UBERTINO da Casale

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 97 (2020)

UBERTINO da Casale

Michele Lodone

UBERTINO da Casale. – Secondo la ricostruzione più accreditata, per quanto in larga parte ipotetica (Callaey, 1911, pp. 1-24; Montefusco, in Ubertino da Casale, 2014, pp. 33-52), Ubertino nacque a Casale S. Evasio – oggi Casale Monferrato, nella diocesi di Vercelli, ma nella provincia francescana di Genova – nel 1259.

Dalla bolla Verbum attendentes, promulgata da Giovanni XXII il 1° ottobre 1317 (C. Eubel, Bullarium franciscanum, V, 1898, p. 127), sappiamo che apparteneva alla famiglia «de Ylia» (anche «de Hylia» o «de Elia»), attestata a Casale a partire almeno dalla fine del XII secolo (F. Gabotto - U. Fisso, Le carte dell’Archivio capitolare di Casale Monferrato, I, 1908, p. 74). È possibile che l’Uberto de Ylia rettore del Comune di Casale nel 1312 e canonico di S. Eusebio a Vercelli nel 1315 fosse suo parente (ibid., II, p. 220; Ferraris, 2014, p. 207). Ebbe un fratello minore, Giovannino, membro della comunità della Verna nel 1304 (Martínez Ruíz, 2000, pp. 150 s.).

Durante il generalato di Bonaventura da Bagnoregio (1266-74), probabilmente intorno al 1273, vestì l’abito dei frati minori nella provincia genovese. Proseguì la sua formazione in Toscana, dove tra il 1285 e il 1289 entrò in contatto con alcuni laici animati da una fervente pietà cristologica, tra cui il senese Pietro Pettinaio e la vergine Cecilia da Firenze, che lo introdussero «ad arcana Iesu» (Pegoretti, 2018, pp. 90-92). A Firenze conobbe anche il dotto confratello occitano Pietro di Giovanni Olivi, lettore presso lo studium di S. Croce nel biennio 1287-89, e rimase profondamente segnato dalle sue concezioni pauperistiche ed escatologiche.

Pochi anni prima, nel 1285, era avvenuto un altro incontro fondamentale: quello con l’ex ministro generale Giovanni da Parma, che il giovane frate visitò nel suo eremo di Greccio e ricordò in seguito, nell’Arbor vitae, come un modello di fedeltà all’originaria scelta francescana, nonostante la decadenza dell’Ordine (Potestà, 1989, pp. 110-114). Alla morte di Giovanni, nel 1289, Ubertino attraversò una prima crisi spirituale. Di lì a poco si trasferì a Parigi, dove trascorse nove anni dedicandosi agli studi, prima di vivere una seconda e più profonda conversione in seguito all’incontro con Angela da Foligno, databile al 1298.

Dopo aver svolto per quattro anni l’incarico di lettore (forse a Firenze), cominciò a predicare in Italia centrale. Non conosciamo il tenore esatto dei suoi sermoni, ma in essi egli dette probabilmente risonanza pubblica alle posizioni rigoriste della corrente ‘spirituale’ interna all’Ordine dei minori. Denunciato da avversari a noi ignoti, tra la fine del 1303 e gli inizi del 1304 fu convocato a Roma da Benedetto XI. In seguito alle pressioni degli ambasciatori perugini, il pontefice lo rilasciò, imponendogli tuttavia un periodo di silenzio e di ritiro presso il convento della Verna. Qui, su richiesta dei frati (e in particolare del fratello Giovannino), scrisse tra il marzo e il settembre del 1305 una prima versione dell’Arbor vitae, in cui ripercorse la vita di Cristo e la storia della Chiesa, ricevendo conferma dell’ispirazione divina della propria opera attraverso le rivelazioni di una «prudentissima virgo de Civitate Castelli», identificata dalla storiografia con Margherita da Città di Castello (Brufani, 2009, pp. 154 s.).

A partire dal 1306 abbandonò la vita conventuale per far parte della familia del cardinale Napoleone Orsini, cui lo legò per oltre due decenni una sostanziale identità di vedute (Vian, in Ubertino da Casale, 2014). Su sollecitazione di Chiara da Montefalco, il cardinale – allora legato pontificio in Toscana – lo incaricò nel 1307 di istruire, ad Arezzo, un processo contro gli eretici della «secta Spiritus libertatis» (Parmeggiani, in Ubertino da Casale, 2014). Negli stessi mesi tentò, senza successo, di negoziare il ritorno a Firenze dei guelfi bianchi (dei quali faceva parte anche Dante Alighieri), esiliati dai loro avversari nel 1302.

Tra la seconda metà del 1309 e gli inizi del 1310 si recò alla corte avignonese, dove Clemente V, deciso a risolvere le tensioni interne all’Ordine minoritico, aveva istituito una commissione cardinalizia davanti alla quale i rappresentanti della ‘comunità’ e del fronte dissidente degli ‘spirituali’ avrebbero dovuto chiarire le proprie posizioni (Burr, 2001, pp. 111-157). Al fianco di Angelo Clareno, Ubertino si impegnò in prima persona per ottenere il riconoscimento da parte del pontefice dell’autonomia degli spirituali rispetto alla gerarchia istituzionale dell’Ordine, e – grazie anche alla protezione del cardinale Orsini – compose in quegli anni una serie di scritti polemici molto duri contro i frati della Comunità, colpevoli ai suoi occhi di gravi inosservanze nei confronti della regola (Lambertini, in Ubertino da Casale, 2014).

La magna disceptatio, che per quasi tre anni – tra il ritiro estivo di Clemente a Grozeau, la corte di Avignone e il Concilio di Vienne – vide fronteggiarsi le due correnti interne all’Ordine, prese le mosse da un’inchiesta preliminare promossa dal pontefice, il quale intendeva far luce sui rapporti tra gli spirituali e l’eresia dello Spiritus libertatis, sulla corruzione dell’Ordine, sulle ingiustizie perpetrate al suo interno e sull’ortodossia di Pietro di Giovanni Olivi. Agli inizi del 1310, Ubertino rispose con uno scritto noto dal suo incipit come Sanctitas vestra, che si concentra soprattutto sulla seconda questione e sui caratteri del voto francescano di povertà – disatteso ai suoi occhi dalla maggioranza dei confratelli – e che ebbe una certa eco ancora un secolo dopo, tra le rimostranze presentate dagli osservanti francesi al Concilio di Costanza (Oliger, 1916). Nell’immediato, tuttavia, le risposte dei portavoce della Comunità (Chiappini, 1914, e 1915) e le dichiarazioni papali mostrano la maggiore risonanza di un secondo scritto di Ubertino, il Rotulus iste. L’opera fornisce un’accorata difesa del valore costitutivo, per la povertà francescana, dell’usus pauper, attraverso un dettagliato elenco delle violazioni compiute dai frati rispetto alla regola e alla sua esposizione ufficiale (la Exiit qui Seminat, promulgata nel 1279 da Niccolò III). Sulla questione dell’usus pauper torna anche la Sanctitati Apostolicae, composta tra il marzo e il luglio del 1311 in difesa delle dottrine di Olivi, e soprattutto il trattato Super tribus sceleribus (luglio-agosto dello stesso anno), nel quale Ubertino, sulla falsariga di Olivi, sostiene che non solo la rinuncia alla proprietà, ma anche l’uso povero è parte integrante del voto francescano. All’agosto del 1311 risale infine la Declaratio, in cui l’autore rivendica l’autenticità francescana della propria concezione della povertà attingendo alla testimonianza di frate Leone sull’intentio con cui Francesco stesso aveva dettato la regola.

La mediazione tra le due parti, tentata da Clemente V con la bolla Exivi de Paradiso (6 maggio 1312), rappresentò un parziale successo per gli spirituali, prima che l’ascesa al pontificato di Giovanni XXII ponesse fine alle loro speranze (Saccenti, in Poverty and devotion, 2016). Il nuovo papa intimò ai frati dissidenti di sottomettersi ai propri superiori, ma concesse a Ubertino una via di fuga annettendolo come monaco benedettino al monastero di Gembloux, in Belgio (Verbum attendentes, 1° ottobre 1317). Non sappiamo se Ubertino abbia mai visitato la sua nuova sede: nei mesi seguenti egli continuò a gravitare, sotto la protezione di Orsini, intorno alla Curia avignonese. Qui, nel 1319, fu accusato di eresia da Bonagrazia da Bergamo, procuratore dell’Ordine dei minori (la requisitoria è oggi perduta).

Di lì a breve, intorno alla questione della povertà, nacque una nuova e più aspra discussione, che avrebbe portato alla condanna da parte di Giovanni XXII del ministro generale Michele da Cesena e dell’intera dirigenza minoritica. Al quesito papale relativo al carattere eretico o meno della tesi della povertà assoluta (in proprio e in comune) di Cristo e degli apostoli, Ubertino rispose fin dal marzo del 1322, in concistoro. Nella sua Responsio parvula, egli propose una serie di distinzioni sul diverso status di Cristo e degli apostoli in quanto prelati della Chiesa e in quanto modelli di perfezione religiosa, nonché sulla differenza tra il dominio civile e mondano, che implica il ricorso alla legge per la difesa dei propri beni (cui Cristo e gli apostoli rinunciarono), e il possesso secondo il diritto naturale. Per il suo carattere sottile e potenzialmente ambiguo, questo parere orale fu citato più volte, nei decenni seguenti, sia a favore sia contro la causa papale (Potestà, 2012, §§ 7-8). Su richiesta del pontefice, Ubertino tornò poi più ampiamente sulla questione dell’altissima paupertas di Cristo e degli apostoli scrivendo un intero trattato (Ego sum via), di cui la sola conclusione (il Reducendo igitur ad brevitatem, in passato considerato un sunto a sé stante) fu accolta nel documento consultivo fatto allestire da Giovanni XXII (Tabarroni, 2018, pp. 61-64).

Accusato più volte di eresia, il 16 settembre 1325 Ubertino fu condannato dal pontefice per essersi allontanato di nascosto e senza permesso dalla Curia, sottraendosi al processo e aggirandosi «vagabundus per mundum» (Cum Ubertinus, in C. Eubel, Bullarium franciscanum, V, 1898, p. 292). Stando ad Albertino Mussato, il 18 aprile 1328 egli si trovava a Roma, dove avrebbe redatto insieme a Marsilio da Padova, e in presenza dell’imperatore Ludovico il Bavaro, il decreto Gloriosus Deus, che sanciva la deposizione dell’«Anticristo mistico» Giovanni XXII. A partire dal dicembre dello stesso anno, tra i consiglieri della politica antipapale del Bavaro prese il sopravvento la fazione di Michele da Cesena, da anni ostile al vecchio campione degli spirituali. Da allora, neppure la corte di Ludovico consentì il giusto spazio di manovra a Ubertino, che predicò ancora contro il pontefice a Como, ma con ogni probabilità non seguì l’imperatore a Monaco (Cadili, 2011).

Sono ignoti il luogo e la data della morte, avvenuta forse in modo violento (stando alla cronaca dei fraticelli fiorentini edita da F. Tocco, Studii francescani, 1909), sicuramente prima del 1341 (Cadili, in Ubertino da Casale, 2014, p. 402).

Più che ai numerosi scritti sulla povertà, la fama di Ubertino è dovuta principalmente all’Arbor vitae crucifixae Iesu, uno dei più importanti esempi, insieme alle coeve Meditationes vitae Christi, del genere della vita di Cristo (Cusato, 1999). L’opera è trasmessa da oltre settanta codici latini, integrali o parziali, che testimoniano diverse redazioni (Guyot, 1976; Martínez Ruíz, 2000; Martínez Ruiz, in Ubertino da Casale, 2014), sulle quali solo l’attesa edizione critica potrà fare chiarezza.

Suddiviso in cinque libri, l’Arbor vitae ripercorre, nei primi quattro, il mistero dell’incarnazione di Gesù, dalle radici dell’albero della vita – ovvero la croce, sulla falsariga del Lignum vitae di Bonaventura – fino alla sua cima, rappresentata dalla passione, morte e resurrezione di Cristo. Ai frutti dell’albero è dedicato il quinto libro, che propone una visione apocalittica della storia della Chiesa fortemente debitrice delle dottrine di Olivi, nonostante Ubertino dissenta su alcuni singoli punti dal maestro (giudicando, per esempio, illegittima l’elezione di Bonifacio VIII in seguito alla rinuncia di Celestino V), e proponga una critica più esplicita e radicale della gerarchia ecclesiastica e del papato (Manselli, 1965, e 1977; Potestà, 1980, pp. 142-177; Gigliotti, 2013; Ficzel, 2018).

La stesura di un’opera tanto imponente nel giro di pochi mesi (marzo-settembre del 1305) si spiega anche alla luce del modo di lavorare di Ubertino, che fuse all’interno di essa un buon numero di scritti o sermoni propri (Soriani Innocenti, in Ubertino da Casale, 2014) o altrui, appropriandosi, in modo selettivo, di interi passi di Bonaventura o di Olivi, ma anche di autori non francescani come Tommaso d’Aquino e Bernardo di Clairvaux. All’utilizzo disinvolto delle fonti da parte di Ubertino – accusato da Jean Gerson di fregiarsi di piume altrui, come il corvo di Esopo (Iribarren, 2012) – corrispose, per motivi diversi, un altrettanto abbondante e silenzioso utilizzo della sua opera da parte di autori francescani successivi come Bernardino da Siena e Bernardino Ochino (Pacetti, 1945, pp. 93-96; Belladonna, 1985). La diffusione dell’Arbor vitae (probabilmente destinato, nelle intenzioni dell’autore, a una circolazione ristretta e sorvegliata), andò tuttavia ben al di là dei confini del suo Ordine, e tra il XV e il XVI secolo incontrò una fortuna considerevole nei Paesi Bassi, negli ambienti della devotio moderna (Mossman, 2009), ma anche nella penisola iberica, in Francia e in Italia (Piron, in Ubertino da Casale, 2014). Stampata a Venezia nel 1485, l’opera fu volgarizzata più volte (per lo più parzialmente) in diverse lingue europee. Particolare successo incontrò, in Italia, il quarto libro, di cui sopravvivono varie traduzioni manoscritte e una, realizzata da frate Lorenzo da Foiano, stampata a Foligno nel 1564.

La fortuna dell’opera di Ubertino attende ancora una studio d’insieme, che dovrà tenere conto dei suoi numerosi riflessi iconografici (Lunghi, 1996, pp. 490 s.; Baldini, 2007) e letterari, dalla menzione dantesca in Paradiso XII, 124-126 (Manselli, 1976; Park, 2014), a Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco.

Opere. Arbor vitae crucifixae Iesu Christi, Venetiis, per Andream de Bonettis de Papia, 1485 (rist. anast. con introduzione di C.T. Davis, Torino 1961); Il quarto libro del r.p. Ubertino da Casale frate de l’Ordine minore, chiamato Arbor de la vita de Iesu Christo crocefisso, Foligno, per Agostino Colaldi da Civita Ducale, a presso Vincentio Cantagallo, 1564; Responsio parvula, in E. Baluze - J.D. Mansi, Miscellanea, II, Lucca 1761, pp. 279 s.; Sanctitas vestra, a cura di F. Ehrle, in Archiv für Literatur- und Kirchengeschichte des Mittelalters, III (1887), pp. 51-89; Rotulus iste, ibid., pp. 93-137; Sanctitati Apostolicae, ibid., pp. 377-416; Declaratio, a cura di F. Ehrle, in Archiv für Literatur- und Kirchengeschichte des Mittelalters, III (1887), pp. 162-196; Super Tribus Sceleribus (= Tractatus de usu paupere), a cura di A. Heysse, in Archivum franciscanum historicum, X (1917), pp. 123-174; Contra quasdam responsiones, a cura di F. Delorme, in Collectanea franciscana, XV (1945), pp. 72-82; Reducendo igitur ad brevitam, in Davis, 1981, pp. 41-56; Tractatus de altissima paupertate Christi et virorum apostolicorum (= Ego sum via), a cura di G.L. Potestà, in Oliviana, IV, 2012, http://oliviana. revues.org/478 (18 novembre 2019). Per le opere dubbie o perdute v. Potestà, 1994, col. 13.

Fonti e Bibl.: A. Mussato, Ludovicus Bavarus, in RIS, X, Mediolani 1727, col. 772; C. Eubel, Bullarium franciscanum, V, Romae 1898; F. Gabotto - U. Fisso, Le carte dell’Archivio Capitolare di Casale Monferrato fino al 1313, I-II, Pinerolo 1908; F. Tocco, Studii francescani, Napoli 1909, p. 516; A. Clareno, Epistole, a cura di L. von Auw, Roma 1980, pp. 68-81, 104-106; Il processo di canonizzazione di Chiara da Montefalco, a cura di E. Menestò, Perugia-Firenze 1984, pp. 32, 625; A. Clareno, Liber chronicarum sive tribulationum Ordinis minorum, a cura di G. Boccali, S. Maria degli Angeli 1998, ad indicem.

F. Callaey, L’idéalisme franciscain spirituel au XIVe siècle. Étude sur U. de C., Louvain 1911; A. Chiappini, Communitatis responsio ‘Religiosi viri’ ad Rotulum fr. U. de C., in Archivum franciscanum historicum, VII (1914), pp. 654-675, VIII (1915), pp. 56-80; L. Oliger, De relatione inter Observantium querimonias Constantienses (1415) et U. Casalensis quoddam scriptum, ibid., IX (1916), pp. 3-41; F. Callaey, L’influence et la diffusion de l’Arbor vitae de U. de C., in Revue d’histoire ecclésiastique, XVII (1921), pp. 533-546; D. Pacetti, Gli scritti di San Bernardino da Siena, in S. Bernardino da Siena. Saggi e ricerche pubblicati nel quinto centenario della morte (1444-1944), Milano 1945, pp. 25-138; R. Manselli, Pietro di Giovanni Olivi ed U. da C. (a proposito della Lectura super Apocalipsim e dell’Arbor vitae crucifixae Iesu), in Studi medievali, s. 3, VI (1965), pp. 95-122; P.B. Guyot, L’Arbor vitae crucifixae Iesu d’U. de C. et ses emprunts au De articulis fidei de s. 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