Una nuova tecnica del costruire: il calcestruzzo armato

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

Una nuova tecnica del costruire: il calcestruzzo armato

Aulo Guagnini

Il rinnovamento tecnologico per il mondo delle costruzioni si concretizzò nella seconda metà del 19° sec. grazie alla ricerca di nuovi materiali. I magisteri tradizionali lasciarono il posto all’acciaio che, sia in Europa sia in America, aveva iniziato a sostituire i materiali di uso comune (in particolare il legno) per affrontare ulteriori nuove sfide volte a costruire edifici sempre più alti, sicuri e veloci da realizzare. L’espressione più significativa di tale cambiamento si concretizzò nella scuola di Chicago che, dopo l’incendio del 1871, introdusse l’uso di strutture miste in acciaio e laterizio.

Se, da un lato, l’America si convinse rapidamente all’impiego delle nuove tecnologie costruttive per gli edifici più alti e strutturalmente impegnativi, dall’altro, l’Europa continuò a muoversi all’interno della tradizione, spinta da motivi non solo economici, ma legati al reperimento di materie prime, al mondo dell’artigianato, alle scuole di architettura in parte distanti da un panorama europeo più complesso. Il caso più significativo resta quello francese.

In Francia si svilupparono i brevetti più interessanti, anche se i primi passi e i primi impieghi della nuova tecnica del calcestruzzo armato sono riconducibili all’Inghilterra, dove nel 1756 John Smeaton progettò il celebre faro di Eddystone, e proprio in Francia, infatti, a partire dal 1735, si assistette a un progressivo interesse verso un materiale ‘nuovo’ da impiegare sia nel campo civile sia in quello militare: appunto il calcestruzzo. Significativo, a tal proposito, è il Traité des fortifications pubblicato nel 1735 da Bernard Forest de Bélidor (1698-1761). Nel terzo volume (1753) dell’Encyclopédie di Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert si fece, per la prima volta, una summa delle conoscenze tecniche e scientifiche legate all’uso del «cemento: in architettura ci si riferisce a una sorta di malta legante che si utilizza per unire i mattoni o le pietre […]». Un secolo dopo, durante la seconda Esposizione universale di Parigi (1867), approdò sullo scenario industriale il brevetto del francese Joseph Monier (1823-1906) per un «sistema per la costruzione di cassoni, serbatoi mobili, in ferro e cemento, utilizzabili in orticoltura» (J.-L. Bosc, J.-M. Chauveau, J. Degenne et al., Joseph Monier et la naissance du ciment armé, 2001, p. 78). Si trattava di un sistema ideato per lo sfruttamento della combinazione di calcestruzzo (in origine applicato su strati spalmati gli uni sugli altri) con barre di ferro disposte a rete, in modo da associare la resistenza a compressione del calcestruzzo con quella a trazione dell’acciaio.

Il brevetto venne implementato, nel 1873, da un altro per la costruzione di ponti (rivolti all’abbellimento dei parchi: interessante è il ponte di 14 m nel parco del castello di Chazelet, Saint Benoît-du-Sault, nella Francia centrale, progettato intorno al 1860) e, nel 1878, da una serie di tavole dedicate al dettaglio nella posa dei ferri d’armatura. Soltanto quindici anni più tardi François Hennebique (1842-1921) depositò il primo brevetto che portò alla nascita della grande produzione francese del cemento (sicuramente Hennebique ebbe modo di vedere le realizzazioni di Monier all’Esposizione del 1867, dal momento che depositò il suo brevetto principale nel 1892). Grazie all’intuizione e al conseguente studio per una più funzionale posa dei ferri d’armatura (furono realizzate numerose sperimentazioni e prove di carico), a una perfetta organizzazione di agenti commerciali (celebre è il motto «plus d’incendies désastreux») e alla diffusione della rivista «Le béton armé» (dal 1899), il sistema Hennebique prese il sopravvento e iniziò a diffondersi in Europa, nell’America Meridionale, in Asia e nei Paesi del Mediterraneo.

Parzialmente diversa era la situazione nell’Europa centrale, in particolare in Prussia e nell’impero austro-ungarico. Nel 1879 Monier depositò il suo brevetto per l’Austria, che suscitò subito l’interesse dei due imprenditori Philippe Josseaux e Conrad Freytag (1846-1921); quest’ultimo si associò con Gustav-Adolf Wayss (1851-1917) dando origine, nel 1900, alla Wayss & Freytag, che in seguito avrebbe ospitato nei propri uffici Emil Mörsch (1872-1950), tra i padri della teoria delle costruzioni in cemento armato e autore dell’opera Der Eisenbeton, seine Theorie und Anwendung (1902).

L’elenco dei brevetti e delle imprese europee che si occuparono del calcestruzzo armato è molto lungo, specialmente dopo l’uscita dalla grande depressione che seguì il crollo della borsa valori di Vienna (1873). Per quanto riguarda l’Italia, la situazione dell’edilizia fu peggiorata dalle guerre di riunificazione, dalla fuga dei capitali esteri, dalla guerra daziale e dalla problematica riorganizzazione generale dello Stato unitario. Una significativa ripresa nel campo delle costruzioni si manifestò a partire dal 1871-80 sino alla Prima guerra mondiale, nonostante alcuni periodi di arresto, soprattutto in seguito alla caduta del governo Crispi (1896), anche se proprio in quell’arco temporale si assistette all’avvento del ‘rivoluzionario’ impiego del calcestruzzo armato.

Il rinnovamento dell’insegnamento della scienza delle costruzioni

La graduale estensione dell’impiego del calcestruzzo armato nelle costruzioni fu resa possibile anche grazie alla progressiva diffusione dei metodi di calcolo, prima coperti da brevetto e poi oggetto di insegnamento nelle scuole tecniche e militari. In campo universitario, l’introduzione di questa nuova tecnica non fu immediata, probabilmente a causa della radicata fiducia che il mondo accademico continuava a mantenere nei confronti delle tecniche e dei materiali tradizionali:

Il primo accademico a tenere lezioni sul nuovo sistema [fu], nel maggio del 1900, l’ingegner Camillo Guidi, che si distinse anche nella scelta del metodo di comunicazione, proponendo l’argomentazione con il carattere di conferenze straordinarie aperte al pubblico (Iori 2001, p. 63).

Grazie alle sue conferenze, tenute alla Reale Accademia delle scienze e alla Scuola di applicazione per gl’ingegneri di Torino, Guidi (1853-1941) contribuì, in maniera decisiva, all’inserimento dello studio di questo ‘nuovo’ materiale all’interno dei corsi di scienza delle costruzioni.

Nelle dispense dei suoi corsi (1896, 1906) e nelle conferenze (1900, 1901) si nota il progressivo passaggio dalle strutture metalliche soggette a ruggine, alla distruzione in caso d’incendio e comunque non sempre suscettibili di un rigoroso calcolo statico, verso quelle in béton più economiche e resistenti al fuoco. Per comprendere l’importanza del mutamento in atto nella tecnica delle costruzioni, basta confrontare i contenuti dei testi pubblicati a dieci anni di distanza. Nella raccolta delle lezioni del 1896, Guidi analizzò le principali strutture metalliche, avendo come riferimento i trattati e i manuali di area francese e tedesca – in particolare facendo preciso riferimento ai principali testi pubblicati all’epoca, fra i quali quelli di Léonce Reynaud (Traité d’architecture, 1860), di Eduard Brandt (Lehrbuch der Eisen-Constructionen, 1871), di Luigi Mazzocchi (Trattato su le costruzioni in legno, 1879), di Theodor Landsberg (Die Statik der Hochbau-Constructionen, 1889) e di Jules Denfer (Charpenterie métallique, 1894) –, mantenendo, dal punto di vista didattico, un approccio critico radicato nelle conoscenze degli anni centrali dell’Ottocento e legato alle prestazioni che le strutture in acciaio potevano garantire.

È appena trascorso qualche decennio da che tutto il favore era stato accordato alle costruzioni metalliche, le quali, in verità, per eleganza ed arditezza, hanno raggiunto, sia nelle costruzioni civili, sia, ed ancor di più, nelle opere pubbliche, specialmente nei colossali ponti e viadotti ultimamente costruiti un notevole grado di perfezione (C. Guidi, Le costruzioni in “beton” armato. Conferenze tenute nel maggio 1900 dall’ingegnere Camillo Guidi nella R. Scuola d’Applicazione per gl’Ingegneri in Torino, 1901, p. 1).

Le strutture metalliche potevano essere calcolate con una certa rapidità grazie all’uso di diagrammi e tabelle, nei limiti di calcolo spesso empirici che, per es., non tenevano conto degli effetti delle deformazioni della struttura.

I principi di Hooke, Navier e Saint-Venant e più in generale l’intero corpo della teoria matematica dell’elasticità, faticosamente messa a punto nel corso dell’Ottocento per un materiale omogeneo e isotropo a comportamento elastico lineare, come il ferro, non erano infatti immediatamente applicabili a un materiale non omogeneo, anisotropo ed elastico in modo anomalo come era il composto ferro-cemento (Iori 2001, p. 19).

Nel dicembre del 1900, su incarico del municipio di Torino, Guidi studiò il comportamento di diversi conglomerati cementizi a schiacciamento, a trazione, a flessione, nonché l’aderenza ferro-calcestruzzo, su oltre seicento saggi differenti (il risultato delle prove fu pubblicato in C. Guidi, Prove sui materiali da costruzione. Esperienze sulla elasticità e resistenza dei conglomerati di cemento semplici ed armati, 1901). Nelle conferenze che ne seguirono alla Reale Accademia delle scienze (1900, 1901), Guidi si limitò a una disamina generale delle innovazioni apportate nell’uso del calcestruzzo armato, approfondendo i diversi brevetti presenti sul mercato dell’epoca e proponendoli come un’evoluzione nelle tecniche costruttive. Considerata la rapida diffusione e il già importante impiego in Italia, l’attenzione fu posta sul sistema Hennebique e sulle caratteristiche che i materiali (ferro e calcestruzzo) dovevano possedere.

Nella stesura del testo venne dato ampio risalto alla differenza di comportamento fra il ferro e il calcestruzzo e i relativi moduli elastici, dimostrando che in un pilastro Hennebique il «ferro lavora poco» (C. Guidi, Prove sui materiali da costruzione, cit., p. 30). L’impiego del calcestruzzo armato analizzato da Guidi riguardava tutte le possibili applicazioni su larga scala, includendo le fondazioni (con platee armate e pali in béton), i ponti, i serbatoi, gli aggetti e le condutture. L’esposizione era sempre correlata a esempi, provenienti soprattutto dall’area francese, e da illustrazioni tratte dai manuali dell’epoca. Un altro tema centrale delle conferenze riguardava le sperimentazioni in corso sulla resistenza dei materiali e sulla rottura, esperienze che furono condotte grazie all’interessamento del suo allievo Giovanni A. Porcheddu, divenuto poi agente generale Hennebique per l’Italia settentrionale. Le conferenze alla Reale Accademia delle scienze confluirono stabilmente nelle lezioni di scienza delle costruzioni a partire dal 1906, come appendice.

Anche il settore militare s’interessò all’utilizzo del calcestruzzo armato, abbinandolo alle tecniche tradizionali del legno e a quelle in uso dell’acciaio e della ghisa, che venivano insegnate nei corsi tradizionali. Ciò contribuì a rafforzare il proficuo rapporto con lo studio delle discipline tecnico-ingegneristiche, culminato con l’approvazione della legge Casati nel 1859, che diede impulso e sviluppo all’insegnamento delle discipline tecniche.

All’interno dei corsi di fortificazione permanente, di costruzioni architettoniche e di architettura, offerti dalla Scuola d’applicazione delle armi di artiglieria e genio (così come definita a partire dal 1863), vennero inserite, via via, le teorie pubblicate da Guidi in precedenza. Ancora oggi, a testimoniare l’interesse per tali studi, si può trovare nella biblioteca della Scuola una considerevole presenza di testi da lui scritti.

Fra i diversi temi affrontati appositamente per gli allievi ufficiali risulta di particolare interesse il contenuto dell’appendice al trattato di architettura del tenente colonnello Emilio Marrullier (Architettura. Appendice della III parte. Guida pratica nello studio dei progetti per gli Ufficiali Allievi del 2° Corso Genio, 1908), un testo proposto nell’insegnamento di questa disciplina per la sua chiarezza e per gli esempi di calcolo riportati:

Il cemento armato si applica essenzialmente alla costruzione di solai – di fabbriche costituite da un’ossatura resistente e sottili pareti di chiusura – di platee generali e parziali di fondazione onde ripartire grandi pesi su terreni cedevoli e di palificate destinate a sorreggere gli edifici, quando per procurar loro un solido appoggio, occorre spingersi ad una notevole profondità (p. 1).

Ai giovani allievi ufficiali venivano impartite linee generali teoriche riguardanti la scienza delle costruzioni, con particolare riguardo alle leggi delle deformazioni, portandoli poi a comprendere l’importanza e le difficoltà nel dosaggio dell’impasto e l’obbligo di osservare le prime normative riguardanti i valori del carico di sicurezza. È interessante notare che già nel 1906, durante il congresso dell’Associazione italiana per gli studi sui materiali da costruzione, tenutosi a Perugia, si stabilì di trascurare la resistenza a trazione del conglomerato cementizio e si valutò il carico di sicurezza per la resistenza a compressione pari a circa 1/5 del carico di rottura (dopo 28 giorni). Nello stesso congresso si decisero altre regole pratiche relative alla sicurezza e al calcolo, come l’impiego di 600 kg/m3 di cemento per i ponti ferroviari.

Nel 1910 venne pubblicata la raccolta dei trattati di Marrullier in un unico volume (La costruzione degli edifizi (applicazioni numeriche di stabilità - 80 esempi). Appendice alla parte III dell’“Architettura Tecnica”), comprendente anche le dispense dei corsi di architettura alla Scuola di applicazione, dove confluì l’intera sezione riguardante il calcestruzzo armato (quasi cento pagine), con gli esempi e gli esercizi presenti nelle edizioni del 1908 per gli allievi ufficiali del Genio. Nel 1918 venne pubblicata un’edizione più ampia del trattato (Guida pratica per la costruzione degli edifizi con speciale riguardo al cemento armato), che ebbe un grande successo editoriale, varcando la soglia esclusiva del mondo militare. In quel contesto nacque una nuova classe di ingegneri civili dediti al calcolo delle strutture e determinati a ricercare nuove forme e nuovi linguaggi architettonici legati a modelli matematici e alle caratteristiche di resistenza del materiale.

La diffusione del calcestruzzo armato in Italia e la prima industria specializzata

Come scrive Vittorio Marchis (in Architetture in cemento armato, 2008),

il beton armé entra progressivamente nella cultura del costruire, soprattutto in ambito industriale e conserva quelle caratteristiche essenziali del sapere tacito dei carpentieri a cui è affidato il compito di modellare le casseformi e i casseri (p. 340).

La diffusione di questa tecnologia è da ricercare, quindi, in diverse motivazioni: è di facile impiego per il mondo dell’artigianato (molto diffuso in Italia), ma al contempo anche per le imprese organizzate (grandi opere pubbliche), risulta essere di semplice realizzazione, ha ottime caratteristiche di resistenza al fuoco (rispettando le sempre più complesse norme per la prevenzione degli incendi) e contribuisce al miglioramento igienico delle città.

Il ritardo nella diffusione dell’industria del cemento in Italia (attiva, peraltro, in Francia già dal 1830) fu determinato dalla disponibilità, sul territorio nazionale, di ottimi materiali da costruzione (pietre, legname e laterizio), ma il calcestruzzo risultò comunque vincente grazie alla possibilità di essere plasmato in diverse forme, contribuendo in modo determinante al processo di rinnovamento dell’architettura del 20° secolo. È l’unico materiale da costruzione che giunge all’architetto senza forma propria. Fluido come l’acqua che lo idrata, entropico come un impasto che per sprigionare la sua energia latente ha bisogno di essere plasmato (Zappa 2012, p. 53).

La sempre maggiore diffusione dei brevetti stranieri e l’affidabilità del conglomerato cementizio armato portarono alla nascita di una ricerca nazionale che sfociò in un numero elevato di brevetti. L’applicazione di queste invenzioni era prerogativa non solo di imprese di costruzione già affermate, rapidamente convertitesi alla nuova tecnica, ma anche di giovani ditte, create per lo sfruttamento commerciale di un determinato brevetto e quindi specializzate esclusivamente in costruzioni in cemento armato (Iori 2001, p. 11).

Il ritardo culturale italiano relativo alla sperimentazione del ‘cemento armato’ diede la possibilità di creare una varietà di brevetti e di piccole società che accentuavano alcune peculiarità: dalla metà del 19° sec. si avviò una produzione a Palazzolo sull’Oglio (Brescia) che sfruttò il materiale proveniente dal Lago d’Iseo, ampliando poi la produzione in Veneto, Piemonte e in altre regioni. Molti brevetti arrivarono in Italia dalla Germania (Waiss & Freytag), dall’Austria-Ungheria (Melan e Matrai) e dalla Francia (Hennebique, Monier, Cottancin), trovando diffusione sulle riviste specializzate (da ricordare «Le béton armé»), sia ingegneristiche sia militari. Non si deve sottovalutare l’aspetto economico: molti finanziatori sostennero gli imprenditori per poter sfruttare i brevetti in una fase, sino alla Prima guerra mondiale, particolarmente felice per l’edilizia.

Viste le ottime capacità idrauliche del materiale, in Italia, come in Francia, si iniziarono a progettare e a realizzare serbatoi e cisterne per l’acqua potabile. L’esempio più rilevante è offerto dal comune di Milano, dove nel 1881 e nel 1887 si bandirono due concorsi per la costruzione della nuova rete idrica municipale:

L’occasione venne data dall’opportunità di restaurare i due torrioni bugnati fatti costruire da Francesco I Sforza agli estremi del fronte del castello […] che nell’Ottocento apparivano privi della parte sommitale. Luca Beltrami dettò le linee architettoniche per la loro ricomposizione (Pertot, in Architetture in cemento armato, 2008, p. 437),

mentre la scelta del materiale da impiegare per la costruzione del serbatoio fu più articolata. Di grande interesse fu il comportamento dell’amministrazione comunale di Milano, che aveva bandito il concorso del 1887 (al quale parteciparono l’impresa Porcheddu-Hennebique, l’impresa Odorico C. e l’ingegner Carlo Castiglioni) facendo seguito a un ampio studio sul materiale attraverso le riviste d’epoca e dopo un attento esame sui risultati dei serbatoi per l’acqua costruiti in Francia, a Lille, e in Belgio, a Bruxelles e a Seraing. Vincitrice del concorso fu l’impresa dell’ingegner Porcheddu, che realizzò, nel 1904, due serbatoi cilindrici sovrapposti con capacità di oltre 2000 m3 di acqua.

Uno degli ambiti di maggiore impiego del calcestruzzo fu sicuramente quello delle città-porto, dove il problema del controllo igienico e quello della prevenzione dagli incendi ebbero un ruolo cardine, come nel caso del porto di Trieste e di quello di Genova (sebbene facenti parte di un sistema economico e culturale diverso). Al porto giuliano spetta il primato della diversificazione dell’impiego dei brevetti all’interno del cosiddetto Porto Vecchio. Tutti i grandi docks portuali presentano, ancora oggi, particolarità strutturali celate all’interno di una composizione formale di gusto neomedievale. I primi magazzini, costruiti nella parte più prossima alla città, furono realizzati con l’impiego del brevetto Monier. Alle strutture in muratura dei capannoni, costruite ancora con tecniche tradizionali, fu affiancato l’inserimento di nuovi materiali, in particolare della ghisa, del calcestruzzo e della terra di Santorino (una terra naturale di origine vulcanica che permise il confezionamento di quello che oggi si può definire un cemento idraulico, ideale per essere impiegato nelle fondazioni, soprattutto in presenza di terreni con acqua di falda; tale tecnica riscosse un notevole successo, tanto da restare in uso fino agli anni Venti del 20° sec.).

Proprio l’impiego del cemento armato permetteva di realizzare solai in grado di sopportare pesanti carichi derivanti dal deposito delle merci, nonché di coprire luci di notevole dimensione e di offrire, in caso di incendio, buone caratteristiche di resistenza al fuoco.

Il magazzino numero 4 (1908-1909) fu costruito con una tecnica mista: le strutture portanti sono in pietra, mentre quelle orizzontali utilizzano il brevetto ideato dal professor Fritz von Emperger al Politecnico di Vienna. Il sistema usato, che garantiva una portata dei solai di 1800 kg/m2, era composto da travi metalliche annegate in un getto di calcestruzzo, formando così un insieme misto, in cui i due materiali ‘lavoravano’ in modo autonomo. Per l’hangar 9 (1890) fu utilizzato invece un sistema di voltine Monier caratterizzato da travi principali a sostegno delle volte in cemento armato in cui i ferri venivano disposti come una rete, nella parte inferiore del getto. I magazzini 10 (1889-1892) e 20 (1894-97) adottarono un sistema messo a punto dal professor Joseph Melan del Politecnico di Praga, realizzato con un sistema di voltine in cemento incastrate nelle travi a I, a loro volta rivestite in cemento. L’applicazione di questo brevetto fu però caratterizzata dalle modifiche apportate dall’ingegner Eugenio Geiringer, in fase di cantiere.

L’edificio più imponente, per le sue dimensioni, fu il magazzino 26 (1897) con una superficie in pianta di quasi 9000 m2 e quattro piani fuori terra. Numerosi furono gli accorgimenti tecnici impiegati per garantirne la firmitas: per le fondazioni (1887) si impiegarono pali e fu necessario interrare un piccolo torrente presente sull’area. Fu quindi indispensabile realizzare una platea in cemento armato dello spessore di un metro, corredata da alcuni accorgimenti per evitare che l’acqua, al crescere della marea, potesse penetrare all’interno del magazzino rovinando le merci.

Risulta interessante, poi, il confronto fra i docks realizzati nel Porto Vecchio e quelli realizzati nel Porto Nuovo, nella parte Est della città, dove si fece uso di brevetti Wayss, Paul Cottancin, Hyatt (per il cemento Portland), Freytag & Meinong, Odorico & C., Hennebique.

Anche il porto di Genova sviluppò importanti infrastrutture fra la fine del 19° sec. e la metà del 20°. Rappresenta in modo significativo la storia del calcestruzzo il grande magazzino-granaio, lungo in origine 140 m e poi ampliato a quasi 250 m, posto longitudinalmente sulla Calata Limbania, iniziato nel 1899 e ultimato nel 1901 (il silos fu ampliato nel 1907 per raddoppiarne la capacità, da 23.000 t a 50.000 t).

Esternamente appare massiccio, dotato di finestrature con alcuni elementi di decoro industriale utili a celare il sistema strutturale. Dall’analisi dei disegni depositati presso l’Archivio Porcheddu, si nota che l’edificio fu dotato di un’imponente platea nervata in calcestruzzo armato e di un sistema di pilastri, travi e solai sui quali vennero innestate le celle per la conservazione del grano, che si dimostrò ottimale anche per la successiva sopraelevazione. Il silos, in origine di tre piani (con una torre), e oggi alto sei, fu impiegato per lo stoccaggio delle granaglie e venne dotato di un imponente sistema di comunicazione verticale centrale per l’elevazione e la distribuzione interna del materiale caricato mediante celle verticali. Il progetto originario dell’edificio prevedeva 340 celle da 230 t e 14 celle da 75 t con una dimensione 3×4 m di base; complessivamente potevano essere stipate 43.950 t di granaglie. La torre originale fu dotata di un camino per le macchine di sollevamento a vapore.

L’edificio venne progettato dagli ingegneri Antonio Carissimo, Giovanni Crotti e Gian Battista de Cristoforis di Milano con una pianta razionale – libera per permettere la comoda dislocazione interna dei prodotti –, fu realizzato dall’impresa Porcheddu (con la consulenza degli uffici Hennebique di Bruxelles) e rappresentò

la più complessa opera in conglomerato cemento armato costruita nel mondo sino a tale data, per l’ottima prova che dimostrò e che dimostra tuttora, che contribuì a dissolvere i dubbi che ancora esistevano sul sistema adottato (Nelva, Signorelli 1990, p. 47).

Dal punto di vista funzionale l’edificio fu suddiviso in un corpo centrale (con i locali tecnici e l’alta torre) e due ali laterali. La funzionalità delle strutture era alquanto semplice: il materiale veniva caricato dall’alto e discendeva per gravità fino a giungere nelle tramogge che permettevano di caricare le granaglie direttamente sui vagoni ferroviari.

Sempre a Genova, a partire dal 1912 (e fino al 1930 a causa di problemi bellici ed economici) si realizzò l’importante stazione marittima a servizio dei passeggeri. La struttura dell’elegante edificio storicista fu progettata dall’ingegner Ludovico Biondi e dall’impresa Società italiana Chini con l’intento di rappresentare una certa monumentalità. Fra il 1907 e il 1912 venne realizzato, su progetto dell’architetto Dario Carbone, il Palazzo della Borsa di Genova, posto al termine di un isolato d’angolo nella centrale piazza de Ferrari:

La Soc. Porcheddu fu interpellata per la realizzazione delle strutture, onde risolvere […] i problemi statici che un edificio di tale destinazione presentava. L’edificio è impostato distributivamente su un grande salone centrale di contrattazione a pianta ellittica di 32×37,5 m […]. tutta la facciata verso il cortile è sostenuta da travi poggiate su otto colonne poste nel salone centrale e corrispondenti al perimetro del cortile interno. Il solaio al piano terreno del salone è realizzato a doppia soletta, con travi incrociate (Nelva, Signorelli 1990, pp. 135-36).

In Piemonte si sviluppò una florida industria dei leganti grazie alla facilità di reperire materie prime sul territorio, in particolare nel Monferrato Casalese. A partire dalla seconda metà del 19° sec. (e fino al 1970 ca.) si ebbe una diffusione, in tutto il basso Monferrato, dell’industria cementiera, che comportò la costruzione di strutture in cui la componente ingegneristica fu di assoluta modernità (da notare il magazzino con archi parabolici a Casale), accanto a manufatti in cemento creati mediante stampi di elevato pregio artistico.

Uno degli impieghi ideali per il calcestruzzo armato si rivelò nell’esecuzione degli edifici industriali. Il territorio italiano iniziò a essere disseminato di grandi stabilimenti, fabbriche e impianti realizzati a partire dai primi anni del Novecento. La fabbrica fu caratterizzata dall’impiego del nuovo materiale lasciato faccia-a-vista, senza nasconderlo sotto gli opulenti decori liberty o eclettici, come avvenne nella fabbrica del Lingotto di Giacomo Matté-Trucco. La fabbrica divenne anche l’elemento della sperimentazione del materiale e delle sue possibilità realizzative. Anche Hennebique progettò e realizzò la sua abitazione in calcestruzzo armato per dimostrare le possibilità dell’impiego del nuovo materiale.

Per comprendere la fortuna del calcestruzzo negli edifici industriali, bisogna partire dalle ragioni economiche. Alla fine dell’Ottocento il costo della manodopera, confrontato con quello dei materiali da costruzione (in particolare quello del conglomerato cementizio armato), risulta quasi irrilevante rispetto a oggi. Ecco perché l’impiego del nuovo materiale fu limitato, per la fase iniziale (1880-1900), quasi esclusivamente agli orizzontamenti e, solo successivamente, a tutta la struttura, grazie a una serie di ribassi introdotti dalle aziende produttrici. La fortuna del materiale va collegata anche al senso di novità, alla voglia di sperimentare qualcosa di nuovo nel campo delle costruzioni, dopo quasi un secolo di impiego di strutture metalliche, senza contare la grande adattabilità che permetteva di costruire edifici complessi ed edifici ‘seriali’ che ben si adattavano alle strutture industriali.

Le tipologie costruttive erano essenzialmente due: fabbriche di tipo verticale (come, per es., quelle per la lavorazione dei filati) e fabbriche di tipo orizzontale, di epoca successiva e connotate dall’impiego nell’industria pesante (sull’argomento cfr. Marchis 1994). Queste ultime presentavano la caratteristica più innovativa: la copertura a sheds che permetteva l’ingresso della luce dall’alto.

In quegli anni aumentò la richiesta dell’industria per la realizzazione di stabilimenti produttivi monopiano, così da ridurre il costo per il trasferimento verticale delle merci. Le tipologie costruttive individuate negli edifici industriali dei primi anni del Novecento (cfr. Nelva, Signorelli 1990) sono principalmente quattro: strutture a telaio completo di solai e pilastri, capannoni per le lavorazioni pesanti, complessi basati sull’accoppiamento di maglie modulari più alte e più basse, capannoni molto estesi in orizzontale. Per favorire l’ingresso della luce naturale all’interno della costruzione si predisposero, sulla copertura, delle travi a ginocchio con falde inclinate e superfici vetrate verticali: tale tipo di copertura divenne, con il tempo, un vero simbolo dell’edificio industriale e il calcestruzzo armato si dimostrò il materiale ideale per la realizzazione.

Negli anni Venti l’impiego del calcestruzzo divenne prassi abituale nei cantieri. Grazie alla liberalizzazione dei brevetti, avvenuta parzialmente già quindici anni prima, si sviluppò un regolare utilizzo del nuovo materiale non solo per le sue caratteristiche strutturali, ma anche perché ci si convinse dei grandi benefici di resistenza in caso di incendio. Il calcestruzzo fu ritenuto un materiale con ottime caratteristiche igieniche, sottovalutando, forse, il suo potere di assorbimento, la carbonatazione, i problemi derivanti dall’impiego in aree con presenza di cloro, oltre a tutte le altre cause di degrado oggi ben note e studiate (in particolare: difetti di costruzione, mancanza della protezione, attacco chimico dell’armatura, ossidazione dei ferri di armatura, disgregazione del cemento, espulsione di parti del copriferro, oltre che, ovviamente, la sua errata fabbricazione, causata da errori di miscela, o errori di progetto). Il suo impiego fu raccomandato nelle strutture pubbliche, ma anche per le case da riservare ai ceti meno elevati della popolazione.

Il calcestruzzo divenne un materiale ideale per il Movimento igienista italiano. Alcuni igienisti, fra cui l’ingegner Riccardo Bianchini, più volte elogiarono l’uso di solai realizzati con piccoli volti ribassati in mattoni ricoperti con calcestruzzo o di solai realizzati con solette in calcestruzzo, la cui descrizione era già apparsa alcuni anni prima sui manuali, tra i più noti dei quali va ricordato quello di Giuseppe Vacchelli, Le costruzioni in calcestruzzo ed in cemento armato (1899).

La possibilità di ottenere pavimenti e soffitti lisci, facili da pulire e in grado di evitare possibili «masse d’aria stagnanti» (R. Bianchini, Ingegneria sanitaria, 1927, p. 141) fu accolta favorevolmente dal Movimento igienista, all’interno del dibattito sull’impiego del calcestruzzo sintetizzato in un saggio del 1906:

tramezzi e muri in cemento armato sono igienici inquantoché non danno ricettacolo di insetti, e possono, meglio che se fossero di qualunque altro materiale, venire lavati, e disinfettati: non si hanno però ancora dati sperimentali riguardo alla loro permeabilità all’aria, la quale certamente non può essere elevata. [...] Infine il cemento armato resiste alle intemperie, agli agenti atmosferici e all’acqua, meglio di altri materiali che sostituisce in altre strutture, quali il ferro che si ossida, ed il legno che è combustibile, si infracidisce ed è attaccato dagli animali roditori e dagli insetti (G. Vacchelli, Le costruzioni in calcestruzzo ed in cemento armato, 19063, pp. 244-45).

Giovanni Antonio Porcheddu e i successivi sviluppi

Tra il 19° e il 20° sec. nacquero e si svilupparono diverse imprese edili, tra le quali le milanesi Augusto Maciachini e Odorico & C., la romana Carlo Gabellini e molte altre, ma su tutte emerse l’impresa Società G.A. Porcheddu di Torino. A partire dal 1894 operò a Torino la rappresentanza Hennebique dello Studio tecnico ingegneri Ferrero e Porcheddu, poi Società G.A. Porcheddu, che in breve tempo conquistò il panorama nazionale grazie alla partecipazione a numerosi concorsi di progettazione/realizzazione e alla loro abilità imprenditoriale.

Giovanni Antonio Porcheddu (1860-1937) fu un mirabile ingegnere e un abile impresario che seppe impiegare, ma anche sviluppare, il brevetto francese per la costruzione di manufatti in calcestruzzo armato operando in Piemonte (dove furono realizzate 1235 progettazioni, tra cui lo stabilimento Ansaldi, gli edifici per la Società italiana per il gas, per la Società anonima elettricità Alta Italia, per la Fiat, numerosi palazzi in centro a Torino e stabilimenti per l’industria tessile, la fabbrica Olivetti, diversi ponti e viadotti, ospedali e molti altri stabilimenti industriali), Lombardia (ove furono realizzate 251 commissioni, fra cui il palazzo delle Assicurazioni Generali a Milano, della Banca commerciale italiana, l’ospedale di Legnano, diversi teatri, fra i quali il Manzoni di Milano, nonché ponti, stabilimenti industriali e infrastrutture viarie), Veneto (128 i lavori realizzati), Liguria (che rappresentò la seconda regione per quantità di interventi, 676; in particolare, a Genova furono realizzati interventi per il porto e per la zona di via XX Settembre, nonché per la sistemazione di piazza De Ferrari, per alberghi, ospedali, edifici universitari, edifici industriali, edifici militari e magazzini per il porto di Imperia), fino al Lazio e alla Sicilia. In particolare, a lui si devono la realizzazione e la progettazione del silos nel porto di Genova, lo stabilimento Fiat Lingotto, il ponte Risorgimento a Roma, la ricostruzione di Messina (dopo il terremoto del 1908) e alcuni lavori all’estero.

L’intervento dello stabilimento Fiat Lingotto fu realizzato fra il 1916 e il 1926 dalla Società G.A. Porcheddu (a eccezione della pista sulla copertura e delle rampe elicoidali, realizzate dalla Società Fiat), per complessivi 75.000 m3 di calcestruzzo. Il Lingotto è considerato il più interessante esempio italiano di edificio industriale, all’interno del quale si svolgeva l’intero ciclo produttivo, fino al collaudo, degli autoveicoli. Strutturalmente è stato pensato con moduli tridimensionali pluripiano (formati da quattro pilastri, due travi principali, due secondarie e una soletta), su una maglia di base 6×6 m2; soltanto all’ultimo piano il modulo diventa 6×12 m2 per ragioni legate alla catena di montaggio. La struttura aziendale, di grande modernità per l’epoca, comprendeva anche un piccolo laboratorio per le prove sui materiali.

Uno dei primi progetti portati a termine dalla società fu appunto quello dei solai per il Palazzo delle Assicurazioni Generali in piazza Cordusio a Milano (1898), progettato dall’architetto Luca Beltrami. I solai, la cui struttura è celata dai decori interni, sono di tre tipi: a soletta, per gli interventi di minore luce; con travi principali, travetti secondari e una soletta di copertura, nei locali di grande luce, ma non destinati alla rappresentanza; a doppia soletta e camera d’aria definiti ‘a travi nascoste’, nelle sale di rappresentanza. Quest’ultimo è un sistema molto interessante in cui l’interstizio interno al solaio (il cui spessore era dell’ordine di 40 cm) consente l’isolamento termico e acustico, grazie alla prefabbricazione di elementi di trave che diventano il cassero a perdere.

Alla società Porcheddu si deve la progettazione di diversi ponti (da notare quelli ad arco fortemente ribassato) e viadotti sia stradali sia ferroviari; l’esempio più celebre è il ponte Risorgimento a Roma, costruito nel 1911 con la collaborazione dello stesso Hennebique. Si tratta di una struttura con un

arco ribassato di 100 metri di luce e freccia 10 metri: […] è una struttura cellulare, con nervature longitudinali e trasversali, con ampi vuoti di alleggerimento e robuste spalle, particolarmente complessa dal punto di vista statico. […] La giustificazione con calcoli rigorosi dell’effettiva stabilità del ponte la si può ottenere solo chiamando in causa i fenomeni della “plasticità” del conglomerato, uscendo dal campo elastico, fenomeni che nel 1910 si ritiene fossero sconosciuti, ma dei quali probabilmente Hennebique intuiva l’esistenza, poiché fece, tra l’altro, disarmare la struttura prima dei termini fissati (Nelva, Signorelli 1990, p. 75).

Fra il 1910 e il 1916 l’impresa fu coinvolta anche nella ricostruzione del campanile di S. Marco a Venezia, dopo il tragico crollo del 1902, e nella ricostruzione di Messina. L’intervento veneziano segna anche la storia del restauro: in calcestruzzo armato furono realizzate la platea di fondazione su pali per il campanile, le scale interne, la cella campanaria (la zona strutturalmente più impegnativa) e la parte terminale, mentre la muratura perimetrale fu riproposta in mattoni ad alta resistenza. L’intervento comportò l’alleggerimento dell’imponente struttura e l’abbassamento del centro di gravità per migliorarne la statica globale.

A Messina Porcheddu ricostruì, in seguito al concorso bandito nel 1909, il quartiere Lombardo (con tre diverse tipologie di abitazioni), il quartiere Orto Botanico, le case per gli impiegati dello Stato e diversi edifici di servizio. La struttura delle abitazioni venne basata su una platea nervata di fondazione e su un telaio tridimensionale in acciaio. Si tratta di un intervento ardito e originale destinato a rivoluzionare il concetto strutturale degli edifici antisismici il cui merito si deve all’ingegner Arturo Danusso (1880-1968).

«Non solo il dibattito teorico ma la pratica per la ricostruzione [rappresentò] un’occasione di sviluppo e di sperimentazione per le ditte specializzate» (Iori 2001, p. 88): diversi altri progetti presentati al concorso furono caratterizzati da una struttura intelaiata in calcestruzzo armato, e risultarono privi di aggetti e di forma geometricamente semplice. Le strutture orizzontali, per lo più solai in calcestruzzo armato a doppia orditura (per meglio riprendere le azioni orizzontali sismiche), si innestavano su una struttura metallica verticale a traliccio autoportante, annegato poi nel getto.

Dalla prima metà del 20° sec. molte furono le imprese italiane che operarono nei Paesi dell’Africa settentrionale (Egitto e Tunisia in testa) e nel Medio Oriente, spinte dalla successiva espansione coloniale, in particolare francese, e dall’esistenza di una rete commerciale già insediata, all’interno della quale un ruolo decisamente importante era rappresentato dagli agenti Hennebique.

L’intreccio fra imprenditori, committenti e progettisti, che dall’Italia si mossero per conquistare nuove fette di mercato, ebbe numeri significativi. I progettisti italiani furono chiamati per l’elevato valore della manodopera, le ottime capacità realizzative e le notevoli abilità nell’uso dei magisteri tradizionali, frutto di secoli di esperienza artigianale nel settore delle costruzioni. Sul mercato estero si affermarono anche le società più innovative che sperimentarono propri brevetti per il calcolo del calcestruzzo armato e altre che impiegavano le licenze di società per lo più europee. Meritano essere ricordate (per citare le più conosciute) l’impresa degli ingegneri Garozzo & Zaffrani che, fra il 1897 e il 1902, realizzò il Nuovo Museo di antichità egizie a Il Cairo (progetto di Marcel Dourgnon); l’impresa Dentamaro & Cartareggia, che ad Alessandria realizzò la Promenade du Mex; l’impresa G. Garozzo & figli, che costruì sia l’ospedale Umberto I sia la sede delle Assicurazioni Generali a Il Cairo.

La società G.A. Porcheddu partecipò con cinque progetti (contro i 2600 sul territorio nazionale) per le città di Tripoli (Libia), Tangeri (Marocco), Rodi (Grecia) e Adalia (Turchia). Tra questi risulta particolarmente interessante quello per la costruzione a Tripoli di un serbatoio per l’acqua di 2000 m3 (1912), perché evidenzia una fitta rete di scambio di conoscenze tecnico-idrauliche sulla base di modelli cilindrici già realizzati, come quello di Saint-Marcel. Il manufatto, costruito interamente in calcestruzzo armato, è rialzato su pilastri. La forma semplice, diversa rispetto a quella del primo progetto, presenta un solo aggetto laterale rappresentato dalla scala di servizio. Anche in questo caso Porcheddu impiegò solai a camera vuota e una fondazione a platea per la ripartizione dei carichi. La costruzione non fu un successo e numerosi furono sia i problemi di cantiere sia quelli di esercizio (Fasoli, in Construire au-delà de la Méditerranée, 2012, p. 78). Più valido risultò il progetto del 1932 per la realizzazione di un serbatoio d’acqua di forma semicilindirica ottenuta mediante il posizionamento di due corone circolari di sedici e otto pilastri, con un camino centrale.

Sul territorio italiano sono rintracciabili notevoli esempi di architetture e opere di ingegneria civile realizzati in calcestruzzo armato che riscossero interesse al di fuori dei confini nazionali: un esempio fu la Sinagoga di Trieste (1912).

La straordinaria complessità del cantiere e le innovazioni tecniche introdotte, predisposte dall’impresa Serravalle & Pontello, sono frutto di un metodo di calcolo di tipo misto (con brevetti di area tedesca e francese). L’imponenza delle strutture di copertura è evidente soprattutto nella cupola principale: si tratta, infatti, di uno dei primi esempi in Europa di cupole a doppio guscio sottile in calcestruzzo armato. Essa è composta da due cupole paraboliche concentriche, una di intradosso e una di estradosso; la cupola interna ha un raggio di 7 m, quella esterna di 8 m. Costruite in calcestruzzo armato, differiscono dal progetto originario per l’introduzione di un oculo che consente il passaggio della luce naturale. Per collegare le due calotte vennero realizzate nervature distanti, alla base, circa 2 m, per complessive 24 travi curve dello spessore di soli 6 cm. Si tratta quindi di una cupola leggera, resistente, dello spessore di 12 cm (nella parte interna) e di 15 cm (in quella esterna), armata con rete di ferro. La soluzione dei progettisti portò alla realizzazione di una cupola che non inducesse sforzi di flessione. In corrispondenza della chiave, probabilmente in corso d’opera, si provvide a inserire un’apertura circolare vetrata al fine di permettere il passaggio della luce. Purtroppo non esistono descrizioni precise o fotografie dei particolari di realizzazione della cupola principale. Con ogni probabilità venne creata una centina interna che poggiava direttamente sul pavimento sottostante; su di essa, dopo un primo getto della cupola di intradosso, furono predisposti i casseri per le nervature, e infine si arma la seconda cupola, con una centina presumibilmente a perdere.

Il cantiere della Sinagoga di Trieste può essere definito un cantiere modello per il primo Novecento, che merita di entrare nella storia delle costruzioni, per l’originalità e la validità delle proposte architettoniche, delle scelte tecnico-ingegneristiche e per il coraggioso approccio al cemento armato.

In seguito all’invasione italiana dell’Etiopia (1935) la comunità internazionale impose il blocco delle esportazioni e delle importazioni. Vennero così a mancare materie prime e si dovette organizzare un regime autarchico, con evidenti ripercussioni negative sul mondo delle costruzioni, in particolare per l’impiego del calcestruzzo armato, data la necessità di ferro e acciaio per le armature. Considerato che l’Italia non disponeva di risorse proprie, si dovette sostituire il materiale che garantiva la resistenza a trazione. Con una circolare del ministero dei Lavori pubblici del febbraio 1938 si bandì l’impiego del calcestruzzo armato per le abitazioni civili, consentendo di utilizzare solai in laterocemento di notevole spessore, in modo da beneficiare della resistenza del laterizio. Emersero, così, nuovi e interessanti brevetti che sfruttavano la resistenza a trazione sia del calcestruzzo sia del laterizio (nel caso dei solai). A causa della crisi e della conseguente difficoltà a reperire un degno sostituto dell’acciaio (che potesse garantire tutti gli aspetti di adesione, resistenza, plasticità e così via), si cercarono nuove soluzioni autarchiche e si brevettarono diversi sistemi in cui il legno, la canna di bambù e altri materiali simili fungevano da armatura all’interno delle travi (è di questo periodo la grande sperimentazione italiana del ‘cemento-amianto’, ideale per le tubazioni e le condotte). L’altro punto di forza fu l’attento controllo dei pesi dei materiali impiegati per poter fabbricare solai sempre più performanti. Alcuni brevetti introdussero materiali leggeri al fine di diminuire la necessità di ferro nelle armature e, in altri casi, si riuscì a eliminare completamente la presenza di armatura (solaio Lares, 1939). Sempre nel 1939 in Italia si iniziò a discutere del cemento armato precompresso grazie alla pubblicazione di importanti studi francesi e tedeschi.

Pier Luigi Nervi ingegnere e impresario

Fu in un clima di grande fermento scientifico e imprenditoriale che emerse la figura di Pier Luigi Nervi (1891-1979), in un periodo in cui il cemento si affermò come

uno dei simboli più eloquenti della modernità. Nel bene e nel male. [...] Eppure, quando si vuole richiamare la dimensione umanistica e artistica conservata nel progresso tecnologico, quale immagine è più espressiva di una bella forma plastica in cemento? […] Ancor più spiccatamente, è made in Italy l’opera dell’ingegnere. Negli anni del miracolo economico la penisola è animata da una miriade di piccoli cantieri infrastrutturali: la sequenza dei ponti e viadotti dell’Autostrada del Sole; i palasport e gli stadi per le

olimpiadi romane; le strutture espositive di Italia ’61; le stazioni e gli hangar per gli aeroporti intercontinentali (Poretti, in T. Iori, A. Marzo Magno, 150 anni di storia del cemento in Italia, 2011, pp. 15-16).

Sondriese di nascita, Nervi frequentò la Scuola di applicazione a Bologna, dove conobbe Attilio Muggia (1861-1936), prima come docente e poi come professionista e concessionario Hennebique. Venne assunto alla Società anonima per costruzioni cementizie e fu incaricato dell’ufficio di Firenze. Successivamente si trasferì a Roma, dove fondò la società Ing. Nervi & Nebbiosi. Il suo primo capolavoro fu lo stadio comunale di Firenze (1930), in cui emerge il concetto, più volte ripreso, della verità strutturale. Le straordinarie rampe elicoidali di collegamento alle tribune, poste all’estremità del rettifilo delle gradinate scoperte, assieme alla torre del Maratoneta e alla pensilina segnarono una svolta che lo introdusse, come protagonista, nel dibattito sull’architettura moderna italiana. Come sottolinea Cyrille Simonnet (2005):

Tradizione costruttiva e tradizione scientifica hanno favorito soluzioni adattabili a tipologie strutturali ben identificabili. Ciò spiega l’interesse di Nervi nella scelta di nervature derivanti dalla cultura italiana, in cui si riscontrano cupole nervate dal Pantheon romano fino alle cupole barocche di Guarini, passando per le costolature di S. Maria del Fiore (p. 139).

La prima sperimentazione di grandi volte di copertura in calcestruzzo fu realizzata nel 1935-38 e nel 1939-42 a Orvieto per la costruzione di due hangar per l’aeronautica militare. La struttura reticolare ‘leggera’ rappresentò la prima sperimentazione del sistema di prefabbricazione in cui elementi preparati al di fuori del cantiere costituivano contemporaneamente elementi strutturali e casseri per il getto. Fra il 1943 e il 1944 Nervi depositò due brevetti per il ferrocemento che gli permisero di realizzare solette molto sottili e resistenti. Questo sistema sarà alla base di due grandi opere: il Salone B di Torino Esposizioni (1947) e l’Aula Paolo VI (1967).

Grazie a Nervi, l’arido linguaggio matematico divenne poesia di forma e proporzione. A Milano, assieme a Giò Ponti e ad Arturo Danusso realizzò il grattacielo Pirelli (1956-61), in cui la forma dei pilastri interni, perfettamente integrata nel design dell’edificio, è frutto dello studio dell’azione orizzontale del vento e dell’attenta valutazione del peso della struttura, alta 130 m. A Roma, in occasione delle Olimpiadi del 1960, ebbe modo di progettare sia il Palazzetto dello sport (1956), con una copertura di 60 m di diametro, posante su 36 cavalletti laterali, sia il Palazzo dello sport (nello stesso anno, con Marcello Piacentini):

La minuta tessitura di nervature che si percepiscono all’interno, in quanto evidenzia il flusso delle tensioni, gradualmente convogliate attraverso i ventagli di bordo ai cavalletti radiali e all’anello di fondazione, è un caso esemplare di sincerità strutturale, che costituisce la cifra inconfondibile dell’architettura di Nervi (Iori, Marzo Magno 2011).

In occasione del centenario dell’Unità d’Italia, Nervi progettò a Torino il Palazzo del lavoro (con Giò Ponti): un ampio padiglione modulare quadrangolare di 156 m per lato, costituito da 16 elementi quadrati di 40 m. Il pilastro centrale (di 25 m) rastremato sorregge l’‘ombrello’ strutturale realizzato con travi metalliche.

La fama di Nervi varcò i confini nazionali: fu così chiamato a Montreal per la costruzione della Stock Exchange Tower (con Luigi Moretti) e operò in Brasile per il progetto dell’ambasciata italiana a Brasilia (1969, su incarico del ministero degli Esteri), in cui sono degne di nota le innovative strutture spaziali in calcestruzzo armato che permisero la sopraelevazione dell’edificio sulle rive del lago Paranoá.

La straordinaria ricerca tecnica e strutturale condotta da Nervi ha permesso di coniugare bellezza e verità rivoluzionando il concetto di progetto architettonico: il calcestruzzo non è più un limite fisico, ma una parte fondamentale per la composizione. Le regole imposte dalla scienza delle costruzioni divennero il pretesto per creare forme, spesso basate su fini equilibri strutturali, che ancora oggi stupiscono per la loro arditezza e la loro eleganza grazie alle tensioni e alle forze in gioco. La progettualità di Nervi è stata arricchita dall’esperienza pratica maturata nella sua impresa di costruzioni e dalla straordinaria possibilità di vivere in un periodo particolarmente felice per l’architettura italiana.

Opere

C. Guidi, Lezioni di scienza delle costruzioni date dall’ing. prof. Camillo Guidi nella R. Scuola d’Applicazione per gl’ingegneri in Torino, Torino 1896.

G. Vacchelli, Le costruzioni in calcestruzzo ed in cemento armato, Milano 1899.

C. Guidi, Le costruzioni in “beton” armato. Conferenze tenute nel maggio 1900 dall’ingegnere Camillo Guidi nella R. Scuola d’Applicazione per gl’Ingegneri in Torino, Torino 1901.

C. Guidi, Prove sui materiali da costruzione. Esperienze sulla elasticità e resistenza dei conglomerati di cemento semplici ed armati, Torino 1901.

C. Guidi, Lezioni sulla scienza delle costruzioni date dall’ing. Camillo Guidi nella R. Scuola d’Applicazione per gl’Ingegneri in Torino – Appendice – Le costruzioni in beton armato, Torino 1906.

E. Marrullier, Architettura. Appendice della III parte (Guida pratica nello studio dei progetti per gli Ufficiali Allievi del 2° Corso Genio), Torino 1908.

E. Marrullier, La costruzione degli edifizi (applicazioni numeriche di stabilità – 80 esempi). Appendice alla parte III dell’“Architettura Tecnica”, Torino 1910.

E. Marrullier, Guida pratica per la costruzione degli edifizi con speciale riguardo al cemento armato, Torino 1918.

R. Bianchini, Ingegneria sanitaria. Appunti delle lezioni, Torino 1927.

Bibliografia

R. Nelva, B. Signorelli, Avvento ed evoluzione del calcestruzzo armato in italia: il sistema Hennebique, Milano 1990.

V. Marchis, Storia delle macchine. Tre millenni di cultura tecnologica, Roma-Bari 1994, nuova ed. riv. e accresciuta 2005.

J.-L. Bosc, J.-M. Chauveau, J. Clément et al., Joseph Monier et la naissance du ciment armé, Parigi 2001.

T. Iori, Il cemento armato in Italia. Dalle origini alla Seconda guerra mondiale, Roma 2001.

C. Simonnet, Le béton: histoire d’un matériaux, Marseille 2005.

Architetture in cemento armato. Orientamenti per la conservazione, a cura di R. Ientile, Milano 2008 (in partic. V. Marchis, Memorie di cemento industriale, pp. 339-45; G. Pertot, Un “castello d’acqua” nel castello di Luca Beltrami: i due serbatoi in cemento armato per l’acqua potabile nel torrione medioevale del castello di Milano (1904). Vicende costruttive e prospettive per la conservazione, pp. 437-43).

T. Iori, A. Marzo Magno, 150 anni di storia del cemento in Italia, 1861-2011. Le opere, gli uomini, le imprese, Roma 2011 (in partic. S. Poretti, Il cemento Made in Italy, pp. 14-17).

A. Zappa, Cemento, storia, metamorfosi recenti, «Casabella», 2012, 818, pp. 52-54.

Construire au-delà de la Méditerranée. L’apport des archives d’entreprises européennes (1860-1970), sous la direction de C. Piaton, E. Godoli, D. Peyceré, Arles 2012 (in partic. V. Fasoli, L’entreprise Porcheddu et les projets de réservoirs d’eau en béton armé: modèles constructifs et expériences de chantier (1912-1933), pp. 74-81).