RATTAZZI, Urbano

Enciclopedia Italiana (1935)

RATTAZZI, Urbano

Mario Menghini

Uomo di stato, nato ad Alessandria il 20 giugno 1808, morto a Frosinone il 5 giugno 1873. Fece gli studî di giurisprudenza all'università di Torino, e tornato in provincia, seppe in breve situarsi tra i più valenti avvocati del senato di Casale. Cominciò a occuparsi di politica attorno al 1847. Nell'agosto di quell'anno, adunatosi in Casale il congresso agrario, si tennero in casa sua adunanze per la compilazione di quell'indirizzo a Carlo Alberto, con cui si chiedeva l'istituzione della Guardia civica. Concesso lo statuto e indetti i comizî generali, il R. fu eletto (17 aprile 1848) deputato al primo parlamento subalpino e alla Camera sedette a sinistra. D'allora in poi egli fu uno dei parlamentari più in vista. Autore del progetto di legge per la fusione della Lombardia col Piemonte, sostenne nella relazione il punto di vista dei Lombardi: che cioè il governo provvisorio della Lombardia conservasse la propria autorità finché l'unione non fosse approvata dal parlamento; che poi si mutasse in consulta, alla quale il re sabaudo avrebbe dovuto ricorrere; che infine si convocasse un'assemblea costituente. Nonostante le opposizioni del conte di Cavour e del Pinelli, la Camera subalpina approvò la relazione del R., che il 6 luglio 1848 ebbe anche l'incarico di stendere la risposta al discorso della Corona. Avvenuta la fusione e succeduto al gabinetto Balbo quello Casati (27 luglio), il R. ebbe il portafoglio dell'Istruzione, che il 4 agosto cambiò con quello di Agricoltura e Commercio; ma, dimessosi dopo l'armistizio Salasco (8 agosto) il gabinetto Casati, il R. passò all'opposizione, caldeggiando la ripresa delle ostilità. Considerato ormai come il rappresentante della sinistra, il 16 dicembre 1848, succeduto al Perrone il Gioberti, con un ministero che fu detto democratico, il R. fu nominato ministro guardasigilli: e primo suo atto fu una circolare ai vescovi con la quale li minacciava d'arresto, se avessero continuato a predicare e a far pastorali contro le nuove istituzioni. Contrario alla politica del presidente del consiglio d'intervenire in Toscana e in Roma per ristabilirvi gli spodestati governi, quando il Gioberti fu costretto a dimettersi e fu provveduto a un gabinetto Chiodo (21 febbraio 1849), il R., che ne fu il maggiore esponente, vi assunse il Ministero dell'interno: e fu lui a sostenere che si dovesse respingere la mediazione anglo-francese, denunziare l'armistizio, ritentare le sorti della guerra. Caduto il ministero dopo il disastro di Novara, il R. si adoperò a formare alla Camera un partito politico che fu detto del centro sinistro. Questo partito faceva sue le idee della sinistra, ma poi accettò per programma le parole dette da Vittorio Emanuele nel salire al trono: promuovere "il progresso nelle vie del possibile".

Dopo lo scioglimento della Camera che non aveva approvato il trattato di pace, e dopo il proclama di Moncalieri, il R., rieletto deputato, sostenne il ministero d'Azeglio che aveva promosso con la legge Siccardi l'abolizione della giurisdizione ecclesiastica: e specialmente lo sostenne quando ne fece parte il conte di Cavour come ministro dell'Agricoltura, poi delle Finanze. Sebbene contrario alla legge De Foresta (17 dicembre 1851), dichiarò tuttavia, in vista delle gravissime circostanze in cui versava il paese, di prestare il suo appoggio al ministero se non avesse presentato altre leggi restrittive. Avvenne allora la fusione del centro sinistro con quel partito del centro destro che Cavour aveva formato con gli elementi più liberali di destra: fusione che, nella storia parlamentare italiana, assunse il nome di connubio. In conseguenza di ciò, il R. salì alla vicepresidenza, poi, morto il Pinelli (25 aprile 1852), alla presidenza della Camera. Dimessosi il d'Azeglio (4 novembre 1852) e andato al potere il conte di Cavour, il R. fu nominato (27 ottobre 1853) ministro di Grazia e Giustizia e il 31 marzo 1855 ministro dell'Interno. Indefessa fu l'opera sua nel primo dei due dicasteri: presentò progetti di legge per il riordinamento giudiziario, per modificazioni al codice penale, per regolare l'ammissione al beneficio del patrocinio dell'avvocato dei poveri, per modificazioni al codice di procedura penale, e specialmente quello sulle corporazioni religiose, presentato alla Camera il 28 novembre 1854, e approvato dal Senato solo dopo vivissima ostilità il 24 maggio 1855. Contrario dapprima alla partecipazione del Piemonte alla guerra in Crimea, poi, con la sua calda eloquenza, difese il trattato e la convenzione che affiancarono il Piemonte alla Francia e all'Inghilterra (gennaio 1855). Ma intanto il partito dell'estrema destra, alleato col partito reazionario sin dall'origine del connubio, aveva iniziato una guerra accanita al R., specie dopo l'approvazione della legge sulle corporazioni religiose. I fatti di Genova del giugno 1857 furono utile pretesto per accusare il ministro dell'Interno di non averli preveduti. Egli si difese dinanzi alla Camera con la solita abilità oratoria: ma la posizione di lui apparve scossa, e allora i suoi avversarî indussero il Cavour a separarsi "dall'imprevidente e imprudente collega". Il conte di Cavour dapprima resisté. Ma, scossa, dopo le elezioni generali del 15 novembre '57, sfavorevoli al ministero, l'autorità del R., accusato dagli uni di non avere ben conosciuto i maneggi clericali, dagli altri di essere stato la causa principale, per le sue opinioni "troppo spinte" della "ribellione" del paese contro la politica del gabinetto, il conte di Cavour "fece appello ai sensi di amicizia e di abnegazione" del R., perché si ritirasse dal governo. Egli ebbe per lui, alla Camera, parole lusinghiere: ma ciò non tolse che nascesse, nel R., un risentimento, che neanche la sua elezione alla presidenza della Camera (dicembre 1858) valse a sedare.

Dimessosi il conte di Cavour dopo Villafranca, il R. entrò, e ne fu il massimo esponente, nel gabinetto La Marmora (19 luglio 1859), assumendo il portafoglio dell'Interno; e sua cura fu di praticare due politiche, una palese e conforme ai preliminari di pace, l'altra occulta e diretta a distruggerne le fatali conseguenze. Infatti, mentre richiamò i commissarî del re dalla Toscana, dalle legazioni e dai ducati, ordinando ad essi di rassegnare i poteri ai rappresentanti più autorevoli di quei paesi, segretamente ne favorì l'armamento e le aspirazioni di essere uniti al Piemonte. E fu lui che persuase il re, del quale godeva la massima fiducia, di chiamare a Torino Garibaldi per persuaderlo a non sconfinare dalla Cattolica e ad abbandonare il comando che aveva di una divisione dell'esercito dell'Italia centrale. Ma non tutte le provvidenze adottate dal R. ebbero l'approvazione del conte di Cavour, che pure non era stato contrario all'entrata di R. nel gabinetto La Marmora, ma che, amareggiato dagli avvenimenti che lo avevano allontanato dal potere, anelava a riprendere la direzione degli affari politici. Acuitosi il dissidio fra i due uomini, R. dové, il 20 gennaio 1860, cedere il potere al suo avversario e tornò alla presidenza della Camera (7 marzo 1861); ma il 3 marzo 1862 succedette al Ricasoli nella presidenza dei ministri, tenendo per sé i portafogli degli Esteri e dell'Interno. Come dopo Villafranca, così ora egli riassumeva il potere in difficili condizioni. Nel suo discorso del 7 marzo, il R. aveva dichiarato che in Roma si doveva andare col consenso della Francia, che il voto degl'Italiani si doveva sciogliere con mezzi morali e diplomatici. Ma intanto il partito d'azione e i Comitati di provvedimento per Roma e Venezia si erano raccolti in Genova come a parlamento, e Garibaldi vi era stato acclamato. Col duce dei Mille il R., fin dall'inizio del suo ministero, era entrato in cordiali relazioni, commettendogli la direzione dei tiri a segno nazionali e financo prospettandogli l'offerta d'un milione per provvedere all'armamento d'una spedizione in Grecia, che Garibaldi aveva promesso di soccorrere. Il fatto di Sarnico, che svelò al governo il vero fine per cui il generale prolungava il suo soggiorno nell'alta Italia, e il triste episodio di Brescia valsero a raffreddare alquanto la cordiale intesa col R., col quale, andato a Torino per tornare alla sua Caprera, Garibaldi aveva avuto quasi un alterco. Pochi giorni dopo, Garibaldi, all'insaputa del governo, comparve a Palermo, da dove lanciò il grido di "Roma o morte". Al R. fu subito rimproverato di avere non troppo deplorato l'audace gesto di Garibaldi: ma dimostrano il contrario, più ancora delle dichiarazioni ministeriali, i documenti recentemente pubblicati, dai quali appare come, giorno per giorno, il R. inviasse ordini in Sicilia, purtroppo non tutti eseguiti, specialmente da parte della marina, perché fosse evitato il triste episodio di Aspromonte. Il 1° dicembre 1862, dopo viva discussione alla Camera, il R. si dimise. Benché si fosse schierato all'opposizione, durante il gabinetto Minghetti, a lui politicamente e personalmente avverso, votò in favore della convenzione di settembre (1864), sia pure movendone aspre censure. Tornato al potere il 10 aprile 1867, anche questa volta si trovò di fronte Garibaldi, il quale, dopo avere cooperato a rovesciare il gabinetto Ricasoli, si disponeva a invadere lo stato pontificio, con una spedizione di volontarî, che doveva avere il suo tragico epilogo a Mentana. Il R., che vagheggiava di risolvere per altre vie la questione romana, favorendo di sottomano le aspirazioni del Comitato nazionale romano, fu ancora questa volta sopraffatto dal colpo di testa di Garibaldi; e fu costretto a lasciare il potere il 23 ottobre 1867. Negli ultimi suoi anni di vita, fu assiduo alle sedute parlamentari; ma non si fece più il suo nome per una probabile ricomposizione ministeriale.

Bibl.: I discorsi del R., che fu uno dei più eloquenti e avvincenti oratori alla tribuna parlamentare, furono raccolti dallo Scovazzi per incarico della Camera dei deputati (Roma 1876-80), in otto volumi. Di lui manca una biografia che possa essere utilmente consultata. Quella di S. G. (Torino 1861), vale ben poco; e ancor meno quelle di F. Moglietti, U. R., con cenni storico-parlamentari, Pinerolo 1862 e di C. Perocco, Vita di U. R., Napoli 1867: quest'ultimo è un libello, dovuto a un nemico dichiarato del R. Il libro di Madame Rattazzi (Maria Studolmina Wyse Bonaparte, vedova De Solms), ch'egli aveva sposata nel 1861 intitolato: R. et son temps. Documents inédits. Corespondance intime,Parigi 1881-87, in due volumi, è opera scritta con forma smagliante, colma di aneddoti interessanti, ma non costituisce una biografia fondata su basi sicure. Per ora, sono da consultare con profitto: A. Morelli, R., saggio politico, Padova 8174; A. Corbelli, A. La Marmora e U. R., in Carteggi di A. La Marmora, Torino 1929; A. Luzio, Aspromonte e Mentana, Firenze 1935.

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