FALCANDO, Ugo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 44 (1994)

FALCANDO, Ugo

Glauco Maria Cantarella

Sotto questo nome compaiono nella loro editio princeps, curata da Gervasio di Tournay, pubblicata a Parigi nel 1550, due opere di ambiente siciliano del sec. XII: la Historia (o Liber) de Regno Siciliae, storia dei fatti del regno di Guglielmo I d'Altavilla (1154-66) e dei primi anni del governo del figlio e successore Guglielmo II sotto la reggenza della madre Margherita di Navarra (1166-69), e la Epistola ad Petrum Panormitanae Ecclesiae thesaurarium de calamitate Siciliae, sulla necessità di far fronte alla minaccia sveva dopo l'inattesa morte di Guglielmo II (1189). Poiché Gervasio di Tournay si è basato per la sua edizione su un codice che non è giunto sino a noi, e poiché il F. non appare citato nel testo delle opere né ricorre nelle fonti coeve a noi note, larga parte della moderna letteratura storica definisce l'autore della Historia e della Epistola come "pseudo-Falcando" o come "cosiddetto Falcando", ritenendo che "Hugo Falcandus (o Fulchanlus, Folcnandus, Fulcus) "altro non sia se non lo pseudonimo adottato nel sec. XII dall'autore delle due opere per coprire la sua vera identità, o un nome fittizio, inventato nel sec. XVI dallo stesso Gervasio di Tournay (ma in questo caso rimane aperto il problema di spiegare il motivo di questa "invenzione", se di "invenzione" si è trattato).

Scrittore di grande eleganza stilistica (come risulta ad esempio dal passo nel quale indica l'oggetto della sua narrazione: "Non tamen id ago, ut omnia bellorum discrimina militumque congressus aut quid in singulis urbibus oppidisque gestum fuerit sigillatim expediar..., in hiis maxime, que circa Curiam gesta sunt, occupatus": p. 4, rr. 20-25), l'autore della Historia, che viene spesso definito quale "Tacito della Sicilia", è un lettore dei classici latini (soprattutto di Sallustio, di Svetonio, di Lucano: e si potrebbe pensare anche a Livio e, forse, a Tacito), dei quali sa cogliere ed apprezzare gli insegnamenti e vivificarli nel proprio mondo, in funzione della comprensione della propria realtà. Forse ha letto Boezio, certamente Graziano, il sistematore del pensiero canonistico della prima metà del sec. XII, che cita molto a proposito. La circostanza che nel riferire dei fatti di Messina del 1168 egli abbia trascritto anche il testo di una lettera regia (Historia, pp. 148-150) fa intendere che il cronista era persona molto vicina agli ambienti della Cancelleria e degli archivi del Regno normanno; o, almeno, egli vuole che così si intenda. L'autore della Historia era un personaggio della corte. In essa egli vede il cuore degli avvenimenti e il loro senso recondito. Per lui la corte è il luogo dove vengono decisi i destini degli uomini e dei regni; e inizia il suo racconto premettendo che egli narrerà soprattutto di intrighi e di lotte per il potere. In realtà la sua opera mantiene molto di più di quanto egli abbia promesso: la narrazione e una vera messe di informazioni non soltanto sulla struttura della corte siciliana, sui personaggi che ne facevano parte, sulle loro scalate al potere e sulle loro cadute; ma anche sulle strutture che organizzavano il consenso intorno al sovrano normanno; sulle tensioni etniche e sul rapporto dei singoli gruppi con la corona e fra di loro; sulle relazioni fra le singole parti del Regno (Sicilia, Campania, Puglia, Abruzzo); sulle leggi che ne regolavano la vita. Essa contiene pure squarci assai interessanti sulla mentalità e sui riti di massa delle società cittadine. Anzi, essa è veramente una storia "cittadina", incentrata com'è su Palermo, sede della corte, e su Messina, città a statuto particolare. Proprio in queste ultime città, infatti, in anni diversi (1161 e 1168) e in diverse circostanze la "plebe" manifestò la propria forza inarrestabile e travolgente e rovesciò le situazioni venutesi a creare. È quanto avvenne, ad esempio, nel '61 a Palermo, quando il re fu catturato dai nobili ma venne poi liberato dalla piazza, sollevatasi in sua difesa; o a Messina, quando la città insorse contro i "Franchi", che ne avevano turbato la vita mercantile, e provocò la caduta del cancelliere Stefano di Perche, cugino e - a detta del cronista - favorito della regina Margherita di Navarra.

La Historia prende inizio dalla morte di Ruggero II (1154) e ha fine con quella di Stefano di Perche e con l'ascesa di ὁ προτοϕαμιλιάριος "il primo famigliare" (già italianizzato senza fondamento in "Offamiglio" e anglicizzato in "Offamill"), con particolare attenzione agli anni 1155-56, 1158-62, 1166-68, anni nei quali si ebbero nel Regno straordinari avvenimenti e cambiamenti. Ruggero II costituisce il punto di riferimento e la pietra di paragone del racconto. Famoso è il ritratto di questo sovrano, contenuto nelle prime pagine dell'opera. Dopo la sua morte il Regno, secondo il cronista, si avviò inesorabilmente verso il decadimento a causa proprio di Guglielmo I, il quale, erede "patrie solum potestatis, non etiam virtutis" (ibid., p. 7, rr. 16-17), cominciò il suo governo allontanando dalla corte tutti quegli elementi che il padre, nella ricerca continua del contributo dei migliori, aveva attirato a sé da ogni parte dell'Europa e del Mediterraneo ("quoscumque viros aut consiliis utiles aut bello claros compererat, cumulatis eos ad virtutem beneficiis invitabat": p. 6, rr. 3-5). Così facendo, il nuovo sovrano favorì l'ascesa del plebeo Maione, figlio di un venditore d'olio di Bari, che diventò "emiro degli emiri". Queste affermazioni del cronista trovano conferme in altre fonti: Romualdo Salernitano dice di Ruggero II le stesse cose; e, d'altro canto, sappiamo che Thomas Brown, il potente "magister capellanus", abbandonò il Regno di Sicilia per una più tranquilla carriera in Inghilterra, allo Scacchiere. Però sappiamo che Maione proveniva da una famiglia di notai: poteva dirsi "plebeo", dunque, solo in quanto non apparteneva all'aristocrazia d'arme e di più vecchio insediamento (nella Historia i milites, "icavalieri", hanno ancora uno stato sociale legato strettamente alla loro condizione di guerrieri, che però, di per sé sola, non appare tale da legittimarne la nobiltà: come del resto, nella Francia contemporanea). A rigore, tuttavia, nella realtà concreta del Regno di Sicilia, Maione, in quanto rampollo di una famiglia di aristocrazia cittadina non avrebbe potuto essere definito "plebeo": se l'autore della Historia lo qualifica così, ciò è dovuto al fatto che egli nei confronti dell'"emiro degli emiri", cui attribuisce anche l'inverosimile intenzione di deporre il re e farsi incoronare al suo posto, rivela una tendenziosità totale; così come rivela un'appassionata acrimonia nei riguardi di un uomo che è riuscito a compiere una prodigiosa scalata sociale, giungendo alle vette più prestigiose del potere, a divenire il favorito, l'unico che il re ascolti o dal quale si lasci condizionare: "ceteros omnes excludens, cum rege singulis diebus solus habebat colloquium, solus regni tractabat negotia, regisque animum quocumque libuerat inclinabat" (ibid., p. 8, rr. 16-18). Lo stesso atteggiamento è esibito infatti nelle ultime pagine della Historia, nei confronti dell'arcivescovo Gualtiero, ex precettore dei principi e alla fine padrone del re minorenne, che "sibi regem eatenus suspecta satis familiaritate devinxerat ut non tam Curiam quam regem ipsum regere videretur" (ibid., p. 165, rr. 17-19), e di Gualtiero sappiamo da altre fonti che era di origini sociali decisamente modeste.

Il cronista non considera in realtà il ceto nobiliare come l'unico autenticamente legittimato a governare, sia perché riconosce che i nobili hanno una "innata rebellandi consuetudo" (ibid., p. 108, rr. 25-26), sia perché parlando del gaito (comandante) degli eunuchi, Pietro, cui il moribondo Guglielmo I aveva affidato il ruolo di presiedere il consiglio di reggenza, afferma che, se non fosse stato d'origine "gentile" (Pietro, sembra, era berbero e si chiamava Ahmad) e verosimilmente ancora musulmano, "il Regno di Sicilia avrebbe goduto sotto di lui di molta tranquillità" (ibid., pp. 90-91). A scatenare l'indignazione dell'autore della Historia sono gli arrampicatori sociali, quelli che, per conservare la posizione conseguita, non possono far altro che cercare di rafforzarla continuamente, sempre divorati dall'ambizione e dalla sete di potere, a scapito dei più onorevoli e dei migliori e dunque a scapito del Regno nel suo complesso: tanto accesi dall'ambizione e prigionieri dei loro stessi intrighi che non arretrano (perché non possono più farlo) di fronte ad alcun crimine, neppure a quello orrendo di lesa maestà. Questa sarebbe la colpa di Maione e di tutti coloro che infrangono le regole. Neppure i nobili indietreggiano di fronte al delitto di lesa maestà, e sfiorano il regicidio quando passano dalla difesa di un loro legittimo diritto (come è quello di compartecipazione alla gestione degli affari del Regno) alla rivendicazione di un ruolo che non è ragionevole o a loro consentito. Uno dei punti nodali della narrazione è costituito dalla congiura nobiliare che ebbe la propria spada in Matteo Bonello e che, in una prima fase, fu diretta contro l'"emiro, degli emiri".

L'autore della Historia riferisce che Maione venne ucciso dal Bonello mentre tornava a casa dopo un colloquio con l'arcivescovo Ugo (10 nov. 1160) ed aggiunge che lo stesso Maione stava allora tentando - per il momento senza successo - di sbarazzarsi definitivamente del presule, cui da giorni faceva somministrare veleno a piccole dosi. I due, spiega il cronista, avevano ordito una cospirazione che mirava alla deposizione del re: stretti da un'alleanza tipica dei Siciliani, essi diffidavano tuttavia l'uno dell'altro. Comunque, conclude il cronista, l'arcivescovo non avrebbe tardato molto a seguire l'"emiro degli emiri" nella tomba proprio per l'effetto del veleno che quello gli aveva fatto propinare. L'assassinio di Maione indignò profondamente Guglielmo I, che però - sottolinea lo scrittore - non era in grado di reagire. Questa morte, tuttavia, non bastò ai nobili, che nel marzo 1161 si impadronirono del palazzo reale e dello stesso sovrano, saccheggiando il palazzo e violentando le donne del tirāz, la fabbrica reale delle sete. Contemporaneamente fu scatenato un vero e proprio pogrom contro gli Arabi di Palermo, che, colti di sorpresa, furono massacrati. Gli Arabi musulmani legati alla Corona, che sola poteva garantire loro la sopravvivenza in una terra in cui il numero dei cristiani provenienti dalla Francia e dall'Italia settentrionale era in continuo aumento, furono infatti i primi ad essere colpiti quando il re fu ridotto all'impotenza: non a caso, fa notare lo scrittore, le loro donne saranno le sole a piangere quel re di autentico cordoglio (cfr. ibid., p. 89, r. 4).

La narrazione del tumulto popolare che portò alla liberazione di Guglielmo I, e nel corso del quale trovò la morte il principino Ruggero è - come quella dei fatti di Messina del 1168 - condotta in modo tale da rendere chiaramente comprensibile al lettore l'accusa, che il cronista muove appunto a Guglielmo I: quella di essersi, da sovrano legittimo, fatto "tiranno" proprio in quanto egli manteneva un rapporto innaturale con la "plebe" (che si riconosceva in lui e per lui era pronta a scendere in campo), mentre non aveva né voleva avere alcuna connessione con quanti avrebbero naturalmente dovuto e potuto prestargli sostegno e consiglio per il bene del Regno: cioè, ancora una volta, i migliori. "Tiranno" rimase Guglielmo I, per l'autore della Historia, sino alla fine della sua vita. Infatti, quando egli, repressa finalmente la rivolta in Sicilia, incarcerato e mutilato il giovane Bonello, ripulita Palermo dagli oppositori grazie all'opera di un gaito, cui aveva conferito poteri straordinari anche sopra i cristiani (altra prova del fatto che egli, come ogni "tiranno", riteneva di poter disporre e decidere dei sudditi come meglio gli fosse piaciuto, anche in disaccordo con le leggi del Regno), sconfitti e debellati i ribelli sul continente, rientrato nella capitale tornò a richiudersi nella sua vita di piaceri senza testimoni (per la quale si era fatto costruire un palazzo ancora più bello di quelli di suo padre e, sottolinea la fonte, costosissimo) e prese a governare non meno autocraticamente di prima anche se non più per il tramite di un emiro, ma per mezzo di un consiglio ristretto composto da tre sole persone, che rispondevano unicamente a lui: l'arcivescovo di Siracusa, suo portavoce nel 1161, il notaio regio Matteo d'Aiello, già creatura di Maione, il gaito Pietro - già comandante della flotta distrutta nel 1159 da un fortunale sulle coste d'Africa - divenuto "magister camerarius palacii" dopo la defezione di Iohar, il gaito che era fuggito presso Roberto di Loritello portando con sé i sigilli reali e che perciò era stato condannato per alto tradimento e crudelmente giustiziato. È questo uno dei numerosi avvicendamenti ai vertici del Regno. L'autore illustra molto efficacemente come intorno al re ruotasse anche un nucleo di dignitari, particolarmente vicini alla sua persona, i "familiares", distinti da tutti gli altri "curiales"; appunto tra di loro venivano scelti i tre membri del consiglio ristretto, presieduto da uno dei tre (come προτοϕαμιλιάριος). Questa cerchia di persone e queste cariche più elevate del Regno costituirono - fa rilevare il cronista - l'inesausta matrice e l'obiettivo costante di molti degli intrighi e delle cospirazioni non solo di certi ambienti di corte ma anche di gruppi di potere e di pressione ad essa estranei.

Degli anni compresi tra il 1162 e la scomparsa di Guglielmo I, morto prematuramente di dissenteria il 14 maggio 1166, l'autore della Historia dice semplicemente che lo scacco inflitto dal sovrano ai suoi nemici interni era stato così completo da far ritenere che "non facile deinceps in regno quicquam turbinis emersurum" (ibid., p. 83, rr. 21 s.). Dopodiché passa alle vicende della minorità di Guglielmo II. La regina madre, Margherita di Navarra, osserva il cronista, si rivelò donna energica ma tuttavia non abbastanza forte da contrastare gli appetiti degli esponenti della sua stessa famiglia: sono significative le rimostranze fattele dallo zio conte di Gravina, irritato perché il defunto sovrano aveva lasciato, morendo, al gaito Pietro, musulmano e per di più eunuco, il compito di presiedere al consiglio di reggenza.

L'episodio, che lo scrittore riferisce col tono di chi vuole convincere di esserne stato testimone oculare o, almeno, di esserne stato informato da fonte sicura, altro non è, probabilmente, se non un espediente narrativo per significare l'ostilità violenta e continuata del Gravina - inteso come portavoce e testa d'ariete dell'aristocrazia militare - nei confronti del gaito, persona d'altro canto stimabile, che i nobili - in contrasto con le consuetudini proprie del Regno - non volevano ricoprisse un incarico di così alto rilievo. Questa ostilità si fece così decisa e intransigente, che il gaito fu costretto a rinunziare al suo ufficio e alla lotta. Secondo il cronista, infatti, una certa notte, probabilmente non senza il consenso della regina madre, Pietro si imbarcò su una nave, nella quale aveva fatto caricare ingenti ricchezze, e lasciò per sempre la Sicilia, il suo re e il suo stesso nome cristiano per riparare in Marocco, dove riassunse il nome di Alimad e da dove riprese la guerra santa contro i cristiani. Le pressioni dei congiunti di Margherita furono fortissime: il fratellastro Roderico la raggiunse dalla Navarra "spe lucri" non appena avuta notizia della scomparsa di Guglielmo I (ibid., p. 107). Bruttissimo, vizioso, incapace di far altro se non giocare a dadi o alle tessere, Roderico non era in grado di prender parte alla vita di corte - afferma lo scrittore - perché non conosceva il "franco", che allora era la lingua della corte siciliana: le costumanze "franche" condizionavano talmente la corte palermitana, - Roderico fu costretto a mutare il suo ispanicissimo nome in quello meno insolito di Enrico - che Romualdo di Salerno, Matteo d'Aiello, Gentile d'Agrigento (meridionali autoctoni, i primi due; giunto il terzo dall'Ungheria ma presto assimilato: tutti esponenti di punta del partito che alla fine risultò vincitore incontrastato) pensarono addirittura che sarebbe stato opportuno allontanare tutti i "Franchi", così che il piccolo Guglielmo II, crescendo sotto la loro influenza, non avesse nemmeno a ricordarsi d'essere di origine normanna. La notizia apre uno spiraglio sull'educazione del piccolo re, tutta rinserrata nel cuore della corte e testimonia l'asprezza dei contrasti interni ad essa. La debolezza e l'isolamento della regina madre e dei suoi consiglieri sono d'altro canto testimoniati dalla decisione, da loro presa per guadagnare consensi al piccolo re, di concedere il perdono ai nobili promotori e protagonisti della rivolta del 1160-62. Non è molto sorprendente che in tale situazione di isolamento e di continue cospirazioni Margherita di Navarra abbia chiesto aiuto al cugino Stefano, figlio del conte di Perche, il quale, diretto in Terrasanta, aveva toccato la Sicilia. Stefano, che, come moltissimi altri, non si recava in Palestina per ragioni di pietà religiosa ma nella speranza di farvi fortuna, non si lasciò sfuggire l'occasione e venne subito nominato cancelliere del Regno.

La subitaneità con cui Stefano di Perche venne assunto al potere, e la circostanza che anch'egli era un "franco" non impediscono all'autore della Historia di manifestare stima per il nuovo cancelliere. Ne loda infatti l'onestà e l'integrità; sottolinea inoltre come egli avesse provveduto a punire i musulmani, saliti in troppa superbia durante il regno del "tiranno" Guglielmo I, e come avesse colpito anche i cristiani che avevano collaborato allora con gli infedeli, senza curarsi del fatto che sia gli uni sia gli altri erano stati in quei frangenti gli strumenti "del re", e che la loro condotta nel corso della repressione aveva i suoi presupposti in un'amplissima delega ricevuta "dal re". Così facendo, il nuovo cancelliere aveva cominciato a demolire i pilastri della degenerazione "tirannica" del potere sovrano. Venerato dai popoli della Sicilia come uomo giusto ma detestato e temuto dai corrotti dignitari della corte di Palermo, Stefano aveva tutti i requisiti per essere un ottimo governante, ritiene il cronista: tale da essere ascritto nel ristrettissimo novero dei "migliori", nel quale egli pone solo alcune personalità minori come Ivo, il miles Matteo Bonello, Ruggiero Tironense e Roberto di San Giovanni. Perfetto però non era, afferma lo scrittore, perché si fidava soltanto dei compagni che partiti con lui per la Terra Santa erano stati da lui convinti a fermarsi in Sicilia. I veri amici su cui poteva contare a corte - quelli che, ben conoscendola, poterono metterlo in guardia - erano invece da lui poco ascoltati e questo lo perdette, commenta il cronista, avviandosi a narrare le successive tappe della vita di Stefano di Perche.

Di seguito narra, infatti, dello scandalo suscitato dalla voce, strumentalmente creata e pubblicizzata, di una sua relazione con la regina madre (tarda estate del 1167); della sua elezione ad arcivescovo di Palermo, voluta dalla stessa regina madre (ottobre-novembre 1167); della congiura da lui scoperta e repressa e della conseguente espulsione dal Regno del fratellastro della regina, Enrico di Navarra, che aveva partecipato al complotto (dic. 1167-marzo 1168). Ma quest'ultimo era il beniamino della plebe di Messina, e questa si sollevò il giorno di Pasqua (31 marzo 1168) contro le malversazioni di Oddone Quarrel - un canonico della cattedrale di Chartres, amico e compagno di Stefano di Perche, venuto con lui dalla Francia - e liberò Enrico dal carcere. La sollevazione, che si propagò in tutta la Sicilia interna raggiungendo la stessa Palermo, obbligò Stefano a fuggire in Terrasanta, dove trovò di lì a poco la morte. Altri intrighi condussero, nei mesi successivi, all'affermazione, dovuta all'appoggio di Matteo di Aiello, di Gualtiero, decano della Chiesa di Agrigento e precettore del fanciullo Guglielmo II, e all'avvento dello stesso Gualtiero come arcivescovo di Palermo, il 22 giugno 1168. La Historia si chiude con la notizia del terribile terremoto, che nel 1169 distrusse Catania: evento funesto ed emblematico, che suggellò la rovina del Regno di Sicilia preannunziando l'inizio di tempi calamitosi.

Da quanto si è riferito sin qui risulta evidente il carattere narrativo-politico della Historia de Regno Siciliae. Del resto essa nasce, assicura il suo autore, per tramandare ai figli le virtù dei padri, con la dichiarata intenzione didascalica di mostrare modelli cui potersi conformare. Ma i personaggi positivi presentati nelle sue pagine sono alquanto volubili, incostanti, contraddittori. Ben più sanguigni sono i personaggi negativi, ben saldi nell'intento di raggiungere il potere senza badare ai mezzi. C'è un solo e vero modello: Ruggero II, il re assente da questa Historia perché già morto ma che, pure, la condiziona fin dall'inizio, da quelle prime pagine nelle quali viene tracciato il suo ritratto. E il re ideale, prudente e forte, rispettato e temuto, sempre attivo, mai ozioso, che raduna attorno a sé i "migliori" del suo tempo, che si stringe intorno i nobili e di tutti ascolta il consiglio anche se, ovviamente, si riserva la decisione ultima, che costruisce un regno di grandezza e giustizia; severo, perché deve consolidare l'autorità; terribile, perché è costretto talora dall'emergenza a contravvenire alle consuetudini. Non un "tiranno", dunque, come lo avevano invece dipinto tanto la pubblicistica favorevole al papa Innocenzo II (il sovrano nel 1130 aveva appoggiato l'antipapa Anacleto II) quanto quella imperiale, a lui ostile perché aveva "usurpato" il titolo di re grazie proprio ad Anacleto II: ma un re, che deve e sa far fronte all'emergenza con gli strumenti d'emergenza, di cui può a buon diritto disporre. Quegli strumenti appunto che Stefano di Perche, giunto alla stretta finale, non vuole impiegare proprio per non apparire tirannico, e così prepara la propria sconfitta, dimostrando di non avere tutte le qualità necessarie per reggere un regno; mentre al contrario Guglielmo I fa dell'emergenza la normalità proprio per potere usare mezzi straordinari e stravolgere le regole dell'ordinato governo. Quella che va sotto il nome del F. è una storia che insegna che la fortuna può modificare repentinamente le situazioni, ma anche che le si debbono preparare condizioni idonee; che ci sono regole auree per vivere a corte, anche se apparentemente contraddittorie, quali l'essere sempre leali e diffidare sempre; che il regime preferibile è quello del "re giusto", e che "re giusto" non significa necessariamente "re perfetto". Anche Ruggero II ha i suoi lati deboli: le donne, ad esempio, che frequenta "ultra quam bona corporis exigeret valetudo" (ibid., p. 7, r.4). Le fatiche d'amore associate alle immense fatiche belliche, lo conducono infatti a prematura vecchiezza e alla morte precoce, che lascia il Regno in balia di un sovrano incapace e di cortigiani intriganti. Il modello è abbastanza realistico. Lo stesso si può dire per ognuno dei personaggi ricordati dal cronista. Praticamente nessuno, tranne quelli che vogliono a tutti i costi il potere, riesce a mantenere una linea di condotta coerente: di tutti il narratore pone in evidenza luci ed ombre, come fa per il "miglior re", come fa per Stefano di Perche, certamente dotato di un gran senso dell'amicizia ma non altrettanto fornito di qualità politiche.

La concretezza è la caratteristica cui mira l'opera, proprio perché intende essere anche uno strumento di analisi politica attraverso la storia. La sua analisi non nasconde pertanto certe realtà del Regno. Sa, ad esempio, quali rivalità etniche e sociali andrebbero controllate; indica quali meccanismi regolino il consenso, peraltro sincero e profondo, dei sudditi musulmani nei confronti del re; conosce anche certi "riti" plebei, che descrive con evidente compiacimento letterario e con grande acume "sociologico" (la sommossa di Palermo del '61, la rivolta di Messina del '68); non nasconde le differenziazioni sociali - come quella fra nobili impoveriti e "ignobili" pronti a tutto per divenire potenti - scandalose e foriere di pericoli quali le rivolte nobiliari o il sovvertimento della società magari perpetrato nel nome del re (ibid., pp. 32-33, 79-80). Grazie anche alla sua cultura classica l'autore della Historia percepisce con grande acutezza quale "modello di governo" sia stato attuato in Sicilia. Identifica il ceto degli eunuchi che svolgono funzioni eminenti a corte e l'accetta sia perché esso costituiva un anello tutt'altro che insignificante del processo di formazione del consenso intorno al sovrano (in questo egli trova la conferma del valenciano Ibn Giubayr, 1184-1185), sia perché la sua fedeltà era, tranne in casi estremi, fuori discussione. Ritiene tuttavia che fosse stato un errore aver lasciato crescere la loro influenza politica come aveva fatto Guglielmo I sia pure in modo indiretto, quando aveva affidato l'intero potere all'emiro degli emiri Maione, il quale si era potuto costruire indisturbato un proprio sistema di alleanze: "et ipsi [gli eunuchi] machinationum admirati conscii fuerunt et participi" (ibid., p. 47). Ecco la questione centrale della Historia: occorre un re che regni e sappia farlo; che non si lasci guidare dai suoi cortigiani o per pigrizia, come ha fatto Guglielmo I, o per troppa giovinezza ed incapacità, come ha fatto l'adolescente Guglielmo II. In questa prospettiva la struttura dell'opera si rivela come la descrizione di un "rovesciamento": dall'epoca di Ruggero II in poi tutte le cose sono andate alla rovescia (e allora s'intende l'affermazione dello scrittore che la Fortuna la quale rovescia continuamente le situazioni, presiede alle cose del Regno quasi maligno nume tutelare) e lo stato del Regno nei primi anni di Guglielmo II è la dimostrazione più evidente che le cose sono a rovescio rispetto a come dovrebbero essere: la Sicilia è divenuta terra d'immigrazione nella quale gli ultimi arrivati, qualunque sia la loro provenienza, cercano di scalzare chi già vi abita; i sudditi saraceni sono le vittime preferite dei Lombardi; i Latini sobillano i Greci contro i Franchi; i Franchi prevaricano tutti, Greci e Latini, ma insieme ai Latini si danno al massacro dei Saraceni nello stesso esercito regio, anche sotto gli occhi del sovrano. I confini linguistici, della cui esistenza il cronista rende conto, segnalano non tanto usi e costumi diversi quanto interessi potenzialmente inconciliabili di egemonia, che si riverberano nel comportamento dei singoli, dentro e fuori la corte. Il regno dalle molte culture, nato dal sogno e dagli sforzi di Ruggero II, è divenuto il regno delle reciproche intolleranze. Esso presenta troppe crepe; si sta avviando verso la disgregazione, che non sarà provocata da nemici esterni ma dalle sue stesse contraddizioni interne. Esse potrebbero essere controllate soltanto da un re degno di questo nome; il che è precisamente quel che manca nel momento in cui scrive il cronista.

È molto difficile, a meno di nuovi ritrovamenti archivistici, dare un nome all'autore della Historia; una quarantina d'anni or sono si è tentato di identificarlo nell'emiro Eugenio, vissuto alla fine del sec. XII e di famiglia greca di origine. Ma questa ipotesi non ha trovato concordi gli studiosi, e inoltre qualche indizio sembrerebbe far ritenere improbabile che l'autore della Historia conoscesse il greco. L'unica cosa che si può dire è che egli, esponente di spicco di quella internazionale cultura di corte che alla metà del sec. XII annoverava uomini importanti ed opere di prima grandezza, sembra riflettere una linea di pensiero che potrebbe essere anche quella di un partito interno alla corte: un partito magari collaterale alla congiura del 1160 ma uscito abbastanza indenne da essa, al quale potrebbe non essere rimasto estraneo Enrico Aristippo, l'illustre letterato e traduttore di filosofi greci che della successiva repressione fu vittima. Ciò implicherebbe anche che il cronista potrebbe essere nato negli anni 1120-1130: poiché la Historia si conclude con il ricordo del terremoto del 1169, nulla osterebbe ad una simile ipotesi. La sua cultura potrebbe tranquillamente far pensare ad un clerico: il che nel sec. XII, non sarebbe motivo di stupore e potrebbe confortare l'ipotesi che il cronista fosse persona vicina alla capella regia. Egli - o la sua parte - potrebbe forse essere stato ostile alle condizioni previste dal trattato di Benevento del 1156 (un compromesso tattico con il quale si poneva fine alle controversie con la Chiesa di Roma), dal momento che del trattato la Historia non fa cenno: ma tale silenzio potrebbe anche essere dovuto alla precisa volontà di non segnalare nulla in cui né il "plebeo" né il suo "tiranno" si siano distinti.

Alcuni motivi della Historia ricorrono nell'Epistola ad Petrum, come quello introduttivo e fondamentale della necessità della concordia di tutti: qui contro il pericolo della "barbarie germanica", che riprende il luogo comune della bruta e cieca violenza dei Tedeschi e serve ad introdurre quello della identità del Regno mediterraneo, alla cui difesa cristiani e musulmani d'ogni ceto sono chiamati a concorrere smettendo di ammazzarsi a vicenda: gli uni approfittando infatti della mancanza del re per attaccare gli altri e gli altri occupando, per difendersi, le piazzeforti di importanza strategica (che invece dovrebbero essere nelle mani del sovrano, come insegnava Alessandro di Telese a Ruggero II). La "concordia" del Regno è la forma essenziale per la sopravvivenza del Regno stesso, per la sopravvivenza delle sue città (di cui l'autore esalta le antiche e nobili origini): Messina, Siracusa, e poi Agrigento, Mazzara, Cefalù, Palermo. L'autore in pratica fa un giro intero (e coerente, con l'eccezione di Cefalù) dell'isola, giro che lo conduce naturalmente alla capitale come ultima e più importante tappa della sua ricognizione e di cui lascia una descrizione di importanza fondamentale. Ne accentua infatti soprattutto l'aspetto di sede del re, tessendo l'elogio della cappella reale e facendo la descrizione del palazzo. Contro il pericolo della "barbarie" oppone il tirāz e gli eunuchi, simboli di una regalità complessa ma indiscutibilmente legittima e da salvaguardare proprio nella sua "peculiarità". Lo stile della Epistola è declamatorio, molto diverso da quello della Historia; c'è forse più Cicerone, in questa perorazione, che potrebbe anche venir definita "invettiva" (e il genere dell'invettiva, di fronte ad avvenimenti traumatici, era quasi d'obbligo). Tuttavia è vero che una invettiva richiedeva un tono oratorio, e dunque questo non potrebbe essere ritenuto motivo sufficiente per escludere una paternità comune alle due opere. Uguale è invece nella Historia e nell'Epistola il disprezzo per i Pugliesi (tanto che l'amanuense del cod. della Bibl. nationale di Parigi. Fonds Lat. 6262 del sec. XIV in uno dei manoscritti che ci hanno conservato l'Epistola, interviene sul testo per correggere il giudizio originale). Dissimile è invece il giudizio su Messina, che nella Epistola è detta "potens et multa civium nobilitate prepollens" (ibid., p. 174) e nella Historia sentina d'ogni vizio, popolata di ladri e di avventurieri: ma non si può escludere che la retorica dell'Epistola incornici una sincera apprensione di fronte alla quale cede ogni personale antipatia. Comunque l'insistenza sulle città sembra voler riconoscere una realtà cittadina che anche in Sicilia andava allora costituendosi (come, del resto, avviene anche nella Historia: ibid., pp. 31-34). In questa luce la descrizione anche topografica di Palermo e l'indugiare sulle sue ricchezze e sui suoi traffici e sulla campagna che le pertiene (con i suoi frutti, la sua canna da zucchero), oltre ad appartenere ad un genere letterario diffuso nel sec. XII (ma proposto qui in versione "laica"), sembra voler presentare la capitale come essenza e sintesi delle città, mentre la compresenza in essa dei quartieri mercantili e di quelli regali in naturale "concordia" appare simbolo dell'essenza dell'ordinata convivenza non solo fra etnie diverse ma anche fra interessi sociali diversi. Il punto di equilibrio e di coagulo è costituito dal re, dalla sua presenza e dalla sua capacità di essere elemento di unità e di annonia in una terra altrimenti segnata da rivalità mortali. Questo potrebbe essere perfettamente consonante con il pensiero dell'autore della Historia. Se anche si ipotizzasse una coincidenza tra la data di nascita di quest'ultimo (1120-1130, come s'è detto), e quella dell'autore della Epistola, ci si troverebbe di fronte all'opera di un uomo, al più, di settant'anni: un'età, certo, avanzata ma non così rara nemmeno nel pieno Medioevo. Ma queste opere potrebbero essere dovute più che a una stessa persona, ad un'identica scuola di idee, ad una consonante linea di pensiero, ad un medesimo partito; o (se il destinatario dell'Epistola fosse, come ha ipotizzato il Tramontana, il "Petrus Indulsus thesaurarius" canonico della cappella regale) ad una fazione interna alla corte, meglio: ad un gruppo vicino all'ambiente della capella regia. Questo, peraltro, sarebbe il genere di conclusioni che si sarebbe portati a trarre se non si fosse preventivamente fuorviati dall'attribuzione delle due opere ad uno stesso autore, fatto che obbliga a misurarsi con molti falsi problemi: quella dell'unica paternità, allora, sarebbe solo, e più correttamente, un'ipotesi conclusiva e non già una convenzione di partenza (e chissà che, così facendo, non si sia riprodotto in qualche misura il procedimento seguito da Gervasio di Tournay). Niente di più, come si vede, che ipotesi: il "mito" del F. si sposa col "mito" della Sicilia normanna. La consonanza, casualmente, è perfetta.

L'unica edizione critica disponibile è quella di G. B. Siragusa, La Historia o Liber de Regno Sicilie e la Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie thesaurarium, in Fonti per la storia d'Italia, XXII, Roma 1897. Indicazioni esaurienti sui manoscritti e sulle edizioni in Rep. fontium hist. Medii Aevi, IV, pp. 421 s., e in S. Tramontana, Lettera a un tesoriere di Palermo sulla conquista sveva della Sicilia, Palermo 1988, pp. 71-119 (ivi, pp. 123-143, una nuova traduzione ital. dell'Epistola, dopo quella, completa ma arcaica, di G. Del Re, in Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi ed inediti: storia della monarchia, I, Napoli 1845, pp. 285-391, e i brani tradotti da P. Delogu in I Normanni in Italia. Cronache della conquista e del Regno, Napoli 1984, pp. 183-185, 187-189, 197-201, 202-208, 216-219).

Bibl.: Per la bibliografia sino al 1976, si veda: Rep. fontium hist. Medii Aevi, IV, p. 422; cui va aggiunto O. Capitani, Motivazioni peculiari e linee costanti della cronachistica normanna dell'Italia meridionale: secc. XI-XII, in Rend. dell'Accad. delle scienze dell'Istituto di Bologna, classe di scienze morali, LXV (1976-1977), pp. 59-91. Fondamentali restano comunque O. Hartwig, Re Guglielmo I e il suo grande ammiraglio Maione di Bari. Contribuzione alla critica della Historia del creduto Hugo Falcandus, in Arch. storico per le provv. napoletane, VIII (1883), pp. 464-485; E. Jamison, Admiral Eugenius of Sicily. His life and work and the authorship of the Epistola ad Petrum and the Historia Hugonis Falcandi Siculi, London 1957. Per quanto riguarda gli studi successivi si veda, oltre a Delogu, I Normanni in Italia, pp. 270 s.: H. Hoffmann, Hugo Falcandus und Romuald von Salerno, in Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters, XXIII (1967), pp. 117-170 (spec. pp. 117-142); H. Enzensberger, Der "böse" und der "gute" Wilhelm. Zur Kirchenpolitik der normannischen Könige von Sizilien nach dem Vertrag von Benevent, ibid., XXXVI (1980), pp. 387 s., 404, 417; S. Tramontana, L'effimero nella Sicilia normanna, Palermo 1984, passim; Id., Lettera, pp. 11-66; G. M. Cantarella, La Sicilia e i Normanni. Le fonti del mito, Bologna 1988, passim; Id., La fondazione della storia del Regno normanno di Sicilia, in L'Europa dei secoli XI e XII fra novità e tradizione: sviluppi di una cultura, Milano 1989, pp. 184-195; Id., Scene di folla in Sicilia nell'età dei due Guglielmi, in A Ovidio Capitani. Scritti degli allievi bolognesi, Bologna 1990, pp. 9-37.

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