Vecchiaia

Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

Vecchiaia

Peter Laslett

Introduzione

Sino ad anni piuttosto recenti lo studio dell'età e della vecchiaia ha avuto una posizione del tutto marginale nell'ambito delle tematiche esplorate dalle scienze sociali, ed è rimasto subordinato, soprattutto a livello teorico, allo studio della classe, dei generi e della cultura. La gerontologia, ossia lo studio generale dell'invecchiamento, tendeva ad essere assimilata alla geriatria, quella branca della medicina che si occupa del trattamento terapeutico dei processi morbosi e degenerativi tipici dell'età avanzata, e ad essere assorbita nello studio empirico delle politiche di welfare. Ciononostante lo studio dell''anziano', ossia della classe di individui in età avanzata che si sono ritirati dalla vita attiva, si è sviluppato come sottodisciplina autonoma, separata dalle altre scienze sociali ma con una propria cospicua letteratura, soprattutto negli Stati Uniti.

In questo articolo non ci occuperemo della gerontologia, ma del fenomeno stesso della vecchiaia nei suoi aspetti demografici, antropologici e sociali. A seguito del rapido invecchiamento della popolazione occidentale dopo gli anni cinquanta, con le sue profonde ripercussioni sulle strutture sociali, alla vecchiaia viene attribuita oggi l'importanza che le spetta come una delle quattro fasi fondamentali della vita sia individuale che sociale, e forse la più significativa. Il fenomeno della vecchiaia è realmente universale e riguarda tutti gli uomini in quanto esseri biologici, e quindi trascende ogni distinzione sociale, sessuale, etnica, politica, culturale e istituzionale. L'invecchiamento è un processo inevitabile e incessante, che investe ogni aspetto della vita e impone una modificazione e una sostituzione continua degli attori in ogni contesto. Trascurare l'influenza di questo fenomeno sulle vicende umane significa ignorare il carattere processuale e dinamico dei fatti e delle situazioni studiate dalle scienze sociali (v. Laslett e Fishkin, 1992).

Sia pure circoscritta nel senso sopra indicato, una ricognizione esauriente della nostra tematica dovrà investire una molteplicità di aspetti - dalle basi biologiche dell'invecchiamento alle prospettive future delle società in cui è in atto il fenomeno dell'invecchiamento della popolazione, che oggi comprendono in pratica tutte le società contemporanee. Ciò richiederà necessariamente un approccio interdisciplinare in cui entrano in gioco psicologia, medicina, demografia, economia, antropologia, sociologia, politica, nonché analisi di tipo esplicitamente storico - la demografia storica in particolare, ma anche la storia comparata delle culture. Il fenomeno dell'invecchiamento, inoltre, incide sull'intero percorso di vita dell'individuo, nonché sulla composizione e sullo sviluppo della popolazione complessiva, e di conseguenza il suo studio non dovrebbe essere limitato alle età più avanzate, ma dovrebbe prendere in considerazione anche gli altri stadi del percorso di vita - infanzia, adolescenza e maturità. In questa sede, tuttavia, dovremo operare una certa selezione e contentarci di un'analisi piuttosto sommaria di molti aspetti, focalizzando l'attenzione sugli stadi più avanzati piuttosto che sul ciclo di vita nella sua totalità. Tuttavia non ci spingeremo troppo oltre in questa direzione, come fa la gerontologia classica che potrebbe essere ridefinita scienza della senescenza, e non ci occuperemo della morte. L'obiettivo che ci proponiamo è quello di offrire un quadro dello stato attuale delle conoscenza sul maggior numero possibile di aspetti della vecchiaia e dell'invecchiamento nella prospettiva della sociologia storica contemporanea. Prenderemo inoltre in esame alcune delle molte questioni attualmente oggetto di dibattito nelle scienze sociali, e presteremo altresì una certa attenzione alle politiche in favore della vecchiaia nel mondo contemporaneo. Per l'istintiva, universale ripugnanza nei confronti dell'invecchiamento e della morte, per l'influenza della moda e l'importanza quasi ossessiva attribuita oggi alla giovinezza, all'aspetto e ai comportamenti giovanili, la vecchiaia è un argomento impopolare, spesso accantonato e rimosso in quanto deprimente e noioso. Allo stato attuale delle cose, tuttavia, nulla potrebbe essere più ingiustificato. L'analisi scientifica della vecchiaia è altamente stimolante, e riveste un'importanza che trascende i confini - peraltro assai estesi - del fenomeno stesso.

Le basi biologiche dell'invecchiamento

L'invecchiamento dell'organismo umano attualmente viene studiato in prevalenza al livello cellulare, alla luce della biologia molecolare da un lato e dell'evoluzionismo darwiniano dall'altro. Si tratta di un fenomeno rilevante anche per le scienze sociali - oltre che per la genetica, la fisiologia e la medicina. Il concetto darwiniano di fitness indica il numero di discendenti che sopravvivono e si riproducono nella generazione successiva, in sostanza la quantità di geni trasmessi. Secondo la teoria di Darwin, nel processo evoluzionistico vengono selezionate quelle caratteristiche degli individui che consentono la procreazione e la sopravvivenza del maggior numero di individui. Di conseguenza il prolungamento della vita oltre l'età riproduttiva sarebbe privo di valore dal punto di vista evoluzionistico e quindi biologico. Tuttavia le donne nelle società avanzate contemporanee sopravvivono in media almeno trent'anni dopo la menopausa, che segna il termine dell'età feconda. In Inghilterra la speranza di vita media alla nascita ha superato l'età media riproduttiva per almeno due secoli. Dunque circa un quinto dell'arco di vita della popolazione femminile risulta inutile dal punto di vista evoluzionistico, e lo stesso vale per una porzione apparentemente superiore ma imprecisata dell'arco di vita della popolazione maschile. Come ha affermato a questo proposito un'insigne autorità del nostro secolo, queste circostanze spiegano perché l'invecchiamento umano costituisca "un problema irrisolto" (v. Medawar, 1952).

Un ampliamento della definizione del concetto di fitness, che includa la cura della prole sino al momento in cui essa stessa è in grado di riprodursi, darebbe un significato evoluzionistico a questi anni inutili dal punto di vista biologico vissuti attualmente dalla grande maggioranza degli uomini e delle donne del mondo occidentale. Ma questo interludio extra dovrebbe essere ulteriormente esteso sino ad includere la cura dei nipoti, al fine di render conto del periodo di sopravvivenza post-riproduttiva che costituisce attualmente una caratteristica delle popolazioni occidentali e che si va diffondendo nel resto del mondo. Poiché la cura e persino la socializzazione della seconda generazione è un fenomeno che si va affermando su larga scala nelle società sviluppate, la possibilità che esso abbia una base evoluzionistica riveste un notevole interesse per gli scienziati sociali. L'idea di una fitness inclusiva che in anni recenti comincia ad essere accettata dai biologi potrebbe spiegare questo sviluppo.

Esistono numerose teorie sulla vecchiaia e sull'invecchiamento, che mettono in luce l'estrema complessità della problematica (v. Kirkwood e Franceschi, 1992). Forse l'ipotesi più convincente dal punto di vista della sociologia è quella del "soma spendibile" proposta da Kirkwood e da Holliday (v. Kirkwood, 1981; v. Kirkwood e Rose, 1991; v. Holliday, 1995), secondo la quale vi sarebbe un trade-off, ossia uno scambio tra riproduzione e sopravvivenza: gli organismi possono investire risorse o nella riproduzione oppure nella riparazione e nella conservazione del DNA. La teoria dei due autori apre interessanti prospettive allo studioso di sociologia storica. Ci si potrebbe chiedere difatti se sia possibile che nell'interazione tra evoluzione biologica ed evoluzione sociale, verificatasi negli ultimi anni, il netto calo della fecondità nelle società sviluppate abbia lo scopo di mettere a disposizione risorse somatiche per favorire l'incremento altrettanto vistoso della speranza di vita che si osserva attualmente nelle fasi avanzate della vita.

La psicologia della vecchiaia

La biologia e la medicina forniscono per il resto un numero crescente di indicazioni per quanto riguarda le caratteristiche e le condizioni dell'anziano, l'epoca del ciclo di vita in cui si verifica il declino fisico e mentale, l'estensione di tale declino, le sue variazioni da individuo a individuo nonché le sue conseguenze sulle condizioni di vita individuali (per un quadro delle ricerche condotte negli anni novanta v. Binstock e altri, 1996⁴). Sotto tutti questi aspetti la psicologia dell'età senile ha un ruolo di vitale importanza, in quanto si basa, per quanto possibile, su dati longitudinali raccolti nel corso di un determinato periodo di tempo dallo stesso campione di individui. A quanto risulta da questo tipo di ricerche, i soggetti più anziani sono comprensibilmente più esposti alle malattie e ai processi degenerativi di quelli in età giovanile. Sebbene le malattie contagiose siano comuni a tutte le età, attualmente sono in netto declino. Non esistono affezioni morbose conosciute che colpiscano esclusivamente gli anziani, e l'invecchiamento stesso non è affatto una malattia. Il suicidio è risultato essere più frequente tra gli individui più anziani soprattutto di sesso maschile, e ha la sua massima incidenza in entrambi i sessi nella fase terminale del ciclo di vita. Tuttavia i tassi di suicidio hanno subito un netto calo tra gli anni quaranta e gli anni ottanta in Inghilterra (v. Charlton e Mike, 1997). La patologia nota come demenza senile è oggetto di studio da parte di psichiatri, psicologi e medici. Purtroppo la malattia più diffusa tra gli anziani risulta essere il morbo di Alzheimer, una malattia mentale particolarmente grave e che richiede cure e assistenze assai impegnative e gravose, tanto che quanti si occupano di questi malati sono essi stessi oggetto di studio e di trattamento medico. La questione più delicata che si pone a questo proposito è se tale deterioramento colpisca inevitabilmente tutti gli individui oltre una certa soglia d'età, come sostengono alcuni autori, oppure se il morbo di Alzheimer sia una malattia specifica, con una propria eziologia, e dunque sia possibile controllarla e, auspicabilmente, curarla (v. Huppert e altri, 1994).

Alla luce delle scoperte di queste discipline si possono effettuare le seguenti ulteriori generalizzazioni. Gli stereotipi negativi ampiamente se non universalmente diffusi degli anziani come persone le cui funzioni fisiche e mentali sono inevitabilmente compromesse sono del tutto ingiustificati, dimostrandosi empiricamente falsi per la maggior parte degli anni di vita di questa classe di individui. Il declino che si verifica è di norma abbastanza graduale da risultare accettabile a quanti si trovano nella terza età e di conseguenza al resto della società. L'errore di principio consiste nell'assumere che la senescenza e la totale dipendenza tipiche di quella che chiameremo 'quarta età' sia la condizione normale di tutti i gruppi di età entro la grande classe degli anziani e dei vecchi. Questo grossolano errore di classificazione potrebbe essere considerato un esempio significativo della tirannia disciplinare analizzata da Foucault (v. Katz, 1996), ma riconosciuta anche da altri autori che si sono occupati della problematica della vecchiaia (v. Young e Schuller, 1991; v. Laslett, 1989). Recentemente, inoltre, si è andato sviluppando un nuovo programma di ricerca, la gerontotecnologia, che si avvale dell'apporto delle discipline specializzate menzionate in precedenza, di squadre di tecnici e progettisti, nonché degli stessi anziani (v. Coleman, 1993 e in corso di stampa; v. Laslett, in corso di stampa). La gerontotecnologia si propone di compensare le perdite di funzionalità più o meno gravi che si verificano col trascorrere dell'età, e costituisce una forma solida e concreta di reintegrazione delle capacità del soggetto.

Non si può ignorare, tuttavia, l'alta incidenza dell'invalidità tra gli anziani. Il morbo di Alzheimer colpisce in Europa lo 0,3% degli uomini e lo 0,4% delle donne nella classe di età di 60-69 anni, e tali percentuali salgono rispettivamente al 2,5% e al 3,6% per la classe di età di 70-79 anni, e al 10% e all'11,2% per quella di 80-89 anni. Inoltre non tutti gli anni di vita supplementari sono vissuti dai più anziani in buone condizioni di salute. La speranza di vita senza invalidità è inferiore di oltre il 5% alla speranza di vita tout court, e ciò vale in misura maggiore per le donne, che nondimeno sono più longeve degli uomini in quasi tutte le popolazioni (v. Robine e altri, 1993). Egualmente significativa è l'incidenza delle malattie, che tendono a registrare un netto incremento tra i sessanta e i settant'anni (v. Riley e altri, 1994). È in atto una approfondita ricerca sul processo di invecchiamento e sulle condizioni di vita degli anziani, che parte da una distinzione tra invecchiamento patologico e invecchiamento 'riuscito', e considera fattori quali il genere, la razza, la cultura, la famiglia d'origine, la sistemazione abitativa, il livello di reddito, la professione, il ritiro dalla vita attiva, nonché elementi psicologici quali l'ansia, la depressione e la solitudine (v. Binstock e altri, 1996⁴; per la situazione nel Regno Unito v. Carnegie enquiry..., 1993).

È comprensibile che buona parte della ricerca psicologica sia dedicata allo studio del progressivo declino delle facoltà cognitive e intellettive con l'avanzare dell'età. Tale ricerca ha dimostrato che per quanto graduale e apparentemente privo di brusche impennate, tale declino varia da individuo a individuo al pari del declino fisico, e incide più fortemente su quella che viene definita 'intelligenza fluida' - agilità, originalità, audacia - che non sull'intelligenza 'cristallizzata' - saggezza e capacità di discernimento (v. Mayer e Baltes, 1996, pp. 359-363). La capacità di risolvere problemi pratici persiste più a lungo, anche oltre i cento anni d'età (v. Poon, 1989). Tuttavia secondo questi studiosi l'invecchiamento in generale ha un effetto di riduzione complessiva delle capacità mentali, in particolare della creatività, e ciò nonostante i celebri casi di significative realizzazioni in campo intellettuale, e soprattutto artistico, di individui nelle classi di età dei settanta, ottanta e novant'anni (v. Lehmann, 1953; v. Posner, 1995).

Ciò che si rafforza con l'avanzare dell'età è invece una facoltà attribuita tradizionalmente agli anziani, ossia la saggezza, che gli psicologi definiscono in termini di appagamento esistenziale. Ma l'appagamento non può essere misurato e giudicato con criteri scientifici o medici, ed è legato prevalentemente all'ambiente e alla struttura sociali, oltre che a fattori intellettuali e culturali. Lo stesso vale per la creatività, e forse di fatto, in misura diversa, per l'intera gamma delle facoltà mentali. Se si tiene conto delle variabili sociali, i traguardi alla portata degli anziani nel mondo contemporaneo potrebbero essere visti in una prospettiva assai più ottimistica, perlomeno rispetto all'immagine fornita dalle testimonianze di biologi, psicologi e medici. Nonostante le eccezioni riconosciute e lo straordinario progresso della medicina geriatrica, il quadro che emerge dalla letteratura medica e scientifica sull'argomento è in generale piuttosto deprimente. La tendenza inequivocabile, che si riscontra anche nelle organizzazioni sia professionali che volontarie per l'assistenza agli anziani, è quella di considerare le persone anziane come prive di ogni autonomia. Un ottantenne che si trovi a partecipare ad un convegno di geriatria, di gerontologia o anche di gerontotecnologia, sentirà sottolineare con tale insistenza le sue presunte incapacità che finirà col meravigliarsi del fatto stesso di poter essere presente.

L'invecchiamento della popolazione

tab. I

La tab. I riporta nella colonna di sinistra un elenco di nove paesi in cui gli ultrasessantenni rappresentano oltre un decimo della popolazione, e nella colonna di destra un elenco di altri nove paesi con una percentuale inferiore di individui in questa classe d'età.Le apparenti incongruenze tra i dati relativi alle quote di anziani e quelli relativi alla speranza di vita si spiegano con il fatto che le dimensioni relative delle classi di età più anziane non sono determinate esclusivamente dalla sopravvivenza degli individui che vivono abbastanza a lungo da rientrare nella categoria in questione, ossia dalla mortalità, ma anche dalle dimensioni relative dei gruppi di età giovanili. La fecondità attuale e recente determina il numero dei giovani. Per incidere sulla composizione della popolazione i tassi di natalità e di mortalità devono restare costanti per un certo numero di decenni - e qui emerge il carattere dinamico di ogni analisi demografica. I paesi sviluppati hanno sperimentato un declino della fecondità per un periodo considerevolmente lungo, e in anni recenti i loro tassi di natalità sono diventati straordinariamente bassi; ciò ha determinato una drastica riduzione della quota di giovani sul totale della popolazione e un aumento della quota degli anziani. Anche il costante incremento della speranza di vita nei paesi riportati nella colonna a sinistra della tabella contribuisce ad aumentare la quota relativa dei gruppi più anziani, e secondo le previsioni demografiche ogni ulteriore invecchiamento della popolazione di questi paesi sarà dovuto interamente o in misura dominante a una bassa e decrescente mortalità. Il tasso di natalità in Italia, ad esempio, è il più basso tra quelli dei paesi elencati nella tabella, e uno dei più bassi del mondo. A meno che il modesto incremento della natalità osservato alla fine degli anni novanta non assuma proporzioni più significative, sembrerebbe inevitabile un ulteriore invecchiamento della popolazione italiana dovuto al basso e in ulteriore diminuzione livello della mortalità. Una massiccia immigrazione potrebbe in qualche misura contrastare questa tendenza, poiché gli immigrati sono in maggioranza nella prima età adulta, ma si tratta di una eventualità altamente improbabile.

È inevitabile, naturalmente, che nel lungo periodo una riduzione della popolazione totale si verifichi in tutti i paesi in cui il tasso di fecondità è inferiore al livello di sostituzione - condizione comune a tutti i paesi che figurano nella colonna a sinistra della tabella. Tuttavia per alcuni decenni non si prevede una significativa riduzione della popolazione, principalmente a causa dell'aumento costante della sopravvivenza. La popolazione ha cominciato ad invecchiare a seguito di quella che i demografi definiscono 'transizione demografica'. Questa è caratterizzata da un sensibile decremento della natalità, dovuto quasi interamente al controllo volontario delle nascite, che si verifica contemporaneamente ad una diminuzione egualmente significativa della mortalità, o a breve distanza da essa, portando ad un incremento notevole della speranza di vita (v. Rowland, 1984; v. Chesnais, 1986). Alcuni considerano una trasformazione demografica di questo tipo come un elemento costitutivo del processo di sviluppo o di modernizzazione, e di fatto le società di tutti i paesi nella colonna a sinistra della tab. I sono moderne o postmoderne, mentre quelle dei paesi nella colonna di destra sono società preindustriali sottosviluppate o in via di sviluppo.

Colpisce nondimeno il fatto che la speranza di vita delle popolazioni di cinque dei nove paesi nella colonna di destra sia di oltre 70 anni, quasi la stessa che si riscontra nei paesi sviluppati. Ciò autorizzerebbe a concludere che l'invecchiamento della popolazione non è una prerogativa esclusiva del modello di modernizzazione messo spesso sotto accusa. Attualmente un numero crescente di individui delle società 'premoderne' sottosviluppate e in via di sviluppo può avere una vita media considerevolmente lunga.Sino ad anni recenti i demografi, così come la maggioranza degli studiosi della vecchiaia, compresi i biologi, assumevano che la vita media degli esseri umani avesse limiti ben definiti, dati in natura, in quanto ogni specie sarebbe caratterizzata da una specifica durata della vita. Sul numero esatto di anni della vita umana media, tuttavia, le opinioni erano piuttosto discordi, sebbene in generale si assumesse un valore superiore ai 100 anni. La ricerca più recente tuttavia ha sollevato dei dubbi sulla validità di tali assunti (v. Hayflick, 1994; v. Holliday, 1995; v. Gavrilov e Gavrilova, 1991), e persino la misura adeguata dell'invecchiamento della popolazione comincia ad essere messa in questione.

L'età media alla morte in una data popolazione, nonché la percentuale degli individui nei gruppi di età più anziani e il numero medio di anni vissuti dopo un'età x (speranza di vita) rappresentano i criteri ufficiali di misurazione e sono universalmente usati. Su di essi ha insistito in modo particolare la Francia alla fine del XIX secolo e nel secondo dopoguerra, periodi in cui la prospettiva del declino nazionale veniva associata al decremento demografico e all'invecchiamento della popolazione. Evidenziando il vizio ideologico che impronta il metodo ufficiale, Patrice Bourdelais (v., 1993) ha proposto un nuovo indice basato sull'aumento o sulla diminuzione dell'età anagrafica a partire dalla quale resta ancora da vivere un determinato numero di anni. In base a questa misura, la popolazione della Francia risultava essere leggermente ringiovanita nel periodo durante il quale si assumeva fosse invece drasticamente invecchiata.

La demografia e la sociologia storiche dell'invecchiamento

La svolta secolare dell'invecchiamento della popolazione

1
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Le figg. 1 e 2 mostrano i mutamenti verificatisi nel corso del tempo nella speranza di vita e nella quota degli ultrasessantenni nella popolazione di un certo numero di paesi.

Da tali grafici emergono due caratteristiche dell'invecchiamento della popolazione. In primo luogo il suo andamento è relativamente costante in archi di tempo piuttosto estesi, in conformità alle previsioni demografiche nonostante la connessione indiretta tra durata media della vita e struttura per età delle popolazioni. La seconda caratteristica è costituita dalla brusca impennata di tutte le curve in entrambi i diagrammi verificatasi circa un secolo fa, che corrisponde a quella che viene indicata come 'svolta secolare dell'invecchiamento'. In Inghilterra il fenomeno si è verificato un po' prima e sembra in modo più brusco che negli altri paesi, ma a questo riguardo occorre tener conto della differenza di scala nei due diagrammi. Si prevede che in Cina e in altri paesi in via di industrializzazione il processo sarà ancora più rapido (v. Laslett, Necessary..., 1996). I due fenomeni citati incorporano praticamente tutto ciò che si sa sull'andamento storico dell'invecchiamento della popolazione. Si tratta peraltro di dati incompleti, in quanto i grafici rappresentano i frammenti finali di un periodo che, a quanto ne sappiamo, si estende indietro nel tempo per centinaia o migliaia di anni, risalendo addirittura alla prima comparsa di insediamenti umani stabili (v. Wrigley e Schofield, 1981; v. Wrigley e altri, 1997). Tuttavia già sulla base di questi dati si può concludere che le società contemporanee, in particolare quelle sviluppate, assieme a quelle in via di rapido sviluppo, sono eccezionalmente vecchie, e sono invecchiate improvvisamente secondo i criteri temporali degli storici, istantaneamente secondo quelli dei biologi. Viviamo attualmente in un'epoca che ci rende molto diversi da tutti i nostri predecessori. E tuttavia la visione tradizionale e profondamente radicata della vecchiaia non è stata ancora abbandonata, né riconosciuta per quella che è. La nostra prospettiva è viziata da un ritardo strutturale (v. Riley e altri, 1994), o da una falsa coscienza (v. Laslett, 1989) rispetto al problema dell'età e della vecchiaia. Poiché la svolta dell'invecchiamento si è verificata nella maggioranza dei paesi qualche decennio dopo la transizione demografica classica, alcuni demografi la considerano parte di una seconda transizione che sarebbe tuttora in corso in Europa, la quale implica anche modificazioni fondamentali nella formazione della coppia, nei rapporti familiari, nell'educazione della prole, nei comportamenti sessuali e riproduttivi - dando luogo in particolare ad una drastica riduzione nel numero dei figli (v. Van de Kaa, 1987).

fig. 3

La fig. 3 illustra a grandi linee la svolta secolare dell'invecchiamento per il Regno Unito in un arco temporale molto esteso. In questo paese, così come negli altri paesi di lingua anglosassone e in Francia, la prima transizione demografica si è verificata tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, mentre in Italia e in altre aree europee è intervenuta alcuni decenni più tardi, ed è tuttora in corso, o deve ancora iniziare, in Giappone, nel resto dell'Asia e nei paesi in via di sviluppo. La seconda transizione demografica è indicata dalle curve a destra e a sinistra della linea verticale che contrassegna l'emergere della terza età. L'invecchiamento della popolazione è stato grosso modo contemporaneo ai cambiamenti sociali menzionati in precedenza i quali includono anche una profonda modificazione delle fasi precedenti del corso di vita, come l'abbassamento dell'età alla pubescenza - che avviene verso i dodici anni o anche meno per le ragazze, qualche mese più tardi per i ragazzi - e che potrebbero essere ricollegati per molti versi alla 'protesta giovanile' degli anni sessanta. Tutti questi sviluppi nel loro insieme concorrono a determinare la svolta dell'invecchiamento, che può essere considerata la caratteristica saliente dell'invecchiamento nelle società contemporanee (v. Laslett, 1989). Sarebbe più appropriato allora ricollegare l'invecchiamento della popolazione alla seconda transizione demografica europea, piuttosto che alla prima. Ma per portata e proporzioni tale trasformazione ha un'incidenza assai maggiore rispetto ad altri sviluppi associati alla seconda transizione demografica, e non ha con essi molti elementi in comune per quanto attiene ai fattori causali, fatta eccezione per il calo della fecondità. L'errore che si deve evitare è trarre la facile conclusione che ogni società in cui si verifica un radicale invecchiamento della popolazione sperimenti anche necessariamente le altre trasformazioni associate alla seconda transizione demografica europea.

L'aumento della vita media e l'invecchiamento della popolazione sono considerati di norma come una conseguenza dei progressi della medicina e dell'innalzamento degli standard di vita determinato dalla mobilitazione economica, in particolare dai miglioramenti nella nutrizione. Sembra non vi siano dubbi sulla correttezza di questo assunto, e ciò significa che i gruppi della popolazione che hanno uno standard di vita migliore in termini di condizioni abitative, sanitarie e nutrizionali, ossia i ceti medio-alti e le élites, siano e siano stati più longevi degli altri, in particolare dei poveri. Tuttavia è stato scoperto (v. Cornaro, 1623) che una dieta a basso tenore calorico è associata ad una maggiore capacità di sopravvivenza negli esperimenti biologici, e la demografia storica ha dimostrato che i gruppi sociali privilegiati non sono vissuti necessariamente più a lungo del resto della popolazione, mentre i poveri hanno dimostrato una sorprendente longevità (v. Laslett, 1996²).

Centenari e grandi anziani

Il profondo impatto strutturale della svolta secolare dell'invecchiamento su tutti gli aspetti della vita impone di considerare la vecchiaia non solo sotto il profilo demografico, ma anche nei suoi effetti sociali ed economici. Un valido contributo in questo senso è offerto dalla sociologia storica e dall'antropologia comparata.

Lo studio dei grandi anziani e in particolare dei centenari ha sempre costituito uno dei principali interessi della gerontologia, e assume una particolare importanza oggi che viene affrontato in modo più scientifico. Le statistiche sono chiare: nel 1960 vi erano 1.750 centenari nei quattordici paesi per i quali disponiamo dei dati più attendibili, e quindi una quota di 5,3 per milione nella popolazione. Nel 1990 il loro numero è aumentato a 18.394, e le loro quote a 45,1. Quanto agli ottantenni e ai novantenni - i cosiddetti 'grandi anziani' - il loro numero complessivo è salito nello stesso periodo da 6,4 milioni a 16,4 milioni in venticinque paesi, e le loro quote dall'1,42% al 3% (v. Kannisto, 1994, tabb. 5 e 4).

Non vi è dubbio che i grandi anziani rappresentano il settore della popolazione che va aumentando più rapidamente nelle società avanzate contemporanee. Tuttavia lo studio oggettivo di questo fenomeno incontra notevoli difficoltà in quanto spesso la mania di scoprire nuovi centenari ha portato a falsificare i dati anagrafici. Lo spirito critico, essenziale all'atteggiamento scientifico, si è affermato assai tardi in questo campo d'indagine, e non si è ancora perfettamente consolidato. Persiste così la credenza del tutto infondata che in alcune aree, come ad esempio le zone montuose del Caucaso, i centenari abbondino. Un giusto scetticismo ha cominciato a farsi strada solo un secolo fa (v. Thoms, 1873 e 1879²), e la storia dei centenari potrebbe essere definita a buon diritto come storia di un inganno. I dati provenienti da fonti attendibili, là dove esistono, smentiscono clamorosamente le testimonianze a dir poco fantasiose offerte dai testi religiosi, filosofici e letterari sin dall'antichità in molte parti del mondo. Tuttavia le genealogie cinesi forniscono dati abbastanza attendibili risalenti a prima dell'anno 1000. Da questi dati risulta che su un campione di duemila individui di sesso maschile solo uno aveva raggiunto il secolo, morendo a cent'anni nel 1513, e tra le donne, che vengono menzionate solo occasionalmente, una sembra sia morta all'età di 103 anni nel XIII secolo. Un altro esiguo numero di individui aveva raggiunto l'età di 95 anni (v. Zhao, 1995).

Una ricerca sistematica di ulteriori casi e un esame rigoroso della loro autenticità potrebbe metterci in condizioni di stabilire se M.me Calment (v. Robine e Allard, 1995), che ad Arles, nel sud della Francia, il 22 febbraio del 1997 compì centoventiquattro anni, sia realmente la persona più anziana che sia mai esistita, e se il danese/americano di centoquattordici anni recentemente scoperto a Berkeley, in California, sia di fatto l'uomo più vecchio esistente (v. Wilmoth e altri, 1996). Tutte le altre testimonianze di individui vissuti ancora più a lungo devono essere rigettate in quanto inattendibili, sebbene gli studiosi tendano oggi a rifiutare l'idea di un limite massimo della durata della vita. Un dogma della biologia è stato messo in crisi dalla sociologia storica.

L'ipotesi che il numero dei grandi anziani sia destinato ad aumentare nel futuro è peraltro estremamente controversa. Alcuni studiosi sostengono che l'espansione dei grandi anziani non potrà che arrestarsi, a prescindere da un eventuale limite massimo della durata della vita, e che emerge già una tendenza al rallentamento del fenomeno (v. Olshansky e Carnes, 1994), mentre altri sono dell'avviso che non vi sia alcun segno di una sua recessione (v. Kannisto e altri, 1994). È superfluo sottolineare l'importanza di queste previsioni. Il costo sociale dei grandi anziani è assai alto sia in termini finanziari, in quanto si tratta di individui che hanno le maggiori probabilità di vivere in istituzioni, sia in termini di richiesta di assistenza personale. L'incidenza dell'istituzionalizzazione tuttavia non dovrebbe essere sopravvalutata, in quanto nelle società europee riguarda solo un anziano su venti, e dai dati a nostra disposizione risulta che è sempre stato così.

In relazione alla durata massima della vita una quindicina di anni fa è stata formulata un'ipotesi che ha suscitato notevole interesse, se non altro perché sembra incarnare una speranza che più o meno tutti nutriamo. Si tratta dell'ipotesi della cosiddetta rettangolarizzazione della curva di sopravvivenza (v. Fries, 1980 e 1989; v. Fries e Crapo, 1981). Non possiamo soffermarci in questa sede sui particolari tecnici di questo modello; è sufficiente accennare che, secondo le previsioni di Fries e Crapo, le malattie si andranno concentrando nella prima fase dell'intervallo di età compreso tra gli 80 e gli 89 anni, il che significa un'età media alla morte di 85 anni. Avvicinandoci a questa età, tutti moriremo di morte naturale - il tipo di morte che ognuno si augura. È opinione concorde che una certa compressione della morbilità e della mortalità sarà inevitabile nella fascia d'età occupata dai grandi anziani, ma il crescente numero di nonagenari e il fatto che l'età alla morte può sopravanzare anche di quarant'anni l'ottantacinquesimo compleanno parlano contro queste ipotesi, e i medici confermano che la prospettiva di una morte naturale generalizzata per gli anziani continua ad essere lontana come in passato.

Gli studi di simulazione relativi al numero dei legami parentali, che sono, come è ovvio, demograficamente determinati, rivestono senza dubbio una notevole importanza nella ricerca sulla vecchiaia (v. Bongaarts e altri, 1987). Tali studi hanno dimostrato, ad esempio, che il numero dei cugini in Italia nel lungo periodo è destinato a diminuire drasticamente, specialmente se il livello di natalità, che ha raggiunto il suo minimo storico, non mostrerà segni di ripresa (v. Laslett e altri, 1993). I mutamenti demografici influiscono soprattutto sulla parentela collaterale, e la prospettiva di una riduzione del numero dei cugini a un quinto o addirittura a un decimo del loro livello tradizionale è destinata ad alterare la vita sociale di tutte le classi di età. Nel caso dell'Italia, i più anziani non potranno contare sui parenti collaterali per quel supporto che non può più essere fornito dai figli a seguito della drastica riduzione della natalità.

Il numero dei familiari ha grande rilevanza nell'analisi della posizione all'interno della famiglia e dei legami parentali degli anziani in generale, che esamineremo nel prossimo paragrafo.

La posizione all'interno della famiglia e le relazioni parentali degli anziani

La presenza e il ruolo dei familiari per gli anziani sono diventati un tema controverso da quando, venticinque anni fa, è stato dimostrato che in Inghilterra e in tutta l'Europa nordoccidentale per almeno tre secoli i gruppi familiari sono stati di dimensioni piuttosto ridotte e semplici nella composizione (v. Laslett, 1996², cap. 8). Per quanto riguarda quest'area, quindi, l'ipotesi di una nuclearizzazione della famiglia come conseguenza del processo di modernizzazione risulta del tutto ingiustificata. Sia in questa regione dell'Europa che negli Stati Uniti la comunità, lo Stato, la Chiesa e le istituzioni caritatevoli si sono fatti carico degli anziani allo stesso modo se non in misura maggiore dei familiari. Esistono inoltre notevoli differenze a questo riguardo sia tra le diverse regioni del continente europeo, sia tra l'Europa, l'Asia ed altre aree del mondo. Tuttavia alcuni dati possono aiutarci a stabilire in che misura gli anziani vivessero con i figli e altri membri della famiglia oppure da soli nell'Europa occidentale del passato; il raffronto con la situazione odierna metterà in luce l'aumento impressionante del numero di anziani che vivono da soli o soltanto con il coniuge, senza figli o altri parenti, nelle società contemporanee.

II
III

I dati riportati nelle tabb. II e III sono piuttosto significativi. Il fatto che in Gran Bretagna negli anni ottanta non meno dell'80% delle persone sposate di sessantacinque anni e più vivesse soltanto con il coniuge, mentre i due terzi degli individui di sesso maschile non sposati nella stessa fascia d'età e i tre quarti delle femmine vivessero da soli è abbastanza eccezionale. E lo è ancora di più se si pensa che, come hanno evidenziato alcuni studi di simulazione, negli anni ottanta gli anziani potevano contare su un numero superiore di familiari rispetto al passato, in conseguenza della più elevata sopravvivenza e dei tassi di natalità relativamente alti registrati verso la metà del secolo.

È chiaro, peraltro, che il vivere da soli era una condizione abbastanza diffusa anche in passato, prima della svolta secolare dell'invecchiamento. Sebbene si riferiscano solo ad alcune località rurali e a due città, i dati riportati dalla tabella II, dai quali risulta che il 16% delle donne vivevano da sole, illustrano quella che sembra fosse una situazione normale. Un'altra impressione che si ricava da queste statistiche è quella di una relativa costanza nel tempo, che sembra si sia conservata anche dopo la svolta secolare, perdurando sino agli anni sessanta. È stato solo dopo questa data che in Gran Bretagna, dove l'industrializzazione era presente da oltre un secolo e mezzo, il gruppo familiare in cui vivevano gli anziani ha subito una radicale trasformazione. Come ha affermato Richard Wall, insigne autorità britannica sull'argomento, la posizione familiare degli anziani ha subito maggiori mutamenti nel corso degli ultimi trent'anni che nei tre secoli precedenti, da quando si è cominciato a disporre di statistiche attendibili. È altrettanto giustificato associare questo sviluppo ad una seconda transizione demografica o all'avvento del postmoderno quanto a qualsiasi altra variabile rilevante, e forse ciò vale soprattutto per l'Italia, paese in cui i gruppi familiari erano più estesi che non in Gran Bretagna.

Queste ipotesi relative al numero dei familiari e alla composizione del gruppo domestico sono state oggetto di forti critiche. Si è messa in discussione la validità del metodo della microsimulazione, e si è sostenuto che agli inizi del XX secolo negli Stati Uniti gli anziani vivevano in prevalenza con i figli (v. Ruggles, 1994). Ciò tuttavia non vale per la Gran Bretagna, come dimostrano i dati riportati nelle tabb. II e III. Anche se alcune delle argomentazioni menzionate risultassero corrette - e a nostro avviso ciò vale solo per alcune di esse - la vecchia immagine della famiglia che accoglie nel proprio seno gli anziani costituendone l'unico sostegno difficilmente potrà ripresentarsi. Niente dimostra altresì che i figli adulti forniscano un regolare sostegno finanziario ai genitori anziani. Per quanto riguarda invece la solidarietà intergenerazionale, le opinioni sono piuttosto concordi. I membri della rete familiare, ovunque risiedano - e il problema dei cambiamenti del modello residenziale è di cruciale importanza negli studi di questo tipo - generalmente conservano per quanto possibile i legami con la generazione più anziana, anche se non vivono sotto lo stesso tetto. In Inghilterra, a quanto sembra, i familiari (sia parenti diretti che collaterali) hanno sempre aiutato per quanto possibile i loro congiunti anziani bisognosi, e forse oggi non meno che in passato. La cosiddetta 'intimità a distanza' non è una novità ai nostri giorni. Concludere che vivere da soli per gli anziani implichi necessariamente solitudine o abbandono è del tutto ingiustificato.

L'assistenza da parte della collettività ha una tradizione ben radicata, e sembra riscontrabile anche al di fuori dell'Europa, persino in un paese come la Cina. In quest'area le carenze della famiglia a questo riguardo sono attestate dalla scoperta che in alcune comunità di villaggio formate quasi interamente da grandi famiglie estese si potevano ritrovare uno o due anziani di sesso maschile che vivevano completamente soli. Lo stesso sembra valere per il Kenya contemporaneo, sebbene non sia lecito istituire un parallelo tra le posizioni dell'anziano nell'Europa del passato e nelle società extraeuropee in via di sviluppo.

Dagli elementi in nostro possesso possiamo trarre tre conclusioni generali. La famiglia come gruppo di residenza e come rete di parentela si dimostra una istituzione inadeguata al sostegno degli anziani dipendenti, e ciò principalmente per ragioni demografiche. Il Welfare State, per quanto recente possa sembrare il suo sviluppo negli Stati Uniti, non è nato nel XX secolo, ma ha radici assai più lontane. L'assistenza agli anziani non era necessariamente una delle funzioni del gruppo domestico multiplo coresidenziale, là dove esisteva questo modello familiare. Il fenomeno della nuclearizzazione è stato in larga misura irrilevante, perlomeno nell'Europa nordoccidentale e nelle società da essa derivate.

Forse la funzione più importante delle tecniche di simulazione negli studi sulla vecchiaia è quella di fornire una stima del numero attuale di familiari, e di formulare previsioni a questo riguardo per il futuro usando la proiezione del probabile andamento di alcuni tassi demografici (v. Wachter, 1997). Da questi studi emerge l'immagine della famiglia come 'bastone di sostegno', in cui l'individuo sarà inserito in una sequenza di legami parentali verticali - bisnonni, nonni, genitori, nipoti, pronipoti - sebbene di norma solo genitori e figli saranno coresidenti e la coesistenza spazio-temporale di quattro o più generazioni sarà un fenomeno piuttosto raro. È chiaro, peraltro, che il numero dei parenti collaterali subirà una forte diminuzione. Inoltre in paesi come gli Stati Uniti una quota consistente dei genitori viventi sarà costituita da patrigni e matrigne, a seguito dell'incidenza del divorzio e del cambiamento di partner, fenomeno che considereremo più avanti.Il numero dei genitori acquisiti non sembra destinato a diventare rilevante in Italia, dove il divorzio e la convivenza attualmente non sono molto diffusi.

Approcci teorici: gli stadi del ciclo o percorso di vita

La solidarietà verso gli anziani, la disponibilità ad assisterli, la paura che suscita la certezza di diventare un giorno uno di loro, sembrano essere diffusi nel presente come nel passato. Vi sono peraltro chiare indicazioni del fatto che l'immagine degradante e negativa degli anziani (v. Laslett, 1989; tr. it., 1992) ha radici lontane, e potrebbe essersi rafforzata con la scomparsa della società tradizionale. Lo sviluppo, nella metà del XIX secolo, all'approssimarsi della svolta secolare, di una parvenza di teoria scientifica dell'età e dell'invecchiamento, che ebbe la sua espressione più potente nel modello medico, inaugurò quella che forse può essere considerata l'epoca più funesta sotto questo profilo (v. Katz, 1996, cap. 3). Quando la gerontologia venne formalizzata e cominciò a presentarsi come scienza sociale, vennero formulati dei principî che, almeno in parte, sarebbero diventati irrilevanti quando la trasformazione dell'invecchiamento prese piede definitivamente. Tali principî erano in larga misura mutuati da altre discipline delle scienze sociali.

Il passaggio dell'individuo attraverso le varie fasi del ciclo di vita - nascita, infanzia, adolescenza, matrimonio, procreazione, allontanamento dei figli, vedovanza e morte - è un tema ricorrente nella letteratura di tutto il mondo - si pensi, per fare un esempio, al famoso passo di Shakespeare sulle Sette Età dell'Uomo. Il modello del ciclo o percorso di vita articolato in una sequenza di stadi ha costituito un punto di riferimento essenziale nello studio dell'età e della vecchiaia in rapporto alla vita lavorativa e familiare (v. Hareven, 1994). Tale modello conserva tuttora la sua validità, sebbene a seguito della svolta secolare dell'invecchiamento l'ultimo stadio si sia esteso in misura straordinaria, e le trasformazioni nella composizione della forza lavoro, per non parlare di quelle intervenute nella formazione della coppia e nei comportamenti riproduttivi associati alla seconda transizione demografica (europea e americana), abbiano reso assai più complesso il modello del ciclo di vita. Il massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha inciso profondamente sull'organizzazione della vita familiare. Le famiglie composte da un solo genitore con figli, la diffusione del lavoro part-time, l'aumentare delle distanze tra i luoghi di residenza, modificate dalla comparsa del telefono, e soprattutto la frequenza del divorzio e del cambiamento di partner - in particolare nelle aree anglosassone e scandinava - hanno reso l'approccio basato sul ciclo di vita un campo di studi altrettanto importante quanto qualsiasi altro delle scienze sociali contemporanee. Tale approccio si propone come una valida alternativa alle analisi puramente gerontologiche, mettendone in discussione i principî di ispirazione medica che avevano confinato lo studio dell'età e della vecchiaia esclusivamente all'analisi della 'quarta età', generalizzata come 'età anziana'. Nonostante la carenza di elaborazioni teoriche sull'età e sull'invecchiamento che si riscontra nelle scienze sociali, non sono mancati alcuni tentativi in questo senso; l'ipotesi del distacco dalla vita attiva da parte dell'anziano formulata da Cumming e Henry (v., 1961) negli anni sessanta ha goduto per lungo tempo di un notevole credito, ma oggi va perdendo terreno nei confronti della teoria 'attivista' della vecchiaia che pone l'accento sulla continuità rispetto alle età precedenti. Gli stessi gerontologi sono consapevoli della carenza di formulazioni teoriche nel loro campo di studi, e in più occasioni hanno messo in risalto la necessità di porvi rimedio. Un recente intervento in questo senso (v. Bengtson e altri, 1997), apparso nella sezione dedicata alle scienze sociali degli imponenti "Journals of gerontology" (nonché nell'associata pubblicazione "The gerontologist"), divide le recenti teorie in due o quattro livelli e in tre o quattro generazioni. Le sottosezioni più significative sono le ultime due al macrolivello, The political economy of ageing e Critical gerontology, di ispirazione postmarxista e postmodernista. Sotto questo profilo l'arena intellettuale degli studi sulla vecchiaia è oggi perfettamente in linea con i tempi. Ma la traduzione della teoria del ciclo o percorso di vita nella teoria della terza età, che a nostro avviso costituisce la risposta adeguata alla trasformazione dell'invecchiamento, ha inciso in modo poco visibile sul corpus della disciplina nel suo complesso, tranne una significativa eccezione (v. Carnegie enquiry..., 1993). L'iniziativa in questo senso è dovuta partire dagli anziani stessi, sia attraverso pubblicazioni, sia con azioni concrete.

L'emergere della 'terza età'

In Italia, in Francia e in Spagna l'espressione 'terza età' è entrata nell'uso alla fine degli anni settanta, in connessione con l'istituzione di classi per studenti anziani nelle università. Le organizzazioni di questo tipo peraltro non vennero introdotte nell'area angloamericana nella loro forma originaria, e la terza età non venne riconosciuta dai gerontologi come uno stadio del percorso di vita. Negli anni ottanta, tuttavia, la 'terza età' ha ricevuto una definizione demografica, ha acquistato una precisa rilevanza teorica e culturale e persino una propria organizzazione istituzionale, con le università della terza età di modello britannico (v. Laslett, 1996² e 1996).Il percorso di vita è stato drasticamente semplificato e ridotto a quattro stadi: una 'prima età' in cui avviene la socializzazione e la formazione educativa; una 'seconda età' caratterizzata dall'attività professionale e dalla responsabilità, in particolare familiare; una 'terza età' in cui l'individuo ha il tempo e la possibilità di coltivare i propri interessi e di dedicarsi alla realizzazione personale, e infine una 'quarta età' di senescenza e di perdita dell'autosufficienza. Il computo degli stadi non viene più basato sulle classi d'età, e l'ingresso nella 'terza età' tende ad essere considerato frutto di una decisione individuale, sebbene in generale venga fatto coincidere con il pensionamento. Non è più considerato lecito parlare di 'età anziana' o 'età senile', e ciò significa rifiutare l'identificazione universale di tutta la vita postlavorativa con gli stereotipi negativi associati all'immagine della vecchiaia. Questo cambiamento radicale di aspettative e di atteggiamenti porterà, si spera, ad una percezione diversa e più articolata delle condizioni fisiche e mentali degli individui in questa fase della vita, pur tenendone in debito conto la specificità. L'attenzione dei gerontologi si è andata spostando dalle relazioni familiari alla cooperazione spontanea degli anziani tra di loro e con i membri delle generazioni più giovani, legate o meno da vincoli di parentela. Si tende ora a porre l'accento sull'autosufficienza degli anziani più che sulla dipendenza, e si comincia a prefigurare il modello di una nuova società in cui la terza età - formata da individui ormai liberi dagli obblighi comportati dalle due età precedenti - non è più marginalizzata ed esclusa dalla vita attiva, ma vi partecipa pienamente.

L'emergere della terza età nelle società occidentali avanzate può essere collocata intorno agli anni cinquanta, come mostra la fig. 3, che pone il fenomeno in relazione con le due transizioni demografiche e con la svolta secolare dell'invecchiamento. Nell'ambito della discussione sulla terza età (v. Laslett, 1996² e 1996) sono state fissate alcune condizioni necessarie per il pieno affermarsi di questo stadio della vita. Oltre a parametri demografici rigorosamente definiti, le nazioni devono avere un livello di ricchezza sufficiente a garantire uno standard di vita adeguato agli anziani, mettendoli in condizione di sviluppare una vita indipendente e di utilizzare al meglio gli anni supplementari concessi dalla svolta secolare dell'invecchiamento.

Le università della terza età sono considerate un'istituzione d'avanguardia degli anziani e, si spera, apriranno la strada alla creazione di istituzioni analoghe e all'affermarsi di atteggiamenti e di prassi adeguate alla mutata composizione della società. È questa la risposta vincente alla trasformazione - già in atto o ancora da venire - della struttura per età di tutte le popolazioni, una risposta che, ovviamente, è ancora allo stato embrionale.

Tendenze e prospettive

L'incremento apparentemente ininterrotto del numero dei grandi anziani e la successiva istituzionalizzazione all'interno delle varie società nazionali di una comunità della terza età, rappresentano tendenze destinate senza dubbio a proseguire nel futuro. L'aumento della vita media e l'espansione del numero degli anziani rendono più urgente il problema della qualità della vita dei membri di questa classe della popolazione, a meno che essi stessi non intraprendano iniziative atte a dare un senso alla propria esistenza - passi che, a quanto sembra, non possono che essere del tipo di quelli suggeriti qui.

A prescindere da questo problema piuttosto trascurato, l'attenzione di gerontologi, sociologi e scienziati politici dovrà incentrarsi sulle misure sociali, sanitarie e assistenziali necessarie al sostegno di una popolazione improduttiva in costante espansione, nonché sulla riduzione delle spese di consumo per far fronte ai costi che l'invecchiamento della popolazione comporta. Per mantenere gli anziani si rendono necessari massicci trasferimenti dalla seconda età alla terza e alla quarta, effettuati nella consapevolezza che tutti ci troveremo a passare attraverso questi stadi della vita. Ma agli occhi della maggioranza degli osservatori, e ciò vale in particolare per i politici e per i media, tutto ciò appare come un problema, il grande problema del 'peso degli anziani'. Questo atteggiamento va ad aggravare gli stereotipi negativi degli anziani come destinatari passivi, privi di qualsiasi ruolo, tantomeno indipendente, nella vita sociale e politica attiva.

È probabile che questo deplorevole atteggiamento negativo continui ancora per qualche tempo a ostacolare una valutazione realistica delle prospettive dei paesi che hanno sperimentato la svolta secolare dell'invecchiamento. Come abbiamo visto in precedenza, non è certo facile prevedere in che misura aumenterà la speranza di vita e quali saranno le dimensioni della popolazione anziana.

Gli istituti statistici nazionali evitano di parlare di crisi, ma secondo le previsioni dei demografi tra il 2030 e il 2050 l'invecchiamento della popolazione crescerà rapidamente (v. Laslett, 1996², p. 71), e alcuni ipotizzano che verso questa data la speranza media di vita potrebbe avvicinarsi ai 100 anni. È opinione condivisa che la tendenza all'invecchiamento della popolazione sia irreversibile, almeno nelle società in cui la crescita economica è monotona, come quelle della Comunità Europea. Il processo di invecchiamento tuttavia ha subito un'interruzione negli anni ottanta in Russia e nell'Europa dell'Est, dove la speranza di vita è in diminuzione, mentre ciò non vale ovviamente per la percentuale della popolazione anziana. L'ipotesi che in quest'area vi sarà un nuovo incremento nella durata media della vita appare plausibile, ma niente autorizza a concludere che la durata della vita possa aumentare indefinitamente, nonostante l'incertezza relativa ai limiti biologici della vita media.

Da alcune analisi politiche ed economiche sembra emergere la convinzione che per far fronte ai costi comportati dall'invecchiamento della popolazione e dall'aumento della durata media della vita non sia necessaria una massiccia mobilitazione delle risorse esistenti, o la creazione di nuove risorse. Notevoli preoccupazioni sono state espresse inoltre in merito all'impossibilità per le generazioni giovani, proporzionalmente più esigue, di sostenere i costi di mantenimento di una popolazione anziana in costante espansione. Alcuni studiosi di econometria peraltro hanno cominciato a sottolineare che ciò che conta è la produttività, e non la consistenza numerica (v. Easterlin, 1996⁴). Di fatto i trasferimenti dalla popolazione attiva a quella inattiva non hanno ancora assunto proporzioni senza precedenti - in passato, anzi, i trasferimenti di questo tipo sono stati talvolta di gran lunga più massicci di quelli attuali, che pure appaiono esorbitanti (v. Laslett, 1996², cap. 12). Tuttavia la popolazione anziana è in continua espansione, i costi della quarta età aumentano incessantemente, e nel breve o nel lungo periodo le risorse prodotte dai sistemi attuali si dimostreranno insufficienti (v. Gonnot e altri, 1995). Il fallimento di molti schemi pensionistici contributivi a ripartizione deve ancora essere ammortizzato, e ci si deve attendere una diminuzione del livello di reddito in rapporto alla ricchezza disponibile. I metodi proposti per far fronte a queste emergenze sono oggetto di un'ulteriore controversia in merito alla vecchiaia, che promette di essere la più spinosa di tutte e niente affatto confinata nell'ambito della discussione accademica.

La minaccia di ridurre le pensioni degli statali nel quadro della politica di snellimento del sistema di welfare e in conseguenza dell'aumento dei costi che l'invecchiamento della popolazione comporta, ha cominciato a suscitare la protesta dei cittadini sotto forma di scioperi, dimostrazioni e sconvolgimenti elettorali. In Italia, dove nel 1989 le pensioni rappresentavano poco meno della metà delle spese totali di welfare - la quota più alta in Europa -, i conflitti sono stati particolarmente aspri. Questi sviluppi potrebbero condurre finalmente gli studiosi a riconoscere l'importanza della vecchiaia quale dimensione fondamentale della vita non solo individuale, ma anche sociale e politica. La protesta dei cittadini dimostra l'incapacità di vedere i problemi in prospettiva di cui hanno dato prova i governi e altri organismi politici, i quali hanno sfruttato l'ignoranza e l'indifferenza generali di fronte a questi problemi nel definire le loro politiche pensionistiche, rivelatesi del tutto inefficaci e bisognose di una radicale revisione. La controversia riguarda principalmente la scelta tra due metodi alternativi di finanziamento delle pensioni: quello della ripartizione e quello della capitalizzazione. Col metodo della ripartizione le prestazioni a favore dei pensionati sono coperte con i contributi prelevati dai lavoratori attivi, mentre col metodo della capitalizzazione i contributi adeguatamente capitalizzati vengono destinati alla costituzione di un fondo cui attingere per il successivo pagamento delle prestazioni; in questo secondo caso, si tratta di stabilire se tali fondi debbano o meno essere privatizzati. Un'eloquente testimonianza dei timori di una crisi generalizzata come conseguenza di questi sviluppi è data dal rapporto della Banca Mondiale del 1994, intitolato significativamente Averting the old age crisis. Altri osservatori peraltro (v. Johnson, 1997) ritengono che la situazione economica e finanziaria non giustifichi tali timori, e che le emergenze e le misure per affrontarle siano di natura politica. L'uno o l'altro dei metodi menzionati, o una combinazione dei due, è in grado di provvedere al mantenimento della vasta e crescente popolazione nella terza età, posto che esistano i mezzi finanziari per farlo. Il finanziamento del sistema pensionistico non deve essere necessariamente pubblico, poiché il risparmio individuale e volontario per la vecchiaia è sempre esistito. La privatizzazione del sistema pensionistico a capitalizzazione non comporterebbe necessariamente un aumento di risorse.

Qualunque sarà l'esito delle controversie politiche e teoriche, va osservato che se si accetta - come richiede la nuova concezione della 'terza età' - l'idea che ogni individuo si assuma la responsabilità della propria vita sino alla fine, allora è giusto che ciascuno provveda a costituirsi con i propri risparmi un fondo che gli consenta di garantirsi la sussistenza una volta cessata l'attività lavorativa - un principio di risparmio che non fa che estendere una prassi tradizionale (per l'Italia v. Cigno e altri, 1997).

Si potrebbe pensare che il sistema della previdenza integrativa equivalga all'abdicazione da parte dello Stato ad un dovere che gli compete da tempo immemorabile, quello di farsi carico degli anziani. Ma tale obbligo nasce dalla situazione di bisogno degli individui, e gli anziani prima della svolta secolare erano universalmente considerati come individui bisognosi - e lo stesso purtroppo vale ancora in larga misura persino nelle cosiddette società avanzate. I trasferimenti in favore di quanti, per scelta o forzosamente, hanno cessato ogni attività lavorativa sebbene siano ancora in condizione di lavorare - è questa la situazione degli individui nella terza età -, appartengono ad una categoria alquanto diversa, analoga sebbene non identica a quella dei trasferimenti in favore dei disoccupati. Un sistema pensionistico che combinasse la previdenza integrativa obbligatoria e il finanziamento delle prestazioni attraverso le imposte generali là dove questa si dimostrasse insufficiente (in caso di malattia, disoccupazione, ecc.) rispetterebbe i due principî della responsabilità individuale e della responsabilità collettiva (v. Laslett, 1996²; v. Falkingham e Johnson, 1993), e lascerebbe inviolato il 'contratto intergenerazionale'.

La definizione del contratto intergenerazionale resta controversa (nell'ambito della vasta letteratura sul tema v. tra gli altri Bengtson e Achenbaum, 1993; v. Laslett e Fishkin, 1992). L'interpretazione che tiene il campo, tuttavia, è quella secondo cui le prestazioni in favore dei pensionati dovrebbero essere pagate dalla collettività attraverso le imposte generali, in considerazione dei contributi versati in passato e dei contributi di altro tipo da essi forniti alla vita nazionale, e del sostegno fornito ai figli e alle generazioni che sono ora nella fase produttiva del ciclo di vita. Si tratta di un'interpretazione che, sebbene incoerente con un principio di equità dinamica, gode nondimeno di notevole credito, soprattutto tra le sinistre progressiste. Ogni deviazione da questo modello viene giudicata negativamente come un rifiuto da parte dello Stato di provvedere agli anziani, e la penetrazione del mercato nel sistema pensionistico attraverso la privatizzazione viene ritenuta un'eresia. Gli studiosi della vecchiaia si trovano qui di fronte ad una complessa congiuntura politica e sociale che impone difficili definizioni e distinzioni teoriche sinora trascurate dalle scienze sociali.

Nel frattempo, tuttavia, si vanno diffondendo in tutto il mondo sistemi pensionistici adeguati alla realtà della terza età, e il principio della previdenza integrativa guadagna progressivamente terreno persino tra le classi operaie e le loro rappresentanze sindacali, come accade ad esempio in Australia (v. Olsberg, 1997). Abbiamo suggerito in precedenza che il modello di vita della terza età non avrà più quale punto di riferimento fondamentale la famiglia e i legami familiari - in costante declino, almeno per quanto riguarda il numero di parenti diretti. Tuttavia gli studi di simulazione dimostrano che nel corso del tempo vi sarà un significativo ampliamento delle reti parentali, inclusa quella delle generazioni più anziane, sia sotto forma di estensione dei legami di parentela ascendenti e discendenti, sia sotto forma di un aumento, in direzione tanto verticale quanto orizzontale, del numero dei parenti acquisiti. Esistono già numerosi studi sull'argomento per gli Stati Uniti (v. Bengtson e Robertson, 1985; v. Bengtson e altri, 1996⁴), mentre per gli altri paesi la ricerca è ancora carente. Queste relazioni familiari, e ciò vale anche per quelle acquisite, possono essere assai salde e gratificanti, offrendo prospettive incoraggianti per quanto riguarda sia il sostegno degli anziani dipendenti, sia la vita sociale della terza età in generale. Questi sviluppi hanno un'evidente rilevanza per quanto concerne l'educazione e la socializzazione dei nipoti, che costituiscono una delle caratteristiche più significative dell'evoluzione sociale e forse biologica in atto nelle società contemporanee. Questo tipo di funzioni, che potrebbero diventare doveri che ogni membro della nuova terza età deve assolvere, illustrano il ruolo che questa fascia della popolazione avrà probabilmente in futuro, quando avrà acquistato un grado di solidità che le consentirà di negoziare i propri compiti sociali da una posizione di indipendenza. Secondo alcuni osservatori, tuttavia, il mutamento della struttura familiare e l'eccessivo invecchiamento della popolazione costituiscono una minaccia per la stabilità strutturale delle società avanzate, e in questo caso la politica adottata spontaneamente dalla terza età in relazione a compiti, come ad esempio la cura dei nipoti, potrebbe giungere a sostenere la società nel suo complesso.

Conclusione

Ci auguriamo che la nostra analisi della vasta e complessa problematica della vecchiaia dal punto di vista della sociologia storica, che ha messo l'accento in particolare sulla svolta secolare, sull'emergere della terza età e sulle politiche contemporanee nei confronti della generazione anziana, abbia fornito un quadro adeguato della vecchiaia e dell'invecchiamento quali fenomeni sociali. Abbiamo cercato di analizzare tali fenomeni nel quadro della modernizzazione, delle due transizioni demografiche e della crisi del Welfare State degli anni novanta al fine di contestualizzare un aspetto della realtà sociale che troppo spesso viene considerato isolatamente. Siamo stati costretti a trascurare molti aspetti rilevanti, cosa del resto inevitabile dati i limiti della presente trattazione. Ciò vale in particolare per l'antropologia, con il suo studio approfondito delle società organizzate in classi d'età e le illuminanti ricerche di studiosi quali Eugene Hammel, Barbara Myerhoff, Meyer Fortes e David Kertzer (v. Kertzer e Keith, 1984). Occorre osservare peraltro che le scienze sociali devono ancora rispondere in modo adeguato sul piano della riflessione teorica alle sfide intellettuali poste dalla svolta secolare e dall'emergere della terza età. Gli orizzonti dovranno essere ampliati in misura significativa, e sarà necessario prestare ascolto agli anziani stessi, prendendo in considerazione assai più di quanto non si sia fatto finora le loro opinioni e le loro azioni. (V. anche Anziani; Benessere, Stato del; Cicli e percorsi di vita; Morbosità; Mortalità; Popolazione; Sicurezza sociale).

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