VALERIO Massimo

Enciclopedia Italiana (1937)

VALERIO Massimo (Valerius Maximus)

Arnaldo Momigliano

Scrittore latino, autore di una raccolta di detti e fatti memorabili (Factorum ac dictorum memorabilium Libri IX). L'autore è noto solo per quanto racconta di sé nella sua opera. Protetto da Sesto Pompeo, console del 14 d. C., lo seguì nel proconsolato di Asia circa il 27 d. C. La sua opera fu pubblicata nel 31 d. C., poco dopo la caduta di Seiano, come dimostra l'esecrazione del medesimo in IX, 11: parallela è l'adulazione per Tiberio a cui è dedicata la fatica. La notizia medievale di Matteo di Westminster che V. finì di scrivere nel 19 d. C. non ha fondamento ed è di incerta origine. Quando l'opera comparve Sesto Pompeo era già morto.

In nove libri (ma gli antichi, per es. Aulo Gellio, Notti attiche, XII, 7, 8 conobbero anche una edizione in 10 libri) vengono raccolti fatti e detti insigni divisi in 95 rubriche: ogni rubrica è divisa in due parti, una per i fatti dei Romani, l'altra per gli stranieri, guardando sempre alle vicende più interessanti per la casistica antica della vita. Le cose romane hanno preferenza assoluta: sono 636 in confronto a 320 "esterne". Il tono è dunque patriottico e in genere moraleggiante, ma di un patriottismo divenuto parte di una finalità retorica. V. raccoglie infatti esempî per scuola di retorica, cioè rientra nella diffusissima letteratura paradigmatica. Da ciò si intende che egli utilizza già raccolte precedenti alla sua. Egli stesso cita (VI, 4 proem.) una raccolta di Pomponio Rufo. Le opinioni dei più recenti studiosi variano sulla entità degli apporti di queste sillogi precedenti. Certo, ampiamente usata fu una silloge del periodo augusteo, forse di Igino. Ed è probabile che sia stata usata un'altra silloge analoga di Cornelio Nepote. Ma l'opinione che anche gli esempî retorici comuni con Cicerone siano ricavati da una silloge già utilizzata da Cicerone invece che da Cicerone stesso (Cl. Bosch) è stata validamente contestata. Come Cicerone, Livio e Varrone dovettero essere utilizzati direttamente, fornendo molta parte del materiale. Più incerta la questione per altri annalisti, nonché per gli autori greci, di cui si sono proposti Senofonte, Teopompo, Diodoro. Certa ancora l'utilizzazione di Sallustio e Trogo Pompeo. Lo stile di V. è tipicamente di scuola: la maniera è nella costante ricerca dell'effetto, nelle apostrofi, nelle contrapposizioni, perché appunto ogni episodio sia stilizzato in esempio. Ciò non toglie, anzi fa sì che il libro di V. sia importante per la morale delle scuole.

L'opera ci è giunta con una lacuna (I, 1 ext. 4- I, 4 ext.1) e senza epilogo, però non indispensabile. Ma la fortuna fu ampia così nell'antichità come nel Medioevo. Plinio il Vecchio citò V., ma forse ha più spesso in comune le fonti; echi sono in Frontino, Aulo Gellio, Lattanzio, ecc.: notevoli le due citazioni di Plutarco (Marcello, 30, e Bruto, 53). Due epitomi antiche ce ne sono pervenute. Una di Giulio Paride, che nel sec. IV riduce in un libro quelli che sono per lui dieci libri di V.: egli corregge talvolta il suo autore, non mai lo accresce. Un'altra epitome di Ianuario Nepoziano, giunge solo fino a III, 2, 7, e ha completamenti d'altra parte: l'autore è stato da taluno identificato con un retore che nel sec. III coprì una cattedra di retorica in Roma (Dessau, Inscr. Lat. Sel., 9020); ma sembra invece più probabilmente trattarsi di un retore del sec. IV. Forse questa epitome era in origine integra. Una ulteriore silloge fu poi fatta nel sec. X nei dettati del noto abate Lupo di Ferrières, il quale si occupò anche di correggere il testo da lui precipuamente conosciuto nel Codice Bernese ancora fondamentale. Lupo conosceva inoltre l'epitome di Giulio Paride. Il trattato De praenominibus che segue alla epitome di Paride non ha nulla da fare né con Valerio Massimo né con Giulio Paride, perché deriva da un epitome di C. Tizio Probo intitolata Epitoma historiarum diversarum exemplorumque Romanorum; ma nel Medioevo fu ritenuto quel decimo libro di V. M., di cui parlava Giulio Paride stesso. La fortuna di V. è confermata inoltre da un'antologia di lui e Gellio conservata in codici del sec. XII, ecc.

Ediz.: Ed. princeps Aldo Manuzio, Venezia 1534. Si notino le edizioni St. Pighius, Anversa 1567; Iustus Lipsius, ivi 1585; IrVorst, Berlino 1672; C. Kempf, ivi 1854; C. Halm, Lipsia 1865; C. Kempf, ivi 1888.

Bibl.: Per le fonti: A. Klotz, Zur Literatur der exempla und zur epitoma Livii, in Hermes, XLIV (1909), p. 198 segg.; C. Bosch, Die Quellen des Valerius Maximus, Stoccarda 1929; A. Ramelli, Le fonti di Valerio Massimo, in Athenaeum, n. s., XIV (1936), p. 117 segg. - Per lo stile: E. Lundberg, De elocutione Valerii Maximi, diss., Uppsala 1906. - Per la tradizione: L. Traube, Vorlesungen und Abhandlungen, III, Monaco 1920, p. 14 segg., e I. Schnetz, Neue Untersuchungen zu Val. Maximus, seinen Epitomatoren und zum Fragmentum de praenominibus, Münnerstadt 1904. Per la letteratura paradigmatica in genere: K. Alewell, Ueber das rhetorisches παράδειγμα, Kiel 1913, e H. W. Lichtfield, National exempla virtutis in Roman Literature, in Harvard Studies in Class. Phil., XXV (1914), p. 1 segg. Inoltre cfr. Schanz-Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, 4ª ed., Monaco 1935, p. 588 segg.

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