Urbanistica

Diritto on line (2019)

Paolo Urbani

Abstract

Dall’urbanistica al governo del territorio: l’evolversi della materia dagli anni ’40 ad oggi comporta il profondo modificarsi del potere di conformazione dei suoli mediante la funzione di pianificazione; inoltre, l’ampliarsi degli interessi meritevoli di tutela impone diverse discipline di protezione di intere categorie di beni. L’evolversi della disciplina nel rapporto tra proprietà privata e funzione sociale è alla base delle politiche di rigenerazione urbana che ormai pervadono il settore.

Origini dell’urbanistica come disciplina giuridicamente rilevante

L’urbanistica appartiene originariamente all’area della sociologia e dell’economia, poiché riguarda l’evolversi nel tempo dei fenomeni sociali ed economici sul territorio che, specie per effetto dell’industrializzazione e dei commerci, hanno favorito, tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, lo spostamento di popolazione dalle aree rurali verso le prime vere concentrazioni urbane ai fini dell’occupazione in settori produttivi propri della produzione industriale. Ne discende che in primis l’urbanistica riguarda l’urbs, la città, termine che assume via via nel tempo una dimensione territoriale che supera i confini ristretti del borgo medievale. Il tema degli assetti territoriali assume quindi rilevanza giuridica nel momento in cui la concentrazione in aree urbanizzate di rilevanti masse di popolazione da un lato e la contrapposizione dei diversi interessi privati sul territorio, residenziali, produttivi etc. ne impone una regolamentazione sotto il profilo delle tematiche dell’igiene, dell’edificabilità delle aree, della sicurezza delle persone e dei beni immobiliari. Per stare al caso italiano basti citare che le condizioni delle città nel 1860-70 erano che Napoli aveva 400.000 abitanti, Milano 200.000 Torino 150.000 Roma circa 200.000. Le prime norme urbanistiche sono quindi tese a regolare le attività edilizie dell’aggregato urbano e non di tutto il territorio comunale. Lo strumento del regolamento edilizio, di igiene ed edilità introdotto in Italia dalla legislazione del 1865 – ma già presente in Inghilterra e Francia – è l’unico istituto giuridico a disposizione dei pubblici poteri per la disciplina dei poteri privati sul territorio. Trattasi quindi di strumento giuridico la cui finalità principale è quella del “risanamento” dell’edificato esistente, carente anche delle condizioni minime di servizi primari e opere di urbanizzazione elementari, affiancato in qualche caso da interventi espropriativi. Tipico il caso della legge del 1885 per il risanamento della città di Napoli sconvolta dall’epidemia del colera.

E la stessa legge urbanistica del 1942 (l. 17.8.1942, n. 1150) – prima legge fondamentale della materia indotta da una legislazione speciale per i piani urbanistici di alcune città (Milano 1914, Roma 1930) – pur avendo respiro programmatorio, teso a regolare i processi di trasformazione urbanistica su tutto il territorio nazionale, risente di questo vizio di origine. L’art. 1 – che enuncia le finalità generali – si apre, da un lato, con un richiamo esplicito alla disciplina dell’assetto e dell’incremento dei centri abitati ed al rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città nel rispetto dei caratteri tradizionali, e dall’altro, finalizza gli interventi al fine di “frenare” le tendenze all’urbanesimo. Il presupposto giuridico di tutta la legislazione della materia sta nel riconoscimento che l’ordinato sviluppo del territorio rientri nella sfera della cura degli interessi primari dello Stato. È tuttavia solo con la legge del 1942 che al regolamento edilizio si affianca il piano urbanistico che assume rilevanza generale e autonoma, nella legislazione precedente istituto ancora in embrione, privo di effettivi poteri conformativi della proprietà il cui raggio d’azione ancora è limitato all’aggregato urbano, più teso al ripristino delle condizioni minimali della civile convivenza, al riallineamento, all’ampliamento, all’ingrandimento che ad una pianificazione complessiva ed ordinata degli usi dell’intero territorio comunale. Attraverso il piano, dunque, si “conforma” la proprietà dei suoli ai fini soprattutto della loro edificabilità futura in funzione non più solo del risanamento dell’esistente, ma in ragione della espansione della trasformabilità delle aree. Non è un caso che la legge del 1865 prevedesse invece “piani regolatori edilizi” per i quartieri vecchi da sistemare e “piani di ampliamento” per i quartieri nuovi da costruire. Ne consegue che, attraverso una legislazione statale, a far data dalla legge fondamentale del 1942 fino alla legge sulla disciplina dei suoli del 1977 (l. 27.1.1977, n. 10) – cui consegue una serie numerosa d’interventi legislativi frammentati e disorganici, a fronte dell’ingresso dell’ordinamento regionale – la disciplina ordinatoria degli assetti territoriali vede oggi le Regioni protagoniste di profonde innovazioni sul contenuto e la forma dei piani urbanistici comunali pur nel rispetto dei principi fondamentali della materia o desumibili dalla legislazione vigente. Di tali innovazioni si darà conto nelle pagine seguenti. Ciò che preme subito rilevare è il collegamento tra l’art. 42 Cost. sulla proprietà e la disciplina urbanistica, che affida ai poteri pubblici la potestà conformativa dei beni immobili in linea con quanto previsto dal co. 2 che recita «la proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale». La declinazione del contenuto della funzione sociale della proprietà ha dato luogo ad un vivace dibattito negli anni ’50 tra i sostenitori (Benvenuti, F., Gli elementi giuridici della pianificazione territoriale in Italia, in Pianificazione territoriale e provinciale, Atti del convegno internazionale, Passo della Mendola, settembre 1955, Trento, 1956, 35 ss.) del nesso tra pianificazione territoriale e pianificazione economica giungendo alla conclusione di attribuire alla prima, con riferimento all’art. 41 Cost., ult. co., anche il compito della pianificazione delle attività economiche, rispetto alla tesi (Miele, G., La pianificazione urbanistica, in AA.VV., La pianificazione urbanistica, Atti del VII Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 1962) per la quale la finalità generale dell’urbanistica non è quella di una regolazione delle attività economiche sul territorio ma più esattamente, da un lato, di una disciplina degli usi del territorio e delle sue risorse al fine di preservarli da iniziative economiche incompatibili con gli obiettivi della conservazione e della tutela e, dall’altro, di apporre limiti al potere incondizionato della proprietà privata conformandola alle finalità sociali. In questo delicato equilibrio tra “autorità” e “libertà” deve aggiungersi anche il richiamo all’art. 3 Cost., co. 2, che afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli normativi e di tipo economico sociale, che di fatto limitando la liberta e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...», quest’ultimo certamente condizionato dalle scelte pubblicistiche della pianificazione urbanistica il cui fine non è il libero e incondizionato godimento della proprietà privata. In verità, è bene subito rilevare che la seconda tesi ha prevalso per lunghi decenni fino ai giorni nostri, specie a seguito della sent. 20.1.1966, n. 6 29.5.1968, n. 55 della C. cost. (infra, par. 7) cosicché per lungo tempo la giurisprudenza amministrativa ha ribadito che alla disciplina urbanistica non compete limitare l’iniziativa economica, bensì più semplicemente garantire che questa rispetti le regole giuridiche preposte all’ordinato sviluppo del territorio. Ma a distanza di più di un cinquantennio, deve registrarsi un’inversione di tendenza dei giudici amministrativi, in particolare del Consiglio di Stato (sez. IV, 10.5.2012, n. 2710 e 28.11.2012, n. 6040) che ha affermato che «l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo del medesimo». In definitiva il potere di pianificazione non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali ecc.) ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità d’interessi pubblici che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti. Ne consegue, che diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di uno strumento essenziale di realizzazione di valori costituzionali, quali almeno quelli espressi dagli art. 9, co. 2, 32, 42, 44, 47, co. 2, Cost. (sent. n. 2710/2012 cit.). Posizione di certo influenzata dall’enorme consumo di suolo a fini edificatori avvenuto a partire dagli anni Sessanta ed ancora in atto, cui non ha corrisposto sempre uno sviluppo sostenibile dell’economia e della società, ma la sottrazione alla tutela dei beni agricoli e ambientali.

Il potere ordinatore delle norme urbanistiche incide quindi direttamente sulla proprietà privata nelle sue varie qualificazioni (fondiaria, edilizia, agricola) poiché diretto è il rapporto tra il titolo proprietario e l’uso dei beni, ricollegandosi così la materia all’art. 42, co. 2, Cost. Tutta la legislazione, a partire dal 1865, fino alla legge generale vigente, si basa su due principi generali: limitare il godimento e l’utilizzo incondizionato della proprietà dei beni immobili se in contrasto con altri interessi meritevoli di tutela, giungendo fino all’utilizzo dell’esproprio per pubblica utilità; rimodellare l’ambito dei poteri privati all’interno della figura giuridica del piano urbanistico espressione primaria dell’esercizio dei poteri pubblici in materia. Che poi il manifestarsi di un interesse pubblico ancora in fieri si concretizzi attraverso una legislazione che ha come contenuti primari quelli dell’emergenza e del risanamento dei centri urbani, incidenti in primo luogo sui limiti al godimento della proprietà in area urbana, deriva dal fatto che è in quelle aree che emerge, per la prima volta e con più evidenza, la necessità di prevedere processi urbanistici regolatori sia dei contrasti di interessi tra i proprietari sia dei processi spontanei di insediamento. Ma, riferendosi ancora all’impostazione generale, l’aspetto più rilevante della legge urbanistica fondamentale sta nell’aver anticipato la disciplina di fenomeni territoriali che solo molti decenni dopo si sarebbero manifestati con grande evidenza e che sinteticamente possono essere riassunti nel termine di “pianificazione di area vasta”. Ci si riferisce qui all’introduzione di una diversificata tipologia di piani di ambito superiore a quello primario di competenza comunale, costituita dai piani regolatori generali intercomunali (art. 12) e dai piani territoriali di coordinamento (artt. 5 e 6, l. n. 1150/ 42). I primi riferiti ancora alle città, che oggi definiremmo metropolitane ai sensi dell’art. 114, Cost., viste non più nell’ambito dei confini ristretti dell’aggregato urbano ma nella prospettiva del continuum insediativo che investe più comuni contermini, costituito da un’area pressoché totalmente urbanizzata e nella quale le azioni umane ed i modi di essere delle comunità locali hanno assunto caratteristiche omogenee tali da richiedere una pianificazione urbanistica unitaria. Alla disciplina delle “città metropolitane” si riconnette un sistema di pianificazione territoriale sovralocale, già previsto originariamente dalla l. 8.6.1990, n. 142 e dal d.lgs. 18.8.2000, n. 267, oggi contenuto nella l. 7.4.2014, n. 56, ma che attende ancora di essere attuato concretamente. Segnali di questa esigenza unificante di tipo pianificatorio per determinate aree altamente urbanizzate provenivano d’altronde dagli effetti prodotti dalla legislazione fascista degli anni Trenta di fusione dei comuni-polvere, contermini le medie aree urbane, che aveva certamente favorito la costituzione di estesi aggregati abitativi (si pensi, ad esempio, alla “grande Genova” o alla “grande Bari”), anche se poi la preoccupazione del legislatore del ’42 è, successivamente come abbiamo visto, quella di frenare l’urbanesimo e favorire il disurbanamento. Anche per i piani territoriali di coordinamento, previsti dagli art. 5 e 6 della l. urbanistica del 1942, vale lo stesso discorso. Previsti essenzialmente come piani di direttive a contenuto urbanistico per la localizzazione delle grandi opere infrastrutturali e della mobilità viaria di competenza delle varie amministrazioni centrali, precorrono sotto vari profili gli sviluppi evolutivi normativi della materia urbanistica. Anticipano di fatto l’interpretazione estensiva, che ne darà la dottrina e il legislatore regionale, dei contenuti della materia da disciplina dell’assetto e dell’incremento dei centri abitati a governo del territorio. Anche in questo caso, dopo la regionalizzazione del 1972, i piani territoriali regionali traggono il loro fondamento giuridico dai piani territoriali di coordinamento, anche se gli obiettivi e gli oggetti del pianificare sono notevolmente diversi: questi ultimi infatti miravano a coordinare le azioni pubbliche centrali sul territorio locale ma i cui effetti riguardavano l’intera comunità nazionale, mentre i piani regionali, secondo le leggi regionali, regolano invece i molteplici interessi pubblici di rilievo regionale; ma uguali sono sia le finalità, poiché l’obiettivo è il coordinamento degli interventi pubblici sul territorio, sia i destinatari finali delle direttive e delle effettive localizzazioni di opere o di tutele, poiché entrambi incidono sulla pianificazione urbanistica primaria comunale con effetti diretti o riflessi sugli stessi.

Il quadro istituzionale: una sintesi

Il quadro istituzionale che attiene alla materia urbanistica non è mutato rispetto alla Costituzione del ’48 ad eccezione del nuovo titolo V di cui alla l. cost. 18.10.2001, n. 3, che la ricomprende nel più ampio concetto di governo del territorio (art. 117, co. 3, Cost.).

Resta ferma l’attribuzione ai poteri pubblici – risalente al 1865 – della soddisfazione degli interessi pubblici ai fini dell’ordinato assetto degli usi del territorio mediante la potestà di conformazione dei suoli (art. 42, co. 2, Cost.), parallelamente alla potestà statale di salvaguardia per la conservazione di intere categorie di beni immobili – paesaggistici e del patrimonio storico artistico – (art. 9, co. 2, Cost.) e dei beni ambientali e naturalistici (art. 117, co. 2, lett. s, Cost.). La disciplina della materia urbanistica è “contesa” tra Stato e Regioni, disponendo queste ultime della potestà legislativa concorrente già richiamata. A quasi cinquant’anni anni dall’attuazione delle regioni mai termine fu più adeguato, poiché l’assenza di una chiara legge cornice in materia, ha prodotto un alto contenzioso causato dalla diversa interpretazione da parte del legislatore regionale tra norme di dettaglio e rispetto dei principi fondamentali. In particolare il conflitto riguarda la materia dell’edilizia – che secondo la Corte costituzionale (sent. 1.10.2003, n. 303) rientra assieme all’urbanistica nella nozione di governo del territorio – riguardo alla natura o meno della definizione degli interventi edilizi contenuti nel d.P.R. 6.6.2001, n. 380, come principi fondamentali della materia o come norme di dettaglio. Ferma restando in più pronunce la prima interpretazione, va osservato che la riforma costituzionale del 2015, bocciata dall’esito del referendum confermativo, relativa tra l’altro, alla riforma del Titolo V, mirava proprio a riportare tra le competenze esclusive le «disposizioni generali e comuni sul governo del territorio» al fine di fissare norme di diretta applicazione sostituendosi queste all’individuazione dei principi fondamentali della materia. Da ultimo, tuttavia, a seguito dei referendum consultivi tenutisi nelle regioni Lombardia e Veneto, è in corso un processo di “contrattazione” stato-regioni (riguardante anche l’Emilia Romagna, la Liguria e il Piemonte) per l’applicazione del co. 2 dell’art. 116 Cost. ai fini del conferimento di forme e condizioni particolari di autonomia concernenti – riguardo al co. 3 dell’art. 117 – anche la materia del governo del territorio. Va segnalato infine che il nuovo Titolo V Cost. non menziona, come nell’originario art. 117, tra le materie di disciplina concorrente, l’urbanistica ma il “governo del territorio” sostenendosi da parte di una corrente dottrinale che la non menzione andava ricercata nell’essere ormai l’urbanistica materia residuale di competenza esclusiva regionale (Cerulli Irelli, V., Il governo del territorio nel nuovo assetto costituzionale, in Civitarese Matteucci, S.-Ferrari, E.-Urbani, P., a cura di, Il governo del territorio, Milano, 2003; sulla residualità di cui all’art. 117, co. 4, Cost., Torchia, L., La potestà legislativa residuale delle Regioni, in Le Regioni, 2002, 2, 343 ss.). Ma già la Corte cost. nella sent. n. 303/2003 ha affermato che anche se «la parola urbanistica non compare nel nuovo testo dell’art. 117, ciò non autorizza a ritenere che la relativa materia non sia più ricompresa nell’elenco del terzo comma: essa fa parte del governo del territorio». Va chiarito, inoltre, che negli anni precedenti la riforma del Titolo V Cost., sia la legislazione, sia la giurisprudenza costituzionale, sia la dottrina, hanno contribuito ad ampliare l’ambito materiale dell’urbanistica attribuendo ad essa un contenuto molto simile all’attuale concetto di governo del territorio, derivante da un’esigenza molto sentita di considerare l’urbanistica come «funzione ordinatrice ai fini della reciproca compatibilità degli usi e delle trasformazioni del suolo nella dimensione spaziale e nei tempi ordinatori previsti» (C. cost., 27.6.1986, n.151). Sotto il profilo normativo anche l’art. 80, d.P.R. 24.7.1977, n. 616 – concernente la cosiddetta seconda regionalizzazione – ha dilatato il contenuto della materia affiancando alla tradizionale funzione della disciplina degli assetti, quella ordinale della gestione. La complessità dei molteplici interessi presenti sul territorio e la necessità di una loro regolamentazione ha portato anche la dottrina – da Predieri a Giannini a Morbidelli a ricomprendere nell’urbanistica l’assetto (degli usi) ed il governo (degli usi e della gestione) del territorio. Ma a fronte di questa apparente coincidenza definitoria è ancora la Corte a chiarire che «la nozione allargata di urbanistica cui sembrerebbe essersi ispirato oggi il costituente del Titolo V per la definizione del governo del territorio – nozione rispondente ad esigenze di considerazione integrale del territorio e di globale disciplina dell’uso e delle trasformazioni di questo, non esclude, tuttavia, la configurabilità in ordine al territorio di valutazioni e discipline diverse, neppure se improntate anch’esse ad analoghe esigenze di integralità e di globalità»(C. cost. 7.10.2003, n. 307). Sostiene, cioè, la Corte, che il territorio è il punto di riferimento di una regolazione orientata alla soddisfazione di interessi “differenziati” che non possono essere ricompresi nella tradizionale disciplina d’uso dei suoli propria della materia urbanistica. L’ambito materiale del governo del territorio attiene quindi alla disciplina degli usi del territorio – così come l’originaria urbanistica – ma “allarga lo sguardo” ai diversi interessi pubblici meritevoli di particolare cura e tutela che, per la loro specialità, ineriscono con ambiti di materia diversi, suscettibili di disciplina differenziata, di competenza esclusiva dello Stato. L’actio finium regundorum operata dalla giurisprudenza costituzionale permette così di mantenere intatta la nozione, costituzionalmente rilevante, della materia urbanistica, distinta dal più ampio concetto del governo del territorio.

La funzione di pianificazione e i poteri conformativi sulla proprietà privata

Per l’analisi puntuale della disciplina si adotta qui un diverso punto di vista che rovescia quello tradizionale poiché non parte dagli istituti ma dalle funzioni attribuite ai vari soggetti pubblici ai vari livelli di governo, cosicché la disciplina urbanistica appare come complesso delle attività strumentali all’ordinato assetto del territorio. L’analisi per funzioni permette così una lettura “orizzontale” della materia individuando quella principale (la pianificazione) e le varie funzioni ordinali (salvaguardia, disciplina sostanziale, controllo dell’attività edilizia, sanzionatoria). La sistematica per funzioni inquadra così le varie attività amministrative dei vari livelli di governo riunificandole attraverso le varie funzioni svolte. In tal modo si razionalizza il comportamento delle pubbliche amministrazioni: la pianificazione non è appannaggio dei soli comuni ma in rapporto alla dimensione degli interessi può appartenere sia alla provincia (mediante lo strumento del piano territoriale provinciale) che alla regione, mentre quella di salvaguardia s’impone per legge ai diversi attori pubblici nel perseguimento dell’interesse pubblico. Né quella sanzionatoria è propria del comune, potendo essere esercitata, in caso d’inerzia dalla regione, o dal giudice penale. Espressione del potere conformativo è – fin dal 1942 – il piano regolatore generale, per lungo tempo unico strumento di determinazione dell’assetto giuridico dei suoli, attraverso la tecnica della zonizzazione e la relativa garanzia degli standards urbanistici, prevedendosi che in caso di realizzazione d’interessi pubblici comunali o settoriali il potere locale o quello statale si esplichi attraverso l’apposizione di vincoli preordinati all’esproprio (opere pubbliche) o mediante vincoli ricognitivi o morfologici nel caso di beni immobili cui assicurare adeguata tutela e conservazione (paesaggio, parchi, aree archeologiche, aree esondative o di dissesto idrogeologico, beni culturali o ambientali). Solo in tempi relativamente recenti la funzione di pianificazione come «ordinata spaziale e temporale a fini di risultato» secondo la nota definizione di Massimo Severo Giannini diviene appannaggio della cura e soddisfazione di interessi di peso e dimensione superlocale o settoriale. Si allude qui al piano paesaggistico (l. 29.6.1939, n. 1497) la cui concreta attuazione di livello regionale – prevista dalla l. 8.8.1985, n. 431 – ha assunto compiuta sistemazione solo con il Codice Urbani (d.lgs. 22.1.2004, n. 42); al piano dei parchi nazionali e regionali ai sensi della l. 6.12.1991, n. 394, al piano di bacino articolato in piano di assetto idrogeologico, piano di tutela dalle acque e piano delle alluvioni (l. 18.5.1989, n. 183 e d.lgs. 3.4.2006, n. 152). Si tratta di atti di pianificazione di ambito regionale o sovra regionale per la cura di interessi “differenziati” afferenti al sistema della tutela “parallele” di competenza di soggetti diversi (regione, autorità di bacino nazionali, autorità del parco, ministero beni culturali) nella considerazione che la tutela di tali interessi supera la dimensione del tradizionale vincolo provvedimentale puntuale per ordinarsi per piani, riguardanti aree vaste. Il piano regolatore generale in questi casi è il “contenitore” delle discipline “parallele” prevalendo direttamente le prescrizioni, in queste contenute, sulle disposizioni urbanistiche comunali in contrasto con la tutela. Caratteristica della funzione di pianificazione – in particolare di quella comunale ma oggi anche i piani di settore richiamati hanno spesso analogo contenuto - è quella di apporre prescrizioni – ovvero comandi – che incidono direttamente o indirettamente sul regime della proprietà privata a seconda che le prescrizioni siano conformative della proprietà o del territorio. Le prime incidono sul bene immobile – inedificato o già edificato – determinandone definitivamente le condizioni d’uso o la sua trasformabilità nel tempo, mentre le seconde hanno diverse caratteristiche: non hanno effetti conformativi immediati, non permettono al proprietario di richiedere alcun provvedimento abilitativo al di là degli interventi manutentivi, attengono a zone o ambiti riguardanti intere categorie di proprietari, fissano solo le condizioni di trasformabilità – standards, volumetrie, mixitè delle funzioni ammesse – ma rinviano la effettiva conformazione dei suoli e la localizzazione degli interventi pubblici (oo.uu.) e privati a successivo provvedimento amministrativo comunale costituito da piano attuativo a contenuto plurimo, assistito da convenzione urbanistica o da accordo sostitutivo di provvedimento (art. 11, l. 7.8.1990, n. 241) nel quale sono fissate definitivamente le prescrizioni urbanistiche ed edilizie, gli impegni del privato e quelli dell’amministrazione.

La funzione di gestione

Detto della funzione di pianificazione occorre ora esaminare il contenuto della funzione di gestione. Quest’ultima ha assunto nel tempo rilievo centrale specie riguardo le prescrizioni conformative del territorio. Il fondamento della pianificazione urbanistica è quello di regolare gli interessi privati nei limiti della soddisfazione dell’interesse pubblico ad un ordinato assetto del territorio, ma nulla è previsto circa l’obbligo dei privati a dare attuazione alle previsioni urbanistiche del piano regolatore. L’unico strumento autoritativo a disposizione del comune è l’esproprio per pubblica utilità lì dove la p.a. si voglia sostituire al privato in fase attuativa delle disposizioni di piano ma si tratta di estrema ratio per la realizzazione di opere pubbliche, impraticabile rispetto all’urbanizzazione complessiva di specifiche aree di trasformazione o di riconversione.

I procedimenti ad iniziativa di parte costituiscono quindi l’incipit per dare attuazione alle previsioni conformative del territorio del P.R.G.: tipico il caso degli interventi in zone di espansione ed oggi nelle aree di riconversione o ristrutturazione urbana. Se il privato non si attiva, se non ritiene conveniente o remunerativo il comando urbanistico il piano non si attua. Ecco il perché dell’importanza assunta dalla funzione ordinale di gestione accanto a quella precettiva generale del piano nella quale – sulla base delle tipologie degli interventi ammessi e delle condizioni di trasformabilità – attraverso la proposta di piano attuativo gli interessi pubblici e privati s’incontrano per codeterminare l’assetto definitivo delle aree e delle costruzioni ammesse. Questi profili hanno assunto nel tempo sempre più importanza poichè nelle disposizioni del PRG le prescrizioni conformative del territorio sono prevalenti rispetto a quelle conformative della proprietà, richiedendosi per l’attuazione delle prime il coinvolgimento di più proprietari a convergere verso l’attuazione degli interventi in forma unitaria – siano essi relativi ad aree produttive o residenziali – come nel caso del comparto o delle lottizzazioni convenzionate – per le quali oltre al disegno attuativo pianificatorio si aggiunge quello della stipula di convenzioni attuative nelle quali sono individuati gli oneri del privato afferenti alla garanzia degli standards urbanistici ed alla realizzazione delle conseguenti opere di urbanizzazione. Nella maggior parte dei casi, come si è già accennato, l’attuazione di tali prescrizioni richiede l’iniziativa degli attori privati, la disponibilità di risorse finanziarie ma soprattutto la verifica della domanda rispetto all’offerta edificatoria. E poiché, il sistema della pianificazione urbanistica nell’ordinare gli interessi privati sul territorio lascia liberi questi ultimi di dare attuazione alle previsioni edificatorie, tanto più le scelte di pianificazione “facilitano” l’intervento privato tanto più dal piano “disegnato” si passa al piano urbanistico “attuato”.

Se quelle ora delineate per sommi capi possono essere considerate le costanti della disciplina, il panorama delle trasformazioni dei processi insediativi in atto, specie nelle grandi aree urbane, impone che si dia conto di come questi abbiano inciso sulla disciplina urbanistica ed edilizia modificandone profondamente la filosofia originaria. Tali processi riguardano essenzialmente tre problematiche emergenti. La prima concerne un’attenzione del mercato verso la riconversione, il riuso o la sostituzione di parti della città consolidata – siano esse le aree industriali dismesse o il patrimonio pubblico inutilizzato o interi quartieri oggetto di degrado e di obsolescenza costruttiva – dei quali i piani vigenti non ne prevedono una nuova disciplina in rapporto alle nuove esigenze economiche e sociali.

La seconda attiene al declino dei cosiddetti piani di espansione causato da vari fattori che attengono alla riduzione della nuova domanda edilizia dovuta alla decrescita degli spostamenti di popolazione ed agli alti costi insediativi. La terza – favorita dalla seconda – riguarda l’orientamento verso la riduzione del consumo di suolo – i cosiddetti P.R.G. a crescita zero – anche sulla spinta comunitaria e della legislazione nazionale ancora in itinere ma già recepita da molte Regioni, diretta a favorire la “ricostruzione del costruito” – ovvero la modernizzazione della città consolidata ed il riuso di aree produttive dismesse – in luogo di nuovi insediamenti. Queste tre problematiche emerse fin dagli anni Novanta si scontrano con la concezione statica del P.R.G. del 1942 le cui previsioni a tempo indeterminato – una volta vigenti – non consentono alcuna riconsiderazione degli assetti e delle destinazioni d’uso delle aree e dell’edificato, se non procedendo a complesse procedure di variazione parziale del piano in base alle esigenze emergenti nel tempo. Per usare una metafora l’hardware – il piano – non permette l’utilizzazione delle innovazioni del software – le trasformazioni emergenti – poiché il primo non contempla le innovazioni del secondo. Questi tre accadimenti hanno prodotto alcune modifiche alla disciplina che possono essere così riassunte. La prima riguarda la riconsiderazione del contenuto del piano regolatore generale e dei suoi effetti conformativi sulla proprietà immobiliare. Il piano statico in altre parole cede il passo al piano dinamico, flessibile. La seconda, sempre riguardo ai fenomeni prima richiamati, richiede una profonda modificazione del processo di formazione della volontà politica delle amministrazioni nell’esercizio del potere di pianificazione che non può prescindere dal consenso dei privati interessati ponendo in campo, in luogo del provvedimento autoritativo, l’accordo procedimentale o quello sostitutivo di cui all’art. 11, l. n. 241/90.Fatte salve le invarianti della sostenibilità ambientale e delle tutele espresse dalle discipline differenziate i luoghi della trasformazione o della rigenerazione urbana sono oggetto di prescrizioni conformative del territorio che si limitano ad indicare le condizioni di trasformabilità, la mixitè delle trasformazioni ammesse, gli scambi edificatori, ovvero il rapporto tra premialità e opere di mecenatismo, la cui determinazione finale mediante prescrizioni conformative della proprietà può essere oggetto solo del “contratto”, ovvero del radicarsi nell’ordinamento urbanistico del fenomeno dell’urbanistica consensuale e solidale. E se parte della dottrina ritiene ancora che con l’accordo non sia possibile ottenere nulla di diverso dal provvedimento, è agevole notare che ormai le previsioni conformative del territorio offrono diverse soluzioni dell’assetto urbanistico, di talchè si ampliano i contenuti del provvedimento, il più condiviso dei quali tra il pubblico e il privato è oggetto appunto dell’accordo che si presta plasticamente a fissare le definitive prescrizioni conformative della proprietà. E se non bastasse basterebbe citare la posizione consolidata del Consiglio di Stato che afferma la legittimità dell’uso degli strumenti privatistici per il perseguimento delle finalità di pubblico interesse (ex multis, sez. IV, 28.4.2010, n. 2445).

Il nuovo modello del P.R.G. nella legislazione regionale

Per quanto riguarda il piano urbanistico, la gran parte della legislazione regionale, a partire dal 1995 (l. reg. Toscana, 16.1.1995, n. 5), ha modificato la disciplina del contenuto del principale atto di pianificazione – il PRG – introducendo forti discontinuità rispetto al modello della legge del 1942. Il risultato più evidente è quello della divisione del piano regolatore in due provvedimenti temporalmente autonomi – il piano strutturale ed il piano operativo, cui in qualche caso si aggiunge il regolamento urbanistico – con il fine di disporre di due strumenti: il primo teso a fissare le strategie ed il secondo destinato ad attuarle in concreto. Poiché la pianificazione è un processo di continuo adeguamento alle mutevoli ed insorgenti esigenze dei fatti dell’economia, che non può essere cristallizzato in un unico momento temporale, la soluzione aspira a raggiungere l’obiettivo di dequotare gli effetti conformativi del piano urbanistico, che si consolidano all’atto di approvazione del piano strutturale, a favore di processi di pianificazione differenziati e via via più specifici – previsti nel piano operativo – che tendono a conformare il regime dei suoli, nella fase nella quale si manifestano concretamente gli interessi privati tesi alla trasformazione del territorio considerato. Mentre il piano strutturale individua le «invarianti», ovvero i limiti generali anche eteronomi della trasformabilità del territorio (ambientali, morfologici, paesaggistici) all’interno di partizioni territoriali variamente denominate (ambiti, distretti, unità territoriali omogenee elementari) evocando lo zoning dell’art. 7 della l. n. 1150/1942 – senza tuttavia riprodurne gli effetti rigidamente conformativi della proprietà e l’apposizione dei vincoli urbanistici a garanzia degli standards – i contenuti del piano operativo, che ha durata limitata nel tempo, determinano l’effettiva conformazione e destinazione d’uso dei suoli, tramite il ricorso a piani attuativi negoziati con gli interessi privati anche in funzione perequativa. L’analisi del fabbisogno delle opere di urbanizzazione e di servizi pubblici sul territorio comunale è affidata in alcuni casi al piano dei servizi (Lombardia ed Umbria) che, tuttavia, non comporta di norma vincoli preordinati all’esproprio. Corollari di tale tecnica di pianificazione sono la codeterminazione degli assetti urbanistici con gli interessi privati, la plurifunzionalità del contenuto dei piani attuativi, l’accordo pubblico-privato produttivo di prescrizioni conformative della proprietà, (sull’equilibrio del rapporto di scambio, Cons. St., 11.3.2008, n. 2985). Il nuovo sistema pianificatorio è variamente declinato dalla maggior parte delle leggi regionali, anche se con linguaggi normativi assai diversificati. Nelle varie regioni l’adeguamento dei piani urbanistici ai nuovi modelli procede, tuttavia, a rilento e non mancano interpretazioni della giurisprudenza amministrativa tese ad attribuire anche al contenuto del piano strutturale efficacia conformativa del territorio (Cons. St., sez. IV, 28.7.2005, n. 4004; TAR Toscana, sez. I, 12.9.2005, n. 4276, Cons. St., sez. IV, ord. 3.11.2006, n. 5763; TAR Emilia-Romagna, 15.5.2006, n. 609). Ma non basta. La legislazione regionale di alcune regioni (L.r. Toscana 10.11.2014, n. 65, L.r. Emilia Romagna, 21.12.2017, n. 24) interpretando gli indirizzi del parlamento ha introdotto un nuovo sistema di articolazione dei contenuti del piano urbanistico che prevede la suddivisione del territorio comunale in “urbanizzato” e “non urbanizzato” dove il cuore del piano regolatore è la città ovvero il centro abitato e le aree urbanizzate da completare o rigenerare, mentre la soddisfazione e la cura degli interessi che molto spesso non riguardano solo quella comunità ma concernono interventi produttivi, terziari, ad iniziativa di capitali finanziari espressione di interessi extralocali, o la realizzazione di servizi, infrastrutture di area vasta, richiedono per la loro localizzazione nel territorio non urbanizzato il ricorso necessario ad accordi di pianificazione con la regione, la provincia e gli altri attori pubblici. Il potere conformativo si esprime quindi mediante diverse tecniche di pianificazione riguardanti le modalità attraverso le quali si ordinano sul territorio i diversi interessi pubblici e privati cui dare adeguata soddisfazione.

La perequazione come modalità di conformazione dei suoli alternativa allo zoning

Tra le recenti tecniche adottate da molti piani regolatori va segnalata l’adozione del metodo perequativo. L’obiettivo è ridurre da un lato la discriminazione tra proprietari i cui beni immobili – pur destinati allo sviluppo edilizio e versanti nelle medesime condizioni in quanto ad ubicazione, morfologia ed estensione- sono oggetto di differenziazione nei diritti edificatori riconosciuti (sperequazione relativa) e, dall’altro, la vicenda dei vincoli urbanistici (infra) tendente a destinare alcune di queste stesse aree a servizi pubblici (cd. sperequazione assoluta).Con la formula “perequazione urbanistica” si allude genericamente ad un preciso connotato finalistico della pianificazione, che si compendia nel raggiungimento dell’indifferenza delle posizioni proprietarie rispetto agli effetti conformativi delle scelte discrezionali di allocazione delle diverse funzioni territoriali. Indifferenza predicata in termini di riconoscimento, rispetto agli indirizzi di trasformazione territoriali stabiliti nel piano, di più eque possibilità di valorizzazione economica delle proprietà fondiarie. L’imperatività e rigidità dello zoning con effetti vincolistici viene sostituita dalla flessibilità e ‘negozialità’ della definizione di zone ‘miste’ e polifunzionali (TAR Emilia Romagna, 14.1.1999, n. 22) per le quali l’assetto definitivo delle trasformazioni viene concertato con e tra gli attori privati, ai quali è parimenti rimesso il perseguimento dell’equa distribuzione di oneri ed utili con reciproche compensazioni. Dunque, quello della distribuzione del plusvalore fondiario legato alle possibilità di trasformazione urbanistica derivanti dalle scelte pianificatorie, costituisce uno dei nodi principali del governo delle trasformazioni urbane che, una volta che si acceda ad una prospettiva perequativa, si traduce nell’obbiettivo di conseguire l’equità ‘catturando’ tale plusvalore e redistribuendolo alla collettività per riequilibrare il costo sociale della trasformazione stessa. La prima, consiste in quella serie di differenti misure che gli interpreti identificano come “perequazione di valori”: in sintesi, l’idea base ruota intorno ad una più o meno generalizzata monetizzazione dei diritti edificatori, unita ad un gioco di trasferimenti (di natura finanziaria o parafiscale) compensativi delle disparità di valore nelle rendite fondiarie derivanti dalla pianificazione. L’altro approccio è quello che comunemente viene identificato come di “perequazione urbanistica” o di “volumi”, con ciò intendendosi porre in primo piano l’esigenza di redistribuire reali quantità urbanistiche e “a priori”, ossia al momento stesso della formazione della scelta di governo territoriale, piuttosto che tentare di rimediare “a posteriori” con compensazioni monetarie di incerta applicazione. E’ proprio quest’ultimo approccio che ha prevalso nella totalità delle esperienze di perequazione urbanistica, laddove si è essenzialmente declinato il modulo base del comparto di cui all’art. 23 della legge urbanistica del 1942 – per decenni obliterato nei piani urbanistici – la cui crescente applicazione, per effetto della giurisprudenza, deriva dalla possibilità, prima esclusa, di ricomprendervi anche le aree e gli spazi pubblici per servizi (Cons. St., sez. V, 7.12.1979, n. 772). Il comparto è inteso come unità minima di trasformazione comprendente suoli espressivi di una medesima (pur minima) potenzialità edificatoria a prescindere dalla singola destinazione che, in concreto, si localizzerà sulla singola proprietà. Si tratta del ben noto meccanismo dell’attribuzione di “indici di edificabilità territoriali” spalmati in maniera indistinta sulle singole proprietà ed in proporzione dell’estensione (o del valore catastale) di ciascuna di esse rispetto alla totalità delle aree da trasformare. In tal modo ciascun fondo esprimerà comunque la capacità edificatoria assegnata, se non sulla sua superficie di sedime, su quella corrispondente che il proprietario trasferirà nella porzione del distretto di trasformazione ove si concentrerà l’edificazione. L’attuazione del disegno pianificatorio è rimessa ai proprietari ricompresi nel comparto perequativo, salvo che vi siano indicazioni di piano che impongano la riserva di aree per determinati servizi od opere di urbanizzazione primaria (viabilità), o la concentrazione dell’edificabilità in determinate aree del comparto. Queste indicazioni non assumono però la forma del vincolo espropriativo ma rappresentano solo indicazioni vincolanti cui si devono attenere i compartisti nel dare attuazione alle scelte perequative. Il rispetto delle indicazioni di piano, ovvero della cessione delle aree all’amministrazione è oggetto di controllo da parte del comune in fase di rilascio dei permessi di costruire, cosicché si può affermare che l’attuazione delle previsioni urbanistiche all’interno del comparto si configura come un caso di urbanistica “relazionale” basato cioè sulle “relazioni contrattuali” che s’instaurano con i destinatari delle prescrizioni urbanistiche ove l’amministrazione si limita a svolgere una funzione di terzietà attraverso il controllo della attuazione delle scelte pianificatorie. Le relazioni tra i proprietari – riuniti mediante le consuete formule organizzatorie (consorzio, comunione tra proprietari) – riguardano il trasferimento e la conseguente distribuzione delle quote di edificabilità assegnate al comparto nelle varie aree a ciò destinate .E’ a carico dei compartisti, riuniti in consorzio, la cessione gratuita delle aree all’amministrazione e l’integrale realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria previste nel comparto stesso in base alla disciplina del piano regolatore. Le esperienze comunali in corso pongono il problema – a legislazione invariata – della compatibilità dei sistemi perequativi con il sistema di pianificazione comunale vigente fondato sulla zonizzazione, ovvero con la matrice razionalista del piano. In particolare si è posto il problema della compatibilità tra perequazione e principio di legalità che informa la pianificazione urbanistica. La strada per ammettere la perequazione è quella di considerarla non un fine in sé ma un mezzo: essa si deve collocare nella fase attuativa del piano (TAR Campania, 15.1.2002, n. 670) ed inoltre deve riguardare alcuni ambiti particolari del territorio ordinati in comparti e preventivamente identificati dal piano. La perequazione quindi attua e non deroga il principio di zonizzazione del piano. Il superamento della rigida zonizzazione funzionale è previsto anche da alcune disposizioni statali che hanno introdotto il concetto di zona-mista o plurifunzionale (Programma integrato d’intervento, art.16, L.17.2.1992, n.179, su cui C. cost. 19.10.1992, n. 393 e d.P.R. 20.10.1998, n. 447, mod. dal d.P.R. 7.12.2000, n. 440, sulla localizzazione delle attività produttive).

Vincoli urbanistici e dotazioni territoriali nella giurisprudenza della Corte Costituzionale

Già si è detto che nella determinazione delle scelte di pianificazione urbanistica – attraverso l’individuazione delle zone – la legge urbanistica fondamentale (modificata dalla L. 6.8.1967, n. 765, che introduce nel sistema il concetto di standard urbanistico: d.m. 2.4.1968, n. 1444), in particolare l’art. 7 della l. n. 1150/42 – prevede una serie di disposizioni tese a garantire la riserva di aree, per usi pubblici od opere d’interesse collettivo, destinate ad essere espropriate dal comune. La indeterminatezza della durata di tali vincoli (estesa anche ai vincoli finalizzati alla realizzazione di opere pubbliche superlocali) e la mancata previsione d’indennizzo per le limitazioni apposte alle aree vincolate, sono state oggetto di svariate pronunce della C. cost. originate dalla sent. n. 6/1966 («Per ogni sacrificio di facoltà domenicali, pure essenziali è necessario accordare un indennizzo», in Giur. cost., 1966, I, 72) che hanno esteso il concetto di “espropriazione” anche alle ablazioni che sottraggono diritti ad un soggetto senza che questi siano contemporaneamente conferiti in capo ad altri. La tesi, trasferita al problema della tutela da accordare allo jus aedificandi considerato dalla Corte Cost. inerente il diritto di proprietà, è stata recepita nella sent. n. 55/1968 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli art. 7, nn. 2, 3, 4, e 40 della legge urbanistica fondamentale, nella parte in cui, incidendo su beni determinati, non prevedono un indennizzo per l’imposizione di vincoli operanti immediatamente e a tempo indeterminato nei confronti dei diritti reali. Posta l’alternatività tra temporaneità ed indennizzabilità dei vincoli di inedificabilità, la l. 1187/68 ne ha fissato i limiti di durata (cinque anni), mentre la sentenza della Corte Cost. n. 5 del 1980 ha riaffermato lo jus aedificandi come contenuto del diritto di proprietà e la successiva sentenza n. 94 del 1982 ha confermato la durata temporanea dei vincoli (nello stesso senso C. cost. sent. nn. 30.3.1992, n. 141; 7.11.1994, n. 379; ord. 21.4.1993; sent. 23.4.1993, n. 186; 21.7.1995, n. 344). La vicenda dei vincoli urbanistici, in special modo di quelli preordinati all’esproprio, ha inciso in modo determinante, da un lato, sulle capacità finanziarie dei comuni nell’acquisire le aree e dall’altro, sulla possibilità di garantire le dotazioni territoriali (opere di urbanizzazione secondaria e servizi pubblici) nelle zone ove permanevano i vincoli espropriativi. Solo più recentemente la giurisprudenza costituzionale (C. cost. 20.5.1999, n. 179), pur mantenendo i comuni la facoltà di reiterare motivatamente i vincoli espropriativi, ha imposto la previsione di una indennità calcolata sulla base della perdita di valore del bene ovvero in base all’entità del danno effettivamente prodotto, nel momento della prima reiterazione – decorso un quinquennio di franchigia – del vincolo espropriativo (vedi art. 39 del d.P.R. 8.6.2001, n. 327). La stessa Corte, ha riconosciuto la legittimità della compensazione urbanistica in alternativa all’indennizzo espropriativo monetario, previa cessione del bene, attraverso l’attribuzione di quote di edificabilità da spendere in altre aree o la permuta delle aree stesse (sul tema dell’indennizzo espropriativo al valore venale vedi C. cost. 24.10.2007, nn. 348 e 349 e 22.4.2016, n. 90).

Riconversione e rigenerazione urbana

Il tema richiede un approfondimento connesso con le modifiche legislative che mettono in luce l’imbricazione tra l’urbanistica e l’edilizia. Sul tema delle aree dismesse il legislatore è intervenuto da tempo con l’introduzione del programma integrato d’intervento (art. 16, l. n. 179/92) d’iniziativa anche privata, il cui contenuto, anche in contrasto con il piano vigente, può essere oggetto di valutazione positiva da parte del comune, in considerazione del riassetto dell’area alle nuove utilizzazioni edificatorie che vengano proposte ed alla garanzia delle opere di urbanizzazione anche extraoneri. Alla rigidità del piano si sostituisce la possibilità di variare lo strumento mediante accordo di programma e la stipula di accordi sostitutivi di provvedimento in considerazione dei nuovi interessi pubblici che giustifichino tali trasformazioni. Analogo obiettivo si prefigge l’ampliamento del cosiddetto permesso di costruire in deroga al piano regolatore previsto dall’art. 14 del TU 380/2001 che contempla anche gli interventi di ristrutturazione edilizia e di modificazione delle destinazioni d’uso in aree industriali dismesse. Nella ristrutturazione edilizia è ricompresa come è noto anche la possibilità della demolizione e ricostruzione dei manufatti esistenti. Anche il permesso di costruire convenzionato, art. 28-bis T.U. n. 380/2001, mira a concertare interventi di trasformazione minore, evitando la variazione del piano, se in contrasto.

Sul tema della rigenerazione del patrimonio edilizio esistente il legislatore si è mosso attraverso un serie di interventi legislativi finalizzati da un lato a derogare ex lege al piano regolatore vigente e dall’altro agendo sull’ampliamento delle categorie d’intervento soggette a SCIA in luogo del permesso di costruire, con l’obiettivo di accelerare l’attuazione degli interventi. Sul primo versante va ricordato il cosiddetto “piano casa”. Con tale termine s’intende un corpus di semplificazioni e deroghe che le Regioni hanno previsto nei propri strumenti legislativi al fine di innescare una fase di ripresa dell’economia attraverso il rilancio della domanda nel settore edilizio. Nell’intesa Stato-Regioni del 31 marzo 2009 si dettano le linee guida per la successiva produzione normativa ed in particolare: la possibilità di incrementare, entro il limite del 20% della volumetria esistente edifici residenziali non superiore ai 1000 metri cubi, al fine di migliorare anche la qualità architettonica e/o energetica degli edifici. Nell’intesa si ammette che le singole determinazioni regionali possano promuovere «ulteriori forme di incentivazione volumetrica». È prevista anche la possibilità di interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35% della volumetria esistente, con finalità di miglioramento della qualità architettonica, dell’efficienza energetica ed utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e secondo criteri di sostenibilità ambientale. Le leggi regionali hanno consentito quindi, ricorrendone i presupposti dettati dalla legge, di derogare alle previsioni di piano regolatore per quanto concerne l’altezza degli edifici, la densità edilizia nonché sulle distanze minime tra gli edifici. La disciplina, considerata emergenziale e limitata al triennio, è tuttavia ancora in vigore in tutte le regioni, ad eccezione della regione Lazio che ha approvato una specifica legge sulla rigenerazione urbana (l. r. 18.7.2017, n. 7). Con la l. 12.7.2011, n. 106 – art. 5 – si è reintervenuti sul tema prevedendosi, con una norma che sembrerebbe di principio, che le regioni approvino leggi regionali finalizzate tra l’altro a «promuovere la riqualificazione di aree urbane degradate o di edifici a destinazione non residenziale dismessi» prevedendo sia il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto all’esistente, sia la delocalizzazione di queste in altre aree, sia l’ammissibilità di modifiche della destinazione d’uso, sia le modifiche della sagoma degli edifici da riconvertire. I limiti di tali disposizioni risiedono tuttavia nella impossibilità di poter procedere a ricostruzioni d’interi quartieri, possibile solo con gli interventi espropriativi ottocenteschi della Parigi di Haussmann o della Vienna di Francesco Giuseppe, oggi impensabili, riducendosi gli interventi ad operazioni parziali di singoli edifici di cui può disporre l’impresa edilizia.

Fonti normative

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Bibliografia essenziale

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