TROIA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1966)

TROIA (Τροία, om. Τροίη, dor. Τροΐα, Τρωΐα, Τρῴα, "Ιλιος, "Ιλιον; Troia, Ilium)

L. Vlad Borrelli

La più famosa città della protostoria mediterranea, riconosciuta da H. Schilemann (v.) sulla piatta collina di Hissarlik (lunga circa 200 m e larga 150), situata nell'ampia valle dello Scamandro, alla confluenza col Simoenta, a circa 6 km dalla costa occidentale dell'Anatolia settentrionale, presso lo sbocco dei Dardanelli, in un punto strategico all'incrocio dei passaggi dall'Asia all'Europa, all'ingresso del Mar Nero, in una regione di miniere di argento. Il toponimo T. ha probabilmente il significato di un nome comune (Esichio: τροία = πόλις, ma la città era conosciuta anche col nome proto-hittita (preindoeuropeo) di Ilio.

La collina di Hissarlik era nota ai Turchi come "la fortezza", a causa delle mura in rovina che la ricoprivano ed era stata identificata fin dagli inizî del secolo scorso, per le iscrizioni che vi si erano trovate, come il sito della Ilion ellenistica e romana; l'esistenza di una T. omerica era negata dalla maggior parte degli studiosi che escludevano che i poemi omerici avessero una qualche consistenza storica. Il primo ad avanzare l'ipotesi che la T. omerica fosse realmente esistita e si trovasse nel medesimo sito della più tarda città ellenistica e romana fu C. Maclaren nel 1822 (A Dissertation on the Topography of the Plain of Troy, Edimburgo 1822); alla stessa conclusione giungeva nel 1864, dopo qualche saggio di scavo, F. Calvert, mentre altri cercava T. in una località fornita di sorgenti calde e fredde, su una collina presso lo Scamandro, accanto al piccolo villaggio di BunarbaŞi (J. G. V. Hahn, Die Ausgrabungen auf der homerischen Pergamon, Lipsia 1864). Il Calvert era console americano a Kannakkale e possedeva parte del colle di Hissarlik e nel 1868 mostrò il luogo allo Schliemann, alla cui fede appassionata si deve la scoperta delle rovine di T. ed il riconoscimento sul colle famoso di tenaci segni di abitazioni umane protrattesi senza interruzione dalla prima Età del Bronzo alla fine dell'epoca romana (dal 3000 a. C. al 400 d. C. circa). Lo Schliemann compì dal 1870 al 1890 sette campagne di scavo (quattro dal 1870 al 1878, una quinta nel 1879 a cui parteciparono Virchow e Burnouf e che fu diretta dall'Istituto francese di Atene, una sesta nel 1882 insieme agli architetti J. Höfler e W. Dörpfeld, la settima nel 1890 coadiuvato dal solo Dörpfeld); due successive campagne furono guidate nel 1893 e nel 1894 dal Dörpfeld e in altre sette, dal 1932 al 1938, una spedizione dell'Università di Cincinnati diretta da C. M. Blegen esplorò zone lasciate intatte dagli scavi precedenti (i cosiddetti pinnacoli).

Nelle sue prime esplorazioni lo Schliemann aveva distinto sette livelli sovrapposti designati come città, ma dopo le ricerche del Dörpfeld i livelli salirono a nove ed i successivi scavi americani, soffermandosi specialmente sui primi strati trascurati dai precedenti scavatori (dal I al V), hanno introdotto nell'ambito dei singoli strati numerose suddivisioni fino a raggiungere il numero di 46.

I periodi da T. I a T. V incluso appartengono ad un'era che corrisponde all'antica Età del Bronzo egea, mentre l'inizio di T. VI segna il principio della media Età del Bronzo; il sesto stanziamento continuò fino all'ultima parte della tarda Età del Bronzo. Con T. VII un brusco cambiamento segna l'arrivo di un nuovo popolo che poi lasciò deserto il luogo fino al sopraggiungere dei coloni greci (circa 700 a. C.) a cui si deve lo strato di T. VIII. T. IX è la città romana di Ilium novum. Grandi difficoltà ha presentato il tentativo di istaurare una cronologia assoluta per gli strati più antichi, quelli cioè anteriori a T. VIII: mancano infatti in quest'epoca documentazioni epigrafiche e solamente per pochi degli oggetti di importazione (soprattutto cicladica e successivamente micenea) si conoscono i dati stratigrafici di ritrovamento. Nell'ambito delle principali suddivisioni da T. I a T. V, e cioè nella prima Età del Bronzo, sono stati riconosciuti attualmente 30 strati per uno spessore complessivo di circa 12 metri. Lo spessore ingente e le numerose stratificazioni fanno supporre un lasso cronologico molto ampio, almeno un millennio, ma forse anche più, durante il quale avvenne un processo lento e costante di evoluzione, senza brusche rotture culturali che possano far supporre invasioni o conquiste da parte di altri popoli; le generali distruzioni che segnano le soglie fra T. I, II, III, IV e V sono dovute a catastrofi: incendî, terremoti e simili.

T. I posa direttamente sulla roccia e si trova sull'estremità occidentale del colle; esplorata su una superficie limitata essa ha rivelato ai più recenti scavi uno spessore di circa 4 metri e mezzo ed una suddivisione in dieci fasi consecutive di cui nove certamente con tracce di mura e pavimenti di case. Forse i suoi abitanti provennero da Kum Tepe, presso l'estuario dello Scamandro, ove sono stati trovati resti della stessa cultura, ma ancora più antichi. Incerto rimane però il luogo di origine di questi coloni, forse legati a quelle vaste migrazioni di popoli che venivano dal S-E del Mediterraneo e si dirigevano a N, lungo le coste occidentali dell'Asia Minore, verso Creta e la terraferma greca. Essi erano forniti in origine di una cultura neolitica, quale appare dagli strati più antichi di Kum Tepe. T. I è stata suddivisa in tre gruppi corrispondenti a tre fasi: arcaica, media e tarda, a loro volta suddivise le prime due ciascuna in tre strati (T. I a, T. I b, T. I c; e T. I d, T. I e,T. I f) e la terza in quattro (T. I g, T. I h, T. I i, T. I j), ma le differenze fra queste varie fasi non sono molto sensibili. L'abitato, retto da governo a carattere monarchico, era protetto fin dalla fase più antica con mura di difesa spesse circa m 2,50. Durante la fase mediana di T. I fu costruita una nuova fortificazione più poderosa e di circa 6 metri più avanzata della precedente, le cui fondazioni non poggiavano più sulla roccia viva ma sui detriti dell'epoca anteriore. Queste mura, il cui spessore era di circa 3 metri, erano formate da grossi e rozzi blocchi nei filari inferiori, e da pietre più piccole in alto. Nel mezzo del lato S c'era una porta larga m 1,97 fiancheggiata da torri; probabilmente analoghi ingressi con torri si trovavano sui lati E ed O. Nel tardo periodo di T. I sorse una nuova fortificazione da 2,50 a 5 metri esterna alla precedente formata da un terrapieno di terra e argilla, alto circa 4 metri, con la faccia esterna in declivio di circa 45 gradi e ricoperta di pietre tenute insieme da argilla. All'interno delle fortificazioni si trovavano le case, per lo più di un solo ambiente, una o due fornite di portico, un'altra, ancora di T. I a, con un'aggiunta absidata. La struttura muraria mostra una caratteristica decorazione a spina di pesce presente anche in altri luoghi dell'Asia Anteriore; il tetto probabilmente era piatto, di argilla e paglia. La casa meglio conservata è relativamente ampia (18,75 × 7 m) e appartiene a T. I b: era preceduta da un portico, conserva nell'interno tracce di due focolari e presenta già nella pianta la caratteristica forma del mègaron. Presso di essa si sono trovate due sepolture di bambini, una ad inumazione e l'altra a cremazione e altre quattro sepolture analoghe si trovano nelle vicinanze. La ceramica, di cui si conoscono una sessantina di forme, è monocroma scura; nell'epoca più antica ha color verde oliva, con forme spesse a spigoli vivi, alto piede, nel periodo mediano è più scura, ha orli meno spessi e profili curvi, e diviene più frequente la ceramica egea di due tipi, uno inciso e un altro lucido simile a quelle dell'Elladico I. Nel periodo tardo di T. I i vasi sono del tutto neri e talvolta rosso vino, scompaiono gli alti piedi, prevalgono le linee curve e fra le importazioni si notano ceramiche del Cicladico I e dell'Elladico I. Altri colori impiegati più raramente sono il bruno e il rosso. Talvolta, accanto ai prevalenti esemplari non decorati, ne compaiono altri con sugli orli parche decorazioni (motivi geometrici, lineari, curvilinei che talvolta suggeriscono lineamenti di facce umane) incise riempite di bianco. Molto più raramente una decorazione è ottenuta con strisce di argilla applicate alla superficie. Almeno dallo strato medio, se non da quello più antico, di T. I proviene una monumentale stele scolpita a forma di menhir attualmente conservata per un'altezza di m 0,79 e una larghezza di m 0,62 sulla quale, in bassorilievo, è incisa una testa vista frontalmente e forse un'arma: si tratta del più antico monumento scolpito trovato finora nell'Anatolia occidentale; probabilmente aveva scopo rituale, come sembrerebbe rivelare la presenza di due tavole per offerte trovate vicino. Da T. I provengono altresì figurine o idoli, per lo più femminili, in pietra, marmo, osso o terracotta molto simili a quelli cicladici della prima Età del Bronzo. Accanto poi a utensili e oggetti di ornamento (vaghi di collane, fuseruole, ecc.) in osso, armi (doppie asce, còltelli, ecc.) in pietra, viene usato il rame e il bronzo per spille, ami e coltelli. Non è possibile raggiungere una datazione assoluta e sicura per T. I, ma da confronti con altri insediamenti e grazie a quella facies culturale uniforme diffusa in quest'epoca nell'Egeo, si è potuta stabilire una contemporaneità di T. I con i villaggi di Thermì I-V (Mitilene), le prime tre città del tumulo di Protesilao, Poliochni I-III (Lemno) e dalla presenza di manufatti di importazione dell'Elladico I e del Cicladico I il Blegen è giunto alla datazione assoluta, approssimativa, di 3000-2500 a. C., non da tutti peraltro uniformemente accettata, scendendo taluni come lo Schachermevr, il Milojcic ed il Matz rispettivamente al 2650, al 2700-600, al 2600 a. C.

A T. I, distrutta da un incendio, subentrò T. II con una vigorosa attività edilizia e la totale ricostruzione della cittadella. T. II fu scavata quasi interamente dallo Schliemann, fu poi riesaminata dal Dörpfeld che vi riconobbe tre fasi principali corrispondenti alla costruzione di nuove mura. Le più recenti indagini dell'Università di Cincinnati hanno individuato ancora quattro fasi e hanno quindi distinto in T. II sette periodi da T. II a T. II g, fino allo strato bruciato in cui lo Schliemann credette di riconoscere i segni dell'incendio della T. omerica. Lo spessore degli strati è di circa 2-3 metri. La nuova cittadella era di poco maggiore, ma più solida della precedente, aveva forma rozzamente circolare e un diametro di circa 110 metri. Le nuove mura furono costruite durante la prima fase di T. II (T. II a), erano formate da blocchi di pietre relativamente piccole per un'altezza di circa 3 m, avevano la faccia esterna a scarpata con al disopra una sovrastruttura in mattoni crudi ed erano protette ogni dieci metri circa da piccole torri rettangolari; probabilmente vi si aprivano quattro porte, una per ciascun lato: ne sono state trovate però solo due, una ad O e l'altra a S. Ogni porta era formata da un lungo corridoio coperto che conduceva direttamente ad una torre sporgente dal muro. Nelle fasi successive di T. II. le mura subirono ricostruzioni ed ampliamenti: durante T. II c furono rinforzate nella loro struttura e mediante l'aggiunta di nuove torri; le due porte principali furono sostituite da due ingressi più ampî ed a quello S-O si accedeva dall'ingresso attraverso una rampa monumentale lastricata (21 × 7,55 m); in cima alla rampa c'era un portale formato da un edificio tripartito comprendente una stanza centrale fra un portico esterno ed uno interno. Le mura laterali del portico interno terminavano in ante che dovevano avere delle paraste lignee. La porta S-E presentava una pianta analoga, solo che mancava di rampa di accesso; all'interno di questa si trovava un'ampia corte colonnata (larga più di 12 metri) e bordata da un muro in pietra rinforzato da contrafforti, che comunicava con l'interno delle fortificazioni e finiva in un piccolo edificio simile ad un pròpylon con un portico esterno e uno interno separato da una porta. Di fronte al pròpylon si trovava un grande mègaron costruito in mattoni crudi su uno zoccolo in pietre grezze. I muri, probabilmente intonacati, erano rinforzati da elementi lignei orizzontali e verticali e terminavano a S in due ante con paraste lignee. Il portico del mègaron era pressocché quadrato (m 10,20); non è rimasta traccia di colonne nella facciata, ma certamente dovevano esservi uno o due sostegni per reggere il tetto. Dal portico una porta ampia 4 metri conduceva nello ambiente interno, lungo almeno 16 m ma forse anche parecchi di più; il pavimento era in argilla pressata, il soffitto doveva essere retto da colonne lignee; lungo l'asse principale, a circa 7 m dalla porta, il Dörpfeld notò le tracce di una piattaforma circolare (diam. 4 m), in argilla, sporgente circa 7 cm sul pavimento, che probabilmente indicava il luogo del trono o del seggio del monarca. Il tetto doveva essere piatto. Non è escluso che dietro il grande ambiente ve ne fossero uno o due minori. Questo mègaron, che potrebbe chiamarsi "reale", era fiancheggiato da altri due mègara minori; altri tre si trovavano a N-E di questo e un altro a S-O della grande corte. Della città facevano parte altresì varî edifici di altro tipo con numerosi piccoli ambienti. Questo complesso urbanistico rimase pressocché inalterato fino alla fine di T. II g. La fase di T. II d è caratterizzata da una enorme quantità di pozzi di varie dimensioni (lo Schliemann ne menziona più di seicento) che generalmente contenevano frammenti di pìthoi o di orci. Durante T. II f e T. II g sorge un gran numero di case private. Lo strato di T. II g è quello della cosiddetta "città bruciata" in cui, almeno fino al 1890, lo Schliemann riconobbe la T. di Priamo. I recenti scavi americani hanno confermato l'esistenza in questo momento della storia di T. di un'improvvisa catastrofe che fece abbandonare agli abitanti le case lasciandovi ogni loro avere. La maggior parte dei "tesori" scoperti dallo Schliemann appartengono a T. II ged erano sepolti in una casa che egli chiama la "casa del re della città", a N della porta S-O. La prosperità di T. II è mostrata dalla copiosa presenza di oggetti in oro: dieci depositi erano colmi di gioielli ed ornamenti femminili, tre di armi (fra cui anche un'asciamartello in pietra che ricorda alcuni tipi della Bessarabia) e arredi e altri tre contenevano armi, gioielli e suppellettili. Fra questi ultimi era quello che lo Schliemann chiamò il "grande tesoro" e conteneva vasi (ad esempio il famoso vasetto in oro a forma di doppia salsiera di tipo egeo), diademi, spirali, fasce, bracciali, armi, ecc. in oro, argento, elettro, rame e bronzo. Nella lavorazione dell'oro era nota la tecnica della granulazione e quelle della filigrana, della punzonatura e del traforo. Da un'altra casa provengono due teste di leone in cristallo di rocca che probabilmente decoravano le impugnature di bastoni o di scettri. La ceramica, di cui sono state ricostruite circa 65 forme, non rispecchia la raffinatezza dei gioielli; essa è ancora piuttosto grossolana, sostanzialmente monocroma (nera, grigia, rossa lucida e opaca di tipo egeo) non rivela grosse differenze rispetto a quella precedente; compare una ceramica sottile con ingubbiatura rossastra, lucida, di tipo siriano (Rās Shamrah). Unica grande innovazione l'introduzione, durante T. II b, dell'uso della ruota da vasaio che permise rapidità nel lavoro e nuove forme. Fra i tipi più caratteristici sono dei piatti o dischi di considerevoli proporzioni, fatti a mano o con la ruota, ricoperti di spessa vernice rossa ed un bicchiere cilindrico con due manici nel quale Schliemann credette riconoscere il δέπας ἀμϕικύπελλον di omerica menzione, vasi a corpo ovoidale e globulare a volte con rappresentazioni schematiche plastiche di lineamenti umani che si richiamano direttamente ad un tipo di T. I. Abbondantissime le fuseruole o bottoni in terracotta con incisioni e impressioni in bianco. Anche gli idoli in pietra, marmo, conchiglia, osso non si differenziano da quelli di T. I. La presenza di metalli preziosi e materiali non indigeni, fra cui anche molti tipi di ceramica di uso corrente, denotano una grande prosperità e ampî scambi col mondo egeo, con l'Oriente e anche con l'Occidente (ad esempio ossi intagliati della Sicilia e di Malta). Questo facoltoso insediamento fu totalmente distrutto verso il 2000 a. C. da una catastrofe di cui non si è potuta appurare la natura; probabilmente non fu una guerra, altrimenti si sarebbero trovate tracce di morti e apparirebbe fra T. II e T. III il segno di una brusca frattura; invece la continuità fra i due stanziamenti fa pensare che fosse stata la stessa popolazione a ricostruire la città sulle sue rovine. Alcuni studiosi avevano pensato ad un invasione degli Hittiti che passarono dai Balcani in Asia Minore intorno alla fine del III millennio. Secondo altri il transito degli Hittiti avvenne allo inizio del II millennio e quindi ad essi potrebbe essere attribuita non la fine di T. II, bensì quella di T. V. Le tre città successive, T. III, T. IV e T. V furono definite dallo Schliemann come dei poveri villaggi; ma i recenti scavi hanno gettato maggiore luce su di essi, che in realtà sono apparsi più estesi di quelli precedenti, con case disposte in aree irregolari separate da strette strade; nulla rimane della parte centrale della cittadella che fu distrutta dallo Schliemann per raggiungere T. II. Agli scavi americani T. III ha rivelato uno spessore da 2 a 2,65 m e la presenza in alcuni punti di tre strati, in altri di quattro. Una novità architettonica rispetto alla fase precedente sono le strutture in pietra fino alla cima (mentre precedentemente su uno zoccolo in pietra erano posti i mattoni crudi); nelle ultime fasi di T. III talvolta vi sono fasce alternate di pietre e di mattoni. Gli oggetti e le suppellettili provenienti da T. III rivelano una sostanziale continuità rispetto a T. II: vi sono spilli in rame di un tipo prettamente cicladico e altri simili a quelli di T. I, T. II e dell'Anatolia centrale e della regione egea; tre schegge di ossidiana provengono certamente da Milo, gli idoli in pietra e marmo sono per lo più semplici imitazioni di quelli cicladici e simili a quelli trovati negli scavi precedenti di T.; anche le fuseruole non si differenziano quasi da quelle di T. II, mentre una novità è rappresentata dalla presenza di figurine in argilla di quadrupedi. Fra i vasi che conservano gli aspetti tradizionali (boccali, ciotole, dèpas, bacili, vasi con stretto collo e lungo becco, ecc.) appaiono in grande aumento quelli decorati con facce umane che hanno a volte anche seni, ombelico e braccia. Non è chiaro a cosa fu dovuta la fine di T. III che avvenne, secondo il Blegen, intorno al 2050 a. C.: tutte le case furono distrutte, ma le tracce di fuoco sono troppo scarse e discontinue per far pensare ad un incendio.

T. IV occupò un'estensione di circa 17.000 m2 e uno spessore generalmente variante da 1,70 a 2 m, ma presso il margine orientale fino a 5 m. Gli strati, con scarse differenze fra l'uno e l'altro, risultarono in numero di cinque. La cittadella doveva essere circondata da un muro in pietra, forse con la duplice funzione di difesa e di terrazzamento. La città era formata da case l'una accanto all'altra che insieme si raggruppavano in isolati irregolari, separati da vicoli. La tecnica costruttiva (pietre e mattoni crudi intonacati) si accosta più a quella di T. II che a quella della città immediatamente precedente. Appare un nuovo tipo di casa con pianta formata da almeno quattro separati ambienti; altra novità è l'introduzione nella fase di T. IV a di forni a cupola, posti a volte nell'interno delle case, a volte all'esterno, in un cortile: nella stretta area esplorata dagli scavi americani ne sono apparsi cinque o sei. Gli oggetti sono simili a quelli degli strati precedenti; fra le fuseruole prevalgono quelle con decorazione incisa e riempita di bianco. Nella ceramica sono state riconosciute 59 forme; molto frequente l'uso della ruota da vasaio e generalmente adottato quello già sperimentato in T. III della paglia nella manifattura dei grandi vasi. T. V ha uno spessore di almeno m 1,50 e ha rivelato una sequenza di almeno tre o quattro strati. Inizia con la totale ricostruzione della città precedente distrutta secondo il Blegen verso il 1900 a. C. per cause sconosciute. Le mura di fortificazione appaiono simili alle precedenti, mentre l'abitato rivela un piano singolarmente regolare e dimore spaziose. Una di queste, di aspetto particolarmente rappresentativo, ha un ambiente principale lungo almeno 10 m e largo 5 m con altre stanze collegate; continuano le piattaforme circolari e i forni a cupola, sedili e panche in argilla. Gli oggetti sicuramente pertinenti a questo stanziamento sono scarsissimi e simili ai precedenti. Nelle fasi tarde compare qualche nuovo tipo nella ceramica che si fa più curata nelle forme e nella cottura e ha decorazioni incise ed ornamenti plastici. Continuano i grandi piatti, decorati all'interno e all'esterno con una larga croce dipinta. Le rovine di questo stanziamento non rivelano tracce di fuoco o di altro cataclisma che ne spieghino la fine. Con la fine della quinta città (secondo Blegen verso il 1800 a. C.) si chiude a T. la prima Età del Bronzo. A questo punto taluni studiosi (Schaeffer) ponevano uno iato di circa 300 anni di cui non è apparsa traccia ai recenti studî americani. T. VI è già definitivamente nella media Età del Bronzo, contemporanea al Tardo Minoico III e alla civiltà micenea e cipriota del XIV sec. È questa la città nella quale il Dörpfeld, e forse anche lo Schliemann nei suoi uitimi anni, riconobbero la T. omerica. Essa rivela differenze ed innovazioni rispetto ai periodi precedenti, indici di una rottura col passato e dell'arrivo di nuove stirpi, apportatrici di una nuova cultura che trasformarono la cittadella in una potente fortezza reale. Le grandiose fortificazioni, le piante degli edifici rivelano nuovi e più avanzati criterî di ingegneria militare e civile e di tecnica costruttiva. Fra le suppellettili l'uso del bronzo si fa molto più esteso e così quello dell'avorio, mentre continua, anche se con forme nuove, la profusione di fuseruole in terracotta e di vasi. Le recenti indagini americane hanno mostrato che su 98 forme 90 sono nuove e solo sette o otto si riallacciano a quelle precedenti. Altra importante novità di T. VI è l'impiego del cavallo prima sconosciuto e certamente portato dagli invasori. T. VI durò varî secoli passando dalla media alla tarda Età del Bronzo ed è stata suddivisa in tre stadî: antico, medio e tardo; tale tripartizione è rispecchiata anche dalle monumentali fortificazioni che rinchiudevano tutta la cittadella e rivelano tre progetti successivi e notevoli discontinuità nella tecnica e nei materiali; sul lato meridionale del circuito murario appaiono addirittura tre successive porte d'ingresso che gli scavi americani hanno potuto attribuire ai tre diversi periodi di T. VI. Purtroppo dei primi due sistemi di fortificazione rimane molto poco; il terzo, conservato dall'angolo N-E a quello N-O per un percorso di circa 350 m (manca quasi totalmente la parte settentrionale), è diviso in questa porzione in sei sezioni mediante cinque porte ed è guarnito di potenti torri rettangolari. La torre N-E è un grosso bastione conservato per un'altezza di 26 filari (9 m circa) che dominava non solo l'acropoli ma tutta la piana troiana; ha una lunghezza di 18 m ed una ampiezza interna di 8 m: è formata da blocchi squadrati di dura pietra calcarea accuratamente giustapposti e doveva essere sormontata da una sovrastruttura in mattoni crudi di cui il Dörpfeld notò ancora dei resti. All'interno della torre si trova un pozzo o una cisterna pressocché quadrata (lato m 4,25) con una fossa scavata nella roccia che continuava per una profondità di 7 o 8 metri. Ad E si trovava una porta che era formata da un passaggio fra due braccia di mura aggettanti l'una sull'altra. Secondo il Dörpfeld la porta principale era quella meridionale, lastricata, ampia m 3,30 e protetta da una torre larga circa 7 m e sporgente circa 5 m verso S dalla faccia delle mura. Da essa una strada saliva alla parte superiore della cittadella. Le mura erano formate da blocchi in calcare rettangolari su cui si elevava un muro più sottile ed erano decorate nella faccia esterna in pendio con riseghe verticali sporgenti 10-15 cm e distanziate da 8 a 9 metri. Probabilmente nella fase finale di T. VI, sul lato occidentale accanto all'ingresso meridionale fu costruita una torre maggiore larga circa 10 metri e sporgente 10 metri verso S. Tutto questo complesso murario, sebbene molto danneggiato dalla costruzione della città romana, appare come un capolavoro di ingegneria militare. Il muro meridionale terminava ad O in una piazza: qui doveva trovarsi la porta S-O nell'epoca più antica di T. VI; la vecchia porta apparve però successivamente chiusa per ragioni sconosciute. Il muro S-O rimase l'unica sopravvivenza del circuito più antico di T. VI, costruito in pietre più piccole e con le fondazioni che non arrivavano fin sulla roccia; presenta sulla faccia esterna una notevole inclinazione e le caratteristiche riseghe verticali. Abbandonato un progetto di ricostruzione nell'epoca più tarda questo muro fu riparato in più punti mediante pietre più grandi: all'estremità N-O vi si apriva un'altra porta minore, semplice passaggio fra le mura. Il palazzo reale contemporaneo alle mura più recenti, e che doveva appartenere probabilmente a T. VI g, doveva occupare la sominità del colle e dovette essere distrutto dalla costruzione del più tardo tempio di Atena. Sulla terrazza inferiore della collina, rimangono però i resti di molti edifici. Alla fase più antica di T. VI appartiene la casa 630 con mura in pietra e sovrastrutture in mattoni crudi, isolata, orientata da N a S, con ingresso a S e probabilmente preceduta da un portico che portava all'ambiente principale dal quale, attraverso due porte, si accedeva a due stanze posteriori. Alle due fasi successive sono da riferirsi invece i resti di almeno 17 case, cinque delle quali di notevoli proporzioni, la cui pianta conserva ancora una certa analogia con quella del mègaron, ma che spesso hanno i muri non paralleli e una forma trapezoidale. Fra queste ultime si trova la casa dei Pilastri, scoperta negli scavi americani, entro la città in corrispondenza della torre meridionale delle mura e che presenta un ingresso laterale sul lato lungo orientale e ha rivelato abbondantissima suppellettile. La casa VI F (secondo la denominazione del Dörpfeld) si trova nella zona orientale della città; ha pianta trapezoidale e mura di differente spessore sui quattro lati, in stile ciclopico con riempimento di piccole pietre, e sui muri S, O e N delle piccole cavità per collocarvi dei grossi travi lignei, secondo un sistema di rinforzo ritenuto da alcuni un accorgimento antisismico riscontrato anche a Micene ed a Pylos. All'interno l'edificio era diviso da colonne in una navata ed in due ali laterali come una basilica. Questa casa rivela varî rimaneggiamenti: costruita verso la fine del periodo medio di T. VI continuò fino alle ultime fasi della città e ha dato un'importante collezione di ceramica micenea di importazione delle ultime fasi dello stile di palazzo. Pianta del tutto differente aveva la casa VI M, situata sulla parte S-O dell'acropoli: ha forma di L e sta su una terrazza alta 4 metri distante 6 o 7 metri dal muro di fortificazione, sostenuta da un monumentale muro di terrazzamento diviso in cinque segmenti da quattro riseghe verticali. Presso la fronte meridionale della Torre VI i (quella che fiancheggia la porta meridionale delle mura) è una fila di pilastri monolitici o menhir che avevano probabilmente funzione rituale e ricordano monumenti analoghi trovati a Cipro e in Anatolia. Gli oggetti provenienti dagli scavi di T. VI sono numerosi, ma in genere non raggiungono lo stesso grado di magnificenza dell'architettura contemporanea. Fin dalla fase T. VI a compare con numerosissime forme la ceramica minia grigia, identica a quella proveniente dagli stanziamenti medio-elladici della terraferma greca e caratterizzata dai manici a forma di teste di animali. Accanto alla ceramica minia nella fase T. VI b e più tardi comincia a comparire la ceramica dipinta opaca (Mattmalerei), probabilmente di importazione occidentale (Grecia centrale, Peloponneso); nelle fasi successive (da T. VI d in poi) appare la ceramica micenea; pochi frammenti di Miceneo I (secondo la classificazione del Furumark) o Tardo Elladico I nello strato di T. VI d, esemplari di Miceneo II in T. VI e, di Miceneo II e III A inT. VI f e g e una gran prevalenza di frammenti di Miceneo III A e qualcuno di III B nella fase finale di T. VI h. La presenza di queste ceramiche di importazione consente una datazione assoluta di T. VI (1800-1300 a. C.). A S dell'acropoli fu trovata una necropoli formata di urne cinerarie che contenevano ossa bruciate di adulti e di fanciulli: è questo il solo cimitero della T. preclassica. T. VI fu distrutta da una spaventosa catastrofe che la spedizione americana ha individuato come l'opera di un violento terremoto e nel quale lo Schaeffer riconosce lo stesso a cui si deve la distruzione di Rās Shamrah nell'Ugarit Recente II (1300 a. C.). La civiltà di T. VI continuò senza mutamenti in T VII a: molti degli edifici furono riparati e gli scambi commerciali rimasero i medesimi. Il nuovo popolo che aveva fatto la sua comparsa con T. VI sul colle di Hissarlik è stato collegato a quel vasto movimento di genti indoeuropee che, partendo da un sito ancora imprecisato, occupò tutto l'oriente mediterraneo e la terraferma greca e che è caratterizzato dalla ceramica minia, dall'introduzione del cavallo e delle bestie da soma. Se è vera l'ipotesi che gli invasori della Grecia furono i primi popoli ellenici bisogna concludere che anche i fondatori di T. VI erano greci, i primi di essi che avrebbero messo piede in Asia Minore.

T. VII appare a Dörpfeld nettamente distinta in due periodi, il primo dei quali rappresentò una diretta continuazione di T. VI (tanto che lo stesso Dörpfeld proponeva nel 1935 di chiamarlo T. VI i) e durò all'incirca una generazione. La popolazione di T. VI fuggì probabilmente dopo il terremoto che sconvolse la propria città, ma vi ritornò subito per ricostruirla cominciando dalle fortificazioni, ove appaiono tracce di aggiunte e frettolosi riattamenti resi purtroppo poco chiari dalle successive opere murarie ellenistiche e romane. Fu eseguito un prolungamento delle mura presso la porta orientale con materiali misti (molti blocchi caduti dal muro precedente congiuntamente a piccole pietre grezze), la porta meridionale fu riparata e pavimentata con grandi pietre piatte e fornita di un canale di drenaggio delle acque piovane. A T. VII a appartengono i resti di numerose abitazioni costruite lungo la faccia interna delle mura, su una terrazza più alta entro la cerchia esterna; delle abitazioni che probabilmente occupavano l'area centrale dell'acropoli e che dovevano formare la residenza del capo, o dei capi della città, non resta nessuna traccia a causa dello spianamento che subì la sommità della collina in epoca ellenistica e romana. Anche le murature delle case, costruite con materiali eterogenei, alcuni dei quali di recupero della città precedente, attestano una costruzione frettolosa: si tratta di case piccole, l'una vicina all'altra, spesso separate solo da muri divisori. Furono poi costruite e riattate molte delle grandi case di T. VI. Nella zona orientale dell'acropoli rimangono resti di una vasta piazza lastricata, ove si trovava una fontana costruita fin dai tempi di T. VI, ma riadattata in seguito con l'aggiunta di due pìthoi per raggiungere il nuovo livello formatosi dopo il terremoto. A causa della distruzione completa per opera del fuoco di T. VII a e delle successive ricostruzioni si conosce ben poco delle case di T. VII a: esse erano formate di poche e piccole stanze ed erano disposte in agglomerato; loro carattere distintivo è la presenza in quasi tutte di grandi pìthoi seppelliti nel pavimento fino all'orlo. Da T. VII a provengono scarsi materiali miscellanei che non presentano alcuna differenza rispetto a quelli degli ultimi strati di T. VI. Caratteristica di T. VII a insieme alla ceramica minia è anche una ceramica scura (Tan Ware) che già aveva fatto la sua comparsa in T. VI e che a volte presenta una decorazione con motivi di ispirazione micenea III A. Ugualmente presente la ceramica micenea importata dei tipi III A e III B e cioè del XIV-XIII sec. a. C. T. VII a fu distrutta prima della metà del XIII sec., probabilmente in seguito a un'invasione che depredò e incendiò la città e nella quale il Blegen riconosce l'evento cantato nei poemi omerici. Gli antichi avevano calcolato diversamente la data della caduta di T.: Duride di Samo e Timeo la ponevano al 1334 a. C., e tale data è stata accettata dal Bérard che allora identifica la T. omerica con T. VI, mentre Eratostene riteneva fosse stata distrutta nel 1184 e Eforo di Cuma di Eolide nel 1135 a. C., ma in tale epoca i grandi regni micenei della Grecia erano già in rovina e non avrebbero potuto certo muovere contro la rivale asiatica. Molti degli abitanti sopravvissero alla distruzione di T. VII a e sullo strato di terra bruciata spesso da 0,50 a più di 1 m ricostruirono la propria città all'incirca sulla stessa pianta. In T. VII b si distinguono due fasi: T. VII b 1 e T. VII b 2, ove appaiono sensibili mutamenti nelle costruzioni caratterizzate da lastre di ortostati irregolari e dalla presenza accanto ai tipi precedenti di una ceramica a gobbe (Knobbed Ware, Buckelkeramik) fatta a mano, conosciuta in circa una dozzina di forme di tipo molto primitivo, che presenta notevoli analogie con ceramiche della vallata danubiana, a cui si accompagnano forse doppie asce bronzee molto simili a tipi ungheresi. Si è pensato alla presenza di una popolazione di origine tracia o illirica, comunque giunta a T. attraverso l'Ellesponto. La presenza di qualche frammento di ceramica micenea, raramente del tipo III B, e con molta profusione del III C, permette di datare T. VII b 1 dal 1260 al 1200 e T. VII b 2 a circa il 1100 a. C. Anche T. VII b 2 fu distrutta dal fuoco nel corso di quegli eventi che turbarono il Mediterraneo orientale nella fase di trapasso dalla tarda Età del Bronzo all'Età del Ferro. In seguito a queste distruzioni i Troiani abbandonarono definitivamente T. e lo stanziamento successivo, T. VIII, fu essenzialmente una colonia greca. Forse fra la fine di T. VII e l'inizio di T. VIII intercorsero 400 anni. Alla fine di questi troviamo un abitato modesto, resti di qualche fortificazione fra cui una scala di più di 40 gradini per accedere alla fontana sotto la protezione delle mura e, sull'acropoli della città micenea, due santuarî di modeste dimensioni, l'uno sulla terrazza superiore con un recinto e un altare e l'altro sulla terrazza inferiore e adiacente al precedente, più piccolo con un altare in pietra. La maggior parte dei materiali provengono appunto da questi due santuarî: nelle fasi più antiche si trova ancora ceramica troiana di tipo minio simile a quella di T. VI e T. VII, altra monocroma grigia molto simile al bucchero lesbio nelle due varietà lucida e opaca, decorata con linee incise a motivi geometrici e ancora altra ceramica con disegni geometrici scuri su fondo chiaro, e poi ceramica scura e arancione (Tan and Buff Ware), tipi che si trovano solo a Lesbo e a Samotracia e sono di derivazione anatolica. Le terrecotte sono di importazione dall'oriente greco (Rodi, Cicladi, Cipro), attiche, corinzie, ecc. T. VIII durò dal 700 a. C. fino alla nascita di Cristo e passando dall'età protogeometrica e orientalizzante a quella classica ed ellenistica si notano nei materiali,che sono quelli comuni al mondo greco, i segni di una sempre maggiore ellenizzazione dello stanziamento; che dovette però essere in quell'epoca ben meschino, devastato da molteplici invasioni, tributario e soggetto alternativamente ad Ateniesi, Spartani e Persiani e famoso solo per il santuario di Atena Ilias, ove venivano a sacrificare greci e barbari (ad esempio Serse vi sacrificò nel 480 a. C. (Herod., vii, 43), lo spartano Mindares nel 411 a. C. (Xenoph., Hellen., i, 1, 4, ecc.). Dopo la metà del IV sec. i due santuarî furono rinnovati forse per merito di Alessandro Magno e dei suoi successori. Alessandro si fermò a T. nel 334 e vi sacrificò a Zeus Apobatèrios, ad Atena, ad Eracle presso il lido ove erano sbarcati i Greci; visitò la tomba di Achille, che riteneva suo antenato, ed in onore di questi organizzò una corsa di cavalli; dedicò ad Atena uno scudo e sacrificò a Priamo nel sito del palazzo reale. In virtù di questo nuovo interesse intorno al luogo di T. il vecchio altare del santuario superiore fu ricostruito in veste monumentale e fu circondato da un nuovo muro di recinzione quadrato, in conci ben tagliati, disposti in serie alternate di tre filari di ortostati e una fila bassa; nell'angolo S-O vi era un piccolo ingresso. Prima della fine dell'ellenismo il muro nord-orientale fu trasformato in un muro di terrazzamento. Il santuario inferiore fu circondato da un tèmenos di forma trapezoidale con il lato più lungo adiacente al santuario superiore e probabilmente l'ingresso sul lato opposto S-O; al vecchio altare si aggiunse forse una sovrastruttura ed un nuovo altare fu costruito a 5 (m 3 × 1,07). Dall'area dell'altare ellenistico proviene abbondante materiale in terracotta: figurine, vasi, cavalieri, coppe di tipo megarese ecc. dal III al I sec. a. C. La tradizione attribuisce a Lisimaco, la ricostruzione della città col nome di Ilion e la costruzione del tempio di Atena (Strabo, xiii, 1, 26). Con la caduta di Lisimaco (281 a. C.) T. cadde sotto i Seleucidi, poi dopo la battaglia di Apamea (188 a. C.), vi giunse un console romano che vi compì il consueto sacrificio. Una nuova, totale distruzione si ebbe nell'86-85 a. C. ad opera di Fimbria per punire la città che aveva parteggiato per Silla. Fu probabilmente in quest'epoca che fu distrutto il muro di terrazzamento N-E del santuario superiore. Seguì una nuova ricostruzione dovuta probabilmente a Giulio Cesare che visitò T. nel 47 a. C. e ad Augusto che amava ritrovare nel luogo vetustissimo le origini della propria stirpe: nacque così Ilium Novum che fu T. IX. Un nuovo tempio di Atena sorse sui resti di quello ellenistico distrutto da Fimbria. Del tempio oggi resta ben poco, molto meno di quanto ne videro lo Schliemann ed il Dörpfeld, ma in base ad elementi architettonici sparsi fra i varî musei, e alcuni venuti anche in luce dai più recenti scavi americani, se ne è potuto ricostruire, pur con qualche dubbio, la pianta e l'alzato. Gli studiosi sono divisi circa la datazione di questi resti, che alcuni attribuiscono ad età ellenistica- e quindi al tempio che la tradizione vuole innalzato da Lisimaco- e altri ad età augustea. Gli argomenti portati in favore di quest'ultima tesi dal Goethert e dallo Schleff nel loro recente lavoro (tipologia di alcuni elementi architettonici, iconografia delle metope, ecc.), appaiono abbastanza convincenti ed invitano ad un riesame della scultura augustea in Asia Minore. Il tempio (m 35,20 × 16,40) era periptero dorico, con 6 × 12 colonne e una fila di semicolonne doriche addossate alle pareti della cella. Del fregio, che doveva rappresentare scene della Gigantomachia, della Centauromachia e forse dell'llioùpersis, restano dodici metope (altezza 0,75 × o,86-0,90 m), più o meno frammentarie e conservate parte al Pergamonmuseum di Berlino, a cui furono donate dallo Schliemann, una ad Istanbul, e molti frammenti al museo Cannakkale; alcuni frammenti sono perduti. Esse presentano la singolarità di essere lavorate in un unico pezzo con il triglifo. Di qualità stilisticamente modeste queste metope si pongono al termine del lungo sviluppo del rilievo metopale. Infatti nella metopa ove è rappresentata la quadriga di Helios, che è la più nota (museo di Berlino) lo sforzo del rilievo è quello di superare il limite stesso imposto dalla propria natura: la figura si muove liberamente secondo i molteplici piani conquistati dalle esperienze dell'ellenismo in uno spazio tridimensionale che tende alla virtuale abolizione del fondo piatto. Intorno al tempio era un recinto quadrato, chiuso sul lato N da un muro e sugli altri tre da portici. Nella metà del lato S si apriva un propileo di ingresso. Alla stessa epoca forse appartiene un grande canale in pietra che portava via l'acqua dalla terrazza superiore ad E e a N-E. Della città romana, che occupò anche la pianura ai piedi dell'acropoli, guarnita da una nuova e più ampia cinta di mura, restano ancora avanzi di case, di terme con qualche resto di mosaico e due edifici teatrali, uno dei quali era probabilmente un bouleutèrion, sculture di principi giulioclaudi, ecc. Il tempio era ancora in piedi nel IV sec. d. C. quando l'imperatore Giuliano visitò la città.

La monetazione di T. comincia alla fine del IV sec. a. C.; le prime monete, coniate col nome di Ilion, sono del tempo di Lisimaco e presentano sul diritto la testa di Atena o la statua di Atena Ilias, che doveva essere il simulacro del tempio e riproduceva un tipo arcaistico ispirato al mitico palladio. In epoca romana imperiale mentre sul diritto, secondo la consuetudine, è la testa dell'imperatore, sul rovescio compare l'illustrazione di miti e divinità locali: Ettore, Priamo, Enea, Dardano, Ilo, Zeus sull'Ida, Ganimede, il fiume Scamandro, ecc. Tale monetazione autonoma continua fino a Valeriano.

I materiali provenienti dagli scavi di T. sono conservati parte al Museo Nazionale di Atene, parte in quelli di Berlino, dai quali alcuni furono trafugati o dispersi durante l'ultima guerra (scavi Schliemann), parte nei Musei Nazionali di Istanbul e, infine, altri minori nel museo di Cannakkale e in un piccolo museo locale costruito dalla spedizione americana.

Tabella

Bibl.: Opere di consultazione: G. Bendinelli- D. Levi, in Enc. Ital., s. v.; D. Levi, in Enc. Ital., s. v. Cretese micenea civiltà; W. Brandenstein, in Pauly-Wissowa, VII A, 1948, cc. 2500-2506 (strati linguistici; non ancora edito il Suppl. ove sarà illustrata la topografia). Opere specifiche: H. Schliemann, Ilios, Lipsia 1881; id., Troja, Lipsia 1883; W. Dörpfeld, Troia und Ilion, Atene 1902; G. Rodenwaldt, in Arch. Anz., L, 1935, c. 311-13; H. Schleif, ibid., L. 1935, cc. 314-317; C. Blegen, in Ann. Brit. Sch. Athens, XXXVII, 1936-37 (1940), pp. 8-12; W. Zschietzschmann, in Bericht Intern. Kongress Archäologie, Berlin, 12-26 August 1939, 1940, pp. 426-428; D. S. Robertson, Handbook Greek and Roman Architect.2, Cambridge 1945; J. Bérard, in Comptes Rendus Acad. Inscr. Belles Lettres, 1946, pp. 519-523; J. L. Caskey, in Amer. Journ. Arch., 1946, pp. 401-402; C. F. A. Schaeffer, in Comptes Rendus Acad. Inscr. Belles Lettres, 1946, pp. 121-122; J. L. Caskey, in Amer. Journ. Arch., LII, 1948, pp. 119-122; C. F. A. Schaeffer, Stratigraphie comparée et chronologie de l'Asie occidentale, Londra 1948, pp. 215-262; V. Milojcic, in Arch. Anz., LXIII-LXIV, 1948-49, 1950, cc. 1-12; H. Kähler, Das griechische Metopenbild, Monaco 1949, pp. 71-72, 111; W. B. Dinsmoor, Architect. Ancient Greece, Londra 1950, passim; J. Lawrence Angel, Troy, Human Remains, Princeton 1951; L. Pericot, in Zephyrus, II, 1951, pp. 37-41; L. A. Stella, in Atti I Congresso Intern. Preist. e Protost. Mediterr., Firenze 1952, I, pp. 330-333; C. M. Blegen, C. G. Boulter, I.L. Caskey, M. Rowson, Troy, voll. I-IV, Princeton 1953-58; F. Cassola, in Rend. Acc. Napoli, N. S., XXIX, 1954, pp. 171-204; C. W. Blegen, in X Congresso Intern. Scienze Storiche, vol. VII, Riassunti delle Comunicazioni, Firenze 1955, pp. 128-129; F. Schachermeyr, Die Ältesten Kulturen Griechenlands, Stoccarda 1955; F. Matz, Kreta, Mykene und Troja, Stoccarda 1956; A. R. Bellinger, in Amer. Numism. Soc. Museum. Notes, VII, 1957, pp. 43-49; T. I. B. Spencer, in Journ. Warb. a. Courtauld Inst., XX, 1957, 1-2, pp. 75-105; J. Mellaart, in Anatolian Studies, II, 1959, pp. 131-162; A. R. Bellinger, Troy, Coins, Princeton 1961; F. W. Goethert-H. Schleif, Der Athena-tempel von Ilion, in Denkm. Ant. Architektur, X, Berlino 1962; H. Schliemann, La scoperta di Troja, Torino 1962; C. W. Blegen, Troy, Londra 1963 (trad. ital., Milano 1964); D. Burr Thompson, Troy, The Terracotta Figurines of the Hellenistic Period, Princeton 1963; C. Nylander, in Antiquity, XXXVII, 1963, pp. 6-11; B. Mills Holden, The Metopes of the Temple of Athena at Ilion, Northampton 1964.