Utopie letterarie e utopie storiche: da Thomas More a Müntzer

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Renato De Filippis
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

La modernità segna una vera irruzione dell’utopia nella storia: l’utopia, il progetto di trasformazione della società secondo giustizia, benessere, pace. Dal piccolo prezioso libro di Thomas More e dall’isola di cui era il nome si espande in centinaia di progetti politici. E subito subentrano i movimenti che tentano la trasformazione: nel Cinquecento la guerra contadina tedesca con il suo profeta Thomas Müntzer; l’anabattismo, in particolare la “fattoria fraterna”, che inizia la sua storia esemplare.

Utopia, la parola, il suo senso

La parola è coniata da Thomas More, l’umanista e uomo politico inglese, cancelliere di Enrico VIII dal 1529 al 1532, incarcerato, condannato, giustiziato nel 1535 per non aver accettato l’Atto di supremazia, la legge con cui il despota crea la Chiesa inglese e se ne fa capo per poter ripudiare la moglie che non gli dava un erede maschio. Muore dunque vittima di quel dispotismo che aveva avversato e che però aveva anche servito.

La parola è coniata come nome di un’isola in cui vige un ordinamento politico esemplare; sta infatti nel titolo del suo piccolo famoso libro, Dell’ottima forma di Stato e della nuova isola Utopia, pubblicato a Lovanio nel 1516. La società in cui vive, e di cui intesse una critica severa e dolente, è una società profondamente “iniqua” (la parola ch’egli usa, ediz. Yale, New Haven 1965, p. 240); e del resto l’umanità intera soffre di quello che può dirsi il “blocco della società ingiusta”: dispotismo, cioè potere incondizionato di un solo, conquista di popoli, formazione d’imperi, guerra perenne; schiavitù, asservimento della donna, povertà, analfabetismo, impotenza del popolo lavoratore. Perciò l’idea dell’esistenza di una società “buona”, giusta, può solo essere proiettata lontano, in un’isola o terra lontana, sperduta, in cui il viaggiatore s’imbatte a caso, portato dalle correnti marine, o impatti nel naufragio.

La parola passa dunque a significare il progetto della società “buona, giusta”, l’eutopia. Il “non luogo”, la società che non esiste (tale il senso letterale) è in realtà il “buon luogo”; come risulta già dall’hexástichon, i sei versi dell’ignoto poeta Anemolio (il ventoso, il vanitoso), che stanno tra i materiali introduttivi dell’opera e dicono che più che utopia dovrebbe chiamarsi eutopia.

Col moltiplicarsi dei progetti lungo la modernità, progetti tra i più vari, anche conservatori, ludici o perversi, l’utopia diventa un genere letterario, quello appunto del viaggio nel paese ignoto e lontano dove vige un ordinamento altro (perfino nella Luna e nel Sole; o un viaggio nel sogno, o con la macchina del tempo, nel futuro dell’umanità). Il carattere di bontà si attenua e decisamente prevale quello dell’“immaginoso”; di un progetto immaginario di società in cui decadono la tensione etico-storica e la tensione realizzatrice presenti in More, in molti altri; anche se alla fine del suo testo More dirà quel famoso “desidero, più che spero” (p. 246).

Questo carattere dell’immaginario proviene da lontano: presente già nel dizionario francese-inglese di Randle Cotgrave (London 1611, “un posto o un paese immaginario”), poi nei dizionari francesi del Settecento, il Dictionnaire de Trévoux del 1752, il Dictionnaire de l’Académie Française, 5a ed. del 1799; ripreso nella discussione marx-engelsiana del “socialismo critico-utopistico” (quello di Saint-Simon, Fourier, Owen, gli ingegneri sociali che pensano a una reale trasformazione della società, sia pure attraverso comunità esemplari) come rispondente a una fase ancora immatura del proletariato, che proietta in modo ancora fantastico la sua tensione (Manifesto, III, 3 – MEW 4, 490-91). Degrada poi nell’irreale e irrealizzabile, il sogno, la chimera; specie quando viene applicato all’esperienza sovietica, la quale sarebbe il tentativo di costruire un’utopia che necessariamente fallisce; applicazione indebita, perché il modello sovietico parte sì dal progetto utopico marxista di una società che elide le classi dominanti, le quali detengono i beni di produzione, il capitale, società aclassiale, di radicale eguaglianza; ma degenera nella dittatura di partito e nel dispotismo stalinista; in una società oppressiva, perversa; in una distopia, che è l’opposto dell’utopia.

Si giunge così al degradato concetto corrente del “bello ma impossibile”, di cui si dice “è un’utopia”; a livello popolare come a livello dotto; al tentativo di totale annientamento le cui prime radici stanno nella lotta che la società capitalistica e borghese (in senso stretto, borghesia come detentrice del capitale) sin dalla metà dell’Ottocento ha condotto contro l’utopia. “L’utopia è morta”, si dice, si scrive.

Nel frattempo, con Karl Mannheim, che per primo trascende il livello filosofico-letterario, e riconosce l’utopia come un fattore della storia, il fattore creativo-eversivo, quindi propulsivo (Ideologia e utopia, Bonn 1929; tr. it. Bologna 1957); poi con Ernst Bloch, che sia pure oscuramente vi riconosce il processo liberatorio della storia umana (Il principio speranza, Frankfurt a.M. 1954-59; tr. it. Milano 2005); infine con gli studi più recenti che alla base dei progetti degli autori ritrovano e ricostruiscono il progetto dell’umanità, progetto-processo, costruzione di una società di giustizia, l’utopia raggiunge il suo senso originario e autentico, un senso storico-dinamico: il progetto che l’umanità ha concepito, e che pone in atto nella costruzione di una società di giustizia, e più oltre di una società fraterna.

Distopia è l’opposto dell’utopia, il progetto, o meglio il modello, di una società perversa. Parola introdotta forse per la prima volta in un discorso di John Stuart Mill alla Camera dei Comuni nel 1868 a proposito della politica irlandese del governo; appunto in opposizione ad utopia (secondo l’Oxford English Dictionary). Ha poi sostituito parole approssimative come antiutopia o controutopia o utopia negativa.

Modelli perversi sono presenti nell’utopia letteraria – ad esempio nei Viaggi di Gulliver di Swift o in Erewhon di Butler – di solito con un intento etico di monito, di dissuasione da quel modello. Si fanno prevalenti nel Novecento per la presenza di società perverse particolarmente pericolose per l’umanità: così anzitutto il modello sovietico e la sua costellazione, la sua aggressività, il suo pseudo-comunismo oppressivo che pretende di essere autentico e si presenta come l’unico “socialismo reale”; così il pericolo di una società tecnologicamente inumana e della stessa democrazia borghese. In opere letterarie famose, Il mondo nuovo di Huxley, 1984 di Orwell. In particolare nella fantascienza.

Il progetto politico di Thomas More

Si articola dalla critica della iniqua società inglese del suo tempo, che occupa la prima parte del piccolo libro, ma ritorna anche nella seconda; società che poi – come già notavo – è quella di sempre, il “blocco della società ingiusta” che ha dominato l’umanità fino a tempi recenti. Lo stato ingiusto, l’“iniqua et ingrata respublica”. (p. 240).

La società monarchico-aristocratica. Col monarca dispotico, che si ritiene “superiore ad ogni legge” (“l’indiscutibile prerogativa del principe”, p. 92); si ritiene padrone di ogni cosa, beni e uomini, intento ad ammucchiare denaro con ogni mezzo; che invece di amministrare il paese pensa alla guerra, alla conquista di altri paesi che sfrutterà anziché amministrarli (pp. 56, 86-88). Strano che, due anni dopo l’uscita di questo progetto e di questa critica, nel 1518, egli entri nel consiglio segreto (privy council) di quel monarca dispotico; e che giunga poi a diventarne il Cancelliere, il ruolo più alto e il più vicino a lui. Con l’aristocrazia oziosa, circondata da parassiti; avida, sfruttatrice del lavoro altrui fino a spogliare i coloni; prodiga e dissipatrice fino a ridursi alla mendicità (pp. 62-66).

Con lo sfruttamento del lavoro, un lavoro duro che a stento lo sopporta un giumento; un salario misero che non basta alla giornata, tantomeno alla vecchiaia; su cui poi il padrone taglia sempre qualcosa; un vitto stentato, una vita miserabile. Qui More non teme di parlare di “cospirazione dei ricchi”, che non solo opprimono e depredano il povero con la frode, ma lo fanno con la legge; le loro “macchinazioni” le trasformano in legge; ciò che prima appariva ingiusto, promulgata la legge, diventa giustizia (pp. 238-240).

Due classi, dunque: i nobili, oziosi, viziosi, che non fanno nulla o comunque non ciò che serve allo stato, e vivono splendidamente; i lavoratori, senza cui lo stato non potrebbe sussistere, che perciò meritano altamente dello stato, ma vivono in povertà. Con essi, poi, v’è tutto un popolo affamato che non ha di che vivere: mutilati di guerra; ex militari indeboliti o in età avanzata; parassiti di nobili (“l’immensa turba degli oziosi”), che possono servire come soldati, ma abbandonati poi perché malati, o perché l’erede non ha di che mantenerli, né conoscono mestiere alcuno; coloni spogliati dai nobili, costretti a vendere attraverso la frode, le vessazioni, la violenza; scacciati dalle “recinzioni”, tipico problema inglese – terre passate al pascolo per l’avidità di un maggiore guadagno – con l’espulsione dei coloni, con la distruzione di colture case villaggi, le famiglie (numerose perché il lavoro dei campi richiede molte mani) costrette all’emigrazione, alla mendicità, al furto; cui segue il carcere, la forca (pp. 60, 61, 66-68, pagine di alto tenore umano).

Questa critica non è immune da qualche menda, anche grave. Condanna la guerra che considera “una cosa affatto belluina, e però in nessuna belva tanto presente quanto nell’uomo” (p. 198); ma esclude solo la guerra di conquista, non quella di difesa o di liberazione. Pensa tuttavia ad una guerra da condursi più con l’ingegno che con le armi, sì da risparmiare il più possibile i cittadini; almeno i propri, perché ammette i mercenari, anche se atrocemente li disprezza (pp. 206-208).

Condanna l’impiccagione dei ladri per la giusta ragione che la roba non può essere comparata con la vita umana (p. 72); ma ammette poi la servitù a vita (può essere liberato per buona condotta), col taglio dell’orecchio e di una parte dei capelli e con una speciale divisa, affinché sia riconoscibile; con anche la frusta; e con la pena di morte se si toglie la divisa o accetta denaro o tenta la fuga. Un metodo che More ritiene notevolmente umano, e che consiglia anche per l’Inghilterra (pp. 76-80). Dopo aver affermato in Utopia la libertà religiosa, combatte e condanna gli eretici, fino alla tortura e al rogo.

Il modello di società e stato ch’egli propone viene da lui affermato come l’“ottimo” (parola che ritorna – titolo del libro e delle due parti, pp. 46, 110), come il “solo” che possa a buon diritto rivendicare il nome di res publica (p. 236); parola non priva di presunzione. In realtà può dirsi forse predemocratico in quanto non raggiunge il principio di dignità e diritto della persona, il cittadino come detentore originario di quel diritto che, ceduto in parte, forma lo stato di diritto, quindi l’istituzione e la legge. Il principio di eguaglianza vi è affermato ma non adeguatamente realizzato (p. 106).

Il punto chiave, per More, il punto risolutore, è la comunione dei beni. La deriva da Platone, più che dalla primitiva comunità cristiana cui pure accenna (pp. 100-104); ma la universalizza: non è più ristretta ai soli gestori della città (filosofi e guerrieri) ma è di tutti; i beni sono di tutti, per una eguaglianza e destinazione universale, e portano al benessere di tutti.

Tutto è comune. Egli certo non distingue tra beni di produzione e beni d’uso; anche se potremmo dire che pure i primi sono della comunità: i terreni certo, ma anche le botteghe d’arte. I prodotti, a cura dei padri di famiglia, convergono nei mercati di quartiere, dove gli stessi padri attingono tutto ciò che alla famiglia serve; mentre i dispensieri attingono ciò che serve alle mense comuni.

Le case vengono abitate a rotazione per un decennio; e sono sempre aperte, ognuno vi può entrare. L’abito è per tutti uno solo, diverso per i due sessi, e per celibi e sposati. Non entriamo nell’ordinamento delle mense, molto preciso, che sono una per quartiere, cioè per trenta famiglie.

L’idea che consegue è l’abbondanza; perché non v’è appropriazione ed accumulo da parte dei pochi; e perché v’è programmazione: sanno infatti con certezza quanto ogni città e campagna consuma (p. 116), e producono molto di più; non vi sono poveri, non indigenti; e anche esportano. Alle mense vi sono frutta, dolci, profumi, musica (p. 114).

Compaiono, su questo punto della comunanza dei beni, alcune espressioni forti: “Dove il possesso è privato, dove tutto si misura col denaro, dubito si possa mai avere uno stato giusto e prospero”; la comunione dei beni, l’abolizione della proprietà privata, gli si presenta come “la sola e unica via per il pubblico benessere”; per cui, se ad essa non si porrà mano, “graverà sempre sulla parte di gran lunga maggiore e di gran lunga migliore dell’umanità [che è il popolo] il peso dell’indigenza, il fardello angoscioso e inevitabile del dolore” (pp. 102, 104). Espressioni che oggi ancora non hanno perso in nulla la loro forza, dopo lo scacco e il crollo dell’infelice pseudocomunismo sovietico che ha bloccato il processo verso la comunione dei beni, il vero autentico umano comunismo.

Il secondo punto è il lavoro. Tutti lavorano. Il lavoro agricolo è assolto da tutti attraverso un biennio di tirocinio giovanile in campagna, in due squadre di venti ciascuna, sotto la guida di una coppia; More lo considera troppo duro per farne una professione (p. 114); un punto molto discutibile. Dopo di che tutti esercitano un’arte, di solito quella del padre come la più naturale; oppure un’altra, se ad essa sono più inclini, passando ad altra famiglia da cui vengono adottati (v’è qui uno stretto nesso tra famiglia e bottega d’arte). Al lavoro bastano sei ore (tre prima e tre dopo le due ore del pranzo), per almeno tre ragioni: scomparsa dei ceti improduttivi; scomparsa dei lavori inutili, superflui, per lusso capriccio bisboccia (non vi sono taverne con vino e birra, non bordelli); riduzione dei bisogni (ma intervengono anche gli schiavi – punto dolente, davvero incomprensibile – che fanno i lavori più duri e sordidi). Mentre si espande il tempo dell’ozio, da dedicare alle lettere, alle scienze, alla musica, alla conversazione, al gioco. Tutti infatti fin da bambini apprendono le lettere, e le coltivano poi sempre (p. 158). Un punto, questo dell’equilibrio tra lavoro ed ozio, che ancora ci manca: da circa un secolo siamo fermi alla giornata lavorativa di otto ore, nonostante l’enorme aumento della produttività oraria. Un fatto abnorme. Il tentativo di Jospin, le 35 ore settimanali, è stato osteggiato in Francia e non ha avuto seguito altrove. Il terzo punto, il governo. Parlando del lavoro bisogna aggiungere che v’è un’élite esonerata dal lavoro manuale e dedita agli studi, una “classe di letterati“ (p. 132): piccola, scelta dall’autorità con approvazione del popolo; da cui si genera poi quella che possiamo chiamare l’élite di governo; un governo di tipo paterno, in una convivenza amabile, dove lo stato è come una famiglia (pp. 148, 192-94).

Il quadro delle magistrature. More pensa a qualcosa come una confederazione di città-stato, come le città dell’antica Grecia. In ognuna v’è una magistratura di quartiere (ogni trenta famiglie si elegge annualmente un filarco) e un organo centrale di governo, un senato (di venti protofilarchi, eletti annualmente dalle famiglie coi filarchi), presieduto da un principe (eletto a vita – punto di riflusso monarchico – dai filarchi su designazione dei quartieri; che ne indicano quattro). Il senato si riunisce ogni tre giorni. Ha probabilmente la prerogativa della legge e del decreto, ma funge anche da tribunale; e però qui le leggi sono pochissime e pochissime le liti e i crimini, in quanto prevale la virtù (pp. 102, 122, 194).

V’è poi un senato centrale formato da tre membri di ogni città, e che si riunisce ogni anno; ma non sembra avere particolare peso (pp. 112, 146). Problemi di maggiore gravità vengono discussi da comizi di filarchi con le famiglie, portati poi in senato; e talora da un consiglio dell’isola intera (pp. 122-24). Parlavo di un modello predemocratico, di un’assenza del principio di dignità e diritto della persona, assenza del cittadino. Qui nodo della convivenza è la famiglia allargata e patriarcale, dove figli e nipoti maschi restano, con le rispettive mogli e prole, e dove l’autorità appartiene sempre al più anziano, il grande padre (l’antiquissimus, pp. 234, 236). La donna non si emancipa: nel lavoro si occupa di lana e lino, e della preparazione del cibo alle mense; anche se ha lei pure una formazione letteraria e frequenta le lettere (alcune sono anche assunte al sacerdozio; e però di rado, vedove, in età matura). Nella famiglia è soggetta al marito, cui serve, da cui è castigata quando erra, cui si confessa, ai suoi piedi (pp. 136, 190, 232). Qui, certo, i detentori tradizionali del potere come della ricchezza – monarchi e aristocratici – sono scomparsi; è scomparsa pure l’aristocrazia platonica di filosofi e guerrieri come gestori della città (Platone, l’aristocratico che non comprende la grande esperienza della sua patria, Atene, la democrazia; che disprezza il popolo). Si può parlare di potere popolare, anche se ristretto ai capifamiglia; da esso procedono le magistrature; e vi sono anche momenti assembleari.

Con questo More pensa di aver raggiunto quelli che noi consideriamo i grandi obiettivi del processo di liberazione dell’umanità: giustizia, benessere, felicità. La città è felice perché giusta, a nessuno è fatto torto egli pensa (neppure allo schiavo); la famiglia è un centro di affetti; i beni sono disponibili a tutti, il corpo è sano robusto agile, poche le malattie (felicissima, pp. 178, 236; giustizia, pp. 104, 238).

L’irrompere dell’utopia

L’apparizione del libro di More è come un evento storico-epocale che segna la storia in modo permanente, generando una corrente intensa di progettualità politica che si distende lungo la modernità e giunge fino a noi. Sempre nella prevalente forma letteraria di cui si è detto; talora anche in altre forme, come il dialogo o il trattato. Nel Cinquecento sono solo sette, nel Seicento sono 24, nel Settecento sono 97. Se ne contano oltre 300; anche se i conteggi variano alquanto nei diversi autori che vi si sono accinti, sono sempre un numero strepitoso; che dilaga poi nella fantascienza, la quale è però spesso distopica.

Questo fenomeno ha certo una sua radice nei nuovi spazi che nella modernità si aprono e stimolano la conoscenza e la creatività umana. Spazi fisici aperti da quel prodigio di navigazioni e circumnavigazioni che aprono alla conoscenza e allo stupore umano – all’Occidente in particolare – un mondo, il suo, che gli era rimasto fino ad allora in gran parte ignoto. Spazi etici, conoscitivi, creativi, che l’umanesimo del Quattrocento apre con la scoperta dell’uomo nella sua “dignità”, nella sua fattività e creatività di faber, di plastes et fictor, con una potenza operativa che può soggiogare la stessa fortuna, e che si apre senza limiti, sino al divino, nititur fieri deus. Spazi storici, col cedere del modello storico medievale, il modello parabolico di una storia ormai senescente, prossima alla fine; cui succede un modello lineare, aperto indefinitamente sul futuro.

È anzitutto in questa temperie che si può capire l’irrompere della creatività utopica; come poi anche, un secolo più tardi, l’avvento della scienza galileiana, scienza di sperimentazione del fenomeno, della sua misurazione esatta, quindi della sua riproduzione e produzione illimite, la tecnologia; che porta poi all’industria, alla produzione per modelli universali capace di rispondere all’universale bisogno umano.

E però questo irrompere è mosso anche da un bisogno di trasformazione della società. La società ingiusta, il “blocco della società ingiusta” che da millenni tormentava l’umanità, che More aveva analizzato e denunziato con forza, senza temere la rivalsa dei despoti, degli aristocratici. Parte la ricerca di come può e dev’essere una società di giustizia e di benessere per tutti, la sua progettazione inesausta; ricerca letteraria, o filosofico-letteraria, ricerca di autori. Impotente a trasformare essa stessa la società – secondo il principio, contenuto nella citata critica marx-engelsiana, che la società non può essere trasformata dal progetto di un autore, da un progetto individuo, mentale, “escogitato di sana pianta”; ma solo da un movimento portatore di un progetto che dall’interno la va trasformando; che è per essi in quella fase il proletariato operaio. Ricerca che tuttavia mantiene alta la tensione critica e trasformatrice, e apporta un tesoro d’idee e di progetti prezioso per l’umanità, oggi ancora, e sempre; fatta la dovuta sceverazione.

I progetti politici della guerra contadina tedesca

Ma ecco che, con la modernità, intervengono anche i movimenti, e il processo trasformatore della società compie il suo primo passo. Interviene la Riforma luterana che, eliminando l’intera struttura gerarchica ecclesiastica, l’intero modello imperial-papale, instaura una chiesa di popolo, pur sostenendo i principi e il loro potere (il punto di contraddizione); e fa inoltre della Bibbia l’unica autorità; e la traduce, sì che tutti possano leggerla o sentirla leggere (poiché l’analfabetismo era forte), e capirla (nel 1521 esce il Nuovo Testamento, e in esso i Vangeli, il testo decisivo). È da questa lettura che si scatena il primo dei moderni movimenti di liberazione sociale e politica, la guerra contadina tedesca del 1524-25; lo si vede dai suoi progetti. La sua azione è breve, dura solo alcuni mesi, perché viene schiacciata dagli eserciti dei principi. Era il primo tentativo di scardinare la società monarchico-aristocratica; il prologo del moderno processo costruttivo di una società di giustizia.

Vediamo di ricostruire l’ordinamento che si prospetta dai progetti e documenti molteplici. Alla base vi è il Vangelo, la giustizia divina, la dignità dei figli di Dio, il principio fraterno: la prescrizione evangelica diventa il motivo della lotta e della rivendicazione, e diventa poi la norma che subentra all’arbitrio signorile e regola il nuovo ordinamento.

Si tratta di abbattere il sistema feudale, sia come territorio, sia come potere (“i tiranni assetati di sangue”, il loro potere “infantile e demente”, “le angherie, le estorsioni, i taglieggiamenti, le costrizioni, gli abusi”); e con esso il sistema monarchico o principesco; e così eliminare le barriere di ceto (contadino, artigiano, signore, clero), e liberare il “povero uomo comune”. Il nucleo di base è la comunità di villaggio, con anche (se possibile) la terra in comune; si mira anche a comunità urbane, o integrate di città e campagna. Si procede poi a federazioni provinciali e regional-statali, la Landschaft, la Flur; con anche funzioni regolative della produzione distribuzione esportazione, del fisco; con organi di gestione eletti, gestione popolare in cui di solito viene integrato anche il signore (che per lo più non viene annientato o espulso); mentre il clero talora viene integrato, talora secolarizzato; in particolare i monasteri (i testi in G. Franz, Quellen zur Geschichte des Bauernkrieges, Darmstadt 1963; P. Blickle, La riforma luterana e la guerra dei contadini, tr. it., Bologna 1983; H. Eilert, Riforma protestante e rivoluzione sociale, tr. it., Milano 1988).

La guerra contadina tedesca ha avuto anche un suo profeta, Thomas Müntzer. Un mistico, anzitutto, che vive in sé l’esperienza dolorosa della croce, e viene così “svuotato” e “atterrato”, e così si libera, si colma di sapienza attraverso l’esperienza interiore della parola di Dio, voce vivente, rivelazione, visione (cito da Scritti politici, pp. 158-159).

Uno spirito polemico, in lotta con Lutero di cui rifiuta l’insuperabilità del peccato, la corruzione dell’umana natura, come un “disprezzo insolente per l’uomo” e che “fa di Dio l’origine del male”; Lutero, il “meschino adulatore”, l’“ipocrita”, che vuole ingraziarsi Dio e insieme i principi (pp. 208, 193, 210). Il profeta del popolo e della sua rivolta. Il popolo sfruttato, oppresso, che “trascorre la sua vita nell’ardua ricerca del nutrimento, mentre riempie la gola agli arciempi tiranni” (p. 156).

I principi, i signori, cioè i malvagi, il potere del male, “l’origine di ogni latrocinio e rapina”. Si appropriano di tutto e poi “fanno divulgare il comandamento di Dio: non rubare. Ma questo non vale per loro”. Riducono in miseria tutti gli uomini, “pelano e scorticano contadini e artigiani e ogni essere vivente”. La demistificazione del potere monarchico-aristocratico come oppressione e sfruttamento (pp. 193-194).

Il clero è il loro alleato, “fa in modo che la gente non impari a leggere”, predica l’obbedienza ai tiranni (p. 141). La chiesa è decaduta fin dalle origini, “è rimasta vergine non oltre l’epoca della morte degli apostoli, e subito dopo è diventata adultera” (p. 98); quando appunto diventa gerarchica, sviluppa una struttura di potere. Il suo rinnovamento non può essere che il ritorno alle origini, ad una nuova chiesa apostolica.

Perciò la rivolta popolare armata, la spada; non la sedizione, ma “la legittima rivolta”. Contro il male, contro gli empi; la “battaglia del Signore”, “non è battaglia vostra ma di Dio, è lui che combatte” (pp. 102, 219, 222).

Ci sarà allora il “retto governo” (p. 119). Müntzer non sviluppa un progetto politico; i profeti non fanno progetti politici, spesso neppure scrivono. Ci sono tuttavia delle espressioni: “Il popolo sarà libero e Dio solo ne sarà il Signore” (p. 214); “a ciascuno dovrà essere dato in ragione dei suoi bisogni e a secondo della disponibilità del momento”; e la famosa frase che avrebbe pronunziato sotto la tortura (fatto prigioniero nello scontro di Frankenhausen del 15 maggio 1525, decapitato il 27): “omnia sunt communia”, tutte le cose sono comuni (Blickle, cit., p. 267. Gli altri testi in Schriften und Briefe, Gütersloh 1978; Scritti politici, tr. it., Torino 1972; cfr. il saggio di Ernst Bloch, Thomas Müntzer teologo della rivoluzione [1921, 1969], tr. it., Milano 1981).

L’anabattismo, la fattoria fraterna

L’anabattismo è una riforma nella Riforma; è la volontà di una riforma più autentica, più pura (il principio che non il bambino dev’essere battezzato ma l’adulto, l’uomo di fede, sì che il battesimo sia per lui come un voto, un patto, si forma a Zurigo, nella cerchia di Zwingli, nel 1524). Si sviluppa in una molteplicità di esperienze, di correnti e gruppi (tra cui l’eccentrico regno di Münster, esperienza anomala, i mennoniti, più tardi gli amish).

C’interessa la fondamentale impostazione di questa linea: la comunità fraterna, laica, di libertà ed eguaglianza, di comunione dei beni spirituali e materiali; dove tutti hanno la parola. Ci sono degli anziani, un provveditore, altre forme, eletti però dalla comunità. La quale deve mantenersi pura, chi non è degno viene espulso, sia pur con amore (il Bann, l’Ausschluss). Una comunità non violenta, che rifiuta la spada, la guerra, la resistenza (“non resistere al malvagio”, dice il Vangelo). Rifiuta la carica politica, per la rigorosa separazione che ci dev’essere tra Chiesa e Stato, e perché lo stato appartiene al mondo dominato dal male, avendo però come compito d’infrenare le forze del male (idea già luterana). Rifiuta il giuramento, seguendo con rigore il divieto evangelico.

C’interessa questa impostazione, la quale contiene molti dei principi utopici che s’imporranno nella modernità; o che si presenteranno e ancora attendono d’imporsi (come la comunione dei beni, tentata e fallita nella galassia sovietica; come il rifiuto della guerra, che sempre più preme).

Il Brüderhof, la fattoria fraterna, la più grande esperienza storica di comunità utopiche (non lo stato, ma la comunità agricola e artigiana raccolta nella fattoria, federata con altre comunità, in un unico stile di vita). La prima ad Austerlitz nel 1528 (in Moravia, regione orientale della Cechia, presso Brno): un gruppo di circa 200 adulti che lascia il proprio villaggio in seguito al conflitto sulle tasse per la guerra contro i Turchi (il rifiuto della guerra): “Stesero un mantello dinnanzi a tutto il popolo e ognuno vi mise sopra i suoi possessi, volonterosamente e senza costrizione”: è la decisione per la comunione dei beni (Zieglschmid, cit., p. 86), che però in una prima fase presenta difficoltà; nel 1533-1535 Gabriel Hutter, predicatore tirolese, dà alla fattoria la sua definitiva organizzazione; per cui questa corrente si chiamerà hutterita.

La sua storia è complessa. Le comunità crescono (circa 80, 30.000 anime, nella seconda metà del Cinquecento). E però soffrono: le persecuzioni dei principi e imperatori cattolici; gli assalti saccheggi stupri delle bande turche, delle truppe imperiali, da cui non si difendono, non possono opporre violenza a violenza; perseguitati, espulsi, sterminati; si riprendono sempre. Emigrano in Slovacchia, in Transilvania, poi in Ucraina, infine in USA e Canada (nel 1974 le fattorie erano 229).

Una comunità di amore fraterno, di beni (molto stretta, anche il vestito, il bastone), di lavoro, di vita. I beni sono di Dio, concessi in amministrazione all’uomo, che ne usa sobriamente in unità col fratello.

V’è un’autorità, sia pure paterno-fraterna. Vi sono i Servi della parola (Diener des Wortes, per la predicazione e la cura spirituale) e i Servi del bisogno (Diener der Notdurft, preposti alla produzione e all’amministrazione): presentati all’assemblea, eletti a sorte, messi in prova, confermati poi con l’imposizione delle mani da parte degli anziani. V’è un superiore (Vorsteher), scelto tra i Servi della parola ed eletto a vita, e con lui un consiglio di anziani. V’è un Vescovo che presiede una federazione di comunità. Queste cariche hanno creato talvolta difficoltà al principio di eguaglianza, alla spontaneità tipica dell’anabattismo; con tendenze formalistiche ed autoritarie.

Il Brüderhof è ovviamente una comunità di famiglie. Ha perciò un edificio centrale grande, alto, con a pianterreno i locali comunitari – cucina, sala da pranzo (che serve anche per il servizio religioso e le assemblee), infermeria con reparto maternità e nursery, aule scolastiche, lavanderia, laboratori, magazzini –; mentre in almeno due altri due piani vi sono le stanze per le famiglie. Ma può avere – per laboratori, magazzini, stalle ed altro – fino a 50 edifici e contenere fino a 1000 persone (ma in media 300).

È una comunità di lavoro e consumo autosufficiente. Con campi, boschi, stagni; anche in affitto. Con cicli completi di lavoro: così per lana e lino, dalla raccolta e tosatura alla filatura, alla tessitura, alla sartoria; per il legno dal boscaiolo al carpentiere, al falegname, al mobiliere; per il bestiame dal pascolo al macello, alla concia, alle pellicce, a scarpe selle finimenti. La comunità dispone anche di chirurghi-barbieri, di medici molto stimati.

Il lavoro manuale vi è appreso da tutti con una professionalità duttile e molteplice; con coscienziosità, con accuratezza nell’esecuzione, con materiali appropriati e di buona qualità. Ed è quindi molto apprezzato nel territorio, per il quale anche produce e vende: così vino e birra, coltelleria, ceramiche, vetri e specchi, campane, orologi. Ma i lavori più faticosi sono assolti da tutti a turno.

Si giunge così, oltre che ad un diffuso benessere, pur nella sobrietà, a grosse scorte di beni; a scorte di liquidità; che divengono oggetto di pressioni e di estorsioni da parte dei governi; così come di scorrerie e saccheggi militari. Il lavoro mentale comprende anzitutto la formazione scolastica per tutti, in due cicli: la piccola scuola dai 2 ai 6 anni, nella casa dei bambini; la grande scuola, dai 6 ai 12 anni, nella casa dei ragazzi; nelle quali convivono per quasi l’intera giornata e l’intero anno; con insegnanti scelti in base all’amore per l’infanzia. Continua poi su base attitudinale per la formazione d’insegnanti, ministri, medici.

Il Brüderhof raggiunge così un alto livello di trasformazione sociale: negli obiettivi supremi di giustizia e amore fraterno, benessere, pace. Un alto livello utopico. Nell’ambito di microsocietà comunitarie, non nella grande società che è lo stato. Per la quale potrebbero essere esemplari. In realtà, pur non essendo nuclei di segregazione come le comunità monastiche, esse avversano lo stato. E pur essendo per certa parte apprezzate e ammirate, si ritrovano in ambienti ostili, cattolici od ortodossi, che li considerano eretici, e in tal senso li disprezzano e li osteggiano. D’altronde essi sono la matrice di tutto il moderno movimento di comunità utopiche, che avrà il suo vertice nell’Ottocento americano; ma la loro irradiazione non è immediata.

Il principio di esemplarità sarà poi sviluppato da Fourier, Cabet, Owen (nella prospettiva fourieriana non vi sono stati ma solo falansteri, cioè comunità di convivenza e collaborazione); sarà fortemente criticato da Marx ed Engels come inefficace per la trasformazione e redenzione della società (nel testo cit.). Tuttavia le più recenti comunità o comuni della Contestazione americana, degli anni 1960-1970, raggiungono una notevole forza di trasformazione sociale almeno in un punto, nella repressiva etica sessuale propria della tradizione cristiana e dell’Occidente (U. Gastaldi, Storia dell’anabattismo, Torino 1972-1981; Die älteste Chronik der Hutterischen Brüder, a cura di A.J.F Zieglschmid, Ithaca-N.Y. 1943).

In conclusione un’osservazione soltanto: in tutte queste esperienze in cui inizia la moderna trasformazione e redenzione della società dai suoi mali, la comunione dei beni è un nodo centrale. Oggi, dopo l’esperienza pseudocomunista sovietica, è considerata un’aberrazione, un’idea strana fantomatica perversa; anche dalle chiese cristiane che pure l’hanno all’inizio della loro storia. Certo a seguito della fallimentare atroce esperienza sovietica; e sotto l’influsso del capitalismo; in questa società dominata dal capitale e tormentata dalla disoccupazione e dall’indigenza. Ma si legga, ad esempio, la visione utopica di Edward Bellamy (Loocking backward, tr. it. Uno sguardo dal 2000, Soveria Mannelli 1991), per vedere come può correttamente e gioiosamente funzionare una società in cui i beni sono in comune; pur con ancora qualche immaturità e ingenuità; in una società che tuttavia è in costruzione, che può migliorare nel tempo.

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