costituzionale) introdotte, in attuazione di obblighi comunitari (cfr., in particolare, i ccdd. Six pack e Fiscal compact) per rafforzare la cd. “disciplina di bilancio”. È infatti noto come la l. cost. 20.4.2012, n. 1 abbia modificato gli artt. 81, 97, 117 e 119 Cost., introducendo il principio dell’equilibrio delle entrate e delle spese, cui si aggiunge la legge rinforzata 24.12.2012, n. 243, di attuazione del comma 6 dell’art. 81 Cost. contenente la disciplina delle norme fondamentali volte a garantire il predetto equilibrio di bilancio, nonché la sostenibilità del debito delle pubbliche amministrazioni.

Ora, tralasciando di esaminare il rilievo delle accennate innovazioni legislative rispetto ai principi costituzionali che impongono di assicurare la tutela dei diritti fondamentali ed irriducibili, così come pure tralasciando di esaminare la flessibilità del complesso normativo che impone l’equilibrio di bilancio, occorre in questa sede soffermarsi – per quanto brevemente – sull’impatto del principio dell’equilibrio di bilancio, cosi come introdotto e implementato, rispetto all’autonomia finanziaria regionale e alla complessiva disciplina dei tributi regionali che, invero, tale autonomia finanziaria concorrono ad attuare.

Ebbene, in termini estremamente sintetici, è possibile osservare come i limiti introdotti dalla ricordata legge costituzionale n. 1/2012 – soprattutto così per come attuata dalla predetta legge rafforzata n. 243/2012 – non sempre risultano armonici e coerenti con il sistema alle stesse leggi precedente, che, per parte sua, un qualche equilibrio complessivo aveva (seppur faticosamente) raggiunto. Di fatti, l’attenzione legislativa (quasi l’ossessione) per l’equilibrio di bilancio (che nella rubrica della stessa legge costituzionale n. 1/2012 è declinato come “pareggio di bilancio”) pare, quantomeno in alcune sue asperità – per parte loro non immuni da sospetti di incostituzionalità -, prestarsi a comprimere oltremodo il principio di autonomia finanziaria delle regioni (come pure degli enti locali) e, per questa via, lo stesso esercizio dell’autonomia tributaria.

In questo senso, più in concreto, risulta alquanto evidente come al legislatore statale sia consentito limitare (ulteriormente) i margini di entrata e di spesa degli enti territoriali, seppur allo scopo di assicurare – specie in tempo di crisi – una maggiore disciplina di bilancio, anche in periferia. È però auspicabile che una tale particolare attenzione non finisca per costituire l’alibi per poi giungere – anche in sede di prossima revisione costituzionale delle norme che compongono il titolo V – ad una più consistente limitazione di quei principi (di democrazia, partecipazione, autonomia, equiordinazione istituzionale e, dunque, sussidiarietà e accountability) che, invece, avevano avuto il loro giusto riconoscimento nella l. cost. n. 3/2001.

Fonti normative

Artt.117 e 119 Cost.; artt. 1, 2, 7, l. 5.5.2009, n. 42; artt. 1, 2, 4, 5, 6, 8, 9, 10, 15 d.lgs. 6.5.2011, n. 68.

Bibliografia essenziale

Sul tema la bibliografia è a dir poco imponente, oltre alle opere manualistiche si consultino, senza pretesa di esaustività: Amatucci, A., Autonomia finanziaria e tributaria, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2002; Amatucci, F., a cura di, Il nuovo sistema fiscale degli enti locali, Torino, 2010; Antonini, L., Le coordinate del nuovo federalismo fiscale, in Dir. prat. trib., 2009, I, 233; Basilavecchia, M., Tra autonomia e autoritatività: consenso tra enti impositori e sistema tributario, in La Rosa, S., a cura di, Autorità e consenso nel diritto tributario, Milano, 2007, 53 ss.; Bizioli, G., L’autonomia finanziaria e tributaria regionale, Torino, 2012; Boria, P., Evoluzione storica dei rapporti tra fiscalità locale e fiscalità erariale, Riv. dir. trib., 1997, I, 713; Carinci, A., Autonomia tributaria delle Regioni e vincoli del trattato dell’Unione europea, in Rass. trib., 2004, 1203 ss.; Cociani, S.F., L’autonomia tributaria regionale nello studio sistematico dell’irap, Milano, 2003; Cociani, S.F., Introduzione allo studio delle tasse automobilistiche regionali, Lecce, 2012; Cociani, S.F., Le basi della perequazione nel federalismo fiscale, in Rass. trib., 2011, 53 ss.; De Mita, E., Le basi costituzionali del federalismo fiscale, Milano, 2009; Del Federico, L., I tributi sardi sul turismo dichiarati incostituzionali, in Fin. loc., 9/2008, 21 ss.; Della Valle, E., Il c.d. federalismo fiscale nell’ottica del tributarista: nihil sub sole novi, in www.costituzionalismo.it (18 maggio 2010); Di Pietro, A., Autorità e consenso nel riparto infrastatuale dei poteri impositivi, in La Rosa, S., a cura di, Profili autoritativi e profili consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 25 ss.; Falsitta, G., Le imposte della Regione Sardegna sulle imbarcazioni ed altri beni di “lusso” nelle “secche” dei parametri costituzionali e comunitari, in Corr. giur., 2008, 893 ss.; Fantozzi, A., Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2005, I, 3; Fantozzi, A., I rapporti tra ordinamento comunitario e autonomia finanziaria degli enti territoriali, in Dir. prat. trib. int., 2008, 1037 ss.; Fedele, A., Federalismo fiscale e riserva di legge, in Rass. trib., 2010, 1525 ss.; Ficari, V., a cura di, L’autonomia tributaria delle regioni e degli enti locali tra corte costituzionale (sentenza n. 102/2008 e ordinanza n. 103/2008) e disegno di legge delega, Milano, 2009; Fichera, F., Federalismo fiscale e Unione europea, in Rass. trib., 2010, 1538 ss.; Fransoni, G., Il presupposto dei tributi regionali e locali. 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