VANNUCCI, Pietro, detto il Perugino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 98 (2020)

VANNUCCI, Pietro detto il Perugino

Cecilia Martelli

– Nacque a Castel (oggi Città) della Pieve da Cristoforo di Pietro Vannucci e da Lucia di Giacomo di Nunzio Betti in una data imprecisata intorno al 1450. A questa ipotesi si è giunti anche in considerazione del fatto che Giovanni Santi, padre di Raffaello Sanzio, nella sua Cronica rimata (circa 1484-1487, 1985), asserisce che Perugino era contemporaneo di Leonardo da Vinci, nato nel 1452. Il soprannome dell’artista trova plausibilmente spiegazione nel fatto che Perugia, da cui dipendeva il borgo di Castel della Pieve, era città ben più nota di quest’ultimo al di fuori del contesto locale umbro. Pietro è ricordato per la prima volta, ancora in patria, in un registro di tasse del 1469, mentre nel giugno del 1472 il suo nome appare nel ‘Libro rosso’ della Compagnia di S. Luca di Firenze, già con il titolo di ‘dipintore’ autonomo; il che fa pensare che egli fosse arrivato in città già da qualche anno, verosimilmente verso il 1470 (per i documenti concernenti l’artista si veda Canuti, 1931; Scarpellini, 1984, 1991, pp. 63-67, Regesto).

Assai dibattuta dagli studi è la questione della formazione artistica giovanile di Vannucci, ovvero se egli si sia recato direttamente a Firenze dopo aver frequentato un mediocre pittore locale a Perugia, come afferma Giorgio Vasari (1550 e 1568, 1971, pp. 596-598) nella Vita dell’artista e come si evince anche dalla precedente testimonianza di Francesco Albertini (1510, 1863), il quale a proposito dei perduti affreschi di S. Giusto alle Mura scrive che «sono picture di Pietro Perusino, benché si può dire Florentino, ch’è allevato qui» (p. 17); oppure se egli sia stato, prima di arrivare a Firenze, allievo di Piero della Francesca ad Arezzo, qualora si identifichi in Perugino stesso il «Piero da Castel delle Pieve» che Vasari (1550 e 1568, 1971, p. 266) ricorda, al termine della Vita di Piero della Francesca, fra i discepoli del maestro assieme a Luca Signorelli. Tale discepolato non è tuttavia menzionato nella Vita di Vannucci.

In tempi recenti la questione è stata oggetto di dibattito soprattutto fra Pietro Scarpellini (1984, 1991, p. 17, e in Perugino il divin pittore, 2004, p. 47), convinto sostenitore della radice pierfrancescana della pittura del Perugino, e David Franklin (1993, p. 625) e Tom Henry (2001, p. 254, e in Perugino il divin pittore, 2004, p. 73), che propongono invece di identificare il «Piero da Castel della Pieve» con il pittore perugino Pietro di Galeotto, documentato nel 1473 ad Arezzo come discepolo di Piero della Francesca.

I dati stilistici di numerose opere confermano l’affermazione vasariana secondo cui Perugino a Firenze «studiò sotto la disciplina d’Andrea Verrocchio» (Vasari, 1550 e 1568, 1971, p. 598), il che gli permise di partecipare al clima di vivace sperimentalismo della fervida bottega del maestro e di confrontarsi con i numerosi giovani artisti che vi transitarono, tra cui Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Lorenzo di Credi e il giovane Leonardo. Versione caricata della Madonna verrocchiesca 108 della Gemäldegalerie di Berlino è infatti la Madonna col Bambino del Musée Jacquemart-André di Parigi, incunabolo del giovane pittore umbro verso il 1470-71, cui fanno seguito il pannello con la Nascita della Vergine della Walker Art Gallery di Liverpool, forse ancorato al 1472 (Venturini, in Pietro Vannucci, il Perugino..., 2004, pp. 33 s.), la predella del Louvre con la Pietà e Due miracoli di s. Girolamo e, una volta rientrato l’artista in Umbria, le tavolette a lui spettanti del ciclo bernardiniano di Perugia (Risanamento dell’ulcerata e Miracolo del cieco, 1473, oggi alla Galleria nazionale dell’Umbria), il S. Pietro del Landesmuseum di Hannover, il Gonfalone del Farneto (Perugia, Galleria nazionale): opere in cui l’eredità verrocchiesca è percepibile nell’eleganza artificiosa e nelle pose ricercate dei personaggi, nelle forme angolose e metalliche dei panneggi, talvolta accartocciati al suolo in ampie falde triangolari, nelle atmosfere terse e cristalline, nelle ambientazioni paesaggistiche di derivazione fiamminga (da ultimo Zappasodi, in Verrocchio..., 2019, scheda 3.10, pp. 140 s., e scheda 5.7, pp. 170-175).

Nel luglio del 1475 l’artista è documentato a Perugia, dove ricevette pagamenti dal Comune per alcune pitture nel palazzo dei Priori, oggi perdute. A questo momento risalgono i Ss. Antonio abate e Sebastiano del Musée des beaux-arts di Nantes, l’affresco con i Ss. Romano e Rocco di Deruta (1476, oggi nella Pinacoteca), l’Adorazione dei Magi per S. Maria dei Servi a Perugia (ora nella Galleria nazionale), in cui gli sbalzi metallici di eredità verrocchiesca progressivamente si attenuano in modellati più ampi e smussati, in tonalità di colore più scure e profonde, per evolvere verso i ritmi più fluidi e la scioltezza più compiuta, intrisa anche di una più intensa vena sentimentale, dell’affresco di Cerqueto (1478, chiesa di S. Maria Assunta) e delle successive opere romane (Zappasodi, in Verrocchio..., 2019, scheda 5.9, pp. 178 s.).

Nel 1479 Perugino dipinse la cappella della Concezione presso la vecchia basilica di S. Pietro in Vaticano, che Sisto IV della Rovere inaugurò l’8 dicembre di quell’anno; gli affreschi, distrutti nel 1609, dovettero incontrare il favore del pontefice, che ben presto affidò all’artista, assieme a Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, con i loro familiares, la decorazione delle pareti della cappella Sistina (contratto del 27 ottobre 1481 e ‘compromesso’ del 17 gennaio 1482). Perugino dipinse, secondo quanto racconta Vasari (1550 e 1568, 1971, pp. 605 s.), i primi riquadri dei cicli mosaico e cristologico (Nascita e ritrovamento di Mosè e Natività di Cristo) sulla parete dell’altare, a fianco della pala ad affresco, sempre sua, con l’Assunzione della Vergine, in cui Sisto IV era presentato alla Vergine da s. Pietro (documentata in maniera puntuale dal disegno di ambito pinturicchiesco all’Albertina di Vienna). Vannucci fu inoltre verosimilmente il coordinatore del ciclo – nonostante Vasari attribuisca questo ruolo a Botticelli –, e alla sua mano si devono i primi affreschi delle pareti laterali con il Viaggio di Mosè in Egitto e il Battesimo di Cristo, in cui fu affiancato da aiuti umbri, e il famoso riquadro della Consegna delle chiavi, eseguito con la collaborazione di Signorelli e Bartolomeo della Gatta, convocati nell’ultima fase della decorazione (Martelli, 2013, pp. 107-152).

La prossimità stilistica alla Consegna delle chiavi, nel rigoroso impianto compositivo, nella tipologia delle figure, nella luce chiara e diffusa, ha indotto a collocare vicino agli affreschi sistini, se non in leggera precedenza rispetto a essi, l’affresco con il Cenacolo nell’ex monastero di S. Onofrio a Firenze (Padovani, in Pietro Vannucci, il Perugino..., 2004, e 2005; Angelini, 2007, p. 88). Discussa in questi termini (Bellosi, 2007, pp. 84-86) è anche la cronologia della tavola con la Crocifissione e santi oggi agli Uffizi – di cui è da rivendicare la totale autografia del Perugino di contro alla proposta di un parziale intervento di Signorelli –, proveniente, assieme alla Pietà e all’Orazione nell’orto ugualmente agli Uffizi, dalla distrutta chiesa fiorentina di S. Giusto alle Mura (in cui spettava a Ghirlandaio la tavola dell’altar maggiore con la Madonna in trono e santi, oggi pure agli Uffizi).

Numerosi impegni occuparono nel corso del nono decennio Vannucci, disponibile a spostarsi con facilità da un centro all’altro dell’Italia centrale, tra Firenze, l’Umbria e Roma.

Il 5 ottobre 1482 egli è documentato a Firenze per la commissione degli affreschi della sala dei Gigli in Palazzo Vecchio, assieme a Botticelli e Ghirlandaio, ma, inadempiente, nel dicembre successivo fu sostituito da Filippino Lippi. Revocata fu anche la commissione del 1483 per la tavola dei Decemviri destinata alla cappella interna del palazzo dei Priori a Perugia, affidatagli nuovamente nel 1485 ed eseguita soltanto nel 1495. A Roma nel 1484, assieme ad Antoniazzo Romano e altri artisti, fu incaricato di dipingere pitture effimere per l’incoronazione di papa Innocenzo VIII. Nel 1485 ottenne la cittadinanza perugina e l’anno successivo venne iscritto nella matricola dei pittori di Perugia. Ad Assisi eseguì un grande affresco con la Crocifissione nel coro della Porziuncola (basilica di S. Maria degli Angeli), oggi parzialmente ridipinto, per il quale è documentato un lascito risalente al 1486; a partire dallo stesso anno affittò a Firenze dalla famiglia Ghiberti una bottega presso lo spedale di S. Maria Nuova (Coonin, 1999).

Appartengono agli anni Ottanta, particolarmente felici per l’artista e successivi alla sua straordinaria affermazione nella cappella Sistina, opere di elevata qualità che gli valsero il titolo di «divin pictore» da parte di Santi: il trittico Bartoli Galitzin con la Crocifissione oggi alla National Gallery of art di Washington, proveniente dalla chiesa domenicana di S. Gimignano, la Madonna col Bambino e s. Giovannino della National Gallery di Londra, il tondo con la Madonna col Bambino e due sante del Louvre, il polittico in collezione Albani Torlonia a Roma, eseguito per il cardinale Giuliano Della Rovere, futuro papa Giulio II, il Ritratto di giovane della Gemäldegalerie di Dresda (Angelini, 2007).

Entro il 1483 Perugino dovette soggiornare a Pesaro, dove eseguì due ritratti di Costanzo I Sforza, figlio del duca Alessandro, morto in quell’anno; i due dipinti sono ricordati, assieme a una «testa del Christo» dello stesso artista, negli inventari della libreria sforzesca e andarono distrutti nell’incendio di quest’ultima nel 1514 (Vernarecci, 1886, p. 522). Il pittore è documentato a Pesaro anche più tardi, nel 1490, per un contratto per una pala d’altare, verosimilmente mai eseguita (Berardi, 2001, pp. 73-75, scheda n. 46).

Nel 1489 Perugino fu invitato a Orvieto per completare gli affreschi iniziati dal Beato Angelico nella cappella di S. Brizio in duomo, ma non portò a termine la commissione, che nel 1499 e 1500 fu assegnata a Signorelli. Nel 1490-91 con i compagni della Sistina Botticelli e Ghirlandaio, e con Lippi, lavorò per Lorenzo il Magnifico alla decorazione della villa di Spedaletto presso Volterra, con storie mitologiche purtroppo andate distrutte. Al clima di mistico paganesimo che dominava in questo momento la corte medicea appartiene verosimilmente anche uno dei rari dipinti di soggetto profano dell’artista, l’Apollo e Dafni del Louvre.

Alla fine del nono decennio risalgono pure l’Annunciazione per la chiesa di S. Maria Nuova a Fano (1489) e la Visione di s. Bernardo per l’altare Nasi nella chiesa di S. Maria del Cestello (ora S. Maria Maddalena dei Pazzi) a Firenze (1489-90, oggi alla Alte Pinakothek di Monaco di Baviera): dipinti pervasi da un’atmosfera pacata e serena, le cui figure ben pausate nello spazio e le maestose ambientazioni con fuga prospettica di archi aperta sul paesaggio del fondo già preludono allo stile ‘classico’ delle opere degli anni Novanta. Fra queste si annoverano la Madonna in trono col Bambino e santi per S. Domenico di Fiesole (1493, oggi agli Uffizi), il S. Sebastiano del Louvre, la Madonna in trono col Bambino e santi in S. Agostino a Cremona (1494), prima opera di committenza lombarda dell’artista.

Al successo della bottega dell’artista a Firenze, dove nel 1493 egli sposò la figlia dell’architetto Luca Fancelli, Chiara, e dove l’influsso delle predicazioni di Girolamo Savonarola spingeva alla richiesta di un’arte intensamente devozionale e patetica, si deve inoltre il Compianto sul Cristo morto proveniente dalla distrutta chiesa di S. Chiara (1495, oggi alla Galleria Palatina), l’affresco con la Crocifissione nell’ex monastero di Cestello, oggi S. Maria Maddalena dei Pazzi (1496) – grandiosa composizione caratterizzata dal mirabile accordo di architettura e pittura, di figure e paesaggio –, nonché il Ritratto di Francesco delle Opere agli Uffizi (1494), vertice della produzione ritrattistica del Perugino e punto di partenza per quella raffaellesca, sintesi fra le ascendenze di Hans Memling e dei fiamminghi e la nuova impostazione frontale della figura con le mani poggiate sul davanzale.

In questi anni l’artista si recò anche a Venezia, dove fu chiamato a eseguire nel 1494 un grande telero per la sala del Maggior Consiglio in palazzo ducale, che poi non realizzò, e nel 1495 un’opera per la Scuola di S. Giovanni Evangelista, andata distrutta. Suggestioni dal colorismo veneto e dalle composizioni di Bellini e Carpaccio si riscontrano nel sopra ricordato Compianto per S. Chiara a Firenze e nella Pietà del Clark Art Institute di Williamstown (Mass.).

I dipinti del Perugino furono lodati per l’«aria angelica et molto dolce» delle figure (anonimo informatore di Ludovico Sforza, futuro duca di Milano, circa 1492) e per la formulazione di un nuovo linguaggio devozionale, che rivoluzionò lo stile delle pitture religiose in Italia centrale, fornendo altresì un forte impulso alla successiva ‘maniera moderna’ di Raffaello.

Nella seconda metà degli anni Novanta Vannucci fu particolarmente impegnato a Perugia, dove tra il 1498 e il 1500 lavorò alla decorazione della sala dell’Udienza del Collegio del Cambio, una delle corporazioni più potenti e prestigiose della città.

Qui fu capace di trasporre in forme chiare e semplici e su larga scala un complesso e ambizioso programma iconografico, attribuito all’umanista perugino Francesco Maturanzio, in cui si accordano le antiche virtù e i misteri della fede cristiana: le immagini illustrano come dalla grandezza morale degli antichi si sia passati, preannunciata da Profeti e Sibille, alla verità rivelata in Cristo, nel quale si realizzano compiutamente tutte le virtù (Guerrini, in Il Collegio del Cambio..., 1998). Verso i temi sacri della Natività e della Trasfigurazione dipinti sulla parete di fondo della sala convergono infatti idealmente le composizioni delle pareti laterali, con le Virtù e gli uomini antichi che le impersonano e con Dio Padre accompagnato da Sibille e Profeti, per le quali Maturanzio s’ispirò a sua volta a testi classici di Cicerone (De officiis), Valerio Massimo (Factorum et dictorum memorabilium libri) e Lattanzio (Divinae Institutiones). Il classicismo del pittore giunge in questi affreschi ai suoi più alti vertici, nei gesti e movimenti musicalmente accordati e ritmicamente calibrati delle figure, allineate una accanto all’altra nei grandi spazi dei lunettoni laterali, sullo sfondo di un unitario scenario di colline. La volta – verosimilmente la prima parte della sala a essere dipinta, in prevalenza da collaboratori del maestro – presenta soggetti mitologici, raffigurazioni allegoriche dei pianeti e ricchi motivi fantastici ispirati all’antico, secondo la moda della decorazione a ‘grottesche’ già adottata dal Pinturicchio a Roma (Dacos, in Il Collegio del Cambio..., 1998).

Sempre a Perugia, nel 1495 Perugino realizzò la già menzionata pala dei Decemviri (registro principale oggi nella Pinacoteca Vaticana, cimasa con la Pietà nella Galleria nazionale dell’Umbria), modello rinnovato di pala d’altare con il trono elevato su un alto piedistallo che fu imitato anche dal giovane Raffaello (nella pala Ansidei oggi alla National Gallery di Londra), e nel 1496 iniziò l’ancona per l’altare maggiore di S. Pietro, conclusa allo scadere del secolo (oggi divisa tra i musei di Lione, Nantes, Rouen, la stessa chiesa perugina di S. Pietro e la Pinacoteca Vaticana), grandiosa macchina la cui tavola principale con l’Ascensione, in cui le figure sono portate in primo piano su più piani paralleli distinti, rinunciando a una visione prospettica unitaria, presenta uno schema compositivo di grande efficacia dal punto di vista devozionale, spesso riproposto nelle opere successive dell’artista. Si vedano, ad esempio, la Resurrezione per S. Francesco al Prato a Perugia (1499, oggi alla Pinacoteca Vaticana), la grande pala di Vallombrosa (1500, oggi alla Galleria dell’Accademia di Firenze), la tavola per S. Giovanni in Monte a Bologna (1500 circa, oggi alla Pinacoteca nazionale), la pala Tezi per S. Agostino a Perugia (1500, oggi alla Galleria nazionale dell’Umbria), tutti dipinti non esenti dalla collaborazione di aiuti.

Ancora nell’ultimo lustro del secolo Vannucci eseguì due pale d’altare per le Marche, rispettivamente per S. Maria delle Grazie a Senigallia (ancora in situ) e una seconda per S. Maria Nuova a Fano (completata nel 1497, in situ). Quest’ultima opera si connette al dibattito sugli inizi del giovanissimo Raffaello, la cui mano è stato proposto di riconoscere nello scomparto della predella con la Natività della Vergine (Longhi, 1955, pp. 14, 23; Gregori, 1984, p. 18; Russell, 1986, pp. 192, 196; giudizio non accolto, fra gli altri, dapprima da Sylvia Ferino-Pagden, in Disegni umbri..., 1982, pp. 74-78, scheda n. 47, e 1983; Scarpellini, 1984, 1991, p. 43; Henry - Plazzotta, 2004, pp. 16, 26), in virtù dell’ipotesi, proposta da Vasari, ma tuttora molto discussa, che Raffaello sia stato apprendista del Perugino già nell’ultimo lustro del Quattrocento (sulla questione si veda ora Ambrosini Massari, 2017a, e 2017b). Si accosta allo stile della pala di Fano l’Annunciazione Ranieri ora in deposito presso la Galleria nazionale dell’Umbria, che a distanza di anni ripropone in controparte lo sfondo architettonico della tavoletta con il Miracolo del bimbo nato morto del ciclo bernardiniano di Perugia (1473).

Già al 1496 risalirono i primi tentativi da parte di Ludovico Sforza, duca di Milano, di contattare Vannucci e di averlo al suo servizio a Milano, segno della raggiunta fama dell’artista anche presso le corti dell’Italia settentrionale. Quell’anno coincise con la commissione dell’ancona per la Certosa di Pavia, completata nel 1499 e concepita come un polittico a due piani (alla Certosa rimane la tavola centrale del registro superiore con Dio padre benedicente, mentre le tavole del registro inferiore sono alla National Gallery di Londra e quelle laterali del registro superiore con l’Annunciazione, completate da Mariotto Albertinelli nel 1511, sono al Musée d’art et d’histoire di Ginevra). Al prestigio della commissione corrisponde la qualità pittorica e formale dell’opera, le cui figure intensamente espressive e atteggiate in pose ritmiche e armoniose esprimono al sommo grado l’ideale classico di grazia e perfezione ricercato dall’artista (Ferino-Pagden, 1986).

Celebrato nel 1500 da Agostino Chigi come «il meglio maestro d’Italia» (Cugnoni, 1879, p. 481), Perugino raggiunse a quest’altezza cronologica una fama davvero universale, testimoniata anche dalla biografia vasariana dell’artista: «Venne dunque in pochi anni in tanto credito, che de l’opere sue s’empié non solo Fiorenza et Italia, ma la Francia, la Spagna e molti altri paesi dove elle furono mandate. Laonde tenute le cose sue in riputazione e pregio grandissimo, cominciarono i mercanti a fare incetta di quelle et a mandarle fuori in diversi paesi con molto loro utile e guadagno» (Vasari, 1550 e 1568, 1971, pp. 598 s.). Al massimo sviluppo pervenne in questo momento anche l’attività del pittore, sempre divisa tra Firenze, dove il 1° settembre 1499 egli risulta iscritto alla matricola dell’Arte dei medici e speziali, e Perugia, dove nel 1501 aprì finalmente una bottega stabile in proprio, nel Palazzo Nuovo dell’ospedale della Misericordia. Ancora vivace e prolifica fu la produzione destinata alla città umbra, che, fra le molte opere, comprende La famiglia della Vergine per S. Maria degli Angeli (1502, oggi al Musée des beaux-arts di Marsiglia), la pala d’altare a due facce di S. Francesco al Monte (Monteripido, oggi alla Galleria nazionale dell’Umbria, circa 1504-05), lo Sposalizio della Vergine per la cappella del S. Anello in duomo (1502-04 circa, oggi al Musée des beaux-arts di Caen), precedente il dipinto di analogo soggetto di Raffaello per la chiesa di S. Francesco a Città di Castello, ora alla Pinacoteca di Brera (1504); e numerosi affreschi Vannucci realizzò anche nel territorio circostante, come la decorazione di una nicchia con la Natività, l’Eterno in gloria e l’Annunciazione in S. Francesco a Montefalco (1503), l’Adorazione dei Magi nell’oratorio dei Bianchi nel borgo nativo di Castel della Pieve (1504), il Martirio di s. Sebastiano nell’omonima chiesa a Panicale (1505). Alla grande richiesta di commissioni e alla qualità formale dei dipinti non corrispose tuttavia un adeguato rinnovamento di invenzioni e formule compositive, che rimasero fedeli a modelli devozionali ormai attardati e ripetitivi, e sempre più l’artista manifestò la tendenza a riutilizzare idee e cartoni impiegati in precedenza. Il divario fu avvertito in particolare a Firenze, che nei primi anni del Cinquecento si apriva alle novità di fra Bartolomeo, Leonardo e Michelangelo. Non altrettanto fortunata fu infatti la produzione coeva della bottega fiorentina di Vannucci, come dimostra l’insuccesso della pala opistografa per l’altare maggiore della chiesa della SS. Annunziata, che il pittore fu chiamato a terminare dopo la morte di Lippi (1504) e che, a detta di Vasari (1550 e 1568, 1971, pp. 609 s.), fu aspramente criticata dai fiorentini proprio per la sua mancanza di originalità (1505-07, oggi alla Galleria dell’Accademia di Firenze). Rimase delusa dall’operato del Perugino anche Isabella d’Este, che dal 1497 lo inseguiva per ottenere un dipinto destinato al suo studiolo nel palazzo ducale di Mantova: solo nel 1505 egli consegnò la Lotta tra Amore e Castità, tela dipinta a tempera e gremita di piccole figure, oggi al Louvre, che la marchesa giudicò insoddisfacente.

Ridotta l’attività per Firenze, dove era ormai considerato un artista superato, Perugino proseguì a lavorare per altri centri toscani, come Siena, dove lasciò una grande Crocifissione per l’altare della famiglia Chigi in S. Agostino (1503-06), e Sansepolcro, alla cui badia camaldolese di S. Giovanni Evangelista destinò un’Ascensione di Cristo esemplata su quella della pala perugina di S. Pietro (opere ancora in situ). Nel 1508 fu coinvolto da Giuliano Della Rovere, suo antico protettore, divenuto papa Giulio II, nell’impresa decorativa delle stanze del secondo piano del palazzo vaticano, assieme a una squadra di artisti che comprendeva il Sodoma, Lorenzo Lotto, Signorelli, il Bramantino, Baldassarre Peruzzi e altri. Di Vannucci resta la volta della sala dove il papa aveva collocato il Tribunale della Segnatura, oggi conosciuta come stanza dell’Incendio, risparmiata dalla distruzione e dall’interruzione che quella stessa campagna di lavori subì all’arrivo di Raffaello (1509). Risale a questo momento anche la grande tavola con l’Assunzione della Vergine per l’altare maggiore del duomo di Napoli (ora in una cappella laterale), commissionata dal cardinale Oliviero Carafa.

Dopo il 1510 Perugino lavorò in Umbria, quasi esclusivamente a Perugia. L’opera più significativa di questo momento è il polittico a due facce di S. Agostino a Perugia, che impegnò l’artista dal 1502 e rimase incompiuto al momento della morte e che, pur non offrendo particolari innovazioni dal punto di vista compositivo, costituisce l’ancona più grande cui egli mise mano (oggi è smembrata in numerosi musei). Nel 1513 Vannucci chiuse la bottega perugina, ma in questi ultimi anni fu ancora impegnato in numerose opere, divise tra la stessa Perugia e il territorio umbro (Foligno, Bettona, Corciano, Castel della Pieve, Spello, Trevi, Fontignano) ed eseguite con la collaborazione di aiuti, nelle quali ricorre la ripetizione di vecchi schemi e modelli e dilaga l’impiego di una delicata gamma cromatica chiara e trasparente, tipica di questa maniera tarda dell’artista. Nel 1521 portò altresì a compimento l’affresco lasciato incompiuto da Raffaello nella chiesa perugina di S. Severo: alla Trinità con sei santi benedettini dipinta dall’urbinate nel registro superiore (1505 circa) Perugino aggiunse la teoria sottostante di altri sei santi in piedi, che nella monotona disposizione in primo piano delle figure evidenzia il contrasto con la spazialità articolata e profonda e con la modernità della maniera dell’allievo.

Morì nel 1523 a Fontignano, colpito dalla peste. L’anno successivo i frati di S. Agostino a Perugia si offrirono di trasportare il suo corpo per dargli degna sepoltura nella loro chiesa, ma ciò non avvenne. La vedova, sempre vissuta con i cinque figli (Giovanni Battista, Francesco, Michelangelo, Paola e Giulia) a Firenze, qui morì nel 1541 e fu sepolta nella chiesa della SS. Annunziata, nella tomba che il pittore aveva acquistato nel 1515 per sé e per i suoi discendenti.

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