Valerio Massimo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Valerio Massimo

Giampietro Marconi

Storico latino (I° sec. a.C. - I° sec. d.C.), autore di Factorum et dictorum memorabilium libri IX, una raccolta di carattere aneddotico-morale che ha scopi chiaramente retorici; anche attraverso le epitomi l'opera godette nel Medioevo ampia fortuna e se ne ha un importante volgarizzamento (prima metà del '300) attribuito ad Andrea Lancia.

D. non lo cita mai direttamente, ma già i primi commentatori della Commedia lo proponevano come fonte unica o confluente di alcuni spunti o episodi dell'Inferno e del Purgatorio. Alcuni studiosi moderni hanno poi creduto d'individuare qualche altro caso, così che in tutto possono esser presi in esame sei punti. Uno dei luoghi in cui D. si sarebbe ricordato di V. è la similitudine di Pg XXIX 115-116, dov'è detto che Roma non onorò Affricano, o vero Augusto con un carro trionfale così bello. Nessuno né degli antichi commentatori né dei moderni (a eccezione di Casini-Barbi e Sapegno) ha pensato che D. dovesse aver bisogno della suggestione di un preciso autore latino, o addirittura di V., per poter parlare di una cosa tanto usuale nella cerimonia forse più famosa del mondo romano. Solo il fervore di scoprire le ascendenze classiche poteva trascinare così il Moore, il quale però in seguito, al momento di compilare gl'indici per il volume, sentiva il bisogno di avvisare onestamente che riteneva " very doubtful " il riscontro (cfr. pp. 357 n. 5 e 369). Oltretutto, nel passo di V. (IV I 6) non si parla affatto né di carro trionfale né della celebrazione di un trionfo, ma solo di un'insignificante " imago eius [di Scipione] triumphali ornatu induta "; molto più pertinente sarebbe, tra l'altro, il passo " optimo exemplo Africani superioris currum triumphantis... secutus est " (V II, ext. 5); ma anche contro questo riscontro rimane valido quanto si è sopra osservato, sì che sarà prudente parlare di una pura coincidenza verbale.

Per l'episodio di Tamiri (Pg XII 55-57) non pare possa sussistere alcun dubbio che l'unica fonte di D. sia Orosio (Hist. II VII) e non V. (IX X, ext. 1). Innanzitutto è identico in D. e in Orosio il taglio della scena, che gravita tutta sulla feroce battuta finale, dalla quale acquista un tono di ferocia cupamente conchiusa; in V. invece non si trova né una simile profilatura, perché manca proprio la diretta battuta finale ad attrarre su di sé tutta la narrazione, né la cupa tonalità della narrazione, perché Tamiri porta nella vendetta un offeso affetto materno (" simulque poenas occisi ab eo filii sui exigens ") che la rende accettabilmente umana. La battuta poi della Tamiri dantesca, Sangue sitisti, e io di sangue t'empio, è, per la prima metà, la traduzione letterale della simile battuta che la regina pronuncia in Orosio, " sanguine... sitisti ": anzi sembra una trascrizione in volgare latineggiante del testo di Orosio; la seconda parte è sì una creazione di D. che, mediante la ripetizione di sangue e la sostituzione di io t'empio a ‛ sàziati ', vuole sottolineare " la feroce voluttà della vendetta con le proprie mani compiuta " (Torraca), ma dev'essere stato proprio il testo di Orosio ad avergli ispirato questa feroce voluttà, col presentargli la regina tutta presa solo " sanguine hostium " già sin dall'inizio e sinistramente fissa poi nell'intrecciare in efficace allitterazione le parole " satia... sanguine... sitisti... insatiabilis ". Infine in favore di Orosio sta un particolare contenutistico che, unendosi agli altri elementi del giudizio estetico, viene ad assumere anch'esso un suo peso: il dantesco Mostrava la ruina (Pg XII 55) è chiaro che può essere stato suggerito solo dal racconto di Orosio, che parla della strage di tutto l'esercito persiano con l'uccisione dello stesso re: 200.000 uomini trucidati senza che ne sopravvivesse uno solo " nuntius tantae cladis ".

Nel caso della similitudine del bue cicilian (If XXVII 7-12) sono state proposte come fonti, già da Pietro, V. (IX II, ext. 9), Orosio (I XX 1-4), Ovidio (Ars am. I 653-656, cui è stato aggiunto Trist. III XI 41-54). La preferenza pare debba essere accordata a Orosio. Il commento morale di D. all'episodio (e ciò fu dritto) è presente ugualmente in tutti e tre gli autori latini, ma appare concordanza poco probante perché chiunque dalla natura stessa del fatto è, direi, costretto a dare lo stesso commento. Più significative appaiono le sottolineature che D. fa e dell'industriosità dell'artefice (che l'avea temperato con sua lima) e dell'effetto meraviglioso e mostruoso per cui la voce del condannato si trasformava in muggito. Sull'industriosità dell'artefice nulla è in V., che preferisce invece dare una spiegazione, dal sapore di un'aspra condanna di disumanità, sul fine che si era riproposto l'artefice dalla sua invenzione; un piccolo accenno è in Ovidio, mentre Orosio sottolinea attento e meravigliato l'ingegnosità di Perillo anche nei minuti particolari inventivi: al toro di bronzo " fabre ianuam e latere composuit quae ad contrudendos damnatos receptui foret ". Quanto poi all'effetto mostruoso, V. e Ovidio ne contengono un fugace cenno, mentre Orosio anche questo " monstrum " sottolinea con discreta ampiezza, nell'intento di riuscire preciso e di sviluppare gli effetti nascenti dai contrasti: " ut... sonum vocis extortae capacitas concavi aeris augeret pulsuque ferali competens imagini murmur emitteret, nefarioque spectaculo mugitus pecudis, non hominis gemitus videretur ". Il nesso " capacitas aeris " ha tutta l'aria di aver ispirato il contrasto dantesco con tutto che fosse di rame. D. sembra dunque incontrarsi con Orosio nel sottolineare con vigile attenzione e l'industriosità dell'artefice e gli effetti mostruosi dell'invenzione. Inoltre si deve notare che Orosio aveva innestato sull'episodio del toro un giudizio di superiorità dei " tempora Christiana " su quelli pagani (§ 6): D. doveva quindi sentirsi maggiormente sollecitato dalle parole di Orosio che gli permettevano, anche, di applicare esemplarmente il contrapasso: i condannati dentro i globi di fiamme simili al toro, da cristiani venivano tacitamente retrocessi e degradati ai " tempora " degli efferati tiranni pagani.

Per If XII 107-108, l'accertamento della fonte si unisce col problema dell'identificazione dei due personaggi: Alessandro il grande o il Fereo, Dionisio il vecchio o il giovane? Un solido punto di partenza può essere costituito dalla ricognizione che qui è la coppia, come elemento strutturale e come caratterizzazione morale, ad avere primaria importanza, come, in parte, hanno riconosciuto tre studiosi del problema (Moore, Dobelli, Bosco). In fondo è lo stesso D. a metterci in quest'ordine d'idee dal momento che ordisce tutta una fitta trama di corrispondenze tra varie coppie: nel punto più profondo del Flegetonte pone la coppia ‛ antica ' Alessandro - Dionisio, poi la triade ‛ moderna ' dei contemporanei Ezzelino da Romano - Obizzo d'Este - Guido di Montfort; nel punto più elevato, invece, D. incontra prima la triade ‛ antica ' Attila - Pirro - Sesto, poi la coppia ‛ moderna ' dei contemporanei Rinieri da Corneto - Rinieri de' Pazzi. È fin troppo evidente che tutto questo giuoco di corrispondenze simmetriche e chiastiche allo stesso tempo ha la specifica funzione di mettere in risalto l'importanza fondamentale che qui ha la coppia: e nemmeno a farlo apposta sembra che D. abbia voluto costituire anche simmetriche corrispondenze di difficoltà ermeneutiche, dato che all'ambivalente greco Alessandro fa corrispondere nella triade antica il non meno ambivalente greco Pirro (Neottolemo o il re dell'Epiro?) e al leggermente ambiguo Dionisio siculo, il leggermente vago Sesto, anch'egli ‛ siculo ' in certo senso. Infine non si potrà tacere della perfetta coesione interna della prima coppia, un tiranno d'Oriente - un tiranno d'Occidente (Benvenuto), e dell'ultima, un brigante romano - un brigante fiorentino: una corrispondenza così stretta, che si estende ai due punti più sensibili dell'inquadratura narrativa, il principio e la fine, non può non essere stata concepita di proposito, per sottolineare sempre che qui è la coppia ad avere una straordinaria importanza. Dobbiamo dunque partire dal dato esterno e strutturalmente fondato e moralmente caratterizzante, della coppia: sarà quindi metodico indagare, non sul singolo Alessandro o sul singolo Dionisio, ma sull'accoppiamento: in altre parole, un autore latino, per poter essere riguardato come fonte, dovrà presentare già costituito l'accoppiamento dei tiranni. La conseguenza immediata di questo principio metodico è che bisogna subito escludere Seneca (Benef. I XIII 3), Lucano (X 20 ss.), Orosio (III XVI-XX), che presentano il singolo Alessandro. Così pure non si può tener conto, per queste ma anche per altre ragioni, di Giovanni di Salisbury, che ci presenta Dionisio due volte unito in sorridente e affettuoso commercio con Platone (Policrat. I, ediz., Webb, p. 246; II p. 107: e questa volta nel bel mezzo della biografia di Platone), e Alessandro tre volte unito a Cesare quali simboli dei magni spiriti del passato da recuperare storicamente, e questo proprio nel prologo e all'inizio del primo libro, cioè nei punti tradizionalmente più impegnati e più messi a frutto dai lettori (I, pp. 12, 16, 29). In quell'unica volta che i due personaggi sembrano ricorrere relativamente vicini, nemmeno a farlo apposta, Dionisio appare nell'atteggiamento più signorilmente distaccato che gli si conosca (II, p. 222) e Alessandro nell'alone del trionfatore e del saggio acuto e non privo di un'icasticità di parola (II, p. 224). Rimangono così come fonti probabili, che presentano l'accoppiamento già strutturalmente (o retoricamente) costituito e moralmente caratterizzato: Cicerone (Off. II VII 25), V. (IX XIII, ext. 3-4), Brunetto Latini (Tresor II 119, 6). L'identificazione della coppia ora è certa: Alessandro di Fere e Dionisio il vecchio, dato che è proprio di questi due che si parla in tutte e tre le fonti; anche se poi non possiamo esser sicuri che D. nella sua coscienza sapesse o volesse ben distinguere i due Alessandri o anche i due Dionisii, o non volesse piuttosto conglobarli in uno come nel caso di Catone. Scegliere invece una delle tre fonti non si può con argomenti cogenti, ma lo si può con apprezzabile probabilità. Nel caso del Latini, sta sì a suo favore il fatto che la coppia si trova inserita in un capitolo che già nel titolo (" De Signorie ") sembra avvicinarsi alla stessa etichetta con cui D. classifica i bolliti nel Flegetonte, E' son tiranni (If XII 104, dove ‛ tiranni ' vale " regnanti ", Chimenz) e che contiene nella trattazione spunti che indubbiamente dovevano trovare profondi assensi nell'animo del poeta; ma sta decisamente a suo sfavore il fatto che di tutti e due i personaggi si parla così fugacemente che riesce difficile credere che D. solo da quelle righe potesse farsi l'idea dei due come di violenti tiranni; a suo favore e disfavore contemporaneamente il fatto che è citato come fonte " Tuilles ", cioè Cicerone: per cui anche se D. si sarà servito del maestro come di un primo stimolo, certo è che poi non avrà mancato di risalire al suo amato Cicerone da cui perciò in definitiva è da ritenere che sia stato effettivamente influenzato come da vera fonte. A favore di V. possono militare e il fatto che di Dionisio si raccontano più cose, sì che egli riesce meglio caratterizzato come tiranno, e soprattutto l'indicazione iniziale " Dionysius Syracusanorum tyrannus... duodequadraginta annorum dominationem in hunc modum peregit " che sembra corrispondere a E' son tiranni / ... e Dionisio fero / che fé Cicilia aver dolorosi anni. A favore di Cicerone c'induce la frase che a mo' di titolo apre la digressione: " qui se metui volent, a quibus metuentur eosdem metuant ipsi necesse est ", che certo era capace di creare nell'animo di D. quella prospettiva, e conseguentemente il tono poetico, di efferatezza bestiale che circonda questi bolliti, non meno che di suggerire la stessa pena del contrapasso nel sangue bollente. Sembra probabile che la fonte sia Cicerone anche perché questo passo deve aver contribuito a sollecitare la fantasia di D. e per l'episodio del bue cicilian (= Off. II VIII 26) e per la figura di Pirro, che potrebbe essere lo stesso ricordato in questo canto. Si deve concludere che D. abbia minuziosamente tenuto presente, quasi impresso il passo del De Officiis per utilizzarlo poi a varie riprese.

Per le Romane antiche (Pg XXII 145) è difficile scegliere la fonte in base al criterio interno della maggiore concordanza. Si tratta di un dato storico, della storia del costume: e un dato storico notato nudo e crudo si mostra privo di quella tonalità poetica che, sola, può permetterci di scegliere tra una fonte e l'altra. Inoltre il cenno dantesco è così rapido, così limitato al puro dato, da escludere profilature o sfumature, e anche rispondenze verbali, ché le parole sono qui tutte elementari e necessarie. È evidente che si possono citare tutti gli autori che si vogliono, come d'altra parte non se ne può imporre nessuno. Gli antichi commentatori (Ottimo, Pietro, Benvenuto, Buti, Anonimo) sono tutti unicamente per V. (II I 5); i moderni propongono anche, soli o confluenti, Gellio (Noctes X 23) e s. Tommaso (Sum. theol. II II 149 4 " unde secundum Valerium Maximum "). Ma forse in casi come questo deve intervenire nella ricerca delle fonti il principio metodico della ‛ economia ': si dice tanto che D. non poteva leggere molto per la mancanza di libri nell'esilio, per le difficoltà intrinseche del leggere al lume di candela, su codici, ecc...: questa constatazione biografica dovrà tradursi nel principio metodico che le fonti non debbono essere moltiplicate continuamente, al contrario ridotte a quei libri essenziali che D. doveva aver assiduamente familiari. E in questo caso la fonte più ovvia è certamente la Summa.

Per l'episodio di Pisistrato (Pg XV 94-105) tutti, dagli antichi (Pietro, Benvenuto, Buti) ai moderni commentatori e studiosi sono stati concordi nell'indicare come fonte V. (V I, ext. 2). Il Pézard e il Renucci hanno però fatto notare che tutto l'episodio è riprodotto da Giovanni di Salisbury Policrat. II, ediz. Webb, p. 221. Tra le due fonti non si può scegliere, sia in quanto le corrispondenze verbali tra V. e il saresberiense sono perfette (il materiale di quest'ultimo è tutto tratto lessicalmente e sintatticamente da V., sì che anche la tonalità dell'episodio risulta identica in ambedue), sia perché il dialogo è presente in tutti e due. La frase che ha stimolato la fantasia di D. sino al punto che egli l'ha tradotta con la massima cura rispettando persino l'ordine che le parole avevano nell'originale (cura e rispetto che poco prima aveva dimostrato nei confronti del testo evangelico per non sciuparne la divina semplicità, ma che poco dopo non avrà nei riguardi degli Atti degli Apostoli) è stata riprodotta alla lettera da Giovanni di Salisbury. Tutt'al più si potrebbe notare che il dantesco è per noi condannato riproduce più da vicino il presente del saresberiense " interficimus " (senza varianti) che non il futuro " interficiemus " (senza varianti) di V.: osservazione legittima in quanto effettivamente il presente dantesco contrasta singolarmente con tutto il resto che è tradotto così letteralmente (e persino con rispetto dell'ordine delle parole), quasi da diligente scolaretto, e anche logicamente contrasta con la mentalità di Pisistrato che, remissivo e conciliante, vuol tutto allontanare in una prospettiva futura: è... condannato fa pensare troppo crudamente a un fatto d'immediata esecuzione. Anche la profilatura morale che ha suggerito a D. d'includere questo episodio tra gli esempi di mansuetudine è uguale nei due, al pari dell'osservazione moraleggiante finale (" vox... tyranni "). È inoltre presente anche nel saresberiense l'osservazione che Pisistrato " (tulit iniuriam) laudabilius suam ", la quale deve aver acceso la fantasia di D. a comporre quel gioiello di orazione che è il discorso della moglie, che spinge il marito alla vendetta solo per sé (vendica te, Pg XV 100), come se egli fosse il maggiore, anzi l'unico offeso, naturalmente nella dignità di capo di tanta città, denominata col prezioso villa e immaginata nell'ancor più prezioso ‛ disfavillare ' caratterizzante Atene con il rapporto luce = sapienza. Con giusta prudenza qui ci si dovrà attenere a un necessario non liquet.

Concludendo l'esame su V. come fonte di D., si deve constatare che dei sei casi tradizionalmente proposti, uno è assolutamente da eliminare (quello del carro trionfale); due sono sicuramente da riportare a Orosio (Tamiri, il bue cicilian); un quarto con apprezzabile probabilità al De Officiis (Alessandro-Dionisio); un quinto alla Summa per ragioni di metodo (Romane antiche); per un sesto bisogna concludere con un non liquet tra V. e Giovanni di Salisbury. Troppo poco; si è piuttosto tentati di fare una deduzione contraria: D. non doveva conoscere direttamente V., altrimenti di questo autore dalla mentalità e dal narrare così tipicamente medievali avrebbe dovuto conservare molto di più, come spessissimo lo citano, ad esempio, un Giovanni di Salisbury (anteriore di circa un secolo) e gli stessi primi commentatori della Commedia, che non mancano di allegare V. sia per riscontri diretti col testo di D., sia a sostegno del loro divagante argomentare.

Bibl. - S. Betti, Postille alla D.C., I, Città di Castello 1893, 69-71; ID., Scritti danteschi, ibid. 1893, 102-104; E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 262-263, 296-297; A. Dobelli, L'" Alessandro " Ed Il " Dionisio " del canto XII d'" Inferno ", in " Giorn. d. " IV (1897) 68-72; E.G. Parodi, recens. a D.A., La D.C. commentata da G.A. Scartazzini, settima edizione in gran parte rifatta da G. Vandelli..., in " Bull. " XXIII (1916) 20; U. Bosco, Particolari danteschi, in " Annali R. Scuola Normale Super. di Pisa " s. 2, XI (1942) 131-136 (rist. in d. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 369-378); A. Pézard, Du ‛ Policraticus ' à la ‛ D.C. ', in " Romania " LXX (1948) 21; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952, 382-383, 482; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, ibid. 1954, 104-105, 114-115, 376 note 380 e 382, 377 n. 400; F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962², 178; M. Barchiesi, Un tema classico e medievale: Gnatone e Taide, Padova 1963, 28 n. 22, 37 n. 35; E. Paratore, Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 63, 99, 159.

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