VARIABILITÀ GENETICA

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1981)

VARIABILITÀ GENETICA (XXXIV, p. 997; App. I, p. 1111)

Guido Modiano

Ogni specie è costituita da individui con patrimonio genetico molto simile, ma non identico (salvo che nei gemelli monozigoti). Questa v. g. tra individui della stessa specie, o v. g. individuale, è la quota più importante e più studiata della v. g. di ogni specie. Esistono però altre forme di v. g., come quella tra gameti dello stesso o di differenti individui, e quella tra gruppi individui (popolazioni) invece che tra singoli individui della stessa popolazione, e infine quella tra cellule somatiche dello stesso individuo (differenze post-zigotiche che possono sorgere per crossing-over e per mutazione somatica, per non disgiunzione, ecc. - tutti eventi presumibilmente "casuali", cioè non programmati - oppure con meccanismi programmati capaci di creare nuova v. g., come nei linfociti B: v. immunità, in questa App.). In questa sede ci occuperemo essenzialmente della v. g. tra individui e tra gameti di individui diversi (si vedano anche le voci: genetica: Genetica di popolazioni; evoluzione; polimorfismo, in questa App.). Va inoltre ricordato che la v. g. non è l'unica forma di variazione ereditaria: nell'uomo soprattutto, e in misura molto minore pure in altre specie animali, esiste anche la v. culturale.

1. Variabilità genetica direttamente visibile (genomica e cromosomica) e variazioni geniche (uni- e poligeniche). - Se si esaminano al microscopio ottico i corredi cromosomici di diversi individui della stessa specie, talora si riscontrano delle variazioni di numero o di struttura dei cromosomi (vedi in seguito). Non v'è dubbio però che la quota principale della v. g. tra individui consiste in variazioni strutturali troppo piccole (talora per molti ordini di grandezza) per essere osservabili al microscopio. Esse costituiscono quelle che vengono comunemente chiamate "variazioni geniche", la cui esistenza può essere inferita solo attraverso la constatazione della v. fenotipica da esse provocata, cioè solo se sono state amplificate fino al punto di dar luogo a una v. direttamente osservabile. Occorre subito notare a questo proposito che non esiste alcuna relazione tra entità di una v. g., da una parte, ed entità delle sue conseguenze fenotipiche dall'altra. Per es., una singola sostituzione nucleotidica può costituire una mutazione letale, mentre una variazione così grande da essere addirittura visibile al microscopio, può essere del tutto innocua.

2. Variazioni unigeniche (= variazioni unifattoriali a comportamento mendeliano). - Una certa aliquota del genoma di ogni individuo è costituita da geni strutturali, cioè da geni che dirigono la sintesi di una catena polipeptidica. Fino al livello della struttura primaria di questa catena polipeptidica, tutti i geni sono amplificati allo stesso modo - che è ben noto - cioè secondo le regole del codice genetico (v. Codice genetico, alla voce nucleici, acidi, in questa App). Da quel punto in poi, cioè dalla funzione biologica di ciascuna catena polipeptidica in avanti, i meccanismi di amplificazione, cioè i modi con i quali ogni singola proteina, interagendo con altri componenti dell'organismo, dà origine a un certo fenotipo, variano da una proteina all'altra. È evidente allora che esistono due livelli fenotipici per studiare la v. genica tra individui: a) il livello non proteico, le cui variazioni sono la risultante di meccanismi di amplificazione non identificati (alcuni di essi riguardanti geni strutturali, ma che riflettono conseguenze funzionali indirette delle variazioni proteiche; e altri di regioni di DNA diverse dai geni strutturali); b) il livello proteico, le cui variazioni sono state tutte amplificate con un meccanismo comune e noto, che quindi permette d'inferire direttamente l'identità del gene strutturale interessato e talora anche l'esatta sua variazione strutturale.

Variazioni unigeniche a livello non proteico. - Variazioni geniche osservate a questi livelli fenotipici non permettono di risalire al gene la cui variazione le ha provocate: la relazione tra v. genetica e v. fenotipica è del tutto formale e più che di geni si dovrebbe parlare di fattori. Ciascuno di essi è individuato per il fatto di essere un marcatore genetico, cioè come sito genetico per la cui identificazione non è sufficiente il fatto che esista il suo prodotto, come per i geni strutturali, ma è richiesta l'esistenza di almeno due alleli distinguibili. Possono quindi essere scoperti solo geni che presentano una certa v. g. che dev'essere rilevabile al livello fenotipico utilizzato nella ricerca: geni con alleli morfologicamente, funzionalmente, clinicamente o sierologicamente distinguibili a seconda che si conduca una ricerca a livello morfologico, funzionale, clinico o sierologico (v. sangue: Genetica, in questa App.). Si sa ora che solo una piccola parte della v. g. dei geni strutturali causa una v. fenotipica a questi livelli, quindi si deve concludere che questo tipo di indagini è in grado di scoprire una parte esigua e per di più non rappresentativa (quella con conseguenze più vistose) della v. genetica.

Fino al sorgere della genetica biochimica e molecolare tutti i marcatori genetici noti rientravano in questa categoria, ma con i progressi dell'immunologia, della medicina e della biochimica molti di questi marcatori sono ormai descrivibili a livello proteico.

Variazioni unigeniche a livello proteico (= v. dei geni strutturali). - La tecnica di elezione per il loro studio è l'elettroforesi che consiste nel determinare, per ogni proteina in esame, il comportamento elettroforetico mostrato da un adeguato numero di soggetti (per es. qualche centinaio), con l'intento di accertare se tutti mostrano lo stesso quadro elettroforetico - e allora si definisce questa proteina "elettroforeticamente monomorfica" -, oppure se esiste una certa variazione individuale attribuibile ad alleli codominanti comuni del gene strutturale di quella proteina, e allora si definisce quel gene "elettroforeticamente polimorfico". Un'altra tecnica di studio, che però dà informazioni meno dirette, è la ricerca, per ciascuna delle proteine in esame, di variazioni discrete della loro attività, se sono enzimi (esempio classico: l'enzimopenia per la glucosio-6-fosfato deidrogenasi o G6PD), o della loro quantità, se sono proteine non enzimatiche (esempio: le talassemie, caratterizzate dalla deficienza, e talora addirittura dall'assenza, di una catena globinica). La relazione univoca e chiara esistente tra catene polipeptidiche e geni strutturali corrispondenti permette d'identificare questi ultimi indipendentemente dall'essere o meno variabili (cioè non come marcatori genetici) ma solo attraverso l'identificazione delle catene polipeptidiche da esse prodotte, e talora anche d'individuare la natura chimica della loro variazione. Quindi lo studio della v. g. con l'analisi elettroforetica delle proteine è diventato il metodo di gran lunga più utilizzato per lo studio di questa proprietà biologica. Sono state studiate varie decine di specie (in particolare l'Uomo, e diversi Ditteri tra i quali soprattutto i generi Drosophila e Anopheles), ciascuna per molti geni strutturali (cioè per molte proteine ed enzimi). Il materiale biologico per i Mammiferi è stato soprattutto il sangue (v. sangue: Genetica, in questa App.) mentre per organismi piccoli come i Ditteri si sono in genere esaminati omogenati di animali interi.

Recenti ricerche hanno reso possibile studiare il genoma direttamente, cioè a livello delle sequenze di coppie di desossiribonucleotidi di cui è costituito, invece che per inferenza dalle catene polipeptidiche. Sono quindi diventate accessibili anche regioni di DNA diverse dai geni strutturali. Un risultato del tutto imprevisto di queste ricerche è stato che molti geni strutturali - se non tutti - sono costituiti negli eucarioti da sequenze discontinue di DNA separate da tratti detti "introni". Si stanno accumulando, e molto rapidamente, informazioni su quella quota di v. g. che non ha per risultato una variazione della struttura primaria di una proteina. In altre parole, si è finalmente superata questa enorme limitazione nello studio della struttura e della funzione del genoma e, di conseguenza, della sua variabilità.

Si tratta - è chiaro - di un progresso qualitativo, non semplicemente di un aumento del numero di geni studiabili con le tecniche tradizionali. Si può esser certi che molte delle idee attuali sulla v. g. cambieranno radicalmente nel volgere di pochi anni.

Grado della variabilità genetica. - 1) Porzione del genoma a cui si riferiscono le stime di questo parametro. - Essa è soggetta a una duplice limitazione: infatti si possono studiare solo i geni strutturali, e di questi, solo quelli che sono tanto amplificati da prestarsi all'osservazione o direttamente come proteine (es. l'emoglobina) o indirettamente come enzimi.

2) Modi di esprimere la variabilità dei geni strutturali. - Il grado di v. g. può essere espresso da vari parametri, ciascuno dei quali ha un suo proprio significato e porta una specifica informazione. I principali sono:

a) la percentuale di geni polimorfici, cioè di geni con almeno due alleli comuni nella stessa popolazione;

b) il grado di eterozigosi, o percentuale degli eterozigoti. Se riferito a un gene esprime il grado di eterogeneità tra gameti per quel gene. Infatti la percentuale di eterozigoti per un gene non è altro che la probabilità che due gameti scelti a caso portino due alleli diversi di quel gene. Nelle popolazioni in equilibrio di Hardy-Weinberg (v. genetica: Genetica di popolazioni, in questa App.) esiste una relazione semplice tra grado di eterogeneità tra gameti e grado di eterogeneità tra individui, cioè tra genotipi, nel senso che con l'aumentare della prima aumenta anche la seconda, fino ad arrivare, per il valore massimo di 2pq = 05, a 0.63 (per un gene con solo due alleli comuni).

Il grado di eterozigosi medio è semplicemente la media aritmetica dei gradi di eterozigosi calcolata su un certo numero di singoli geni. Esso corrisponde anche alla percentuale di questi geni per i quali un individuo scelto a caso è eterozigote;

c) il numero medio di alleli per gene (oltre a 1, naturalmente). Una nozione di cui la genetica è debitrice alla biologia molecolare è il grandissimo numero di possibili alleli di un gene. In particolare per i geni strutturali questo numero è dell'ordine di varie centinaia, dato che ognuno di questi geni è lungo qualche centinaio di coppie di DNA e ciascuna potrebbe essere sostituita da una qualsiasi delle altre tre. Altri alleli potrebbero inoltre essere generati da meccanismi diversi dalla sostituzione di una singola coppia nucleotidica, come la delezione, l'addizione, ecc. (v. Emoglobina, in sangue, in questa App.). Tuttavia semplici considerazioni sul codice genetico mostrano che circa un quarto delle singole sostituzioni nucleotidiche sarebbero sinonime e che delle rimanenti 75% che si rifletterebbero a livello della struttura primaria delle catene polipeptidiche solo un terzo circa (cioè un quarto del totale) sarebbero elettroforeticamente svelabili, mentre le altre sarebbero elettroforeticamente mute o, come si dice in genere, isoelettroforetiche. Il numero di alleli possibili di un gene strutturale resta comunque grande, anche se ci si limita a considerare solo quelli elettroforetici. Essi possono essere distinti in alleli comuni o polimorfici (se hanno frequenze di almeno qualche per mille in una o più popolazioni di grandi dimensioni) e alleli varianti rari (se hanno frequenze molto più basse). Poiché gli alleli rari possono essere moltissimi, la loro frequenza globale può anche essere dello stesso ordine di grandezza di quella di ciascuno degli alleli comuni preso da solo.

3) Approccio sperimentale alla stima della variabilità dei geni strutturali. - Esso è concettualmente molto semplice. Per ogni specie o popolazione che si desideri esaminare si determina il fenotipo elettroforetico di un adeguato numero di individui (qualche centinaio) per un certo numero di proteine, che costituisce il campione di geni strutturali esaminato. Le proteine vengono in genere distinte le une dalle altre evidenziandole come attività enzimatiche specifiche, cioè come zimogrammi elettroforetici. Si ottengono così delle misure dirette del grado di variabilità elettroforetica dei geni strutturali esaminati, e cioè: la misura della percentuale di geni con polimorfismo elettroforetico semplicemente contando quanti di questi geni sono risultati elettroforeticamente polimorfici; quella del grado di eterozigosi per alleli elettroforetici; e quella del numero medio di alleli comuni elettroforetici per gene (vedi sopra). Tenendo conto delle considerazioni esposte nel paragrafo precedente, queste misure possono essere considerate una stima di circa un terzo della totale variabilità dei geni strutturali. Più recentemente sono anche state effettuate ricerche dirette a scoprire alleli isoelettroforetici comuni di alcuni geni che effettivamente sono stati trovati.

4) Stime sperimentali della variabilità dei geni strutturali. - La proporzione di geni strutturali che mostrano un polimorfismo elettroforetico è stata determinata in molte specie, con particolare accuratezza nell'Uomo e in drosofila. Nell'Uomo essa è risultata di circa il 30%. In drosofila sono stati ottenuti valori anche molto più alti. Poiché in media per ogni variazione strutturale scoperta con l'analisi elettroforetica due le sono sfuggite, si deve concludere che i geni strutturali sono di regola polimorfici.

Anche per il grado di eterozigosi elettroforetica gl'invertebrati hanno presentato un grado di v. molto maggiore che nell'Uomo, in cui è risultato pari a circa 0,06.

5) Natura chimica delle variazioni unigeniche. - Salvo casi eccezionali nei quali sono state identificate direttamente a livello del DNA (v. sangue: Genetica, in questa App.), la natura chimica delle variazioni unigeniche può essere solo inferita. L'origine di queste inferenze è rappresentata dalle variazioni strutturali delle catene polipeptidiche. Ci si vale poi della relazione di colinearità gene-proteina per determinare la loro sede intragenica partendo dalla loro sede nella catena polipeptidica, e delle proprietà del codice genetico per inferirne la base strutturale (transizioni, transversioni, delezioni, ecc.) partendo dal tipo di variazione strutturale osservata a livello proteico. Quindi la natura chimica delle variazioni unigeniche può essere accertata solo per quelle osservate a livello proteico e, tra queste, solo per quelle la cui variazione strutturale sia stata identificata. Le proteine studiate a questo livello di profondità sono pochissime: negli Eucarioti, solo le emoglobine e tre altre (aptoglobine, α1-antitripsina e glucosio-6-fosfato deidrogenasi). Tuttavia nelle sole emoglobine sono state trovate praticamente tutte le variazioni strutturali che si sarebbero potute immaginare ed esse si sono anche potute localizzare esattamente nella catena polipeptidica e quindi nel gene strutturale (vedi Emoglobina, in sangue, in questa App.).

6) Rilevanza biologica delle variazioni unigeniche. - La scoperta, con l'analisi elettroforetica delle proteine, dell'altissimo grado di variabilità dei geni strutturali è giunta del tutto inattesa insieme con la constatazione, anch'essa imprevista, che il causare effetti fenotipici cospicui è l'eccezione, invece che la regola, per le variazioni genetiche.

Quello che si pensa attualmente sulla rilevanza biologica della v. g. può essere così riassunto: qualcosa come il 95% del genoma è costituito da DNA con funzioni diverse da quella di specificare sequenze amminoacidiche, propria dei geni strutturali. Sappiamo poco o nulla di queste funzioni e dei meccanismi genetici coinvolti, e quindi della sua attività e tanto meno della sua rilevanza biologica. Del restante DNA, costituito da geni strutturali - la parte emersa di un iceberg - sappiamo molto di più. Conosciamo infatti come è organizzata in unità funzionali, come funziona, che è molto variabile, e in che consiste questa variabilità in termini chimici. Della rilevanza biologica della variabilità di questa piccola parte di genoma sappiamo invece ben poco: casi come la falcemia costituiscono infatti solo la punta della parte emersa dell'iceberg. Di tutto il resto si può dire con certezza una sola cosa: che la rilevanza biologica media di ogni singolo polimorfismo genetico è al massimo molto scarsa e, secondo alcuni, sarebbe perfino nulla. Queste due opinioni sono molto simili solo a prima vista: dato che i polimorfismi genetici devono essere molte migliaia (anche se se ne conoscono poche decine), una rilevanza biologica piccola per ciascuno di essi significherebbe una grande rilevanza biologica globale. Si può dire anzi che in questo momento il problema del significato biologico medio delle variazioni dei geni strutturali è il problema centrale della genetica di popolazioni e della scienza dell'evoluzione, anzi uno dei problemi centrali della biologia. Dopo aver messo da parte i pochi polimorfismi il cui valore selettivo è fuori di dubbio, come la falcemia, la talassemia e l'enzimopenia per la G6PD (perché essendo casi eccezionali non sono rappresentativi) e tutti gli alleli patologici, anch'essi certamente non neutri (perché troppo rari per avere un peso effettivo sulla v. g. della specie) resta praticamente ancora tutta la variabilità dei geni strutturali in attesa che se ne interpreti il significato biologico.

In questo dibattito generale alcuni hanno assunto posizioni estreme: sono i cosiddetti "panneutralisti" e, all'estremo opposto, i "panselezionisti". Sembra ragionevole che la verità stia in qualche posizione intermedia e che forse questo problema andrebbe posto in termini diversi che non considerino ogni gene polimorfico come un'unità di selezione indipendente dagli altri polimorfismi.

L'intera questione è comunque ben lontana dall'essere risolta perché non esiste la benché minima possibilità di affrontarla sperimentalmente in modo diretto, cioè confrontando, per un certo numero di geni, le fitness (o idoneità biologiche: v. evoluzione) associate ai vari genotipi. Infatti si sa a priori che, anche ammesso che esse siano diverse, lo sarebbero di pochissimo, mentre si è in pratica in grado di scoprire differenze di fitness, solo se sono molto grandi. Tutti gli approcci sperimentali via via tentati sono quindi indiretti. Essi possono essere distinti in due gruppi:

a) quelli per così dire a monte della fitness che cercano di accertare se, associate alle variazioni elettroforetiche - di per sé non rilevanti biologicamente - esistano variazioni per caratteri per i quali sia ragionevole pensare che una variazione abbia un effetto biologico. Tra questi il più studiato è l'attività enzimatica, e nel campo degli enzimi eritrocitari è stato visto che di regola a differenze elettroforetiche sono associate differenze di attività enzimatica; non solo, si è visto anche che l'allele con l'attività enzimatica più elevata è anche il più frequente. Questi dati fanno pensare che, almeno per gli enzimi studiati sui globuli rossi dell'uomo, i polimorfismi strutturali abbiano un certo valore selettivo.

b) quelli per così dire a valle della fitness. Essi si basano su questa semplice considerazione: dato che le differenze di fitness in gioco sono troppo piccole per essere direttamente apprezzabili, conviene tentare d'individuarne le conseguenze amplificate, cioè accumulatesi sommandosi per molte generazioni. Si tratta, in sostanza, di costruirsi prima dei modelli di come dovrebbero comportarsi le v. g. supponendo che agisca la sola deriva genetica oppure anche la selezione, e di andare poi a vedere a quale modello si conformino meglio i dati sperimentali.

7) Utilizzazioni della variabilità unigenica. - Indipendentemente dall'entità della rilevanza biologica - per ora sconosciuta - della v. g., è certo che essa torna molto utile al progresso di numerose discipline.

Qualsiasi gene di cui si conoscono almeno due alleli mendeliani costituisce un marcatore genetico. Se inoltre questi alleli sono comuni e ancora di più se sono codominanti, questo marcatore genetico può essere utilizzato per studi di mappatura genetica (v. genetica) e anche come marcatore antropologico e per scopi medico-legali (v. sangue: Genetica, in questa App.). Inoltre la genetica del comportamento elettroforetico di una proteina è un potente strumento per delucidarne la struttura quaternaria.

3. Variazioni poligeniche. - Tutti i caratteri per i quan non si possono individuare differenze fenotipiche discrete sono esprimibili solo in termini quantitativi. Rientrano in questa categoria caratteri complessi come il peso, la statura, la pressione sanguigna, il numero di setole nella drosofila, il numero di chicchi in una pannocchia di mais, ecc. Il loro determinismo è di regola molto complicato. Anzitutto esso dipende tanto dal genotipo che dall'ambiente e, in misura variabile da caso a caso ma in genere comunque considerevole, dalla loro interazione. Inoltre il termine "genotipo" sta a indicare in questi casi "genotipo per molti geni" (donde il nome di caratteri poligenici) invece che per un singolo gene. Non solo, ma a complicare ancora di più la situazione, intervengono fenomeni di espressività parziale, penetranza incompleta, ecc., fenomeni dipendenti non tanto dalla natura dei geni in esame, ma dal livello fenotipico - troppo distante da essi - preso in considerazione.

In conclusione, quindi, sulle variazioni poligeniche si può affermare poco di più del semplice fatto che certamente esistono.

Il loro studio ha talvolta qualche utilità pratica in campo applicativo, soprattutto in genetica agraria, mentre il loro interesse dottrinale è estremamente modesto sebbene si debba riconoscere che ha esercitato un suo ruolo vari decenni fa, quando considerazioni teoriche su modelli poligenici hanno mostrato che si poteva spiegare con meccanismi mendeliani anche l'eredità dei caratteri continui.

4. Variabilità cromosomica. - Sono incluse in questa voce tutte le variazioni di struttura dei cromosomi, così cospicue da essere visibili al microscopio. Quanto dev'essere estesa un v. strutturale per essere identificabile con mezzi ottici dipende evidentemente da due ordini di fattori: a) le proprietà biologiche della specie in esame; per es., l'esistenza di cromosomi giganti nei Ditteri rende queste specie particolarmente adatte a tale tipo di studi; b) le tecniche a disposizione; per es., ora che si è in grado di riconoscere addirittura singole parti di cromosomi umani, si stanno individuando aberrazioni cromosomiche che prima sarebbe stato impossibile scoprire.

Lo studio dei riordinamenti cromosomici ha fornito risultati di estremo interesse nel campo dell'evoluzione, della speciazione e delle cosiddette sibling species o specie gemelle, soprattutto ad opera di Th. Dobzhansky.

Nell'uomo si sono per ora ottenuti risultati soprattutto nel campo della patologia (esempio: sindrome del cri du chat dovuta alla delezione del braccio corto del cromosoma no. 5), ma si stanno individuando anche variazioni strutturali "normali", cioè polimorfiche e non associate a stati di malattia apparenti.

5. Variabilità genomica. - Le variazioni del numero dei cromosomi possono riguardare:

a) il numero di assetti aploidi per cui si possono avere triploidie, tetraploidie, ecc., al posto del normale assetto diploide. Queste variazioni hanno interesse soprattutto nel regno vegetale anche dal punto di vista applicativo;

b) singoli cromosomi, e allora si parla di monosomie (quando di un determinato cromosoma ne è presente uno solo invece che una coppia, come nel normale assetto diploide) e di trisomie (quando ne sono presenti tre invece di due). Nell'Uomo queste alterazioni del numero di cromosomi sono invariabilmente causa di sindromi gravi e talora letali addirittura durante lo sviluppo embrionale se si tratta di autosomi. Molto meno gravi se invece riguardano i cromosomi X e perfino presumibilmente innocue se riguardano il cromosoma Y. Variazioni del numero di cromosomi sono relativamente comuni nelle piante.

Bibl.: Th. Dobzhansky, L'evoluzione della specie umana, Torino 1965; R. C. Lewontin, Population genetics, in Annual Review of Genetics (1967), vol. i, pp. 37-70; H. Harris, The principles of human biochemical genetics, Amsterdam-Londra 1970, 19752; L. L. Cavalli-Sforza, W. F. Bodmer, The genetics of human populations, San Francisco 1971; G. Montalenti, Introduzione alla genetica, Torino 1971; V. A. McKusick, Mendelian inheritance in man. Catalogos of autosomal dominant, autosomal recessive and X-linked phenotypes, Baltimora 19785; R. C. Lewontin, The genetic basis of evolutionary change, New York e Londra 1974; L. Bullini, Selezione e deriva genetica nei polimorfismi proteici, in Colloquio "Genetica di popolazioni", Roma 22-25 aprile 1974, Accad. Naz. Lincei, 1976, pp. 291-304; G. Filippi, Variabilità genetica in campo clinico, ibid., pp. 135-50; L. Luzzatto, Adattamento genetico alla selezione malarica, ibid., pp. 215-33; G. Modiano, Grado e natura della variabilità genetica; sua rilevanza biologica, ibid., pp. 63-116; id., Genetically determined quantitative protein variations in man, excluding immunoglobulins, Roma 1976; W. F. Bodmer, L. L. Cavalli-Sforza, Genetics, evolution and man, San Francisco 1976; G. Trippa, A. Loverre, A. Catamo, Thermostability studies for investigating non-electrophoretic polymorphic alleles in Drosophila melanogaster, in Nature, vol. 260 (1976), pp. 42-44.

TAG

Mendelian inheritance in man

Drosophila melanogaster

Evoluzione della specie

Biologia molecolare

Marcatore genetico