UNIVERSITÀ

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

UNIVERSITÀ

Aldo Lo Schiavo

(XXXIV, p. 722; App. IV, III, p. 730)

Superato quasi dovunque l'antico modello elitario degli studi universitari, consolidatisi i fattori di trasformazione avviati, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, nella vita economica e sociale e, di riflesso, nell'organizzazione degli studi, l'istruzione superiore ha assunto nel corso dell'ultimo ventennio caratteristiche in una certa misura nuove, comunque più ampie e articolate, sia pure in un quadro di complessità crescente, ancora aperto nelle sue prospettive e con differenze tuttora di rilievo nelle soluzioni adottate dai singoli paesi.

L'istruzione superiore nei paesi europei ed extraeuropei. - L'istruzione superiore si configura ormai con sempre maggiore chiarezza come un terzo livello d'istruzione, che fa seguito a quelli dell'istruzione primaria e secondaria, e ne è quasi il naturale sviluppo e completamento. Legittimano quest'opinione la crescente espansione del numero di fruitori di tale livello di studi e la diffusa convinzione, che l'accompagna, della necessità o quanto meno dell'opportunità, sotto il profilo sociale ed economico, di tale percorso formativo per le giovani generazioni. Nel 1991, per ogni cento persone della corrispondente fascia di età, il tasso di accesso all'insegnamento superiore era del 64,8% negli Stati Uniti, del 53,1% in Giappone, del 51,8% in Australia. In Europa si approssimano a tali valori il Belgio col 48,4%, la Svezia col 47,1%, la Francia col 44,4%, la Germania col 42,6%. Si tratta di paesi i cui ordinamenti prevedono in larga misura forme d'istruzione superiore non di tipo universitario. Anche per tale ragione non conviene più usare, come per il passato, l'espressione ''istruzione universitaria'', bensì quella di ''istruzione superiore'', per indicare l'intero ventaglio delle offerte formative successive alla scuola secondaria.

Proprio la diversificazione delle strutture dell'istruzione superiore costituisce la principale trasformazione in atto di tale livello di studi. In alcuni paesi, il graduale sviluppo di istituzioni formative non universitarie si è realizzato non per iniziativa del tradizionale mondo accademico, e dando luogo a un modello binario d'istruzione superiore.

In Europa, sistemi binari ormai consolidati sono quelli del Regno Unito, contrassegnato dalla dicotomia u.-politecnici/colleges, e della Germania, caratterizzato dalla dicotomia u./Fachhochschulen (a cui si dovrebbero aggiungere le Berufsakademien e le Wirtschaftakademien, presenti soltanto in alcuni Länder). Altri paesi (Belgio, Olanda, Grecia, Irlanda, Portogallo) adottano in sostanza lo stesso modello, che in Danimarca e Francia appare più frammentario. In Francia, in particolare, gli Instituts universitaires de technologie e, all'interno dei licei, le Sections de techniciens supérieurs si sono sviluppati accanto alle tradizionali u. e alle Grandes Ecoles. Un diverso modello, che si può definire d'istruzione superiore integrata (comprehensive), è stato più di recente tentato in Spagna, con la legge generale dell'istruzione del 1970, e in Svezia, con la riforma del 1977; la rete di scuole tecniche, colleges e altre forme d'istruzione postsecondaria, è stata incorporata nel sistema universitario, che viene così a offrire l'intera gamma delle possibilità di studio, realizzabili sia in corsi di ciclo breve sia in corsi di ciclo lungo. Altri paesi ancora, come Italia, Austria, ex Cecoslovacchia, hanno avviato da poco o stanno tentando di avviare procedure di diversificazione delle strutture, in corrispondenza con le tendenze registrate altrove.

Sia nel caso del primo che del secondo modello, i corsi d'istruzione superiore non accademica si differenziano da quelli di tipo universitario per alcune caratteristiche comuni o più ricorrenti. I corsi del primo tipo, infatti, hanno una durata più breve (per lo più di due anni, qualche volta di tre); la didattica è più diretta, con orari intensivi e scarsa autonomia accordata agli studenti; i curricoli hanno una componente pratico-applicativa maggiore, spesso prevedono stages o esperienze di lavoro extrascolastiche, mentre l'attività di ricerca è modesta o del tutto assente; gli insegnanti hanno qualificazioni diverse e spesso fra di essi figurano esperti professionali o tecnici di imprese; i diplomi sono di minore peso rispetto a quelli universitari, ma risultano in genere meglio corrispondenti alle esigenze del mondo del lavoro. In sostanza, con detti corsi si vuole corrispondere alla domanda-offerta di un'istruzione più avanzata di quella secondaria in settori tecnico-professionali per i quali non si ritiene necessaria una formazione scientifica di livello più avanzato. Tali corsi, quindi, configurano nella maggior parte dei casi nuove qualifiche professionali di qualità medio-alta. Inoltre, l'iter formativo previsto non costituisce, in genere, una tappa degli studi accademici.

Alcuni dati quantitativi possono servire a inquadrare la portata assunta da detto fenomeno in un gran numero di paesi. Coloro che usufruiscono delle forme di ciclo breve rappresentano in media da un terzo alla metà dell'insieme dei fruitori del sistema allargato d'istruzione superiore. Rispetto alla fascia di età corrispondente, essi rappresentano il 30% circa degli ''scolarizzati'' in Svezia, Finlandia, Giappone; il 25% circa negli Stati Uniti, in Olanda e in Belgio; fra il 10 e il 20% in Norvegia, Portogallo, Australia, Irlanda, Germania.

Sull'altro fronte, quello dei tradizionali studi universitari, l'impianto accademico non ha subito trasformazioni radicali. Tuttavia le strutture e la stessa attività formativa delle u. hanno risentito e dell'accresciuto numero degli studenti e della necessità di tener conto delle nuove esigenze espresse dal mondo dell'economia e delle professioni, nonché dell'organizzazione della ricerca scientifica e tecnologica. Di fronte alla crescita della domanda universitaria si è provveduto, da un lato, a creare nuove sedi universitarie, a decongestionare quelle nel frattempo divenute troppo grandi, a incrementare dovunque il personale docente nonché l'offerta di attrezzature e servizi, a rilanciare le forme di assistenza e di diritto allo studio; dall'altro lato, si è cercato d'introdurre e di meglio definire le modalità, molto diverse, di regolamentazione o programmazione degli accessi agli studi superiori, anche in ragione dell'opportunità di mantenere un equilibrato rapporto fra le strutture disponibili e l'efficacia dell'attività formativa. Un limite allo sviluppo quantitativo delle strutture universitarie è rappresentato dalla disponibilità delle risorse finanziarie, negli ultimi anni divenute più esigue a causa delle restrizioni imposte dalle politiche di contenimento della spesa pubblica (si ricordino, a questo riguardo, i contrasti verificatisi nel Regno Unito tra il governo presieduto da M. Thatcher e il mondo accademico). Anche per tale motivo si è preferito favorire un po' dovunque il settore d'istruzione superiore non universitaria, che risulta meno costoso nella misura in cui esso pratica meno ricerca, adotta stipendi più bassi per i docenti, riceve maggiori sostegni dalle imprese.

Lo stesso settore universitario, all'interno dei singoli paesi, presenta varietà di situazioni che, pur difficilmente ponderabili, vanno tuttavia tenute presenti. In effetti, non tutte le sedi di uno stesso territorio nazionale hanno le medesime caratteristiche o assicurano un ''prodotto'' uniforme. Queste differenze sono dovute non solo al prestigio accademico acquisito da alcune u., di antica o anche relativamente recente fondazione, rispetto ad altre u. dello stesso paese, ma anche alle politiche orientate a creare dei ''poli di eccellenza'' per sostenere la competizione internazionale, con particolare riferimento alla ricerca scientifica e tecnologica e alla formazione di quadri dirigenti superiori nell'amministrazione pubblica e nella gestione delle imprese. In tali casi si è andato accentuando il peso dei criteri selettivi di ammissione degli studenti, così come più forte è divenuto il richiamo che quelle sedi esercitano sui docenti di elevato profilo scientifico. La combinazione di questi due fattori, a cui spesso si aggiunge quello della maggiore consistenza dei mezzi finanziari a disposizione, favorisce l'ulteriore processo di differenziazione di tali sedi nei confronti delle altre. D'altra parte, la stessa ricerca scientifica, specie quella avanzata, richiede competenze, strutture e finanziamenti di tale consistenza che è impensabile possano trovarsi disseminati in tutte le sedi, oggi dovunque più numerose che alcuni decenni orsono. Le u. meno favorite, quindi, svolgono di fatto un ruolo di natura precipuamente formativa, di non trascurabile rilievo sociale, sia in ordine alle professioni tradizionali diffuse sia con riguardo alla preparazione di quadri direttivi intermedi e di tecnici qualificati nei settori produttivi e nei servizi. Per quanto attiene più specificamente alla ricerca scientifica e tecnologica va tenuto presente che questa, oggi ancor più che in passato, non si esaurisce all'interno delle istituzioni universitarie. In parte la ricerca di base, ancor più quella applicata, si svolge in misura consistente presso enti di ricerca privati e pubblici e altresì presso istituti internazionali, che assorbono finanziamenti di più paesi. Tali enti e istituzioni, peraltro, oltre a servirsi di proprie strutture e proprio personale, si avvalgono anche di strutture e di competenze universitarie o comunque stabiliscono rapporti di collaborazione con il mondo della ricerca universitaria.

In merito all'accesso all'istruzione superiore si riscontrano differenze notevoli anche all'interno dell'area europea, differenze dovute e alle tradizioni culturali e accademiche dei singoli paesi e agli orientamenti di politica formativa emersi negli ultimi decenni. La percentuale di passaggio dalla scuola secondaria all'istruzione superiore è piuttosto elevata in paesi, come l'Italia e la Francia, dove gli studi universitari sono aperti a tutti, in assenza di misure che regolino o condizionino l'accesso. Tale percentuale è di livello medio, come in Germania e nel Regno Unito, ovvero piuttosto bassa, come nei paesi del Nord Europa, dove prevalgono sistemi che regolano i flussi d'iscrizione agli studi superiori, o anche nei paesi dell'Europa orientale, dove il numero dei diplomati di scuola secondaria è alquanto contenuto. Anche le modalità e i criteri di selezione variano sensibilmente. In Svezia, l'ammissione si basa su di un sistema di quote fisse: il numero dei posti disponibili nei differenti settori degli studi superiori viene stabilito ogni anno dal Parlamento su proposta del Consiglio nazionale delle università e dei colleges. In Germania, i diplomati di scuola secondaria possono scegliere in teoria il tipo di studi da seguire, ma le istituzioni accademiche possono porre restrizioni quando il numero dei candidati supera le capacità di accoglienza; i candidati, allora, vengono ridistribuiti da un ufficio centrale e possono essere inseriti in una lista di attesa. Nel Regno Unito ogni istituzione è libera di definire propri criteri di ammissione; di solito le u. risultano più selettive dei politecnici e dei colleges. Al contrario, in Francia, l'accesso all'u. non prevede procedure selettive, che invece sono spesso rigorose per l'iscrizione alle scuole non universitarie. In Spagna, a partire dal 1983, sono stati generalizzati gli esami di ammissione agli studi universitari, che in precedenza costituivano un'eccezione.

Al di là delle differenze in atto, emergono alcune linee di tendenza comuni. Se il diploma terminale di scuola secondaria rimane condizione necessaria per accedere all'istruzione superiore, esso tuttavia appare sempre meno sufficiente a garantire l'ingresso all'università. Gli organi politici centrali o, più spesso, le stesse istituzioni universitarie tendono di propria iniziativa a introdurre criteri restrittivi in una qualche forma (esami di ammissione, colloqui d'ingresso, valutazione dei dossiers scolastici, ecc.). Il tipo di studi secondari effettuati, le materie comprese in quel piano di studi, i voti riportati, gli anni di corso di certi insegnamenti e altri analoghi parametri costituiscono elementi di valutazione presi via via in considerazione dalle autorità accademiche e portano di fatto a delle graduatorie di merito che condizionano l'avanzamento negli studi. In alcuni paesi del Nord Europa, peraltro, si cerca di temperare il criterio meritocratico ora accennato con la contemporanea presa in considerazione delle eventuali esperienze di lavoro dei candidati. È probabile che, col diffondersi della diversificazione degli studi superiori sopra richiamata, si verificherà anche una diversificazione (in alcuni casi ciò già avviene) più o meno accentuata dei criteri di ammissione all'uno o all'altro percorso d'istruzione superiore. In ogni caso, il problema del raccordo fra l'istruzione secondaria e quella superiore è destinato ad assumere maggiore rilievo che in passato. Che debba sussistere una certa coerenza contenutistica e metodica fra i due livelli di studi non pare possa essere messo in dubbio senza accrescere i rischi di arretramento nella qualità degli studi dell'istruzione superiore o, viceversa, senza far aumentare il fenomeno della cosiddetta ''mortalità'' universitaria (cioè della quota parte degli iscritti alle u. che abbandonano gli studi prima della laurea). In tale non rassicurante prospettiva si muovono le riforme in senso unitario − con conseguente indebolimento della formazione − della scuola secondaria di secondo grado, riforme in taluni paesi già realizzate e in altri in via di sperimentazione e di cui già si percepiscono i limiti sia con riguardo alla consistenza intrinseca dell'istruzione secondaria sia con riguardo agli ostacoli che molti diplomati incontrano al momento del passaggio al livello successivo degli studi o della prosecuzione di questi studi stessi.

A parte la questione dell'accesso all'u. e agli istituti d'istruzione superiore, si pone il problema dei risultati di questo livello di studi ovvero della produttività del sistema universitario. Un dato in una certa misura connesso con detta produttività è la percentuale di ''speranza di vita'' universitaria degli immatricolati, dato preso in considerazione nel rapporto Education at a glance (1992) del Centre pour la recherche et l'innovation dans l'enseignement dell'OCSE. Con riferimento ai dati del 1988, la sopravvivenza fra i fruitori del sistema universitario risultava superiore al 90% in Svezia e Regno Unito, tra l'80 e il 90% in Giappone, Paesi Bassi e Germania, fra il 50 e il 70% in Danimarca, Svizzera, Australia, Belgio e Francia, fra il 30 e il 50% in Austria e in Italia, paesi questi ultimi dove appunto hanno la massima incidenza i flussi di uscita dall'u. prima della laurea e il fenomeno dei fuori corso.

Il dato più indicativo della produttività del sistema è tuttavia quello del numero dei licenziati, diplomati e laureati rispetto alla popolazione di età corrispondente. I dati del 1991, pubblicati nel successivo rapporto (1993) del predetto Centro dell'OCSE, mettono in evidenza le seguenti percentuali di giovani che conseguono un diploma d'istruzione superiore nei diversi paesi: Canada 33,3%, Norvegia 30,8%, Stati Uniti 29,6%, Australia 24,4%, Giappone 23,7%, Regno Unito 18,4%, Danimarca e Francia circa il 16%, Germania 12,7%, Italia 9,2%, Paesi Bassi 8,3%, Svizzera e Austria circa il 7,5%, Turchia e Ungheria circa il 6,5%. Per la corretta valutazione di questi dati occorrerebbe poter misurare l'incidenza delle differenze dei diversi ordinamenti. Non c'è dubbio che sulla così accentuata divaricazione di dati incidono fenomeni quali la diffusione o meno di corsi non universitari; l'esistenza o meno di criteri di selezione al momento dell'iscrizione; il tipo di organizzazione dei corsi e della loro frequenza; la qualità e l'intensità delle prove di verifica del profitto; le forme di assistenza e di orientamento previste.

Al di là delle situazioni particolari e delle differenze di ordinamento fin qui richiamate, c'è da considerare una dimensione internazionale della politica universitaria che non riguarda soltanto i rapporti culturali o l'interscambio scientifico (nell'ambito di progetti comuni a cui attendono u. e centri di ricerca di diversi paesi), ma che concerne anche le politiche dirette a promuovere l'ulteriore sviluppo dell'istruzione superiore sia nei paesi a economia avanzata sia in quelli che presentano ancora ritardi nella diffusione di tale livello di studi. Diversi appelli formulati negli ultimi tempi da organismi internazionali (OCSE, Banca Mondiale, Unione Europea, UNESCO), oltre a riferirsi come per il passato ai problemi dell'istruzione secondaria e della formazione professionale, prendono in considerazione anche il settore dell'istruzione superiore, sollecitando misure opportune in favore della crescita del numero degli studenti, dell'incremento dei tassi di partecipazione agli studi superiori. Il Memorandum di qualche anno fa della Comunità Europea su questo tema afferma: "Un livello più elevato di accesso all'istruzione superiore può essere ottenuto non solo tramite l'iscrizione di una parte maggiore del gruppo di età interessato, ma anche provvedendo alle necessità di studenti di età più matura, per il tramite dell'istruzione continua e dell'istruzione periodica". Di fronte a tali appelli, peraltro, le autorità nazionali e le istituzioni universitarie dei singoli paesi mostrano una certa cautela dovuta sia a preoccupazioni di carattere generale sia a specifiche circostanze locali. Fra le preoccupazioni comuni, la prima è quella di ordine finanziario, che nell'ultimo decennio si è fatta più avvertita un po' dovunque e particolarmente nelle aree di più accentuata crisi della spesa pubblica. Inoltre, molte delle istituzioni interessate si sono trovate alle prese con problemi di ordine istituzionale e amministrativo, come la definizione dell'autonomia universitaria, il decentramento delle sedi, il riordinamento dei corsi, la lotta contro gli insuccessi, il miglioramento delle procedure di gestione, ecc. Ma si pone anche una domanda, relativa al fenomeno della disoccupazione o del non pieno inserimento professionale di diplomati e laureati, a cui gli organismi internazionali non sanno dare risposta.

Altro capitolo è quello della mobilità internazionale degli studenti. Ad esso sta dedicando particolare impegno la Comunità (ora Unione) Europea nel quadro delle iniziative volte a promuovere la cosiddetta dimensione europea dell'istruzione superiore, anche in conseguenza dell'Atto unico del 1986 che ha previsto dal 1993 la libera circolazione dei cittadini, dei capitali e dei servizi all'interno dell'Unione.

Proprio per incoraggiare la mobilità degli studenti fra i paesi membri, la Commissione di Bruxelles, a partire dal 1987, ha elaborato alcuni programmi (ERASMUS, COMETT, LINGUA) che stanno riscuotendo un buon successo. In assenza di statistiche ufficiali, si calcola che nel 1992 la mobilità ha riguardato circa 200.000 studenti, ovvero il 3% della popolazione studentesca dell'Unione. Un altro progetto, TEMPUS, mira a favorire la cooperazione fra Europa occidentale e orientale, nel cui quadro s'inserisce anche la mobilità di studenti. Significativo, altresì, è lo scambio di studenti laureati, di specializzandi e di ricercatori nell'ambito di istituti di ricerca, di scuole superiori di specializzazione e di istituzioni consimili in paesi diversi. Per diffondere su più larga scala lo scambio di studenti, interessati a compiere esperienze di studio o di specializzazione in un paese straniero, occorre tuttavia superare degli ostacoli che attualmente limitano l'efficacia delle suddette iniziative. Da un lato andrà risolto il problema delle modalità d'iscrizione degli studenti stranieri, stabilendo condizioni per quanto possibile di parità con gli studenti nazionali o quanto meno riservando una quota determinata di iscrizioni a quelli provenienti dall'estero. Dall'altro lato andrà definito un criterio comune per il riconoscimento, da parte delle u. di provenienza, dei periodi di studio compiuti all'estero dagli studenti. È ovvio che l'adozione di tali provvedimenti incontrerà minori ostacoli nella misura in cui gli ordinamenti degli studi e i programmi didattici risulteranno meno difformi nei paesi interessati.

L'istruzione superiore in Italia. - Comparativamente alla situazione riscontrata in molti paesi europei ed extraeuropei, il sistema italiano d'istruzione superiore è stato finora caratterizzato: a) dalla sua quasi totale identificazione con i tradizionali corsi accademici delle u.; b) dalla possibilità senza limiti di accedere a tali corsi da parte dei diplomati della scuola secondaria; c) dal numero esiguo di laureati rispetto al consistente numero di iscritti ai corsi predetti. A seguito delle riforme avviate nel 1990, le prime due caratteristiche stanno modificandosi in linea con le tendenze da tempo affermatesi altrove. Anche il terzo elemento, che rappresenta il maggior limite dell'attuale sistema, dovrebbe subire una correzione in positivo per effetto, almeno in parte, di quelle riforme. Sono poi allo stato progettuale altre iniziative legislative, volte ad arricchire il ventaglio delle opportunità formative a livello d'istruzione superiore non universitaria.

Prima di considerare le innovazioni introdotte negli ultimi anni e le prospettive da esse aperte, conviene esaminare alcuni parametri quantitativi fatti registrare dal sistema universitario italiano nel quindicennio trascorso. La popolazione studentesca è andata progressivamente crescendo, sebbene il numero dei licenziati della scuola secondaria sia rimasto negli anni pressoché costante. Il numero degli studenti universitari iscritti (in corso e fuori corso) è passato da 996.162 unità nel 1977-78 a 1.521.562 nel 1992-93. Nello stesso periodo la percentuale dei fuori corso è aumentata purtroppo in misura consistente, passando dal 23,4% del 1977-78 al 31,4% del 1992-93. Eppure non è stato di poco conto il contemporaneo incremento degli altri parametri del sistema, incremento che avrebbe dovuto offrire agli studenti migliori condizioni di fruibilità dell'offerta formativa. Il personale docente, in particolare, che nel 1977-78 era di 24.195 unità, aveva raggiunto nel 1991-92 il numero complessivo di 56.522 docenti (professori ordinari, associati, ricercatori, professori a contratto, lettori di madre lingua). Il numero delle facoltà è passato, nello stesso periodo, da 288 a 347; i corsi di laurea sono diventati 1229. Anche la distribuzione delle sedi sul territorio nazionale è sensibilmente migliorata nell'ultimo ventennio, con la creazione di nuove u. in capoluoghi di provincia che prima ne erano sprovvisti, e altresì in alcune grandi città, come Roma e Napoli, dove più avvertito è stato il fenomeno del ''gigantismo'' dell'unica u. statale ivi esistente.

La richiesta sociale di risorse umane più qualificate (richiesta, peraltro, non sempre coerente con le capacità di assorbimento di laureati da parte del mercato) sembra trovare risposta positiva nell'aumentato numero di giovani che intraprendono gli studi accademici. In effetti, il tasso d'immatricolazione è passato in un quinquennio (1988/89-1992/93) dal 29,4% a quasi il 40%, mentre il tasso di passaggio dalla scuola secondaria all'u. rimane sostanzialmente statico attorno al 70%. Di fatto, però, per un gran numero di studenti, le prospettive di completamento degli studi accademici continuano a rimanere insoddisfacenti. Le cause di questo fenomeno sono molteplici e, spesso, si sommano fra di loro: modesta presenza di forme di orientamento efficace e di selezione al momento dell'accesso; difficoltà incontrate dagli studenti in alcuni corsi di laurea e scarsa motivazione per gli studi intrapresi; inadeguatezza dei modelli didattici; insufficienza delle politiche di assistenza. Un indice assai significativo della situazione è quello, sopra segnalato, della dilatazione dei tempi di permanenza all'u., ben oltre gli anni di corso previsti dagli ordinamenti.

Nell'anno accademico 1992-93 gli iscritti fuori corso da oltre tre anni costituivano il 32,3% del totale degli iscritti fuori corso nei diversi corsi di laurea. Ma il dato che maggiormente denuncia la modesta produttività del sistema universitario italiano è rappresentato dal numero assai contenuto degli studenti che annualmente conseguono la laurea: nel 1992, i laureati erano il 32,8% degli immatricolati cinque anni prima; in pratica, un laureato ogni tre immatricolati. In termini reali, il numero dei laureati, che nel corso degli anni Settanta si aggirava intorno alle 70.000 unità, ha raggiunto nei primi anni Novanta appena le 90.000 unità. I corsi di laurea con più basso gettito di laureati sono quelli del gruppo politico-sociale (17,9% nel 1992), del gruppo ingegneria (29,0%), del gruppo economico (29,9%), del gruppo giuridico (30,3%). Il confronto internazionale (v. sopra) rende ancor più evidente la portata del fenomeno. Pur considerando le diversità degli ordinamenti in vigore, soprattutto della diversa durata e consistenza qualitativa dei corsi, bisogna riconoscere che il ritardo del nostro paese in questo settore non è di poco conto.

In prospettiva la situazione sembra destinata a migliorare, dato che nel frattempo è stato messo in moto un processo di rinnovamento, sia pure parziale, delle strutture universitarie. L'avvio di tale processo si è reso possibile dopo che è stato sciolto in sede legislativa il nodo dell'assetto giuridico del personale docente, nodo che ha a lungo condizionato ogni altra iniziativa nel campo dell'istruzione superiore. In effetti, dopo una quasi ventennale divisione fra le forze interessate, il Parlamento ha raggiunto nel 1980 un compromesso che ha consentito il varo della legge di delega per il riordinamento della docenza universitaria (l. 21 febbraio 1980 n. 28), seguita nello stesso anno dal decreto attuativo (d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382). Accanto alla fascia dei professori ordinari, è stata introdotta la fascia dei professori associati ed è stato istituito il ruolo dei ricercatori universitari; è stata anche prevista la figura nuova dei ''professori a contratto'', provenienti dal mondo extrauniversitario, per l'attivazione di corsi integrativi di quelli ufficiali. La distinzione di ruolo fra ordinari e associati non è apparsa del tutto chiara e funzionale; e così è sembrato anche per il profilo giuridico-professionale della nuova figura del ricercatore. Un disegno di legge varato dal governo nell'agosto del 1994, ancora in attesa di esame al Parlamento, ha proposto l'abolizione della fascia di associati e la previsione di un differente meccanismo per i concorsi, che abolisce il criterio del sorteggio dei membri per le commissioni giudicatrici, introdotto nel 1979. Peraltro, la proposta di abolizione della figura di associato ha incontrato subito rilievi e critiche nello stesso mondo accademico.

I provvedimenti legislativi del 1980 hanno comunque definito una serie di istituti di non poco rilievo: la scelta fra attività accademica a ''tempo pieno'' o a ''tempo definito'' per i professori e il relativo regime di compatibilità con lo svolgimento di altri incarichi; l'istituzione del dottorato di ricerca quale titolo accademico valutabile nell'ambito della ricerca scientifica; la disciplina delle borse di studio per la frequenza dei corsi di dottorato, di perfezionamento e di specializzazione; l'introduzione dei dipartimenti, intesi come organizzazione di settori di ricerca omogenei e dei relativi insegnamenti anche appartenenti a più facoltà o corsi di laurea, nonché la possibilità d'istituire centri interdipartimentali per la ricerca e per la gestione e utilizzazione di apparati scientifici, tecnici e di servizio; la definizione degli organi degli istituti, dei corsi di laurea e d'indirizzo, delle facoltà; la possibilità di sperimentare nuove modalità dell'attività didattica, di attuare forme diversificate di studio e di frequenza, di stipulare convenzioni con enti culturali, scientifici ed economici. Con successivo atto legislativo (d.P.R. 10 marzo 1982 n. 162) si è provveduto a riordinare, nell'ambito dell'ordinamento universitario, le scuole dirette a fini speciali (per il conseguimento di diplomi non di laurea per l'esercizio di uffici e professioni), le scuole di specializzazione (post-laurea, per l'attribuzione di qualifiche di specializzazione in particolari rami professionali), i corsi di perfezionamento (in relazione a esigenze culturali di approfondimento in determinati settori di studio). I criteri della programmazione universitaria sono stati fissati con la l. 14 agosto 1982 n. 590, che ha altresì istituito nuove u. statali (dell'Abruzzo, del Molise, di Reggio Calabria, di Brescia, di Verona, di Trento). In materia è intervenuta pure la l. 7 agosto 1990 n. 245, con nuove norme sui piani triennali di sviluppo delle u. e l'istituzione di altri organismi universitari (Politecnico di Bari, Seconda u. di Napoli).

Come prima accennato, il processo di riforma e di aggiornamento delle strutture ha trovato ulteriore impulso con l'istituzione del ministero dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica (l. 9 maggio 1989 n. 168), che però ha comportato il distacco amministrativo e politico dell'istruzione superiore dal più generale quadro dell'istruzione pubblica in Italia. Oltre a disciplinare l'organizzazione del ministero e dei relativi organi consultivi, la l. 168 ha dettato disposizioni sull'autonomia delle u. sia con riguardo all'attività didattica e di ricerca, all'organizzazione e funzionamento delle relative strutture, sia con riguardo alla gestione finanziaria e contabile delle istituzioni.

Il disegno di legge attuativo dei principi di autonomia, pur approntato dal governo, non è stato poi varato avendo incontrato notevoli opposizioni, soprattutto da parte degli ambienti studenteschi, i quali temevano che la prevista possibilità di stipulare accordi o convenzioni con il mondo industriale avrebbe finito per favorire alcuni centri universitari a danno di altri. Tuttavia le norme della l. 168 avevano previsto la possibilità per le u. di attuare i principi di autonomia indicati e di deliberare, con una particolare procedura, nuovi statuti, anche in mancanza della legge di attuazione.

Nel quadro delle iniziative avviate dal ministero dell'Università merita di essere segnalata la l. 2 dicembre 1991 n. 390, in materia di diritto allo studio. Questo testo contiene delle opportune linee di coordinamento degli interventi dello stato, delle regioni e delle istituzioni universitarie, diretti a promuovere l'orientamento e la partecipazione agli studi universitari mediante l'erogazione di servizi collettivi (mense, alloggi, trasporti), l'assegnazione di borse di studio, l'esonero dal pagamento di contributi, la concessione di prestiti di onore, nonché mediante l'apertura serale di biblioteche e laboratori, l'attivazione di corsi per studenti lavoratori e di corsi d'insegnamento a distanza, la promozione di attività culturali, sportive e ricreative, ecc.

L'intervento maggiormente innovativo è stato, comunque, la riforma degli ordinamenti didattici universitari, introdotta con la l. 19 novembre 1990 n. 341. In ragione di tale riforma, le u. possono ora rilasciare i seguenti titoli di studio: diploma universitario, a seguito di appositi corsi di durata biennale o triennale relativi a specifiche aree professionali; diploma di laurea, a conclusione dei normali corsi accademici, della durata di quattro, cinque o sei anni, diretti all'acquisizione di saperi scientifici e professionali di livello superiore; diploma di specializzazione, che si consegue, successivamente alla laurea, al termine di corsi di durata non inferiore a due anni presso le scuole di specializzazione; dottorato di ricerca, che si consegue al termine di apposito corso post-laurea da parte di chi ha raggiunto risultati di valore scientifico, accertati da una commissione nazionale. In base allo stesso testo legislativo, gli statuti delle u. possono prevedere anche attività formative gestite dagli studenti, corsi di orientamento, di preparazione agli esami di stato per l'abilitazione all'esercizio delle professioni, corsi di perfezionamento e aggiornamento professionali, attività culturali per adulti e di formazione ricorrente per lavoratori. È stato previsto, altresì, l'istituto del ''tutorato'', finalizzato a orientare e assistere gli studenti lungo il corso degli studi. Per la realizzazione dei propri compiti istituzionali le u. possono avvalersi di collaborazioni esterne e stipulare convenzioni con soggetti privati e pubblici. Possono infine partecipare alla progettazione di attività culturali e formative promosse da terzi.

Le attese maggiori si sono concentrate sull'introduzione del diploma universitario di primo livello, ossia del cosiddetto ''ciclo breve'', in sintonia a quanto previsto dagli altri paesi dell'Unione Europea. È sembrato che l'introduzione del ciclo breve, accanto al ciclo lungo dei corsi accademici, rispondesse all'esigenza di una formazione superiore più snella e flessibile, collegata a forme di professionalità assai diversificate, in parte nuove, che non richiedono tuttavia un'elevata formazione scientifica. Si è pensato, soprattutto, che la nuova via offerta agli studenti consentisse, se non di eliminare, almeno di contenere sensibilmente il fenomeno abnorme dei fuori corso, degli abbandoni e quindi in generale della cosiddetta mortalità universitaria. Sotto questo profilo è ancora presto per poter valutare gli effetti dell'innovazione introdotta nell'ordinamento.

Fino al 1991-92 il numero degli immatricolati ai corsi di primo livello è rimasto pressoché stabile, intorno alle 5000 unità all'anno. I dati provvisori del 1992-93 indicano invece un netto incremento degli immatricolati, diventati oltre 14.000. Nello stesso anno, i corsi attivati sono stati 208, ripartiti in 40 sedi. Detti corsi sono accorpabili in una cinquantina di tipi di diploma, in grande maggioranza triennali; spesso prevedono il ''numero chiuso'', l'organizzazione di stages in azienda, l'impiego di docenti di provenienza aziendale e di altri esperti. I prossimi anni ci diranno se il settore continuerà a espandersi, fino a costituire una consistente alternativa ai corsi di laurea, come da tempo si verifica negli altri paesi industrializzati. Restano da valutare anche gli effetti del criterio adottato nella definizione legislativa dell'istituto, e cioè il fatto di avere previsto il percorso di ciclo breve non del tutto distinto da quello di ciclo lungo, dal momento che la legge consente il riconoscimento, totale o parziale, degli studi compiuti nei corsi di diploma e in quelli di laurea ai fini del proseguimento degli studi nell'una o nell'altra ipotesi. Inoltre, c'è da superare l'ipoteca relativa alla definizione del ruolo professionale del diploma di primo livello. I collegi di categoria mostrano infatti perplessità circa la collocazione del titolo, che per ora resta sospeso fra il semplice diploma di scuola secondaria superiore e il diploma di laurea.

Un consistente arricchimento del ventaglio delle offerte formative nel campo dell'istruzione superiore, e quindi un pari contributo all'aumento dei diplomati a tale livello di studi, può venire dall'introduzione, nell'ambito del sistema scolastico o a fianco di esso, dei corsi d'istruzione post-secondaria, anch'essi presenti nell'ordinamento di altri paesi. Solo per tale via, realizzabile al di fuori dell'ambito universitario, si riuscirà a concretizzare l'auspicata diversificazione dell'istruzione superiore, la quale così risulterebbe costituita di differenti canali formativi, universitari (di ciclo lungo e di ciclo breve) ed extrauniversitari, questi ultimi evidentemente più diffusi sul territorio e al tempo stesso meno costosi.

Nelle proposte elaborate agli inizi degli anni Novanta dalla commissione di studio del ministero della Pubblica Istruzione, incaricata della definizione di nuovi programmi della scuola secondaria superiore, vengono delineate le possibili caratteristiche di un canale d'istruzione post-secondaria: i corsi dovrebbero curare una formazione che, in rapporto alle esigenze espresse dal mondo produttivo, diversifichi la preparazione di quanti hanno conseguito il diploma di maturità nella direzione di determinate specializzazioni professionali; i corsi dovrebbero avere durata inferiore ai tre anni, essere caratterizzati da forte integrazione fra preparazione teorica e formazione pratica, essere realizzati dalle istituzioni scolastiche nel quadro di una relativa autonomia che consenta d'individuare rapporti proficui con enti istituzionali, u., imprese e sindacati. Una prima previsione normativa di corsi post-secondari di perfezionamento o specializzazione è contenuta nell'art. 9 del D.L. 20 maggio 1993 n. 148, convertito nella l. 19 luglio 1993 n. 236. In questo quadro sono state avviate nel 1994 alcune centinaia di corsi di specializzazione post-diploma, della durata di 700 ore, comprensive di stages aziendali, destinati ai diplomati di istituti tecnici e professionali. Anche il disegno di legge varato dal governo nell'ottobre del 1994, relativo all'elevazione dell'obbligo scolastico e alla riforma della scuola secondaria, prevede l'istituzione di corsi post-secondari sulla base di accordi quadro stipulati fra il ministero della Pubblica Istruzione, quello del Lavoro, quello dell'Università, e la Conferenza permanente per i rapporti stato-regioni.

Non c'è dubbio, tuttavia, che un fattore primario dello sviluppo dell'istruzione superiore, universitaria ed extrauniversitaria, consista proprio nell'elevazione dei livelli qualitativi dell'istruzione precedente, in particolare di quelli della scuola secondaria superiore. Tale più elevato livello non può discendere automaticamente dalla pur auspicata estensione dell'obbligo scolastico al 16° anno di età e neppure dalla realizzazione di un modello di scuola secondaria quale quello pronosticato negli ultimi vent'anni in sede di politica scolastica, e cioè di una scuola contrassegnata da piani di studio onnicomprensivi, che comportano forse una formazione di largo spettro culturale ma sicuramente poco approfondita o addirittura generica. Occorre invece dire, sulla base dell'esperienza, che quanto più i giovani diplomati dispongono di una preparazione organica in una sfera ampia ma determinata di sapere, come nel caso dei licei tradizionali, tanto più essi risultano orientati sugli studi da intraprendere successivamente, e tanto più probabile è di fatto il conseguimento da parte loro del diploma di laurea. È da non sottovalutare, infatti, la circostanza, accertata alcuni anni fa dall'ISTAT, che la grande maggioranza degli studenti universitari che arrivano a conseguire la laurea sono diplomati provenienti dal liceo classico e scientifico, pur rappresentando questi una minoranza rispetto al totale dei diplomati degli istituti d'istruzione secondaria. Del resto anche in Italia, pur non essendo previste dalla normativa nazionale prove formali di accesso agli studi accademici, è ultimamente in aumento il numero dei corsi di laurea o di diploma per i quali le u. richiedono prove di ammissione o altri dati selettivi del curricolo di studi precedente, in sintonia con quanto previsto in molti ordinamenti stranieri. È facile prevedere che in futuro soltanto la frequenza di corsi di scuola secondaria di buon livello culturale potrà garantire ai giovani il proficuo inserimento nel livello superiore degli studi.

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Un quadro completo della legislazione universitaria italiana, aggiornato al 1992, è stato pubblicato da F.S. Vingiani e I. Santoro, La legislazione universitaria, annotata e coordinata, Bari 1993.

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