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Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Universita

RRoberto Moscati

di Roberto Moscati

Università

sommario: 1. Università e società. 2. Prevalenza crescente del modello anglosassone. 3. Rapporti tra Stato e istruzione superiore. 4. Il nuovo ruolo dello Stato. 5. I numerosi significati dell'autonomia universitaria. 6. Ristrutturazione dei poteri interni ed esterni: il 'triangolo di coordinamento dell'autorità'. 7. Internazionalizzazione dell'istruzione superiore. 8. Mondo accademico e cambiamento. 9. Ridefinizione delle finalità dell'istruzione superiore. 10. Principali caratteristiche di alcuni sistemi di istruzione superiore. a) Germania. b) Gran Bretagna. c) Francia. d) Spagna. □ Bibliografia.

1. Università e società

Da qualche tempo, i sistemi di istruzione superiore di molti paesi (non solo occidentali) sono interessati da un'effervescenza e da una dinamicità inconsuete, che contrastano con l'immagine di regolata sistematicità nella riproduzione dei meccanismi e nei processi di accumulazione e diffusione del sapere tipici delle istituzioni formative, massimamente delle università.

Questa improvvisa vivacità, indice di processi di mutamento, si manifesta nei paesi maggiormente sviluppati negli anni sessanta del Novecento - in conseguenza della repentina crescita della domanda di istruzione superiore - e ben presto si diffonde pressoché ovunque. Sulle ragioni di tale crescita della domanda molto è stato scritto da sostenitori della coerenza logica del processo e da critici che vi scorgevano ragioni strumentali per fini impropri di diversa natura (per una sintesi del dibattito, v. Trow, 1973; v. Barbagli, 1978; v. Moscati, 1986). Quello che tuttavia appare meritevole di riflessione - perché non sufficientemente esplorato e perché riferito a un processo tuttora in atto - riguarda il tipo di risposta che questa crescente domanda ha ottenuto in termini di offerta di formazione dai sistemi di istruzione superiore.

L'aumento esponenziale della domanda sociale di istruzione superiore si è tradotta in una diversificazione delle richieste nei confronti delle istituzioni fornitrici di conoscenze. Il punto di rottura con il passato è probabilmente segnato dalle modifiche delle funzioni dell'università, per le nuove responsabilità che la società le ha attribuito in ragione dei legami sempre più stretti tra sviluppo economico-sociale e conoscenza.

Il fenomeno, da molti percepito esclusivamente come quantitativo, ha in sé sostanziali elementi qualitativi. Alle tradizionali funzioni di formazione delle élites si sono aggiunti compiti di applicazione delle conoscenze (ricerca applicata, ricerca e sviluppo) e di diffusione delle conoscenze a strati sociali intermedi sempre più ampi (formazione di livello diverso, sempre più legata a ruoli operativi e a figure professionali nuove o in trasformazione).

Un modo per osservare le differenti risposte che l'università ha fornito è quello di muovere dalla riflessione sulle relazioni che si sono storicamente configurate tra università e partners esterni. Al riguardo si può distinguere un modello europeo (dell'Europa continentale) - che ha visto lo Stato nazionale divenire il partner centrale per l'università moderna in virtù delle riforme introdotte dal sistema napoleonico e dal modello tedesco proposto da Wilhelm von Humboldt - e un modello angloamericano, nel quale il ruolo dello Stato è sempre risultato molto più marginale, se non assente. In particolare, il modello europeo ha comportato il trasferimento dell'università nella proprietà legale dello Stato, al fine di assicurare la priorità degli interessi nazionali e costituire attorno all'università un'area regolata, definita e protetta dalla legge. Questa 'area regolata legalmente' è stata collegata al mondo esterno attraverso la mediazione del potere politico centrale (ossia del ministero preposto).

Va al riguardo ricordato come lo Stato abbia utilizzato il sistema formativo sia come elemento di controllo sociale, sia come strumento di legittimazione del proprio ruolo (della classe dirigente che lo incarnava). Nell'Europa continentale il sistema formativo è servito alla diffusione di una cultura comune - molto spesso attraverso elementi universalistici di modernizzazione nei confronti di modelli culturali localistici e arretrati - e alla riaffermazione del valore dell'uguaglianza tra i cittadini (ai livelli formativi primari e secondari) attraverso normative ispirate al principio delle pari opportunità. Ha riaffermato altresì il valore dell'indipendenza dell'insegnamento da ogni pressione ideologica come elemento dell'autonomia del pensiero e della conoscenza, massimamente espresse a livello universitario.

Il modello di controllo statale che si è imposto nell'Europa continentale con tali caratteristiche si è fondato dunque sul principio della 'omogeneità legale', secondo una logica centralistica propria dello Stato-nazione, sviluppatasi con la Rivoluzione francese del 1789. È noto, in particolare, come l'istruzione secondaria superiore e quella universitaria avessero come compito fondamentale quello di formare, spesso ex novo, i quadri dell'amministrazione pubblica.

In questo contesto, il rapporto fra Stato e autonomia accademica ha assunto differenti aspetti, dovendo rispondere a diverse finalità. Con l'autonomia ci si proponeva di proteggere il mondo della formazione dalle pressioni degli interessi costituiti e dei privilegi ereditari, in nome della universalità della scienza e del valore della competenza: era questo il senso che le attribuiva von Humboldt. Ma lo Stato centralistico non voleva neppure rinunciare a una qualche forma di controllo sull'omogeneità (quando non sulle caratteristiche) del funzionamento del sistema formativo e traduceva questo desiderio di controllo nella strutturazione omogenea dei programmi e nella garanzia di protezione attribuita agli insegnanti resi dipendenti pubblici o 'pubblici ufficiali' (modello napoleonico).

Per contro, nei paesi anglosassoni l'interesse della collettività non si è originariamente identificato con il concetto di Stato-nazione, bensì con quello dell"individualismo proprietario'. Secondo tale impostazione, che viene fatta risalire a John Locke, l'acquisizione e accumulazione di beni e ricchezze attribuisce all'individuo la responsabilità di possedere una parte del bene collettivo e, in conseguenza, lo rende responsabile dell'interesse comune e dell'ordine sociale esistente (che gli ha consentito l'acquisizione dei beni e della ricchezza). Da qui una diversa definizione di comunità, concepita in termini economici e collegata alla proprietà: dunque comunità come bene comune (letteralmente common wealth).

Le differenze tra la teoria dell"omogeneità legale' e quella dell"individualismo proprietario' si riflettono sui rapporti tra università e società. Mentre nell'Europa continentale si viene creando un'area regolamentata per legge attorno all'università, intesa come istituzione al servizio dello Stato, nei paesi anglosassoni l'istituzione universitaria si pone in rapporto diretto con i cittadini, considerati come portatori di diritti e interessi individuali (o anche collettivi, se aggregati per qualunque affinità) e come tali non solo utilizzatori, fruitori o clienti ma, appunto, come veri e propri stakeholders, vale a dire come possessori di diritti azionari (v. Rispoli, 1999; v. Compagno, 2001; v. i contributi di Neave, 2002).

Questa relazione diretta (e non mediata dall'autorità statuale, come nell'Europa continentale) tra singola istituzione e portatori di interessi nei suoi confronti ha condotto a diversi modi di concepire e realizzare l'autorità accademica. Nel caso inglese, l'autorità era inizialmente attribuita agli stakeholders interni, appartenenti all'accademia (i fellows o i dons), direttamente discendenti dalle gilde accademiche medievali e da sempre amministratori delle istituzioni. Nel caso statunitense, lo status di stakeholders è stato invece attribuito alle comunità locali rappresentate dalle figure dei regents o dei trustees, quindi a un potere esterno che tuttavia ha costantemente delegato l'esercizio dell'autorità a figure accademiche come il presidente dell'università, il quale a sua volta lo delega ai presidi (deans).

2. Prevalenza crescente del modello anglosassone

Le differenze tra il modello europeo e quello anglosassone sono evidenti. Per comprendere l'attuale situazione dell'istruzione superiore occorre domandarsi, prima di tutto, come mai negli ultimi anni il modello anglosassone che attribuisce diretta rilevanza agli stakeholders, soprattutto esterni, abbia assunto così rapidamente un ruolo centrale anche nei paesi dell'Europa continentale.

Innanzitutto, va segnalata la crisi del modello di controllo dello Stato sul sistema formativo basato sul principio dell'omogeneità legale. Le ragioni sono molteplici. Da un lato, si è ridotta l'importanza di un fine fondamentale come quello della formazione degli amministratori della cosa pubblica (e per conseguenza è declinata la rilevanza del valore legale dei titoli di studio); più in generale, l'istruzione superiore non appare più né lo strumento per la costruzione dello Stato, né la garanzia dell'ordine sociale. La stessa concezione dell'istruzione come soluzione dei principali problemi dello sviluppo, a partire da quelli dell'occupazione, non appare più accettabile in termini acritici. D'altro canto, la crisi dei sistemi di spesa pubblica ha costretto gli Stati ad accrescere la pressione fiscale e a ridurre le dispersioni di denaro negli enti e nelle istituzioni dipendenti dal sostegno centrale. E questa tendenza si è sviluppata sovente in parallelo con la richiesta di maggiori autonomie locali e settoriali.

Lo Stato centralistico ha progressivamente perso parte della sua legittimità. Tra le ragioni di questa tendenza si possono aggiungere sia l'effetto indiretto del modello americano - nel quale si opera per ridurre al minimo il peso dello Stato sui cittadini -, sia la crisi finanziaria e qualitativa dei servizi pubblici (o del modello del Welfare State), sia, infine, la perdita di consapevolezza, nell'opinione pubblica, della funzione dello Stato come garante delle libertà individuali. Lo Stato, infatti, viene sempre più percepito negativamente, come un peso per il cittadino: peso burocratico, finanziario, limitatore di libertà individuali e creatore di ingiustizie e disparità a favore dei suoi dipendenti, ritenuti ingiustamente privilegiati (si pensi all'immagine stereotipata degli insegnanti e dei dipendenti degli uffici pubblici, considerati assai spesso lavoratori scarsamente dediti ai propri doveri e/o ingiustamente favoriti sotto vari profili).

Tutti questi fattori hanno contribuito a rendere obsoleto il modello dello Stato centralistico, operante nei confronti del sistema formativo secondo il principio della 'omogeneità legale'. Ciò ha richiesto (e richiede) una trasformazione di tale modello, soprattutto nei paesi europei che lo hanno maggiormente sviluppato. Per converso hanno acquistato rilievo i modelli diffusisi in altri paesi, principalmente quelli anglosassoni, dove è prevalsa l'autonomia delle istituzioni collegate con l'interesse collettivo.

Una simile evoluzione è stata sostenuta da tutta una serie di trasformazioni sociali che hanno operato pressoché contemporaneamente a diversi livelli. A livello economico, le richieste di competenze si sono moltiplicate e diversificate. Da un lato, si è ritenuto che la stragrande maggioranza dei ruoli occupazionali dovesse comportare un alto livello di conoscenze specifiche. Inoltre, molte figure professionali si sono modificate e nuove ne sono sorte in relazione ai processi di trasformazione dei sistemi produttivi e dei settori economici in genere. Dall'altro lato, la rapidità delle trasformazioni nei settori economici ha sempre maggiormente diffuso il bisogno di aggiornamenti dei bagagli professionali attraverso il massiccio ricorso alla formazione permanente (long life learning). A livello sociale, il diffondersi delle forme di democrazia partecipata ha fornito un quadro di riferimento favorevole alle richieste di partecipazione diretta alle decisioni da parte degli studenti, visti sempre meno come apprendisti e sempre più come rappresentanti delle categorie di appartenenza (classi sociali, generi, etnie) e come esempi del grado di efficienza istituzionale (sotto forma di percentuali di laureati, di laureati in ritardo o di abbandoni). L'esempio degli studenti intesi come utilizzatori-consumatori dei servizi offerti dalle istituzioni formative (customers dei quali misurare il grado di soddisfazione) rivela come ormai la società si senta legittimata a esercitare una pressione sull'università (anche dall'interno) per una maggior corrispondenza tra domande (sociali) e risposte (formative).

L'effetto di questo mutamento delle domande esterne nei confronti dei sistemi di istruzione superiore si riverbera all'interno del mondo accademico, sia per quanto riguarda le forme di governo, sia per quanto riguarda l'equilibrio tra i poteri interni.

3. Rapporti tra Stato e istruzione superiore

Per comprendere la portata del processo di trasformazione è necessario esaminare il rapporto tra Stato e sistema d'istruzione superiore (così come tra Stato e singola istituzione universitaria). Inizialmente, sono stati applicati ai sistemi di istruzione superiore due modelli di organizzazione statuale: il 'modello del controllo', che si caratterizza per la standardizzazione dei titoli rilasciati e per un forte esercizio dell'autorità da parte del ceto accademico; e il 'modello della supervisione', nel quale prevalgono il monitoraggio e la verifica dei risultati da parte del governo, che in questo caso si limita a controllare che vengano rispettate le regole del gioco da parte di attori autonomi e a cambiare tali regole quando non sono più in grado di consentire il raggiungimento di risultati positivi (v. Neave e van Vught, 1991). Altri studiosi hanno ritenuto che fosse possibile applicare agli Stati europei una tipologia di organizzazione statuale comprendente quattro idealtipi - che verranno brevemente delineati - soggetti a modificazioni nel tempo e variamente intrecciabili (v. Olsen, 1988), i quali prevedono tutti e quattro l'autonomia delle singole istituzioni, ma si differenziano per le ragioni che la giustificano.

1) Il 'modello dello Stato sovrano', basato sulla razionalità, nel quale l'istruzione superiore è intesa come strumento di governo per il raggiungimento di finalità politiche, economiche o sociali. Il controllo dello Stato è stretto, le università sono classificate secondo la loro capacità di realizzare le politiche governative, i processi decisionali sono verticistici (top-down). L'autonomia delle università è limitata alle decisioni tecniche e i mutamenti nel sistema di istruzione superiore sono determinati dai cambiamenti del quadro politico a seguito dei risultati elettorali o delle modifiche nelle coalizioni di governo.

2) Il 'modello di organizzazione istituzionale', nel quale le università hanno quale compito centrale quello di proteggere i valori tradizionali del mondo accademico nei confronti dei mutamenti politici dei governi. Valgono in questo modello le regole non scritte di reciproca non interferenza, di libertà accademica nell'accumulare e trasmettere la conoscenza. L'autorità dei leaders accademici deriva dalla tradizione. L'istruzione superiore viene a godere di una speciale protezione nei confronti delle mode del mercato e/o dei cambiamenti degli interessi politici. I mutamenti del sistema avvengono attraverso processi di evoluzione storica e non attraverso riforme.

3) Il 'modello di organizzazione corporativo-pluralista', che vede il sistema di istruzione superiore contornato da una costellazione di gruppi e centri di interesse che comprendono le organizzazioni dei docenti e degli studenti, le strutture di categoria, le autorità locali e - tra gli altri - il Ministero dell'Istruzione. I diversi gruppi di interesse partecipano al processo decisionale, che avviene in maniera segmentata e attraverso negoziazioni. L'autonomia delle università è anch'essa frutto di negoziazioni e dipende dalla distribuzione degli interessi costituiti e del potere dei diversi stakeholders, legittimati a priori nel loro ruolo, che sovente è istituzionalizzato (come nel caso delle organizzazioni confessionali). I cambiamenti nell'istruzione superiore dipendono dai cambiamenti nella distribuzione del potere e dalle alleanze tra gruppi di interesse.

4) Il 'modello di organizzazione tipo supermarket' prevede un ruolo molto marginale per lo Stato, che per lo più deve assicurare il rispetto delle regole del mercato. Il ruolo delle università è quello di fornire servizi (insegnamento e ricerca), mentre i criteri di classificazione delle istituzioni sono basati sull'efficienza, l'economicità e la flessibilità. L'autonomia è legata alla capacità di sopravvivere nella competizione. I portatori di interessi nei confronti dell'istruzione superiore (gli stakeholders) si impongono sulla base delle loro risorse nella competizione del mercato.

Applicando questa tipologia ai principali sistemi di istruzione superiore europei si ottiene il seguente quadro: l'Austria rappresenta un caso abbastanza coerente del sistema dello Stato sovrano; l'Inghilterra ha subito un'evoluzione in direzione del modello supermarket, ma con contraddizioni legate all'applicazione del modello di Stato sovrano (nel caso ad esempio dei polytechnics); la Finlandia si è spostata dal modello dello Stato sovrano a quello corporativo-pluralista attraverso sempre più ampi gradi di autonomia e la stipulazione di contratti tra Stato e singole università per la fornitura di servizi; il Belgio fiammingo va abbandonando il modello di Stato sovrano per avvicinarsi al modello supermarket, sia pure con alcune limitazioni poste alla completa autonomia istituzionale; l'Olanda dal modello di Stato sovrano si è orientata verso il modello corporativo-pluralista con il riconoscimento di numerosi stakeholders, il cui parere viene tenuto in considerazione dalle autorità governative prima di prendere decisioni di rilievo nel settore; la Norvegia sperimenta una combinazione di modelli comprendente quelli dello Stato sovrano, dell'organizzazione istituzionale e del supermarket; il Portogallo mostra una combinazione alquanto ibrida di componenti di controllo statale e di regole di mercato che fanno pensare a una tendenza verso il modello del supermarket, peraltro combinata con la permanenza di elementi del modello dello Stato sovrano (il potere di decisione in vari campi è riservato al Ministero dell'Istruzione) e di altri appartenenti al modello corporativo-pluralista (con la nascita di gruppi di interesse come la Conferenza dei rettori). In questo quadro il caso italiano viene assimilato sostanzialmente a quello portoghese.

Complessivamente, emerge dunque una tendenza diffusa all'allontanamento dal modello un tempo prevalente dello Stato sovrano, attraverso un allentamento progressivo della dipendenza delle istituzioni e l'emergere di componenti di autonomia e di regole di competizione che fanno pensare al mercato. Tuttavia, si osserva come il ruolo dello Stato non scompaia, ma piuttosto tenda a combinarsi con regole tipiche del mercato. In particolare, è frequente la contraddizione tra il linguaggio usato dagli organi di Stato che recepiscono l'approccio del modello autonomo del supermarket e la pratica (regole, regolamenti, norme di legge, strumenti) delle istituzioni statuali, che invece sembra ancor più di un tempo orientata al controllo. Si direbbe che i governi vogliano essere sicuri che l'uso dell'autonomia concessa alle istituzioni di istruzione superiore produca i risultati previsti dalla concessione dell'autonomia stessa. Da qui la diffusione di forme combinate dei quattro modelli idealtipici e la risoluzione in forme ibride della dicotomia tra controllo statuale e autonomia dell'istruzione superiore (v. Gornitzka e Maassen, 2002).

4. Il nuovo ruolo dello Stato

Il modello che si prospetta non è dunque quello del trionfo del mercato, inteso come sinonimo di libera concorrenza tra istituzioni. Lo Stato, infatti, non scompare dalla scena dell'istruzione superiore, se non altro perché ne resta il principale finanziatore; esso tuttavia non si assume più, come un tempo, tutte le responsabilità finanziarie e gestionali, anche perché non è più in grado di svolgere in maniera efficiente tali funzioni. D'altro canto, allo Stato si sono venute aggiungendo altre istituzioni interessate alle attività formative: dalle grandi aziende nazionali e multinazionali ai diversi poteri pubblici locali.

Da un lato, lo Stato tende a responsabilizzare le istituzioni formative (il principio chiave è rappresentato dal termine inglese accountability), ma in modo indiretto, attraverso l'intervento di istituzioni di valutazione e orientamento - sorte sull'esempio dell'inglese University Grants Committee - la cui mediazione consente di salvare in buona parte l'autonomia del mondo accademico, che ovunque risente delle intrusioni di altri settori della società. Tali istituzioni, che non per caso vengono chiamate 'ammortizzatori', hanno un'influenza diretta (come in Gran Bretagna gli Higher Education Funding Councils, in seguito denominati Higher Education Quality Commitee) o indiretta (come in Francia il Comité National d'Évaluation) sull'attribuzione alle università di una parte dei contributi annuali di origine statale e in tal modo la loro attività acquista un ruolo centrale.

Lo Stato, dunque, tende a modificare le proprie funzioni e a diventare 'Stato valutatore': la concessione dell'autonomia ai singoli istituti formativi comporta la valutazione delle performances e di conseguenza il loro controllo, sotto diversa forma, da parte dello Stato; allo stesso tempo essa consente il perseguimento dell'uniformità dell'offerta formativa e la ricerca della qualità delle prestazioni. Lasciando libertà di impostazione e conduzione delle attività accademiche, lo Stato per un verso rende le università maggiormente collegate con i fruitori (nel modello anglosassone, con gli studenti e con i committenti delle ricerche, entrambi intesi come i propri azionisti/stakeholders), e per l'altro - attraverso i controlli dei risultati (e di conseguenza dei processi per raggiungerli) - mette in atto meccanismi di convergenza e uniformità che garantiscono il cittadino, forse meglio e più di come accadeva nel sistema centralistico di un tempo.

Dall'altro lato, lo Stato non è più l'unica fonte di finanziamento pubblico e di influenza politica sui sistemi di istruzione superiore e dei singoli atenei. Al di sopra dello Stato, infatti, si delinea l'incidenza dell'Unione Europea, sia come fonte - sempre più rilevante - di risorse finanziarie (per lo più rivolte alla ricerca scientifica), sia come fonte di possibile controllo aggiuntivo o sostitutivo, sulla base del principio della sussidiarietà che il Trattato di Maastricht ha introdotto come possibilità di intervento migliorativo della qualità dell'offerta formativa nazionale. Al di sotto dello Stato, a un tempo, prende piede il ruolo delle autorità locali per la necessità di migliorare il rapporto tra università e società e anche per la convenienza generale a diversificare le fonti di sostegno economico. Anche qui si nota un sintomo della crisi dello Stato accentratore, visto sempre meno come garante dei valori universali contro i localismi e percepito sempre più come il rastrellatore di risorse individuali (v. Neave, 1995 e 1998; v. Capano, 1998).

Si sviluppa in questo modo quella che alcuni chiamano ormai la "società dei portatori di interessi (stakeholder society)", in cui tende a prevalere un sistema di 'contrattualizzazione' in virtù del quale i detentori di interessi (stakes) sono autorizzati a proteggerli e dunque a collocarli nelle (o a ritirarli dalle) singole istituzioni, imponendo così a queste un sistema di premi/punizioni. Naturalmente si può subito prevedere il configurarsi di una situazione di stimolo ma anche di incertezza e instabilità, nella quale l'istituzione universitaria si potrà difendere se saprà operare come depositaria di un'offerta di qualità in grado di scegliere quali referenti avere e con quali armi entrare in competizione per ottenere le risorse e attrarre gli studenti (v. Neave, On stakeholders…, 2002).

5. I numerosi significati dell'autonomia universitaria

Per tentare di dipanare il complesso intreccio delle pressioni delle diverse forze in gioco - e identificare le tendenze in atto che spingono le istituzioni universitarie (e complessivamente i sistemi di istruzione superiore) verso la revisione delle proprie funzioni e delle proprie configurazioni - un punto di riferimento che sembra utile è rappresentato dall'approfondimento del concetto di 'autonomia'.

L'autonomia vista come condizione per rispondere alle richieste della società, soprattutto a livello locale, comporta la possibilità di articolare l'offerta formativa in relazione alla domanda e di orientare la ricerca in rapporto al sistema economico regionale. Vista sotto il profilo del miglioramento della qualità delle prestazioni, essa implica sia la specializzazione della singola università in determinati settori, sia la competizione con altre istituzioni formative, sia, infine, la cooperazione e le sinergie tra istituzioni in un programma di coordinamento dell'offerta a dimensione territoriale. Dal punto di vista della domanda di prestazioni proveniente dalla società, è indubbio che l'autonomia delle università (e in misura minore, ma non trascurabile, anche quella degli istituti secondari superiori) appare come opportuna e benvenuta. La collaborazione dell'università come sede di formazione e di ricerca è infatti richiesta dal mondo esterno in forme sempre più diffuse e articolate.

L'altro aspetto di rilievo della fase in corso è appunto la crescente rilevanza della dimensione istituzionale nei confronti di quella disciplinare a livello nazionale. L'autonomia delle singole università propone strategie di ateneo, con scale di priorità e compatibilità tra discipline che tendono a sovrapporsi e/o a sostituirsi alle tradizionali strategie disciplinari a livello nazionale. Secondo la stessa logica vengono privilegiate e premiate le capacità 'imprenditoriali' e manageriali (ancorché non molto diffuse) del personale docente, spesso non per caso appartenente alle aree disciplinari maggiormente aperte al cambiamento (v. Moscati, 1997).

È bene precisare che il concetto di autonomia del quale stiamo parlando va distinto dalla 'libertà accademica' di cui godono i singoli studiosi, sia nel campo didattico sia in quello della ricerca; vanno altresì tenuti separati i concetti di 'autonomia sostantiva' e di 'autonomia procedurale' (v. Berdahl, 1990; v. Neave e van Vught, 1993): il primo si riferisce al potere della singola università di determinare i propri fini e i propri progetti organizzativi (il 'cosa' del mondo accademico), mentre l'autonomia procedurale consiste nel potere di determinare i mezzi con i quali tali fini saranno perseguiti (il 'come' del mondo accademico). Una distinzione analoga separa il controllo di processo da quello di prodotto, identificando con il processo la costruzione dei curricoli, la durata degli studi, il profilo disciplinare e la distribuzione dei pesi tra le discipline: in pratica, le risorse, le condizioni e i mezzi attraverso i quali si giunge al prodotto, e con quest'ultimo il tipo e il livello di qualificazione degli studenti, i progetti di ricerca portati a termine, i brevetti conseguiti, le pubblicazioni prodotte dai componenti l'istituzione universitaria (v. Neave e van Vught, 1991).

Ne deriva che quando l'intervento regolativo del governo assume la forma del controllo del prodotto invece che del controllo del processo, l'autonomia di funzionamento delle istituzioni di istruzione superiore tende ad aumentare. Tuttavia, questo aumento dell'autonomia di processo può dipendere da una richiesta di un minimo di prestazione nell'ambito del controllo di prodotto. Per contro, quando il governo è in grado di decidere in buona misura il genere di prodotto che deve risultare dalle attività delle istituzioni formative, l'autonomia procedurale potrà essere ampia, ma l'autonomia sostantiva sarà piuttosto limitata.

Da queste considerazioni discende che il concetto di autonomia è cruciale, poiché opera come elemento di riferimento per determinare e classificare la natura dell'autorità esercitata all'interno dell'istituzione e, all'esterno di essa, nelle relazioni tra istituzione e autorità pubbliche. L'autonomia - elemento centrale della vita accademica - viene circondata dunque da una serie di limiti molto diversificati a seconda dei vari contesti e periodi storici. Si spiegano così le trasformazioni (prima ricordate) dell'intervento statale sull'università, che tende a passare da forme di controllo a forme di supervisione.

6. Ristrutturazione dei poteri interni ed esterni: il 'triangolo di coordinamento dell'autorità'

Dalla presentazione delle diverse forme di controllo dello Stato sui sistemi di istruzione superiore e da una riflessione sulle tendenze oggi in atto in numerosi paesi emerge la costante dialettica per il controllo dell'università tra le diverse forze sociali interessate. A questa dinamica, come si è visto, non partecipa solo lo Stato (dunque la classe dominante che rappresenta la dimensione politica nazionale attraverso il governo) nelle forme centralistiche tradizionali, ma anche le forze economiche e sociali che, a diversi livelli, spingono per l'autonomia delle singole istituzioni, come anche per l'introduzione di sempre maggiori regole di competizione tra le università e per risposte puntuali, secondo le regole di mercato, alle richieste di servizi. Vi partecipa poi il ceto accademico, che ha tradizionalmente goduto di un variabile ma sempre largo spazio di autonomia nella gestione delle attività professionali interne e dunque degli atenei. Questa dialettica ha prodotto diverse forme di coordinamento delle attività accademiche a seconda del prevalere dell'una sulle altre. Burton Clark (v., 1983) ha cercato nella sua analisi comparativa dei sistemi di istruzione superiore di dare una rappresentazione grafica di tale dinamica attraverso il 'triangolo di coordinamento' presentato in fig. 1, il quale mostra la disposizione dei sistemi di istruzione superiore di alcuni paesi, variamente prossimi agli angoli che rappresentano la prevalenza dell'autorità statale, del mercato o del potere accademico. Clark (v., 1977) descrive il caso italiano come un esempio peculiare del sostanziale prevalere dell'oligarchia accademica in un contesto di diffuso ma inefficiente controllo statale (v. anche Giglioli, 1979).

Il modello di Clark può essere visto come il punto di partenza di una situazione diventata progressivamente sempre più complessa per l'aumentare delle figure sociali interessate all'istruzione superiore e per quell'allargarsi delle dimensioni di riferimento per l'università che - come si è accennato - comprendono oramai sia la dimensione nazionale, sia quella sovranazionale, sia quella locale. Ne deriva che la dialettica tra le forze interessate all'università non può essere limitata a quelle considerate da Clark, ma va allargata. Il triangolo diventa dunque almeno un ottagono (v. Kehm, 2002; v. fig. 2). In esso sono compresi lo Stato, il mercato e l'oligarchia accademica, ma in quest'ultima si viene distinguendo una struttura di gestione delle istituzioni formative che tende a distinguersi dal ceto accademico per le commistioni col mondo esterno e la tendenza ad affidare a esperti di gestione le sorti dell'istituzione: si tratta del management universitario. Al contempo il mercato va suddiviso in internazionale e locale per il consolidarsi delle logiche globalizzanti (caduta delle distinzioni nazionali in Europa, mercato comune della forza lavoro) e di quelle regionali (specificità delle domande di formazione e di professionalità nei singoli contesti). Mentre per le stesse logiche globalizzanti si affacciano nel panorama universitario gli attori sovranazionali a livello politico (il principale è l'Unione Europea) e a livello politico-economico (le imprese multinazionali). Da qui il diverso configurarsi delle forze in gioco nel panorama degli elementi che incidono sulle caratteristiche dei sistemi d'istruzione superiore.

7. Internazionalizzazione dell'istruzione superiore

Appare dunque sempre più chiaro il rilievo che l'istruzione superiore è venuta assumendo ovunque, in accordo con l'evoluzione complessiva della società e secondo processi comuni che si identificano con caratteristiche e tendenze generali riassunte da concetti come 'società postindustriale' o 'società della conoscenza' (knowledge society). A proposito di questo processo si parla di internazionalizzazione, ma anche di globalizzazione e di europeizzazione dell'istruzione superiore.

Con il termine 'internazionalizzazione' ci si riferisce alla crescente serie di attività e iniziative di interscambio scientifico, culturale e formativo che scavalca le frontiere tra gli Stati, mentre il termine 'globalizzazione' indica la progressiva sparizione delle frontiere nazionali di cui la 'europeizzazione' rappresenta una versione geograficamente circoscritta (e concettualmente più vicina alla internazionalizzazione). Si parla di internazionalizzazione con riferimento alla mobilità fisica dei soggetti, alla cooperazione accademica e al trasferimento delle conoscenze scientifiche o alla combinazione plurinazionale di programmi di formazione. Per contro, il termine globalizzazione è spesso collegato con forme di competizione secondo regole di mercato e con la commercializzazione transnazionale di conoscenze. Infine, il termine europeizzazione viene per lo più usato nei riguardi dei processi di cooperazione e di mobilità, di convergenza di contesti e di strutture, e generalmente di integrazione tra istituzioni e sub-sistemi (si pensi a termini come 'cittadinanza europea', 'cultura europea', 'dimensione europea dell'istruzione superiore'; v. Teichler, 2002).

Il riferimento alla globalizzazione ha incontrato un crescente successo, sia perché l'autonomia delle singole istituzioni accademiche incrementa l'intreccio di iniziative tra di esse, al di là dei sistemi nazionali di appartenenza, sia per l'accentuarsi delle tematiche legate alla gestione degli atenei e dunque alla rilevanza del management e della competizione per il reperimento delle risorse. Ma si tratta di un uso sovente improprio. Infatti, l'implicita assunzione di un tramonto dei sistemi nazionali di istruzione superiore non trova fondamento nella realtà.

Quello che invece va notato è il crescente e accelerato processo di internazionalizzazione dell'istruzione superiore, in virtù del quale oggi - con riferimento alle singole istituzioni - non è più possibile distinguere un ateneo a vocazione locale, uno a dimensione nazionale e uno proiettato a livello internazionale, essendo tutte le università spinte a collocarsi contemporaneamente nelle tre dimensioni. A livello generale il processo si articola in una serie di direzioni: la conoscenza viene trasferita sempre più largamente da un sistema nazionale all'altro attraverso i media, attraverso la mobilità fisica di ricercatori, studiosi e studenti, e infine grazie al proliferare di programmi di ricerca internazionali nonché di accordi di formazione comune fra diversi atenei. La dimensione internazionale caratterizza un crescente numero di settori scientifici per la necessità di impostare in termini comparativi l'approfondimento dei più diversi ambiti disciplinari, ma anche in coerenza con l'allargamento dei mercati occupazionali e con la mobilità geografica di soggetti appartenenti a culture diverse.

In particolare, la mobilità dei ricercatori e più ancora degli studenti rappresenta il dato maggiormente visibile di questo processo in tempi recenti. Sotto tale profilo la dimensione europea acquista una rilevanza particolare tanto per le dimensioni del fenomeno, quanto per il genere di mobilità, facilitata dal comune livello di competenze tecnico-scientifiche e dalla relativa vicinanza tra le culture. I diversi programmi di scambio promossi dalla Comunità (ora Unione) Europea - da ERASMUS a SOCRATES a Leonardo, Lingua, Comett - hanno rappresentato un salto di quantità e dunque anche di qualità rispetto alle forme tradizionali di scambio studenti/studiosi che nel passato hanno sempre riguardato percentuali modeste di soggetti. Il fenomeno prelude a sviluppi ancor più significativi di istruzione trans-nazionale per l'acquisizione di titoli di studio in paesi diversi da quello sede dell'università di appartenenza.

Si può dunque parlare, in questo caso, di europeizzazione dell'istruzione superiore. Il processo ha registrato una sostanziale accelerazione negli ultimi anni del XX secolo, in particolare sotto il profilo delle politiche nazionali e sovranazionali. Questa dimensione politica rappresenta la vera e propria novità che ha assecondato e sostenuto un processo spontaneo a livello sia individuale sia istituzionale risalente, come è noto, alle origini dell'università.

Una data convenzionale per indicare l'inizio di una politica tesa alla creazione di un'area europea dell'istruzione superiore potrebbe essere quella del 1987, anno nel quale iniziò il primo periodo ufficiale del programma ERASMUS (dopo la fase pilota avviata nel 1976) e si tennero due Conferenze - quella di Lisbona (promossa dall'UNESCO) e quella di Varsavia (promossa dalla Comunità Europea) - sulla necessità di sviluppare iniziative che favorissero una "comune casa europea per l'istruzione" (v. Marçal-Grilo, 2001).

Il processo è proseguito con l'avvio dei programmi-scambio di ricercatori, docenti e studenti, ma ha avuto una decisiva accelerazione con quella che è stata chiamata la 'Dichiarazione della Sorbona' (maggio 1998). In essa i ministri dell'istruzione di Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia espressero l'intenzione di operare in favore dell'armonizzazione di un sistema europeo di istruzione superiore, invitando gli altri paesi dentro e fuori l'Unione Europea a partecipare alla realizzazione dell'iniziativa. In concreto, questo processo di armonizzazione comprendeva: a) l'adozione di un comune quadro di riferimento per la strutturazione dei percorsi di istruzione superiore, articolati in tre livelli di durata ridotta rispetto a quelli maggiormente diffusi nei principali paesi europei e con un primo livello che non superasse i tre anni per il raggiungimento del titolo (non ha invece trovato consensi la proposta della Francia di adottare universalmente uno schema articolato in 3, 5, 8 anni); b) l'introduzione graduale di un sistema comune di attribuzione di crediti ai singoli insegnamenti e cumulativamente ai diversi corsi di studio, al fine di rendere più flessibili i percorsi formativi, anche in vista degli scambi internazionali di studenti e della diffusione dell'educazione permanente; c) l'adozione - in una dimensione europea - di sistemi di valutazione, accreditamento e garanzia della qualità delle attività formative e, più generalmente, delle istituzioni di istruzione superiore. L'insieme di tali iniziative aveva anche lo scopo di rendere l'istruzione superiore europea maggiormente competitiva a livello mondiale e dunque più attraente per studenti, studiosi e imprenditori di altri continenti (v. Haug, 1999).

I promotori della Dichiarazione della Sorbona diedero appuntamento ai rappresentanti degli Stati europei per un seguito in forma di conferenza da tenersi a Bologna l'anno successivo. La Conferenza vide la partecipazione di un considerevole numero di governi europei (29) che in chiusura sottoscrissero una Dichiarazione contenente una serie di raccomandazioni da mettere in pratica in tempi ragionevolmente brevi. Tali raccomandazioni comprendevano: l'adozione di un sistema di attribuzione di titoli di studio facilmente equiparabili; l'introduzione di un percorso di studi basato su due cicli in sequenza; la definizione di un sistema di crediti trasferibili (simile al modello detto ECTS, European Credit Transfer System) comprendente crediti acquisiti eventualmente anche fuori dal sistema di istruzione superiore, al fine di favorire la mobilità geografica degli studenti; il superamento degli ostacoli alla mobilità di personale docente, ricercatori, personale tecnico-amministrativo e studenti; il sostegno alla cooperazione tra Stati europei nella definizione di programmi di garanzia di qualità; la promozione della dimensione europea nei sistemi nazionali di istruzione superiore con particolare riferimento allo sviluppo dei curricoli, alla cooperazione tra atenei, alla definizione di programmi comuni di studio e ricerca.

Attraverso questi sei punti la Dichiarazione di Bologna mirava a perseguire tre finalità: la promozione della mobilità fisica dei cittadini, l'incremento delle opportunità occupazionali nell'ambito dello sviluppo complessivo del continente e l'aumento della competitività internazionale del (costituendo) sistema europeo di istruzione superiore. La Conferenza di Bologna fissò altresì un appuntamento di verifica alla distanza di due anni con una conferenza da tenersi a Praga e costituì un comitato con il compito di seguire l'attuazione effettiva dei diversi punti della Dichiarazione.

Nel maggio del 2001 si è tenuta la prevista Conferenza di Praga, che si è chiusa con un 'Comunicato' all'interno del quale non vengono indicati nuovi traguardi e nuove finalità, ma si sottolineano alcuni punti contenuti nella Dichiarazione di Bologna. In particolare, viene chiarito come siano possibili diversi tipi di cicli iniziali che si distinguono eventualmente per l'enfasi posta sulla propedeuticità rispetto a studi superiori oppure sulla formazione professionalizzante. Si sottolinea inoltre la rilevanza dell'istruzione permanente e si rafforza l'importanza del perseguimento della qualità, richiamando il ruolo di rilievo da attribuire agli studenti. Infine, viene ribadita la dimensione europea dell'istruzione superiore e la necessità che sia accresciuta la capacità di attrazione del 'sistema europeo' nei confronti del mondo esterno.

Cosa caratterizza questo processo, che ha avuto un seguito in un nuovo Convegno tenutosi a Berlino nell'autunno del 2003? Va notato subito come la Dichiarazione di Bologna sia stata sottoscritta da oltre 30 paesi europei, dunque più del doppio di quelli costituenti fino a poco fa l'Unione Europea. Ne deriva che quest'ultima non può definirsi come la promotrice unica dell'iniziativa, che assume sempre più una connotazione di movimento spinto dal basso (dopo l'approccio secondo alcuni eccessivamente 'dirigistico' della Dichiarazione della Sorbona). La Commissione Europea certamente sostiene l'iniziativa, ma l'elemento di maggior forza propulsiva è rappresentato dalle singole università che vengono costituendo una rete informale sostenuta dalla Conferenza Europea dei Rettori, ora rinominata Associazione Europea delle Università. Su questa rete informale poggia l'azione dei governi aderenti e si viene a configurare così un processo di armonizzazione dei sistemi di istruzione superiore, flessibile e rispettoso delle differenze nazionali. Un processo di europeizzazione, dunque, che può essere collocato, come avevamo preannunciato, nell'ambito dell'internazionalizzazione più che in quello della globalizzazione (v. Hackl, 2001; v. Cerych, 2002).

8. Mondo accademico e cambiamento

Il processo di cambiamento che coinvolge buona parte dei sistemi di istruzione superiore appare dunque largamente derivante dalla trasformazione delle domande che la società rivolge all'università. Val la pena di verificare i tipi di risposte che a queste richieste sono venute dal mondo accademico.

Tradizionalmente il mondo accademico si è auto-percepito come parte di un tacito accordo secondo il quale la società attribuiva autonomia e potere di autogestione all'università in cambio della produzione e del trasferimento di conoscenze. In conseguenza, l'immagine che il mondo accademico aveva di sé era quella di una comunità auto-regolamentata, separata per mezzo di robusti steccati dal mondo della politica e dell'economia, e nella quale è la natura dei processi conoscitivi e dei settori del sapere a caratterizzare sia il tipo di organizzazione sia la formazione delle credenze e dei valori. Come altre professioni, quella accademica può essere caratterizzata da un individualismo fortemente istituzionalizzato. I suoi membri sono socializzati all'interno di ben definiti contesti istituzionali (gli atenei) che peraltro vengono intesi come strutture il cui compito è quello di fornire un determinante sostegno alla creatività e alla critica. I membri dell'accademia sono autorizzati a interpretare individualmente il proprio ruolo professionale all'interno di una struttura normativa informale, costruita - per accumulazione nel tempo e con valore universale - dai propri pari. E sono le stesse comunità accademiche a incoraggiare i propri membri a dimostrare le caratteristiche di libertà, originalità e qualità intellettuale assai spesso acquisite attraverso percorsi individuali e con la costruzione di reti e collegamenti indifferenti ai confini nazionali o disciplinari. Da qui il diffuso orgoglio di ignorare o almeno di saper controllare il potere delle (e i rapporti di appartenenza alle) istituzioni. Si configura in tal modo - in una prospettiva tutta autoreferenziale - l'idea di una 'repubblica della scienza', nella quale è possibile perseguire collegialmente la ricerca della verità all'interno di un territorio protetto da ben delineati confini (v. Polanyi, 1962).

Ne deriva che la struttura (dunque l'istituzione 'università') è semplicemente l'intermediario per le attività di individui dediti alla ricerca della conoscenza e alla sua diffusione (v. Henkel, 1995 e 2000; v. Clark, 1983). Si tratta di persone che tengono al controllo del proprio destino, come alla conservazione dei contorni perimetrali del proprio mondo, al fine di resistere alle influenze esterne. E che svolgono una professione diversificata nella produzione e nella distribuzione delle conoscenze, ma anche nelle peculiarità cognitive e organizzative delle diverse aree disciplinari, delle differenti specializzazioni e delle personali reti di ricerca (v. Becher, 1989).

Ora, questo mondo fondato sul diritto all'autoregolazione, sulla libertà e sulla fiducia garantita a priori dalla società, dove l'elemento unificatore è l'ambito disciplinare più della singola istituzione, è entrato in crisi. Il processo generale che ha rotto l'equilibrio tradizionale tipico del mondo accademico si è avviato nel XX secolo e si è caratterizzato per una frammentazione della conoscenza in settori altamente specializzati e rigidamente impermeabili, per l'accettazione della necessità di una conoscenza multidisciplinare e per il riconoscimento dell'importanza della conoscenza finalizzata all'inserimento nel mondo professionale. In sintesi, si può osservare che quanto più la conoscenza avanzata diviene centrale per la società, tanto più si accentua la richiesta di acquisirla e aumenta la domanda di coloro che si suppone la possiedano. Si accresce, altresì, la richiesta di controllare la conoscenza e di determinarne la direzione, mentre il dominio delle discipline viene messo in discussione.

Ma ancor più significativo è l'insieme di interventi dall'esterno che minano l'autonomia e l'indipendenza del mondo accademico. In alcuni paesi il governo tenta di intervenire nella costruzione dei curricoli, sollecitando il coinvolgimento delle aziende nella costruzione di percorsi e nell'offerta di esperienze lavorative che accentuino la componente professionalizzante. D'altro canto, si viene diffondendo la pressione per l'introduzione di verifiche esterne della qualità delle prestazioni, solo in parte basate sulla valutazione dei colleghi (peer review). La distribuzione delle risorse per le attività di ricerca tende a dipendere dalla qualità dei risultati precedentemente ottenuti. Le attività di ricerca mirano sempre più a rispondere alle necessità di chi utilizzerà i risultati: spazio crescente trovano le ricerche strategiche e in genere quelle applicate, che in tal modo riducono indirettamente lo spazio per iniziative di analisi a livello individuale. Tuttavia, le università che intendono restare attive nel settore della ricerca sono costrette a cercare fondi all'esterno (rivolgendosi al governo, ai servizi del settore pubblico e alle aziende private), a volte entrando in competizione con gruppi di ricerca non accademici come le società di consulenza al management.

In pressoché ogni settore scientifico prevalgono sempre più la dimensione multidisciplinare e la ricerca applicata. Di qui il crescente ruolo dei destinatari-committenti nella definizione dei tempi, come nell'allocazione dei finanziamenti e nella valutazione dei risultati delle ricerche. Dedicarsi a tematiche quali il declino sociale delle città, la congestione del traffico, le nuove forme di povertà - ma anche la gestione dell'ingegneria genetica, o l'uso delle nuove tecnologie - implica la generalizzazione delle ricerche multidisciplinari e l'associazione degli accademici con politici, imprenditori, consulenti della gestione aziendale, professionisti di varia natura. Questo spostamento del settore della ricerca rischia, da un lato, di aprire un nuovo fronte di implicazioni etiche per il mondo accademico e, dall'altro, di incrinare i criteri interni al mondo universitario nella valutazione dei meriti scientifici e nell'applicazione del controllo di qualità. In particolare, emerge la possibilità di eccedere nel perseguimento a ogni costo del risultato, come anche nel mirare all'utilizzazione a breve del lavoro scientifico e nel ridurre l'importanza attribuita alla valutazione interna dei risultati o alla riduzione del rischio di errore.

L'importanza dell'uso dei prodotti dell'università, sia in termini di formazione delle figure professionali sia in termini di ricerca applicata, finisce per aumentare le forme di collaborazione col mondo esterno e di conseguenza col ridurre la protezione derivante dal tacito accordo di non ingerenza con la società. Nel complesso, tale processo di cambiamento segnala il mutamento profondo delle istituzioni universitarie, che non sono più tese alla formazione di ristrette élites, ma, al contrario, sempre più chiaramente si legano a strategie economiche e politiche di largo respiro. Ne deriva il moltiplicarsi delle norme, regole e procedure che devono essere seguite dagli accademici nel loro operato professionale.

D'altro canto, il ruolo centrale delle discipline si è progressivamente venuto riducendo, sia nell'organizzazione della produzione e distribuzione del sapere, sia nella gestione delle istituzioni di istruzione superiore. A quest'ultimo riguardo, un'ulteriore conseguenza della tendenza in atto consiste nel fatto che nella gestione delle istituzioni universitarie la mera negoziazione tra gli accademici non è più sufficiente, dal momento che occorre tener conto delle relazioni tra università e mondo esterno, il che implica capacità gestionali con connotazioni di derivazione aziendale.

Il controllo di qualità delle performances apre la via alle valutazioni esterne e alla commistione di priorità e valori diversi. In alcune occasioni (nel caso inglese, ad esempio) il mondo accademico ha cercato di provvedere a forme di autovalutazione allo scopo di prevenire ingerenze esterne. In questa direzione tendono a diffondersi nuove definizioni dei fini e della natura dell'università, come anche vengono a modificarsi i processi di trasferimento delle conoscenze con l'aggiunta del trasferimento delle competenze professionali, e acquista rilievo il ruolo sia degli studenti sia degli imprenditori (intesi come 'clienti'). A livello di singola istituzione si viene riproponendo il tema della distribuzione del potere tra accademici e amministratori. La gestione delle istituzioni diviene più complessa nel rapportarsi al mondo esterno in forme non tradizionali e la componente burocratica assume un peso crescente anche in relazione alle richieste di valutazione.

In sintesi, forti pressioni dall'esterno mirano a legare le università all'evoluzione dell'economia e della società, sulla spinta della rilevanza che ha assunto il sapere nella competizione economica tra i diversi paesi e della richiesta generalizzata di istruzione superiore a fini egualitari, che insieme tendono a modificare le tradizionali finalità dell'istruzione superiore. Il caso inglese è al riguardo emblematico: nel 1963 il Rapporto Robbins sosteneva che l'istruzione superiore aveva il compito di promuovere l'apertura della mente, il progresso dell'apprendimento, la trasmissione di una cultura comune e di modelli uniformi di cittadinanza, mentre il Libro Bianco del 1987 ricordava che l'istruzione superiore doveva servire più efficacemente l'economia, avere rapporti più stretti con il mondo dell'industria e del commercio e sostenere le imprese (v. Kogan e Henkel, 1996).

Ma questo cambiamento delle finalità implica necessariamente un ripensamento delle regole interne al mondo accademico. In particolare, tendono a ridursi i margini di autoregolazione, nella misura in cui si stabiliscono partnerships e si affermano sistemi esterni di premi/punizioni basati sulla valutazione delle performances.

Sorgono allora tensioni per quel che riguarda sia i ruoli professionali e le relative identità dei docenti-ricercatori e amministratori, sia le identità e le finalità delle singole istituzioni accademiche. Molti convincimenti (a volte mitizzati) sono rimessi in questione: dall'esistenza di una comunità accademica alle forme di governo collegiali. I mutamenti in atto nei sistemi di istruzione superiore riaprono il problema dell'identità del mondo accademico e dei suoi singoli componenti. L'autonomia richiede una maggiore organizzazione e una più severa verifica delle prestazioni, dovendo l'istituzione rispondere ai committenti e agli utenti. Crescono così le dimensioni burocratiche e i ruoli gestionali ai diversi livelli. L'impegno individuale a favore dell'istituzione tende ad aumentare, inducendo gli accademici a lamentare una generalizzata mancanza di tempo.

Ma è il processo di formazione dell'identità epistemica dei singoli accademici che viene più chiaramente messo in questione e che rappresenta il punto dolente più significativo. L'emergere, anche parziale, delle logiche di mercato tende a erodere le identità accademiche individuali, fondate sull'interesse intellettuale, disegnate dai contesti disciplinari e dalle priorità singolarmente determinate. Il nodo che forse meglio di altri riassume tali problematiche è dato dalla difficoltà che gli accademici incontrano nel combinare fini individuali e fini istituzionali (legati alla propria università). Tali contraddizioni si sommano a quelle più tradizionali derivate dalla necessità di svolgere attività didattica, di ricerca scientifica e di gestione amministrativa, in un contesto che continua a far dipendere le carriere dalla sola produzione scientifica, mentre le altre due dimensioni assumono comunque un peso crescente e concorrono a far definire quella accademica come una "professione frammentata" (v. Hearn e Holdsworth, 2002). Da qui una diffusa prevenzione negativa nei confronti delle riforme in atto e un visibile scetticismo circa l'utilità dell'apertura al mondo esterno che caratterizzano larghe fasce del mondo accademico.

9. Ridefinizione delle finalità dell'istruzione superiore

Dal processo evolutivo in atto deriva, in ogni paese, il problema di ridefinire le finalità dell'istruzione superiore. Finalità che - in genere - oscillano dall'assicurare continuità, stabilità e coesione sociale al garantire possibilità di cambiamento, come risposta al mutare delle domande sociali e del mercato del lavoro.

Va osservato al riguardo come l'università abbia dimostrato nel tempo una significativa capacità di adattarsi ai mutamenti. E tuttavia ora i mutamenti richiesti appaiono estremamente accelerati e di portata particolarmente significativa. Tra questi ultimi sembra centrale il cambiamento nei sistemi di produzione della scienza, che tendono a passare dal modello tradizionale - rappresentato da una comunità chiusa di scienziati cui è riservato uno spazio autonomo indiscusso - a un modello di produzione di conoscenza in un sistema aperto, costituito da produttori, utilizzatori e mediatori di conoscenza. I due modelli al momento coesistono, ma il secondo tende a prevalere e per le università - nate sulla base del modello tradizionale - si aprono problemi di crisi dell'autoreferenzialità che si sostanziano in crisi della libertà accademica e delle consuete distinzioni disciplinari (v. Gibbons e altri, 1994; v. Simone, 2000). Il modello di ricerca tradizionale viene messo in questione mentre sorgono altre agenzie di formazione con le quali l'università è chiamata a condividere l'attività di insegnamento. A un tempo, la nuova conoscenza è sempre più prodotta nei luoghi dove viene applicata e dunque fuori dall'università (v. Scott, 1997; v. Coffield e Williamson, 1997).

Si assiste - come conseguenza di tutto ciò - a una perdita di identità dell'università, che trova sempre maggiori difficoltà a definire la propria finalità (o, come si tende a dire, 'missione') specifica. Un esempio tra i più evidenti è rappresentato dalla progressiva erosione della distinzione tra settore 'nobile' e settore professionalizzante. Distinzione che aveva rappresentato la tradizionale risposta (difensiva) dell'università all'iniziale crescita della domanda sociale. Così si configura una università che svolge i compiti tradizionali (detti anche core university) e una università aperta alle nuove richieste della società (detta 'distributed university'): dalla ricerca e sviluppo all'educazione permanente, ai programmi formativi particolari, richiesti dalla (e gestiti con la) comunità locale (v. Scott, 1997). Ma in diversi contesti questo secondo modello tende a prevalere e le distinzioni tra i due a ridursi progressivamente. In quella che sta configurandosi come la 'società della conoscenza' perde spazio la cultura accademica - che si basava su quella distanza critica dalla società ritenuta necessaria per svolgere il proprio ruolo - e diviene sempre più forte ed evidente il coinvolgimento dell'accademia nel mondo reale (circostante) e nel mercato (non inteso solo in senso strettamente commerciale).

Le richieste dal mondo esterno si moltiplicano sia a livello economico sia a livello politico. Queste ultime sono il frutto dell'incipiente mutamento del ruolo dello Stato, che da elemento di protezione dell'università si avvia a divenire sempre più committente indiretto (ma anche diretto, come nel caso dei 'contratti di ateneo' che si sono sviluppati in Francia: v. Musselin, 2001). Ne deriva un aumento dei controlli statali sui bilanci cui l'università non riesce ormai più a sottrarsi, dovendo far ricorso sempre più frequentemente alle più svariate forme di reperimento di risorse sia per la crescente insufficienza dei finanziamenti pubblici in rapporto alle diverse funzioni che è chiamata a svolgere, sia per l'incremento del numero degli utenti.

Ma un simile genere di nuove relazioni esterne comporta quasi inevitabilmente la più volte segnalata richiesta di essere affidabili (accountability), che significa in pratica riduzione del controllo di processo in rapporto a buone prestazioni nel settore del controllo di prodotto. Il che a sua volta implica la necessità di negoziare la riduzione dei controlli di processo e il mantenimento dei livelli di autonomia da riverificare ogni anno alla luce delle proprie prestazioni. Come è intuibile, questa logica significa permettere ai governi di far prevalere le esigenze sociali su quelle interne alle istituzioni, ragion per cui l'università può veder modificare la propria identità da 'istituzione al servizio della società' ad 'agenzia per l'iniziativa pubblica', mentre l'accademia rischia di essere ridotta a 'fabbrica della conoscenza', sempre meno in grado di resistere agli opportunismi politici di breve periodo del mondo esterno (del governo, nell'esempio specifico; v. Neave e van Vught, 1991).

Il mondo esterno - sotto forma di diversi soggetti collettivi che assumono le caratteristiche di utilizzatori e sostenitori (stakeholders) - esercita dunque un'influenza crescente sulle università e tende a costringerle a scelte contraddittorie. Le richieste di fornire un'istruzione dotata di senso (cioè utilizzabile socialmente e professionalmente), di essere un'istituzione che opera in modo equo se non ugualitario e di essere largamente accessibile richiedono di perseguire contemporaneamente finalità di efficacia (effectiveness, utilità concreta degli studi), di accessibilità e di controllo dei costi. La crescente inadeguatezza delle risorse destinate alle attività accademiche accentua la difficoltà intrinseca di perseguire congiuntamente le tre finalità: perseguendone due si finisce per penalizzare la terza (v. Hearn e Holdsworth, 2002).

In presenza di questo insieme di contraddizioni, la possibilità di risolvere tutta una serie di ambiguità e di compromessi passa attraverso l'elaborazione e l'attuazione concreta e autonoma di nuove modalità di funzionamento dei sistemi di istruzione superiore. Da diverse parti si è osservato il ritardo dell'università nel rispondere al mutamento della società e si è messo in luce come il tradizionale accordo tra università e società si sia rotto senza che sia stato sostituito da uno nuovo.

Per procedere in questa direzione il mondo universitario dovrebbe aprire una riflessione circa le proprie finalità e, a un tempo, avviarsi a introdurre alcune trasformazioni cruciali del proprio modo di strutturarsi e di funzionare. Le finalità dell'università moderna - come si è visto - sono anch'esse contraddittorie, se è vero che l'università deve essere luogo di formazione per le intelligenze più brillanti, ma anche sede dell'educazione permanente, tendenzialmente per tutti; se deve puntare alla diffusione e al rafforzamento dell'intelligenza critica, ma anche sostenere i valori del successo individuale attraverso la competizione (nel mercato). Se insomma deve reagire in modo flessibile ai bisogni di una società frammentata (v. Scott, 1997; v. Habermas, 1968; v. Barnett, 1990 e 2000).

Sul piano delle trasformazioni interne, da un lato dovranno essere rivisti i modi di gestione delle istituzioni e dall'altro le forme di carriera, premiando anche le attività non rilevanti dal lato strettamente scientifico. Appare altresì cruciale una nuova considerazione dell'importanza delle trasformazioni dell'offerta formativa in termini di adeguamento alle nuove esigenze di acquisizione di conoscenza. Sotto quest'ultimo profilo si segnala, in diversi sistemi di istruzione superiore, la necessità di rivedere i curricoli dei primi livelli in relazione alla crescente diffusione dell'educazione permanente e la necessità di rendere quest'ultima accessibile al maggior numero possibile di persone (v. Coffield e Williamson, 1997; v. Robertson, 1997).

Per introdurre queste trasformazioni l'università deve però aprirsi al mondo esterno per capire le necessità dei diversi gruppi di utilizzatori-clienti e sviluppare forti legami con i maggiori centri di interessi e i più rilevanti gruppi organizzati. A un tempo, deve informare meglio la società dell'importanza dei fini sociali ed economici dell'istruzione superiore.

Risulta evidente come l'assunzione di questo genere di ruoli attivi da parte dell'università richieda il rafforzamento dell'identità dei singoli atenei, in quanto istituzioni in grado di dialogare con il mondo esterno senza venire travolte dal potere contrattuale dei propri interlocutori. Tale esigenza appare ineludibile se è vero che il modello dello sviluppo economico basato sull'uso della scienza tende a modificarsi e a passare dal 'processo lineare' - che muoveva dalla ricerca di base alla ricerca applicata e allo sviluppo del prodotto - al 'processo a spirale', che lega scienza e tecnologia e prevede una 'triplice ellisse' che intreccia università, mondo industriale e governo (a livello locale, nazionale e internazionale); e se è vero altresì che questo processo non tende a stabilizzarsi ma si configura come una transizione senza fine (v. Etzkowitz e Leydesdorff, 1998).

Inoltre, a complicare ulteriormente il quadro, va segnalato che il processo di transizione senza fine - o comunque di cambiamento rapido e difficilmente anticipabile - che interessa l'istruzione superiore verrà prevedibilmente acuito dalla diffusione delle nuove tecnologie dell'informazione. Come appare chiaro nel caso degli Stati Uniti, l'applicazione della IT (Information Technology) accelera la diffusione delle forme di educazione permanente a livello universitario, facendo prevedere il passaggio dall'università di massa all'accesso universale all'istruzione superiore (v. Trow, 1999). Gli interrogativi che si pongono per i sistemi di istruzione superiore in genere - e per quelli europei in particolare - sono molteplici, dal momento che in essi non si è ancora completato il processo di passaggio dal modello dell'università di élite a quello dell'università di massa.

Se è probabile che le responsabilità e i compiti formativi e di ricerca saranno fatalmente divisi all'interno di una rete di istituzioni della quale l'università rappresenterà uno dei nodi centrali, rimarrà tuttavia ineludibile il tema dell'autonomia dell'istituzione universitaria e collateralmente quello della gestione del potere al suo interno (v. Trow, 1993; v. Butera, 2000).

In un nota conferenza tenuta quarant'anni fa, sir Eric Ashby (v., 1962) sosteneva che la peculiarità dell'università, tra le diverse istituzioni sociali, consisteva nell'avere due tipi di lealtà. Da un lato, infatti, essa doveva servire la società; ma dall'altro lato, non potendola servire senza conservare alcuni privilegi, doveva osservare una seconda lealtà nei riguardi delle altre università a livello internazionale. "L'università è nello Stato ma deve conservare una individualità al di fuori dello Stato". L'università ha da sempre rivendicato il diritto di decidere al proprio interno chi deve insegnare, cosa deve essere insegnato, come deve essere insegnato e chi deve ricevere l'insegnamento. E questo diritto - continuava Ashby - non deriva dal potere politico, ma dalla convinzione generale che sia necessario. Ed è necessario perché le università sono utili alla società solo se sono in grado di produrre 'idee di qualità', ma il personale dell'università non può produrre idee di qualità lavorando secondo modalità stabilite da chi può aver paura delle idee. Se per queste ragioni Ashby sosteneva la necessità dell'autonomia, tuttavia considerava che la società non avrebbe potuto sopravvivere se non adeguandosi ai tempi e, dunque, per corrispondere alle necessità dei nuovi tempi anche l'università avrebbe dovuto relazionarsi al proprio contesto ed essere di grande utilità per la propria società (mantenendo senza compromessi i suoi privilegi e i suoi standard). A distanza di alcuni decenni, questa difficile combinazione tra autonomia dell'università e utilizzazione delle produzioni dell'università da parte della società resta un nodo fondamentale, se non centrale, nel dibattito che costantemente si rinnova attorno all'istruzione superiore nella letteratura scientifica internazionale.

10. Principali caratteristiche di alcuni sistemi di istruzione superiore

Vediamo infine, per concludere la nostra analisi, le principali caratteristiche dei sistemi di istruzione superiore di alcuni grandi paesi europei.

a) Germania

Il sistema di istruzione tedesco è caratterizzato da cinque aspetti particolari: il periodo di formazione primario e secondario dura tredici anni per chi vuole accedere all'università e dodici per chi intende iscriversi al percorso post-secondario tecnico-professionale delle Fachhochschulen; la formazione universitaria consiste in linea di principio in un primo livello della durata di quattro anni, che abilita il passaggio al dottorato di ricerca o all'inserimento nel mercato del lavoro. Tuttavia negli ultimi anni si è avviato un processo di diversificazione, che ha visto l'introduzione di un livello iniziale della durata di due o tre anni dapprima in via sperimentale presso alcune università e dal 1998 in via ufficiale; a metà degli anni ottanta sono state introdotte le scuole di dottorato (va ricordato che in Germania tradizionalmente il dottorato è svolto su basi individuali); si assume che tutti siano studenti a tempo pieno e manca una tradizione di formazione a distanza, salvo il caso dell'Università per corrispondenza di Hagen; viene lasciata un'ampia libertà agli studenti quanto alla scelta delle discipline, dei corsi e delle specializzazioni da seguire.

Il sistema di istruzione superiore si è sviluppato in modo significativo negli anni settanta e ottanta; quindi l'incremento relativo degli studenti si è ridotto, ma la percentuale della popolazione studentesca continua a crescere raggiungendo ormai poco meno di 1,9 milioni di unità. Di queste circa 450.000 (pari al 24%) appartengono al canale tecnico-professionale delle Fachhochschulen. Il 23% della popolazione tra i 25 e i 64 anni ha raggiunto un titolo di formazione terziaria (di questa il 10% è da attribuire alla formazione professionale). Alla fine degli anni novanta esistevano in Germania complessivamente 90 università (comprendenti le università tecnologiche), 1 Gesamthochschule-Universität, 46 accademie artistiche e 176 Fachhochschulen.

L'aspetto più caratteristico dell'istruzione terziaria in Germania è naturalmente quello di essere un sistema binario. In realtà, sino alla metà degli anni sessanta il sistema era unico e rappresentato dalla sola università. Si diffuse peraltro rapidamente la convinzione che le università tradizionali non fossero adatte ad assorbire il crescente numero di studenti. D'altro canto, il costo dell'istruzione superiore non poteva seguire il crescere dell'utenza e le professionalità emergenti nel mercato del lavoro non sembravano trovare risposta nell'offerta formativa delle università. Si decise così, nel 1968, di creare le Fachhochschulen, inizialmente annesse alle scuole di ingegneria e alle scuole professionali di economia e scienze sociali. La prima Fachhochschule fu inaugurata nel 1971.

Nello stesso periodo si sviluppò nel paese l'idea simmetrica di un sistema universitario unificato attraverso la costituzione delle Gesamthochschulen, che dovevano sorgere dalla fusione o dalla cooperazione tra università e scuole universitarie. L'idea era quella di assicurare una forte correlazione tra la formazione universitaria fondata sulla ricerca scientifica e la formazione professionale delle scuole universitarie, facilitando il reciproco travaso di studenti e riducendo i costi dell'intero sistema. Il progetto, peraltro, non ebbe il successo che i suoi promotori speravano, al punto che vennero costituite solo 11 Gesamthochschulen. Le principali ragioni dell'insuccesso vennero attribuite alle preferenze degli studenti per i più lunghi percorsi universitari rispetto a quelli professionalizzanti offerti dalle stesse istituzioni e, in particolare, alle resistenze del personale docente dei percorsi professionalizzanti che ricevevano un trattamento salariale peggiore e complessivamente godevano di condizioni di lavoro e di status sociale nettamente inferiori a quelli dei docenti dei percorsi universitari. Nel 1985 fu quindi deciso di introdurre un sistema binario basato su due distinti settori delle università e delle Fachhochschulen, ridefinite come pure scuole professionali con pochissimi contatti con le università.

Va segnalato come il sistema dell'istruzione superiore abbia dovuto affrontare negli anni novanta il problema della fusione tra le due Germanie e dunque dei due sistemi di istruzione, risoltosi in sostanza con l'allargamento a est del modello occidentale. Negli ultimi anni, in particolare con una normativa del 1998, una serie di modifiche settoriali ha introdotto la valutazione delle attività didattiche e di ricerca, la ripartizione dei fondi pubblici sulla base della valutazione delle performances delle istituzioni, il sistema dei crediti e la distinzione dei titoli di studio in tre livelli, separando il primo (bachelor) dal secondo (master).

b) Gran Bretagna

Il sistema di istruzione superiore in Gran Bretagna si è sviluppato relativamente tardi rispetto ad altri paesi europei, ma ha raggiunto ormai una dimensione considerevole e consta in Inghilterra di circa 180 istituzioni finanziate dalle risorse pubbliche (con un sola università privata: la Buckingham University). Di queste circa 50 sono colleges e 27 sono istituzioni indipendenti e confederate della University of London. In Scozia vi sono 13 università e 8 colleges, in Galles 7 università e 8 colleges.

Gli studenti iscritti al primo livello (undergraduate) sono circa 1,5 milioni, mentre quelli iscritti al secondo livello (graduate) sono circa 376.000 (di cui 205.000 in regime di part time). In complesso risultano inseriti nel sistema quasi 1,9 milioni di studenti, di cui oltre 600.000 in regime di part time.

Nella fascia di età 25-64 anni, il 26% dei cittadini è in possesso di un titolo di studio di livello universitario; l'8% di costoro ha un titolo nel settore professionalizzante.

Il sistema inglese si è caratterizzato per un lento e progressivo adeguamento al crescere della domanda sociale di istruzione superiore. In un primo momento si è provveduto attraverso la trasformazione di un certo numero di university colleges in università, la creazione di 'Collegi di alta tecnologia' (Colleges of Advanced Technology, CATs) e l'istituzione di alcune nuove università. Tali misure apparvero presto insufficienti e la Commissione Robbins produsse un Rapporto (nel 1963) che suggeriva di rendere possibile l'accesso all'istruzione universitaria a qualunque giovane lo desiderasse. Tuttavia, non fu aumentato in modo sostanziale il numero delle università, bensì venne creato un canale parallelo professionalizzante costituito dai politecnici, molti dei quali derivarono dagli esistenti CATs (mentre altri furono creati ex novo). L'intenzione del legislatore era quella di offrire a un'utenza diversificata l'alternativa tra un percorso tradizionale, comprendente la ricerca di base nelle università, e un percorso più direttamente professionalizzante (nei politecnici), nel quale si prevedeva un largo spazio per gli studi part time al fine di favorire la combinazione di lavoro e studio.

I politecnici hanno incontrato un largo successo, ma il sistema binario non ha resistito a lungo a causa della tendenza del corpo docente degli stessi politecnici a equipararsi alle università, recuperando le attività di ricerca e rivendicando uguale trattamento economico e prestigio socio-professionale. Nello stesso tempo, molte università hanno ritenuto di dover avvicinare i propri corsi alle esigenze del mondo professionale, introducendo il sistema dei moduli e reclutando studenti part time. Le differenze tra università e politecnici si sono gradualmente ridotte e nel 1992 questi ultimi sono stati equiparati alle prime. Si è dunque venuto configurando un sistema unico, ma fortemente gerarchizzato e competitivo. In questa logica gli ex politecnici hanno incontrato serie difficoltà nel reperimento dei fondi, specie per le attività di ricerca. Una differenza ben visibile permane tra vecchie e nuove università (gli ex politecnici), sia nel numero degli studenti part time, sia in quello dei programmi di studio specialistici (post-graduate). Tutte le istituzioni universitarie offrono corsi di primo livello che durano tre anni, salvo i corsi per insegnanti e alcuni di scienze e tecnologia che hanno la durata di quattro anni, mentre in Scozia il primo livello dura normalmente quattro anni.

Un caso a parte è rappresentato dai corsi della Open University, che sono tutti organizzati in base al modello dell'insegnamento a distanza e per studenti (per lo più lavoratori adulti) con regime di tempo parziale. Al momento sono iscritti alla Open University circa 200.000 studenti. A essa si accede senza particolari requisiti, mentre per le altre istituzioni universitarie è previsto il superamento di un esame distinto per singole discipline (l'advanced level del General Certificate of Education, GCE) che si ottiene al termine delle scuole secondarie superiori all'età di 17-18 anni. Le diverse università stabiliscono poi il livello minimo del GCE richiesto per l'ammissione. Un altro certificato di secondaria superiore che consente l'ammissione ai corsi universitari è quello, di stampo professionalizzante, rilasciato dal Business and Technician Education Council (BTEC).

In linea di principio non vi sono limiti ufficiali al numero delle ammissioni nelle singole università, ma indirettamente il meccanismo del finanziamento può svolgere una funzione di incentivazione/freno del reclutamento nei diversi settori disciplinari. Al riguardo occorre ricordare che il sistema di valutazione delle prestazioni delle università - tradizionalmente adibito al sostegno degli atenei in crisi finanziaria - si è andato rapidamente estendendo e perfezionando grazie all'istituzione del Teaching Quality Assessment promosso dal Higher Education Funding Council di nomina governativa (compito ora attribuito alla Quality Assurance Agency for Higher Education).

Tra le innovazioni più recenti si devono ricordare l'attenzione alla formazione degli insegnanti universitari, l'introduzione di tasse universitarie (per tradizione estranee al sistema inglese) e la riduzione delle borse di studio in favore dei prestiti d'onore, la diffusione di percorsi e titoli di studio che sorgono dalla combinazione di diversi percorsi disciplinari (come ingegneria e direzione aziendale), l'importanza attribuita al sistema dei crediti al fine di favorire la mobilità degli studenti e, in generale, la crescente attenzione del mondo universitario nei riguardi delle necessità professionali espresse dal mondo economico, con conseguente tendenza a una maggiore professionalizzazione dei curricoli.

c) Francia

Il sistema di istruzione superiore francese si è da sempre segnalato per la sua frammentazione e stratificazione. La principale dicotomia è stata tradizionalmente quella tra università e Grandes Écoles, cui si sono aggiunti gli istituti professionali, che comprendono sia le sezioni dei licei (Sections de Techniciens Supérieurs, STS), sorti negli anni cinquanta, sia gli Instituts Universitaires de Technologie (IUT) fondati nel 1966, sia infine gli Instituts Universitaires de Formation des Maîtres (IUFM).

La struttura del sistema prevede un primo ciclo universitario di durata biennale di formazione generale e pluridisciplinare che termina con il conseguimento del diploma DEUG (Diplôme d'Études Universitaires Générales). A esso si aggiunge in parallelo il biennio orientato alla formazione tecnico-scientifica che porta al DEUST (Diplôme d'Études Universitaires Scientifiques et Techniques). Ambedue questi primi cicli sono propedeutici al conseguimento delle lauree attraverso un percorso diviso in tre stadi percorribili in sequenza e che consentono di arrivare, rispettivamente, ai titoli di Licence, Maîtrise e Doctorat. In parallelo e alternativamente si possono frequentare le Classes Préparatoires aux Grandes Écoles (CPGE) con durata biennale, che rappresentano il passaggio obbligato per accedere appunto alle Grandes Écoles. Infine esistono come istituzioni autonome le scuole di formazione del personale paramedico e di assistenza sociale.

Nel complesso, il sistema si struttura in 84 università nelle quali si iscrivono almeno i due terzi del totale degli studenti del sistema terziario francese, che oggi supera i 2,2 milioni di iscritti. La classe di età 25-64 annovera il 23% di possessori di una laurea (di cui l'11% con una laurea professionalizzante).

Va detto che tradizionalmente il sistema francese si è caratterizzato per un ruolo di coordinamento e controllo da parte dello Stato centrale e per una struttura non tanto fondata sugli atenei quanto sulle Unités de Formation et de Recherche (UFR), che hanno rappresentato le forme di aggregazione e di organizzazione di base, con una connotazione disciplinare sia per la didattica sia per la ricerca scientifica. Nel 1988 sono stati creati i 'contratti quadriennali di ricerca' da stabilire tra governo e singole università, con i quali lo Stato ha cercato di ridurre lo strapotere disciplinare degli atenei e di aiutarne i magri bilanci. L'operazione si iscrive nel quadro del perenne conflitto tra lo Stato centrale, le istituzioni universitarie e le corporazioni accademiche. Seguendo una tendenza diffusa che comprende la trasformazione da uno Stato 'controllore' a uno Stato 'regolatore' - e altresì la tendenza verso l'università manageriale, più attenta alle necessità del mondo economico e del proprio territorio - in Francia si è venuta diffondendo la valutazione delle attività universitarie (il 'Comitato nazionale di valutazione' è stato creato dalla legge Savary del 1984).

Negli ultimi quindici anni, in sequenza, si sono promulgate norme per l'orientamento e il tutorato degli studenti, per il coinvolgimento delle autorità locali nelle attività di insegnamento, specie con riferimento alla formazione professionale, per la ristrutturazione dei bilanci delle istituzioni di istruzione superiore, basandoli più sulle prestazioni e sulla qualità delle politiche accademiche che sulle entità amministrative. L'insieme di queste normative conferma l'esistenza - anche in Francia - di un processo di transizione da un sistema fortemente centralizzato, in cui lo Stato ha esercitato un forte potere di tutela sulle università, a forme di maggiore autonomia e decentramento, ma anche di tendenziale competizione tra atenei, sotto la spinta delle richieste della società per più stretti e operativi rapporti con le università. Al momento, peraltro, non sembra si possa ancora parlare di 'modello americano' e di predominio delle logiche di mercato sul sistema di istruzione superiore.

d) Spagna

Il sistema di istruzione superiore in Spagna coincide di fatto con quello universitario. Le stesse forme di istruzione professionale superiore - relative alla formazione degli insegnanti, degli assistenti sociali, del personale paramedico e simili - sono comprese nelle Escuelas universitarias. Alcune forme di istruzione professionale post-secondaria cominciano tuttavia a svilupparsi al di fuori del sistema.

Il sistema è stato profondamente ristrutturato nel 1983 con la Ley orgánica de reforma universitária. Grazie alla nuova normativa le università, un tempo strettamente controllate dal centro, sono diventate enti autonomi, mentre la responsabilità di controllo è passata dal governo nazionale alle autorità pubbliche delle regioni autonome. Il processo di trasferimento dei poteri dal centro alla periferia ha richiesto un periodo di 13 anni e il nuovo sistema è entrato a regime nel 1997.

Vi sono 44 università pubbliche e 10 private (sei di queste sono promosse dalla Chiesa Cattolica). Vanno aggiunte due Open Universities, una pubblica e l'altra formalmente privata anche se promossa dal governo regionale della Catalogna. Buona parte delle università è stata creata negli ultimi 15 anni e solo 12 esistono da più di 30 anni. Tra le università pubbliche vi sono tre Politecnici che comprendono la sola facoltà di ingegneria (i Politécnicas di Madrid, Catalogna e Valencia).

In genere le università sono di consistenti dimensioni e in media ospitano oltre 30.000 studenti. Nelle università private risulta iscritto circa il 5% degli studenti. Il numero complessivo degli studenti è aumentato molto vistosamente a partire dagli anni sessanta, con un ritmo che negli ultimi tempi sembra essersi stabilizzato e che potrebbe lentamente invertirsi in ragione del calo demografico. Gli iscritti erano 151.000 nel 1950 e hanno superato il totale di 1,5 milioni già nel 1995, con un tasso di frequenza per la classe di età 18-23 che è salito dal 20% al 25,15% nel 2003 (ancorché in presenza di un leggero calo nei valori assoluti). Nella classe di età 25-64 il 24% dei cittadini risulta aver raggiunto un titolo di studio universitario. Di questi il 7% ha ottenuto un titolo in corsi professionalizzanti.

La struttura del sistema universitario comprende tre percorsi: i cicli brevi, maggiormente professionalizzanti, della durata di tre anni (con la sola eccezione di alcuni programmi di ingegneria che durano un anno in più); i cicli lunghi tradizionali, che durano 4, 5 o 6 anni a seconda delle aree disciplinari; i programmi di dottorato, che sono seguiti quasi solo da chi è interessato alla carriera universitaria e che richiedono due anni di preparazione dopo il ciclo lungo, oltre alla stesura di una tesi di ricerca.

Dopo aver completato la scuola secondaria superiore gli studenti devono superare un esame di ammissione all'università se intendono frequentare corsi lunghi. Peraltro, l'accesso all'università è relativamente facile, né vi sono limiti alla permanenza nel sistema. Ne deriva che la permanenza media eccede in modo considerevole la durata formale dei programmi (per i percorsi lunghi la durata media supera i 7 anni e tocca i 5 per quelli brevi), mentre il tasso di abbandoni risulta notevolmente alto e viene stimato al 38,9% per i percorsi lunghi e al 41,3% per quelli brevi.

Tradizionalmente, l'organizzazione dei corsi universitari in Spagna era rigidamente prefissata e le scelte lasciate agli studenti pressoché nulle. La riforma del 1983 ha introdotto maggiori gradi di flessibilità attraverso la creazione del sistema dei crediti e l'introduzione dei semestri nell'anno accademico. Inoltre, i programmi sono stati in parte modificati, riducendo la componente teorica a favore di tematiche maggiormente legate alla verifica empirica.

La realizzazione del processo di riforma ha mirato al miglioramento del livello di efficienza del sistema, anche nella prospettiva di un incremento delle risorse finanziarie di cui si avverte la crescente necessità. Infatti, la spesa complessiva per l'istruzione superiore è attestata attorno all'1% del PIL (Prodotto Interno Lordo) e, sebbene sia cresciuta nettamente rispetto ai periodi precedenti, risulta ancora inferiore alla media dei paesi più sviluppati. La partecipazione privata al finanziamento si aggira attorno allo 0,2% del PIL e deriva prevalentemente dalle tasse degli studenti (0,15%), dato che il mondo imprenditoriale non appare sufficientemente sensibile nei confronti del sistema universitario. Il sistema di finanziamento avviene attraverso l'attribuzione di una somma globale da parte dei governi regionali alle singole università, che ne possono disporre liberamente. Tuttavia, alcune voci centrali dei bilanci sono definite dall'esterno per quanto riguarda sia le entrate (tasse degli studenti) che le uscite (spese per il personale).

Nel 2001 è stata presentata una nuova legge complessiva del sistema universitario, la Ley orgánica de universidades, che ha suscitato un vivace dibattito nel paese. Le intenzioni dichiarate della riforma sono di migliorare la produttività del sistema universitario, di renderlo maggiormente flessibile e aperto alle nuove esigenze della società e del mondo economico, in relazione alle continue trasformazioni che sono riassunte nel termine 'globalizzazione' e alla progressiva creazione di un mercato europeo. Sono previsti nuovi organismi di gestione delle singole università come il Consejo de gobierno (presieduto dal rettore) e il Consejo de dirección, che hanno lo scopo di rendere più efficiente l'attività interna dell'università; mentre nei confronti del mondo esterno opererà il Consejo social, con compiti di mediazione tra università e società nonché di supervisione delle iniziative economiche dell'ateneo. Il Consejo de coordinación universitaria avrà lo scopo di amalgamare e rendere omogenea l'offerta formativa globale nel paese, mentre l'Agencia nacional de evaluación y acreditación opererà per l'innalzamento delle performances degli atenei. Quanto al personale docente, si prevedono incentivi a premio dell'impegno dei singoli e il ricorso al personale docente esterno su base contrattuale temporanea, il cui numero in ciascuna università potrà raggiungere il 49% del totale. Sono infine previste iniziative tese a favorire la creazione di fondazioni universitarie al fine di incrementare le risorse economiche e finanziarie degli atenei.

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