VECCHIA UBRIACA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1997)

VECCHIA UBRIACA

P. Moreno

La conoscenza di un capolavoro del realismo ellenico, realizzato in ambiente asiano durante una fase d'influenza alessandrina, è stata compromessa da un malinteso di antica data, che ha oscurato il nome del personaggio rappresentato e allo stesso tempo ha introdotto una fuorviante attribuzione. Plinio (Nat. hist., XXXVI, 32) riferisce a Mirone la statua in marmo della «Vecchia ubriaca», che ai suoi giorni si trovava in Asia Minore, ma lo fa con disagio, conoscendo la diversa tecnica praticata dall'artista: «Myronis illius qui in aere laudatur anus ebria est Zmyrnae in primis incluta», «Di quel Mirone celebrato nel bronzo, è la Vecchia ebbra a Smirne, opera rinomata tra le prime». Il tipo è noto dalle copie trovate a Roma, delle quali una è a Monaco di Baviera, l'altra (con testa moderna) al Museo Capitolino, da una variante ridotta, recentemente rinvenuta presso Cordova, e da numerose terrecotte: non si tratta di una creazione del V sec. a.C, poiché le spalline metalliche sono una moda alessandrina, il fazzoletto sul capo richiama un personaggio della Commedia Nuova, e al centro della composizione si trova un làgynos in uso dal III sec. a.C. La contraddizione era stata aggirata con la pretesa che lo scrittore avesse confuso il bronzista con un omonimo più tardo: a noi peraltro sconosciuto in quanto l'iscrizione di Pergamo che menziona Mirone Tebano, piuttosto che indicare il presunto artista ellenistico (v. vol. V, p. 315, s.v. Myron, 3°), sembra la didascalia di un bronzo classico della collezione reale, con la menzione di una delle cittadinanze assunte dal maestro di Eleutere. Le parole di Plinio trovano spiegazione se inserite nella tradizione della «Vecchia Ubriaca», che risale al teatro di Aristofane (Nub., 555), e raggiunge un'espressione vicina alla versione monumentale nella poesia epigrammatica. Ricorre qui la leggendaria Maronide: nome simbolico, derivato da Marone, che aveva fornito a Odisseo il vino da lui poi utilizzato per addormentare il Ciclope. Maroneia era la città della Tracia che aveva sostituito l'omerica Ismaro. Con elegante allusione questa Maronide risulta appassionata del «vino ismarico» cantato da Archiloco. Leonida di Taranto (Anth. Gr., VII, 455), che intorno al 250 a.C. inaugura l'indulgenza festosa verso l'ubriachezza senile, è il primo a parlare della morte di Maronide: «L'amante del vino, l'asciugatrice di giare, qui giace vecchia. Sulla sua tomba sta una coppa attica, visibile a tutti. E geme sotterra non per i figli, non per il marito che lasciò indigenti, non per tutto questo, ma per una cosa sola, perché quella coppa è vuota». La celebrazione è ripetuta da Antipatro di Sidone (Anth. Gr., VII, 353): «Questa è la tomba della canuta Maronide [...] amante del vino non mescolato e sempre loquace». Il personaggio rappresentato nelle statue ha molti punti di contatto con Maronide: la vecchiaia, lo stimolo del bere nell'enfasi dell'esofago, la parlantina espressa dalla bocca aperta, e l'attingere direttamente a un grande contenitore destinato alla conservazione del vino puro, non alla mescita. L'identificazione spiega l'equivoco di Plinio. Lo scrittore trovava in Varrone l'elenco di sculture in marmo, nel quale a proposito della Maronide dovevano apparire la denominazione, una sintetica definizione, la collocazione e il giudizio: «Maronis anus ebria Zmyrnae in primis incluta», «Maronide, vecchia ubriaca, a Smirne, opera insigne tra le prime». Poiché Maronide era un nome raro, mentre quello di Mirone ricorreva nel trattato storico artistico, è facile concludere che il testo giunto sotto gli occhi di Plinio aveva sofferto un'alterazione a opera degli scribi, con lo scambio di una sola lettera: il nominativo Maronis era diventato il genitivo Myronis. Anzi che «Maronide, vecchia ebbra», si trovava: «Di Mirone la Vecchia ebbra». Di fronte alla notizia (falsa, come ora comprendiamo) che un'opera in marmo e così tarda fosse di Mirone, la sorpresa di Plinio era giustificata: donde la precisazione che quello era il bronzista lodato nel libro sui metalli.

Da altri epigrammi risulta che la figura apparteneva a un gruppo (Anth. Gr., XI, 298): «Vedi come il figlio assetato tende la mano alla madre. Ma la donna, da donna qual è, dominata dal vino, bevendo alla fiasca, dice così, guardandolo in tralice: 'Di questo piccolo sorso, che ti posso dare, figlio mio? Questa fiasca contiene solo trenta seste' - 'Madre, che hai preso modi sgarbati di matrigna, fa che io succhi queste lacrime di vite dolcissima. Madre, madre mia snaturata, diventata dura di animo, se ami me che sono tuo figlio, fa che ne succhi un goccetto'». La ripetuta citazione del làgynos coincide col recipiente che appare nelle statue, e vi corrisponde la capacità, al di là della portata di qualsivoglia beone: quasi tredici litri. A costringere in terra la bevitrice è il dolce peso che si è caricata in grembo, come fosse un bambino (Anth. Gr., XI, 297): «Come puoi amare, o madre, il vino più di me che sono tuo figlio? Fammi bere il vino, come un tempo mi hai dato il tuo latte». Un'elezione materna unisce al dio stesso l'eroina del poemetto di Marco Argentario, amata da Dioniso «più che la propria nutrice» (Anth. Gr., vii, 384). Maro- nide entra così nella cerchia di sante bevitrici che vantano una scelta mistica. Dimentica della propria discendenza terrena, accoglie tra le braccia il dio, sotto la specie del vino. Il bottiglione è coronato di edera come il Dioniso infante cullato dal Sileno (v. lisippo). Il rovesciamento del capo ricorda le Menadi. Il sorriso estatico è gioia portata all'estremo. I segni dell'età rivelano la prossimità al trapasso, alla trasfigurazione. Il supremo rapimento conduce all’’euthanasia, la «buona morte» promessa ai fedeli. La tomba di Maronide sarà consacrata dalla coppa del dio.

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