CERLETTI, Ugo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CERLETTI, Ugo

Arnaldo Novelletto

Da famiglia originaria della Val Chiavenna (Sondrio), nacque il 26 sett. 1877 a Conegliano (Treviso), dove il padre Giovanni Battista, valente agronomo, aveva fondato nel 1876 la prima Scuola italiana di viticoltura e di enologia. A Roma dal 1886, frequentò dapprima l'istituto Massimo, dei gesuiti (esperienza cui egli faceva risalire le origini del suo anticlericalismo), poi compì gli studi medi nel liceo Ennio Quirino Visconti.

Nel 1896, essendosi la famiglia trasferita a Milano, si iscrisse alla facoltà di medicina di Torino. Due anni dopo passò all'università di Roma e prese a frequentare il laboratorio della cattedra di neuropatologia, affidata a Giovanni Mingazzini, che era pure direttore dell'ospedale psichiatrico (mentre Ezio Sciamanna era titolare della cattedra di psichiatria. Le due cattedre erano destinate a riunirsi, nel 1919, in quella di clinica delle malattie nervose e mentali).

Ancora studente del decimo semestre, si recò una prima volta a Heidelberg per perfezionarsi nelle tecniche di istologia del sistema nervoso sotto la guida di Franz Nissl, che dirigeva il laboratorio della clinica psichiatrica dell'università, di cui era titolare Emil Kraepelin. Nel 1901 si laureò e divenne assistente della clinica psichiatrica di Roma. Per vari anni successivi alternò i semestri di attività didattica, che il suo titolo gli imponeva di trascorrere a Roma, con altrettanti semestri di soggiorno in Germania. Fu anche a Parigi, presso Pierre Marie ed E. Dupré, ma l'impronta che su di lui lasciò l'ambiente tedesco fu di molto prevalente.

Nel frattempo, infatti, il Kraepelin, grazie alla fama acquisita in campo internazionale per aver fornito la sistematizzazione nosografica della demenza precoce e delle psicosi maniaco-depressive, si era spostato da Heidelberg a Monaco, essendo stato chiamato a dirigervi il grande istituto, modernamente attrezzato, che il governo tedesco aveva deciso di costruire. Sorse così, al n. 7 della Nussbaumstrasse, quella Mecca della psichiatria che fu la Deutsche Forschungsanstalt für Psychiatrie. Il C. si trovò a lavorare in un ambiente culturalmente d'avanguardia e veramente internazionale, poiché, oltre ai ricercatori tedeschi, vi era un continuo afflusso di specialisti stranieri (vedi U. Cerletti, Erinnerungen an Franz Nissl, in Münchener Mediz. Wochenschr., CI [1959], 51, pp. 2368-2371).

Il C. si era ormai impadronito delle tecniche e aveva acquisito una rigorosa metodica d'indagine, che negli anni seguenti si espresse in una serie di ricerche istopatologiche, pubblicate in parte su periodici tedeschi, in parte nei ritorni a Roma, dove aveva assunto la direzione del modesto laboratorio anatomo-patologico della clinica psichiatrica, ubicato presso l'ospedale di S. Spirito. Al primo suo lavoro (Contributo sperimentale alla conoscenza dei processi di fagocitosi nella sostanza cerebrale, Roma 1902) ne seguirono, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, vari altri, dei quali ci si limita qui a citare i contributi più originali. Del 1903 è Sulla neuronofagia, e del 1904 Sulla corteccia cerebrale dei vecchi, entrambi editi a Roma. In Sopra alcuni rapporti fra lecellule a bastoncello (Stäbchenzellen) e gli elementi nervosi nella paralisi progressiva (in Rivista speriment. di freniatria, XXXI [1905]) il C. siinserì nella polemica sulla vera natura di quegli elementi morfologici - di cui si discuteva l'origine, gliale ovvero mesodermica - schierandosi in favore di quest'ultima ipotesi.

Nel 1906 fu nominato libero docente e proseguì la sua attività nella clinica psichiatrica, nella cui direzione Augusto Tamburini era succeduto a Sciamanna. Nel 1910 tornò sulle caratteristiche proprie dell'infiammazione luetica cerebrale (Zur Stäbchenzellenfrage, in Folia Neurobiologica, III),concludendo che il processo di attiva flogosi, riscontrabile nell'encefalo, mal si accordava con il concetto di meta- o parasifilide (Kraepelin) e non poteva spiegarsi che con la presenza nel tessuto del germe patogeno. Questa affermazione, che parve allora molto audace, trovò piena conferma due anni dopo, quando H. Nochi e J. W. Moore riuscirono per primi a mettere in evidenza le spirochete nel parenchima nervoso (Ademonstration of Treponema pallidum in the brain in cases of general paralysis, in Journal of experimental Medicine, XVII [1913], pp. 232-238).

Pure del 1910 sono due lavori imponenti per documentazione, Die histopathologischen Veränderungen der Hirnrinde bei Malaria perniciosa e Die Gefässvermehrung im Zentralnervensystem (entrambi in Histol. u. histopathol. Arbeiten, IV),corredati fra l'altro da splendida iconografia autografa. Mentre il primo lavoro ha avuto scarsa risonanza per l'estinguersi, nei paesi civilizzati, della malaria, e in particolare della perniciosa, il contributo sull'aumento dei vasi sanguigni assunse subito autorità assoluta ed è tuttora citato nei trattati di anatomia patologica. L'aumento numerico dei piccoli vasi in molti processi patologici atrofizzanti del tessuto nervoso era già noto, e veniva di solito interpretato in senso assoluto, cioè come neoformazione di tronchi vasali per gemmazione. Il C., che non condivideva questa ipotesi, non si limitò a procedere all'esame istopatologico comparativo delle affezioni cerebrali più diverse, ma realizzò esperimenti originali nell'intento di riprodurre condizioni vicine a quelle che a suo avviso dovevano verificarsi nel cervello malato, e ottenne somiglianze morfologiche dimostrative. Giunse quindi alla conclusione che l'aumento di vasi riscontrabile nei processi arteriosclerotici, nella demenza senile e nella paralisi progressiva, non è il risultato di una neoformazione, ma è dovuto all'infittirsi dei vasi preesistenti che, in seguito all'atrofia del parenchima, subiscono movimenti di torsione formando nodi, intrecci, grovigli.

Infine nel lavoro Sulla struttura della nevroglia (in Memorie d. Acc. d. Lincei, cl. di scienze fis., mat. e nat., s. 5, XI [1914], pp. 1-42) intervenne nella polemica sulla esistenza delle cosiddette fibre nevrogliche. C. Weigert da un lato sosteneva che le fibre gliali fossero strutture del tutto indipendenti dal corpo delle cellule di nevroglia; dall'altro i difensori della classificazione originaria della nevroglia secondo C. Golgi affermavano l'appartenenza delle fibre alle cellule. Il C., che aveva già difeso la tesi golgiana nel lavoro sulla malaria perniciosa, dimostrò minuziosamente non solo che le fibre erano prolungamenti delle cellule gliali, ma che spesso quelle descritte come fibrille altro non erano che artefatti di tecnica, cioè l'immagine ottica di piegature dei prolungamenti protoplasmatici, oppure immagini lamellari viste di taglio.

Contemporaneamente alle ricerche di istopatologia, il C. si era cimentato fin dal 1903 con un problema da cui era assillato in quanto valtellinese, e che avrebbe continuato a interessarlo per tutta la vita: quello del gozzo-cretinismo endemico, vera e propria piaga sociale che rimase di frequente riscontro in varie regioni d'Italia (particolarmente in certe vallate alpine) fino a quando non si adottò la distribuzione di sale iodato. Insieme a Gaetano Perusini impiegò varie estati successive nel reperimento, quasi casolare per casolare, di una vasta casistica che fu oggetto di una prima pubblicazione (1904 e 1905). Da allora dedicò a questo argomento molte altre pubblicazioni e una nutrita serie di ricerche originali, soprattutto nel periodo in cui fu professore ordinario a Genova (1928-35), e nemmeno quando tutte le sue energie si volsero agli studi sull'elettroshock cessò di aggiornarsi e riflettere sul gozzo, tanto che l'ultima sua pubblicazione in questo campo è del 1963, anno della sua morte.

Allo scoppio della guerra 1915-18 il C., fervido interventista, si arruolò volontario negli alpini e, come capitano di sanità, partecipò alle operazioni al fronte, dapprima con la centuria Valtellina di alpini sciatori, nelle alte quote del settore Ortles-Cevedale, poi sulle Dolomiti. L'inventività e l'attivismo di cui aveva già dato prova in campo scientifico si manifestarono subito in iniziative inconsuete per un medico: prima introdusse fra i soldati le tute mimetiche bianche per non essere scorti sulla neve; poi progettò una strada che avrebbe consentito di trainare pezzi d'artiglieria fino a tremila metri di altitudine, onde attaccare le posizioni nemiche sull'Ortles; infine escogitò per l'artiglieria una spoletta a scoppio differito, la cui realizzazione pratica fu talmente ostacolata da lungaggini burocratiche da non poter essere adottata per il sopravvenire dell'armistizio. Il racconto autografo di questa vicenda, oltre che gustoso, illuminante vari aspetti della personalità del C., è stato pubblicato postumo, con il titolo Scoppio differito (Venezia 1977).

Dal 1919 al 1974 diresse l'istituto neurobiologico A. Verga dell'ospedale psichiatrico di Milano, in Mombello. Insieme a Paolo Pini, Gaetano Perusini e Giuseppe Antonini progettò e propugnò per anni la creazione dell'istituto psichiatrico di Affori. Nel 1924 vinse il concorso per la cattedra di neuropsichiatria nella nuova università di Bari e nel 1928 fu chiamato dalla facoltà medica di Genova. Fu lì che, nel corso di una ricerca istopatologica sperimentale sulla sclerosi del corno d'Ammone, che era stata descritta da W. Spielmeyer negli epilettici, adottò per la prima volta la corrente elettrica per provocare attacchi convulsivi nel cane (1932).

Nel 1935 assunse la direzione della clinica delle malattie nervose e mentali dell'università di Roma e riprese queste ricerche, affidandole all'assistente Lucio Bini. Poiché nel frattempo erano state introdotte in psichiatria le cosiddette terapie da shock (l'insulino-shock-terapia da M. J. Sakel nel 1933, e la cardiazol-terapia da L. J. von Meduna nel 1935), l'aver applicato la corrente elettrica al cane indusse il C. a pensare a un suo analogo impiego terapeutico nell'uomo. L'idea restò tuttavia per un certo tempo senza sviluppo pratico, per la diffidenza che il mezzo ispirava. Fu solo dopo aver riscontrato personalmente presso il mattatoio comunale che l'applicazione della comune corrente-luce al capo dei maiali, usata per stordirli prima della macellazione, non ne provocava mai la morte, ma soltanto una crisi convulsiva generalizzata, che il C. si convinse dell'innocuità del procedimento e cominciò a pensare concretamente all'invenzione di un metodo di shock mediante corrente, che presentasse vantaggi rispetto a quelli già noti.

Affidò al Bini la realizzazione di un'apparecchiatura idonea e nell'aprile 1938 applicò per la prima volta all'uomo quel metodo che egli chiamò elettroshock. Fin dal primo caso trattato i risultati terapeutici furono evidenti. Dopo una prima presentazione all'Accademia medica di Roma (maggio 1938), il C. mobilitò tutta la sua scuola in un vasto piano di ricerca, così da presentare l'invenzione al mondo medico soltanto dopo aver studiato le modificazioni istopatologiche consecutive all'applicazione, nell'animale, le migliori modalità di applicazione all'uomo e la semeiologia dello shock, gli effetti sui vari organi e apparati e le applicazioni terapeutiche. Insomma, l'elettroshock, grazie agli studi raccolti dal C. nella monografia del 1940(L'elettroshock, estratto dalla Riv. Sper. d. freniatria, LXIV [1940], 2-4), nacque come metodo completo e collaudato, giacché gli studi stessi ricevettero praticamente conferma in ogni dettaglio dal grandissimo numero di ricerche che furono poi condotte da altri in tutto il mondo. Benché le sue aspettative della vigilia si fossero indirizzate alla terapia della schizofrenia (sulla scorta dell'antagonismo, sostenuto dal von Meduna, tra questa psicosi e l'epilessia), il C. riconobbe immediatamente che i risultati migliori si ottenevano nella psicosi maniaco-depressiva, destinata infatti a divenire l'indicazione elettiva della cura. Allo stesso tempo veniva rigorosamente provata la completa innocuità del metodo (che milioni di applicazioni successive avrebbero confermato) e la sua tollerabilità, certo migliore rispetto ai metodi di shock precedenti.

Dopo l'interruzione delle comunicazioni scientifiche internazionali causata dalla seconda guerra mondiale, l'interesse del mondo psichiatrico si polarizzò sull'elettroshock e la sperimentazione clinica si estese a tutti i paesi. Le indicazioni terapeutiche si vennero ulteriormente precisando. I perfezionamenti tecnici introdotti da altri (prima l'elettroshock in narcosi, poi l'adozione aggiuntiva di farmaci miorilassanti) dal 1955 in poi, oltre a rendere l'elettroshock ancora più sicuro e assolutamente indolore, ne estesero l'applicabilità (per esempio a pazienti anziani, ipertesi, defedati ecc.). A tutt'oggi, nemmeno i nuovi farmaci antidepressivi (imipramina, amitriptilina e loro derivati; inibitori delle monoammmoossidasi ecc.) sono riusciti a soppiantare l'elettroshock, che nei loro confronti presenta i vantaggi della non tossicità, della rapidità dei risultati e della minore entità di effetti collaterali.

L'influsso dell'opera del C., e particolarmente dell'elettroshock, si tradusse in un salto di prestigio della psichiatria, e più in generale della scienza italiana, sul piano internazionale, ma anche in un entusiasmo organicistico eccessivo e spesso polemicamente contrapposto a teorie e tecniche di diverso orientamento. Tutta la patologia psicogena e reattiva, ad esempio, fu conseguentemente trascurata e i progressi raggiunti in altri paesi dalle teorie psicodinamiche e relative applicazioni terapeutiche rimasero pregiudizialmente contestati e ignorati praticamente. Dagli anni '60 in poi, per protesta contro l'applicazione troppo estesa o contro certe modalità di svolgimento della cura (cosiddetto "annichilimento") talora adottate nel tentativo di estenderne le indicazioni, ma soprattutto per la pretestuosa analogia con l'uso violento della corrente elettrica sull'uomo, praticato da ambienti extramedici in varie parti del mondo con finalità abiette di ordine politico, l'elettroshock è stato coinvolto nelle polemiche sulla liberalizzazione dell'assistenza psichiatrica. Le giuste esigenze umanitarie dei movimenti di Antipsichiatria e Psichiatria democratica che hanno promosso tale liberalizzazione (tradottasi in Italia nella legge 13 maggio 1978 n. 150) non hanno impedito che, sulla scorta di spinte ideologiche più che di argomentazioni scientifiche, e comunque trascurando tutti gli accorgimenti tecnici che lo rendono, se correttamente applicato, innocuo e indolore, l'elettroshock venisse additato a simbolo di una cosiddetta "repressione psichiatrica" e, come tale, foscamente dipinto agli occhi della pubblica opinione.

Fin dai primi anni d'applicazione dell'elettroshock, tuttavia, il fervore conoscitivo che lo animava aveva indotto il C. a rivolgersi, più ancora che allo studio degli aspetti clinico-terapeutici, a quello del meccanismo d'azione, dell'elettroshock e delle nuove ipotesi che esso permetteva di formulare in tema di fisiologia del sistema nervoso centrale. Nel 1947 ottenne dal Consiglio nazionale delle ricerche la costituzione di un centro di studio per la fisiopatologia dell'elettroshock che, anche dopo aver lasciato la cattedra per limiti di età (1948), gli consentì di continuare le ricerche presso l'ospedale psichiatrico di Roma. Partendo dalla constatazione semeiologica che i fenomeni essenziali dell'attacco epilettiforme da elettroshock non sono quelli motori convulsivi, bensì quelli neurovegetativi, egli individuò nel diencefalo la struttura nervosa elettivamente interessata dallo stimolo elettrico. Pensò quindi che la scarica diencefalica che ne derivava procedesse da una costellazione preformata di centri nervosi, pronta a scattare di fronte a determinati stimoli, in modo da realizzare quella che chiamò una "sindrome di spavento-difesa", finalisticamente orientata alla salvaguardia della vita e riscontrabile in tutti i gradi dell'evoluzione filogenetica.

Essendosi convinto che il meccanismo d'azione dell'elettroshock doveva consistere nella massima scarica difensiva naturale di cui l'organismo è capace, pensò di utilizzare tali reazioni (che riteneva di ordine umorale, biochimico) per altra via che non fosse lo scatenamento dell'attacco epilettiforme, così da poter fare a meno di provocarlo nei pazienti. Le sostanze che supponeva formarsi nel cervello per effetto dell'elettroshock furono da lui chiamate, alla greca, acroagonine, cioè di estrema difesa. Nell'intento di dimostrarne la presenza e gli effetti, il C. con alcuni suoi allievi (F. Accornero, L. Longhi, G. Martinotti, C. D'Angelo e altri) condusse varie ricerche basate sulla somministrazione, sia ad animali da esperimento sia a pazienti affetti da svariate affezioni psichiatriche, di sospensioni di cervello di maiali sottoposti a elettroshock. I risultati furono dapprima presentati al congresso internazionale di psichiatria di Parigi (1950), poi riassunti in Conclusione sulle acroagonine (Recenti progressi in medicina, XIII [1952], pp. 185-209). Per quanto essi fossero incoraggianti, tuttavia non si ottennero con le acroagonine risultati terapeutici paragonabili a quelli dell'elettroshock, né fu possibile isolare chimicamente tali sostanze.

Decorato al valore nella guerra 1915-18, grande ufficiale al merito della Repubblica, stella d'oro della scuola, medaglia d'oro al merito della Sanità pubblica, emerito di psichiatria dal 1951, presidente della Società italiana di psichiatria dal 1946 al 1959, fu nominato membro onorario di moltissime accademie scientifiche europee e dell'America settentrionale e meridionale. L'università, di Parigi gli conferì la laurea honoris causa (1950), seguita da quelle di San Paolo, di Rio de Janeiro (1953) e di Montreal (1961). Per due volte fu candidato al premio Nobel per la medicina.

Ancora lucidissimo e attivo, il C. morì a Roma il 25 luglio 1963 per trombosi cerebrale.

Il C. diffuse sempre intorno a sé l'impressione di una personalità d'eccezione. L'essere entrato giovanissimo, dietro la guida del botanico Giuseppe Cuboni, nell'ambiente intellettuale romano del primo Novecento (Ferdinando Martini e Giacomo Boni le figure che più lo apprezzarono e incoraggiarono) gli dette quell'impronta umanistica che restò fondamentale nella sua formazione. I tratti più salienti del suo spirito furono la concezione di una cultura universale, laica, superiore a ogni "genere" e a ogni nazionalismo; la passione dell'inventare come ricerca inesausta di nuove vie del pensiero, non solo scientifico; l'ingegno brillante e l'alacrità della prassi. Amante della speculazione intellettuale e vivificato dalla polemica dottrinaria, tenacissimo nelle intraprese solitarie, fu invece piuttosto alieno dalla contesa nei rapporti umani: si spiegano così il ritardo con cui giunse alla cattedra e il fatto che la sua scuola, vivacissima sul piano intellettuale, non abbia avuto gran seguito fra le file accademiche.

Libero pensatore e massone (raggiunse il 33º grado nel rito scozzese), passò incorrotto attraverso il ventennio fascista. L'impegno civile, più ideale che pratico, lo indusse negli anni Cinquanta a candidarsi in elezioni amministrative in liste di sinistra, e fu consigliere comunale di Roma.

Fonti e Bibl.: Un elenco cronol. dei contributi scientifici del C., con relative indicaz. bibl., si trova nel necrol. di C. Berlucchi, Una grave perdita per la scienza ital.: U. C., in La Ricercascientifica, XXXIV (1964), pp. 289-302. Per l'elettroshock si veda, oltre ai lavori già citati, la voce Elettroshockterapia nell'Encicl. med. ital., redatta dal Cerletti. Cfr. inoltre: F. Accornero, Testimonianza oculare sulla scoperta dell'elettroshock, in Pagine di storia d. med.,XIV(1970), pp. 38-52. La bibl. più completa sull'elettroshock fino al 1972 si trova in: C. Catalano Nobili-G. Cerquetelli. L'elettroshock, Roma 1972. Per le polemiche recenti sull'elettroshock si veda: C. Fazio, Polemica aperta sull'elettroshock, in Corriere della sera, 12 genn. 1978, e le repliche pubblicate sullo stesso giornale il 19 genn. 1978. Per la storia della psichiatria ital. contemporanea al C. cfr. il capitolo Italy (redatto dal C.), in Contemporary European Psychiatry, New York 1961, p. 187. Altri necrologi in Riv. di patologia nervosa e mentale, LXXXIV (1963), pp. 326-329; in Rivista sper. di freniatria, LXXXVII (1963), pp. 1255-1259; in La Riforma medica, LXXXVIII(1964), pp. 837-840.

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