Verona

Enciclopedia Dantesca (1970)

Verona

Girolamo Arnaldi
Lanfranco Franzoni
Pier Vincenzo Mengaldo

Per il posto che ebbe nella vita e nell'opera, nonché nella diffusione dell'opera e nel nachleben di D., V. può dirsi a buon diritto città dantesca accanto a pochissime altre. La V. di D. è però solo quella dei due primi decenni del sec. XLV, che egli visitò la prima volta - fresco di esilio, già prima di rompere i ponti con il fuoruscitismo bianco - fra il 1303 e il 1304, l'ultima nel gennaio del 1320 e non si sa quante altre volte ancora, e per soggiorni quanto lunghi, durante i tre lustri circa che intercorrono fra questi due termini estremi. Manca, per V., un qualsiasi accenno di risalita a monte dello spartiacque del 1300. Invece, per ragioni chiarite altrove, è ben presente nella Commedia il mondo, in genere, della Marca Trevigiana (v.) nel sec. XIII, del quale pure essa era stata il centro di gravità, almeno da un punto di vista politico, a partire dall'anno della prima podesteria di Ezzelino III da Romano (1226).

Se si guarda alla V. dei primi decenni del sec. XIV prescindendo per un momento da D., s'impongono alla nostra attenzione due temi diversi non facilmente collegabili fra loro.

Da un lato, abbiamo il tema della formazione della signoria scaligera, che non ha ancora trovato il suo storico, ma i cui sviluppi essenziali sono noti e parlano da soli (v. DELLA SCALA; Della Scala, Cangrande): con Mastino I e suo fratello Alberto era stato superato il trauma connesso con la fine della ‛ tirannide ' ezzeliniana e i Della Scala si erano affermati come eredi cittadini delle fortune dei da Romano; con i figli di Alberto, e in particolare con Cangrande, V. iniziava una politica di espansione nella Marca Trevigiana. Punto di arrivo di questa politica sarebbe stata, nel 1328, dopo una serie di vittorie (1314, 1317) e qualche rovescio (agosto 1320), la conquista di Padova, roccaforte del guelfismo nella I'adania orientale. Del resto i Della Scala, già in occasione della venuta di Enrico VII, avevano giocato senza esitazioni la carta dell'Impero, e Cangrande, solo signore dal novembre 1311, continuò a portare il titolo di vicario imperiale, attribuitogli da Enrico, anche dopo che papa Giovanni XXII lo aveva pubblicamente invitato a deporlo (31 marzo 1317), pena la scomunica, che gli fu difatti impartita nell'aprile del 1318. In questo periodo, V. formò con Milano e con Mantova un triangolo di acceso ghibellismo.

Rispetto a questo primo tema, di carattere politico, il secondo, attinente alla storia della cultura, ha al suo attivo una tradizione di buoni studi recenti, anche se manca per ora una trattazione d'insieme.

Ma nel seguente passo di Gius. Billanovich si profila già con sufficiente chiarezza il diagramma delle forze operanti in questo settore nella Marca Trevigiana: " I retori di Padova e della contigua Vicenza e gli eruditi veronesi, impiegando le ricchezze antiche della cattedrale di Verona e l'energia nuova dell'università di Padova, composero tra Padova e Verona il primo cenacolo dell'umanesimo europeo ". A differenza, dunque, di ciò che accade sul piano politico, qui l' " energia nuova " non è a V., ma a Padova; mentre V. si vede riservata solo una parte piuttosto passiva, in quanto depositaria delle " ricchezze antiche della cattedrale " - in altre parole, dei codici della biblioteca Capitolare. Lo stesso vale per i protagonisti di questo moto di cultura, che a Padova sono qualificati come " retori ", cioè a dire come intellettuali impegnati nella vita civile, mentre a V. sono semplicemente degli eruditi, essendosi qui sviluppata a stento e con ritardo, rispetto almeno all'arco della vita di D., anche quella forma di cultura legata alla corte signorile, che, avuto riguardo alla diversità del quadro politico-istituzionale, in teoria avrebbe potuto essere il corrispettivo veronese dell' " umanesimo comunale " padovano. Tanto è vero che l'interprete di Ep XIII 1 (magnalia vestra vidi) e di Pd XVII 85-86 (Le sue magnificenze conosciute / saranno), che voglia indicare un riscontro locale all'encomiastico apprezzamento di D. per Cangrande, deve accontentarsi di rinviare al Bisbidis di Manuello Giudeo, una divertente cantilena in volgare piena di versi onomatopeici, ma non più di questo, pubblicata in ultimo da C. Cipolla e P. Pellegrini nel " Bull. Ist. Stor. It. " XXIV (1902). Solo infatti sette od otto anni dopo la morte di D., Ferreto de' Ferreti (v.), che pure forse ebbe occasione d'incontrarlo alla corte di Cangrande, cominciò a scrivere il Carmen de origine gentis Scaligerae e l'Historia. Non a caso, però, Ferreto era nato e si era formato a Vicenza, in un ambiente sensibilissimo all'insegnamento e all'esempio, letterario se non politico, del padovano Albertino Mussato (v.).

La stessa durevole fortuna del Chronicon Veronense di Parisio da Cerea, una modesta cronaca ducentesca (1117-1277) arricchita nei manoscritti da sempre nuove continuazioni (addirittura fino al 1375, secondo l'edizione che ne dà il Muratori nei Rer. Ital. Script., VIII, Milano 1726), costituisce un indizio indiretto del disimpegno dei letterati veronesi nell'età di D., i quali, in tutt'altro ordine d'idee, furono restii persino a sbilanciarsi nell'entusiasmo per la riapparizione, nella loro città, dell'opera del concittadino Catullo, che ne era rimasta assente fino dai tempi ormai remoti del vescovo Raterio (sec. X) - un ritorno che fu invece subito salutato con giubilo dai loro confratelli sia di Padova (Geremia di Montagnone) che di Vicenza (Benvenuto Campesani).

Il più operoso o, forse meglio, il solo conosciuto di questi eruditi veronesi contemporanei di D. è il mansionario, o sacrista, della chiesa cattedrale, Giovanni de Matociis (m. 1337), noto fra l'altro per avere per primo distinto i due Plini (ma credendoli entrambi veronesi), per avere studiato s. Zeno, altra gloria locale, e per avere atteso, fra il 1306 e il 1320, usando anche in parte, con discernimento critico, le ottime fonti disponibili in Capitolare (Historia Augusta, Livio, ecc.), alla stesura di una Historia imperialis, che comincia con Augusto ed è rimasta interrotta a metà della vita di Ludovico il Pio. Altre opere del mansionario, non pervenuteci, riflettevano l'interesse, in lui prevalente, per le storie e la cultura di stampo ecclesiastico. Quanto a Benzo d'Alessandria - che qualcuno di recente ha proposto d'identificare con un maestro di grammatica di Illasi (Verona) -, la sua attività di cancelliere presso Cangrande ebbe inizio solo nel 1328, anche se sappiamo di un suo precedente soggiorno veronese (prima, parrebbe, del 1310), imperniato sulla consultazione di manoscritti della Capitolare, in particolare di quello contenente il De Civitatibus di Ausonio, che egli utilizzò per la sezione geografica della sua Chronica.

Se il preumanesimo veronese ha caratteristiche sue proprie che lo distinguono da quello padovano e vicentino, non siamo invece in grado, allo stato degli studi, di enucleare una posizione veronese nei confronti della cultura medico-filosofico-astrologica elaborata nella facoltà delle arti padovana fra i secoli XIII e XIV. In rapporto con V. fu certamente il parmense Antonio Pelacani (v.), che vi morì nel 1327, ricevendo sepoltura nel chiostro di San Fermo: ma pare che egli gravitasse su Bologna piuttosto che su Padova.

Dei due aspetti predominanti - lo ‛ scaligero ' e il ‛ preumanistico veneto ' -, in cui, servendoci anche del senno di poi, abbiamo proposto di scomporre la realtà di V. nel primo Trecento, il primo, che è anche il più ovvio, si riflette nell'opera di D., con una larghezza e una continuità - dal tempo del Convivio a quello della Quaestio, attraverso il Purgatorio, il Paradiso e la lettera di dedica di questo a Cangrande (Ep XIII) -, alle quali non toglie, ma anzi aggiunge valore il fatto che il suo atteggiamento nei confronti dei signori di V. abbia subito, col trascorrere degli anni, una netta evoluzione, di cui si è cercato di rendere ragione altrove (v. DELLA SCALA). V. scaligera non rappresentò infatti per lui un'esperienza interamente consumata, come accadde invece per altri casi del genere, in un breve lasso di tempo, e tradotta subito in una sentenza destinata a passare in giudicato; costituì piuttosto un punto di riferimento costante, cui si può dire egli abbia guardato - a partire dalla probabile delusione iniziale - durante l'intero periodo dell'esilio, fino alla vigilia della morte, tanto è vero che riesce difficile o, addirittura, impossibile numerare e datare con esattezza i suoi soggiorni veronesi. A eccezione dell'ultimo, che egli stesso, per ragioni precise, volle - come vedremo - datatissimo.

Ammettiamo, per pura ipotesi di comodo, e seguendo grosso modo le indicazioni offerte in proposito dal Petrocchi, che essi siano stati soltanto tre, visto che di meno, certo, non poterono essere.

Del primo (maggio/giugno 1303 - marzo 1304) si è già abbondantemente discusso (v. DELLA SCALA). Ma il rilievo preponderante che, nel rapporto fra D. e V., finisce appunto coll'assumere tutto ciò che concerne i Della Scala, ha fatto sì che passassero in secondo piano i riferimenti espliciti, o presunti, a V. o al suo territorio contenuti in particolare in un settore ben delimitato della Commedia, almeno nel senso di non far dipendere in alcun modo da essi la presenza di D. a V. in questo giro di anni.

Si tratta, in sostanza, di If XII 4-5, ammesso che la frana precipitata nell'Adige " inter Tridentum et Veronam civitates " (Alberto Magno) sia da localizzarsi nelle vicinanze della seconda delle due città piuttosto che della prima (v. ADIGE); di If XV 121-123 (v. DRAPPO, da completarsi utilmente con Dante e Verona [1965], 3 e 65); e di If XX 70-75 (v. PESCHIERA): casi, questi, nei quali, come al solito, è difficile distinguere la " memoria della vita " da quella della " biblioteca " (Contini) e che comunque non rivestono l'importanza dei casi consimili, relativi a Padova e Venezia (le opere idrauliche della terraferma di If XV 7-9 e l'arzanà veneziano di XXI 7-15), decisivi ai fini di stabilire se D. sia stato, oppure no, in queste città. Ma osserveremo con il Petrocchi che i ricordi veneti in genere, e quindi anche veronesi, sono " assai più fitti e significativi nella prima anziché nella seconda cantica ", e che, " se la composizione dell'Inferno può porsi tra il 1304 e il 1308, siffatti ricordi si dispongono a brevissima distanza dalla presumibile data di redazione dei canti, e quelli che più vincolano al rispetto di un'esperienza personale... cominciano dal c. XII dell'Inferno ". Fra questi ultimi il Petrocchi menziona il " più che ammissibile influsso diretto del drappo verde ", che sarebbe così da mettersi in rapporto con la prima visita di D. a Verona. In tal caso, tenuto conto dell'ambito cronologico ad essa assegnato e del giorno dell'anno in cui la corsa di norma si svolgeva, la sola edizione del palio cui D. può avere assistito di persona è quella che ebbe luogo la prima domenica di Quaresima del 1304, il 15 febbraio.

Il secondo soggiorno, che sempre il Petrocchi distende dal 1312-'13 al 1318 circa, è quello dei tre che, anche a non ammetterlo così dilatato e a non configurarlo come proprio continuo, fu certamente il più importante per l'acclimazione di D. a Verona.

Morto Alboino nel novembre del 1311, Cangrande era ormai il solo signore: a lui, nel 1316, a suggello di un già consolidato rapporto di amicizia, D. inviava in dono il primo canto del Paradiso, dedicandogli l'intera terza cantica in via di elaborazione (ipotesi di F. Mazzoni), nell'attesa di farlo protagonista, un due anni dopo, di un episodio situato giusto al centro della cantica (Pd XVII 70-93), che ha sviluppi inaspettati e un rilievo del tutto eccezionale (v. DELLA SCALA, Cangrande).

Il lavoro di ripensamento, revisione e pubblicazione dell'Inferno e del Purgatorio prima, poi il lavoro ancora più arduo attorno alla terza cantica, che il Petrocchi fa cadere in questi cinque o sei supposti anni veronesi, si presentano come impegni talmente assorbenti da non consentire soste o evasioni - nemmeno, si fa per dire, il tempo necessario per spingersi fino al Garda, o per risalire la valle dell'Adige, o per assistere al palio della " domenica di tutto il popolo ", come durante il primo soggiorno. Sta di fatto che non abbiamo neanche traccia di una pur ipotizzabile attività prestata da D. nella cancelleria o nella corte scaligera, del tipo di quella fornita mentre era ospite a Poppi del conte Guido di Simone di Battifolle e forse anche quando si trovava presso Scarpetta degli Ordelaffi, a Forlì; né c'è motivo di pensare che la documentazione relativa sia andata perduta (v. EPISTOLE).

Benché rivista e pubblicata a V., la seconda cantica non sembra avere risentito, là dove viene subito fatto di saggiarla, le suggestioni e le imposizioni autoritative dell'ambiente: l'episodio scaligero di Pg XVIII 121-126 rimase infatti, intatto, al suo posto, mentre per il da poco scomparso abate di San Zeno (m. 1313; v. DELLA SCALA, Giuseppe) si stava provvedendo a costruire una mirabile tomba, " il prototipo del sepolcro veronese a baldacchino ", cui appartiene " la più giottesca delle pitture, che si conservano in Verona " (M. T. Cuppini). Eppure, sarebbe bastato correggere in è posto in loco l'ha posto in loco del v. 126 (un esito attestato, come avverte il Petrocchi nell'apparato della sua edizione, dall'autorevole manoscritto 88 della biblioteca Comunale di Cortona), per togliere di mezzo, se non il ritratto infamante dell'abate di San Zeno, almeno la diretta responsabilità del padre nell'avergli assicurato quel posto.

Da parte loro, i benemeriti studiosi del preumanesimo veneto sono concordi nel riconoscere (e Dio sa se non lo fanno a malincuore) che " nessuna testimonianza, né alcuna eco nelle sue opere ci prova che il poeta della Comedìa varcò la soglia della biblioteca della cattedrale e che lì studiò qualcuno dei tanti autori, sacri e profani, noti e ignoti " (Billanovich). A riprova di ciò è stato addotto il caso clamoroso di Livio (v.), trascurato a favore di Orosio; ma nello stesso senso parla anche l'assenza completa di Catullo, al quale difatti non è stata dedicata una ‛ voce ' in questa Enciclopedia. Questo per gli antichi, che D. avrebbe potuto incontrare ben rappresentati a Verona. Quanto ai veronesi contemporanei che egli avrebbe potuto conoscere di persona, e leggerne le opere fresche d'inchiostro, la conclusione che s'impone è per ora altrettanto negativa. Se, per esempio, avesse scorso gli ultimi fogli della Historia imperialis del de Matociis, che aveva lì a portata di mano, avrebbe appreso che Carlomagno era disceso in Italia per sottomettere il regno longobardo su invito di papa Adriano I ed era stato incoronato imperatore ventisette anni dopo da un altro pontefice, Leone III, mentre a Costantinopoli regnava una donna, l'imperatrice Irene (cfr., nel manoscritto autografo della Historia, il Vaticano Chigiano I VII 259, i ff. 224r e 229r); e sarebbe stato così messo in grado di correggere - dato e non concesso che fosse ancora in tempo e ne avesse avuto voglia - l'imprecisione di Mn III X 18, che si riflette probabilmente anche in Pd VI 93-96 (v. CARLOMAGNO). Ma tale correzione non fu mai apportata.

Ai contatti con i " retori " padovani, che la relativa vicinanza avrebbe reso molto agevoli, ostavano le ragioni della politica, dal momento che il clima di " umanesimo comunale " nel quale essi operavano, comportava, di necessità, un risvolto antiscaligero. E difatti le incerte tracce di un rapporto con l'ambiente padovano, in particolare con Albertino Mussato, che si sono volute indicare nell'opera di D., hanno tutte il carattere di uno scambio polemico, condotto però con allusioni solo indirette (v. DELLA SCALA; Ezzelino Iii Da Romano; Mussato, Albertino).

Per una singolare coincidenza, la sola testimonianza in nostro possesso di un rapporto ‛ letterario ' fra D. e il preumanesimo padovano o, più semplicemente, veneto costituisce anche la prima prova sicura dell'avvenuto allontanamento di D. da Verona. Intendiamo riferirci all'epistola in esametri che, all'inizio, circa, del 1319, Giovanni del Virgilio inviò da Bologna a D., venuto ormai a stabilirsi " di qua del Po " (Eg I 47), a Ravenna. Si tratta, ancora una volta, di un rapporto indiretto, perché Giovanni del Virgilio (v.), nato da famiglia probabilmente padovana e amico e corrispondente del Mussato, visse e insegnò a Bologna. Ma l'invito, contenuto nell'epistola, ad abbandonare la poesia volgare e a dedicarsi invece alla poesia epica in latino rifletteva gusti e tendenze della nuova cultura settentrionale. Solo che, per accattivarsi la simpatia dell'interlocutore, lo scrivente gli propone una serie di temi che immagina gli siano congeniali: fra di essi, accanto alla spedizione di Enrico VII e alla vittoria riportata dal ghibellino Uguccione della Faggiola, alleato e amico di Cangrande, contro Fiorentini e Angioini, troviamo infatti menzionati i " Frigios damas laceratos dente molosso " (v. 28), che è allusione chiara ai Padovani, pretesi discendenti dal troiano Antenore, fatti a pezzi dal Cane scaligero. In tal modo, le scelte culturali del preumanesimo padovano venivano sottratte all'ipoteca guelfa e antiscaligera che gravava pesantemente su di esse. Ma D. non rinunciò all'idea di rendere omaggio a Cangrande mediante la terza cantica, che gli aveva dedicata. Sarà Ferreto de' Ferreti a raccogliere, qualche anno più tardi, l'invito di Giovanni del Virgilio.

Il terzo soggiorno di D. a V. è incentrato intorno alla ‛ pubblicazione ' della Quaestio, avvenuta il 20 gennaio 1320, e non è facilmente estensibile a molto tempo prima e a molto tempo dopo di questo punto fisso, solitario e solidissimo - sempre che, naturalmente, la Quaestio (v.) sia davvero autentica.

Come ha osservato per primo G. Padoan, alla fine della Quaestio (§§ 87-88) il lettore si trova a V., nel sacello di Sant'Elena, senza preavviso. Prima, l'azione - cioè la disputa filosofica che ha offerto l'occasione all'intervento chiarificatore di D. - sembra svolgersi a Mantova, anche se nel momento in cui metteva per iscritto il suo intervento conclusivo (determinatio), D. non era più in quella città. L'espressione existente me Mantuae (§ 2) presuppone infatti un tunc sottinteso. (Si noti di passaggio che l'episodio mantovano è presentato senza nessun riferimento preciso, né cronologico né ambientale). I due paragrafi finali sopraccitati sorprendono non soltanto perché, col datum, ci troviamo sbalestrati da Mantova a V., ma anche perché la certificazione dei risultati della disputa (§ 3 placuit insuper in hac cedula meis digitis exarata quod determinatum fuit a me relinquere, ecc.) appare inaspettatamente corroborata dalla solenne ‛ pubblicazione ' dello scritto medesimo, compiuta, appunto a V., mediante la lettura ad alta voce di esso da parte dell'autore, in luogo sacro, alla presenza del clero cittadino, domenica 20 gennaio 1320.

Dissonante rispetto al tono diplomatistico del contesto (la Quaestio ha inizio con la formula che ricorre di norma nelle ‛ litterae apertae '), ma bene intonata agli umori che vigevano nelle scuole, è la precisazione secondo cui, in realtà, non tutto il clero veronese presenziò alla ‛ lettura ', poiché alcuni dei suoi membri se ne erano astenuti volontariamente. Questi ultimi, con un'ironia che si muta cammin facendo in sarcasmo, sono definiti come coloro i quali, " ardendo di troppa carità, non accettano le proposte altrui e, per virtù di umiltà poveri di Spirito Santo, affinché non sembrino rendere omaggio all'eccellenza di altri, sfuggono dall'intervenire ai loro discorsi ", § 87 (trad. Padoan). Altrettanto carica di forza polemica, in questo caso però implicita, è l'attribuzione, nel datum, al signore di V., Cangrande Della Scala, del titolo di vicario imperiale (dominante invicto domino domino Cane Grandi de Scala pro Imperio sacrosanto Romano), titolo che - come si è detto - gli era stato duramente contestato a suon di scomuniche da Giovanni XXII.

A V. per l'ultima volta, e in una data finalmente precisa, D., attraverso il ‛ protocollo finale ' della Quaestio, ci appare ambientato in un luogo circoscritto che ancora esiste, e di cui scavi recenti hanno permesso di ricostruire la fisionomia originaria, alle prese con degl'interlocutori locali dei quali finora non avevamo avuto sentore, divisi nell'apprezzamento per lui, al punto di disertare, alcuni, la ‛ lettura pubblica ' della determinatio, in cui aveva riassunti i termini ed esposta la conclusione positiva della disputa filosofico-naturalistica che lo aveva avuto come protagonista a Mantova. È, a voler tirare le somme, l'unico episodio veronese di D. non ipotetico, e non collegato, tranne che per il riferimento a Cangrande nella data, ai signori scaligeri.

Anche se si ammetta - il che è probabile ma non proprio certo - che D. abbia materialmente scritto a V. il testo della Quaestio, lo spazio che si può assegnare a quest'ultimo soggiorno veronese, è molto limitato. In altre parole, tutto lascia pensare che D., reduce da Mantova e ormai stabile a Ravenna, sia tornato ancora una volta nella città in cui aveva soggiornato a più riprese e per molti anni, esclusivamente in vista della ‛ lettura ' del 20 gennaio 1320; e diventa, perciò, molto importante stabilire le ragioni per le quali egli può avere avuto tanto interesse a provocare un'iniziativa del genere. Queste ragioni debbono essere cercate in due diverse direzioni. A V., D. sapeva di poter contare su un pubblico attento e qualificato - i suoi " protolettori ", per dirla con il Petrocchi -, in grado di gustare la retractatio, da un'angolazione alquanto diversa, di un punto di dottrina già affrontato nell'Inferno (XXXIV 121-126) e molto di moda in quel tempo. Oppure, a indurlo alla sosta e a disporlo all'alea e al fastidio, per uno fatto come lui, di un contatto con un pubblico dagli umori non prevedibili in anticipo, furono le guarentigie formali connesse con una ‛ pubblicazione ' della Quaestio nelle debite forme.

Il problema rimane aperto, a nostro avviso, a ulteriori interventi. Per ciò che riguarda il pubblico dei presenti alla ‛ lettura ', non sapremo mai, per esempio, se fu del loro numero il de Matociis (se lo domanda il Weiss); ma è senz'altro da escludere che lo fosse il notaio aretino Simone della Tenca (evocato dal Billanovich), ancora in lista di attesa, in quel tempo, per il canonicato veronese che avrebbe conseguito solo più tardi. Queste, però, sono solo curiosità marginali. Piuttosto, fra gli argomenti addotti contro l'autenticità della Quaestio c'è anche quello che in essa non risulta citata la soluzione proposta al riguardo da Antonio Pelacani (v.), benché formulata in quegli stessi anni, e da qualcuno che non doveva essere estraneo all'ambiente veronese. L'argomento in sé è stato giudicato fragile, ma resta pur vero che, ancora una volta, e in condizioni che all'apparenza non avrebbero potuto darsi migliori, non riusciamo a cogliere D. impegnato in un confronto diretto, di tipo stricto sensu scolastico, con un interlocutore veronese noto per altra via.

Eppure, il nome del Pelacani è collegato indirettamente con quello di D. e del negromante veronese Pietro Nani nei verbali del processo imbastito alla curia di Avignone contro Matteo e Galeazzo Visconti, accusati fra l'altro di avere attentato alla vita di Giovanni XXII con pratiche di magia nera, alla cui effettuazione avrebbero dovuto attendere, in forme diverse, i tre sunnominati. Tutto questo in tempi assai vicini al gennaio del 1320. Secondo, infatti, la deposizione resa il 9 febbraio dello stesso anno dal chierico milanese Bartolomeo Cagnolato, il Pelacani si sarebbe recato a V., dal Nani, per procurare alcuni ingredienti necessari alla preparazione del sortilegio, nel novembre del 1319, ritornando a Milano verso Natale. Mentre, nella seconda deposizione, resa l'11 settembre 1320, il teste affermava che, nel maggio di quell'anno, a Piacenza, per indurlo ad assumersi il compito di ripetere il fallito sortilegio, Galeazzo gli aveva detto di avere convocato per lo stesso motivo anche il " magister Dante Aleguiro de Florentia ", ritenendo, a torto, di eccitare così il suo spirito di emulazione. Senza entrare nel merito della valutazione della veridicità di questo racconto, che, anche a volerlo prendere tutto per buono, non fa che attribuire a Galeazzo Visconti l'intenzione di coinvolgere D. in una trama di cui era, almeno in quel momento, all'oscuro, è da sottolineare il fatto che, in una data assai prossima a quella in cui D. fece la sua apparizione in pubblico nella chiesa di Sant'Elena, il suo nome circolasse, fra Milano e Avignone, in connessione con i disegni più spericolati degli ambienti ghibellini dell'Italia settentrionale.

Un capitolo a sé stante, ma non del tutto trascurabile, della fortuna postuma di D. a V. è quello, per così dire, biologico, consistente nel fatto che la sua discendenza diretta è durata qui molto più a lungo che altrove. A differenza infatti del figlio Iacopo (v.), che, pur avendo ottenuto un canonicato a V. da Cangrande, a partire dal 1322 prese dimora stabile a Firenze (ma la sua discendenza non sarebbe stata né numerosa né duratura); l'altro figlio di D., Pietro (v.), dopo avere conseguito benefici a Ravenna ed essersi invano adoperato per un onorevole reinserimento a Firenze, si stabilì definitivamente a V., dove, presumibilmente con l'appoggio di Cangrande, mise salde radici, accasandosi egli stesso e due delle sue figlie ancora nell'ambito dell'emigrazione politica toscana, colà estesamente rappresentata, ma diventando ben presto proprietario di case in città (nella contrada di San Giovanni in Foro, tra Porta Borsari e piazza delle Erbe) e di terre nel contado (a Gargagnago, in Valpolicella), e ponendo così le premesse, per sé e i propri discendenti, di una completa rottura con la patria fiorentina, di modo che con Dante (II) di Pietro, e poi con Leonardo figlio di questo, vediamo svilupparsi e consolidarsi un ramo ormai veronese della famiglia, che in linea maschile sarebbe durata fino al 1558 (v. ALIGHIERI) e, in linea femminile, anche oltre (v. ALIGHIERI, Ginevra; e anche SEREGO ALIGHIERI, Conti di).

Ma Pietro non è da citarsi solo per avere materialmente assicurato la continuazione, a V., della stirpe di Dante. Egli è anche, e soprattutto, noto come il maggior commentatore antico della Commedia e, benché questa sua opera non possa dirsi espressione della cultura locale, è certo che Pietro dovette trovare a V. il clima propizio per realizzarla, se è vero che, prima di mettersi a scrivere il commento vero e proprio, declamò dinanzi a un folto pubblico, a piazza delle Erbe, un carme che aveva composto sul poema paterno. E non può essere un caso che proprio a questo figlio di D. venuto a stabilirsi a V. si debba la sola testimonianza esterna che possediamo intorno alla Quaestio, nonché la testimonianza ‛ ineccepibile ' che ha consentito la soluzione definitiva del piccolo enigma costituito dall'identità del gran Lombardo. A differenza del padre - anche perché nel frattempo erano trascorsi decenni cruciali per l'affermazione della nuova cultura latina -, Pietro fu poi in rapporto con esponenti dell'ormai maturo preumanesimo veronese (Guglielmo da Pastrengo, amico di Petrarca, e altri), per non dire di Petrarca medesimo (ospite di V. nel 1345, quando trasse dalla Capitolare le epistole ad Atticum), ricavandone stimoli utili all'individuazione e all'apprezzamento degli aspetti ‛ classici ' dell'opera paterna (v. ALIGHIERI, Pietro). Mentre invece senza frutto per l'apprezzamento di D. da parte di Petrarca (v.) restarono, si direbbe, i rapporti intercorsi fra questo e l'ambiente veronese gravitante intorno alla Capitolare, a partire (come ha stabilito il Billanovich) addirittura dal 1328, stando almeno ai due scialbi episodi danteschi veronesi dei Rerum memorandarum libri (II 83) composti prima del soggiorno a V. del 1345, dove, dopo un elogio intenzionalmente limitativo all'eloquenza volgare di D., sono colti soltanto tratti arcinoti della sua personalità, come l'arroganza e la libertà di parola, eccessiva dati i tempi: una prova in più, anche se retrospettiva, dell'estraneità di D. rispetto al milieu di coloro che si apprestavano a diventare i corrispondenti veronesi di Petrarca. Si aggiunga, a riprova del giudizio, che protagonista dell'aneddoto seguente, d'impianto e tenore analogo (II 84), è quel Pietro Nani, che abbiamo visto implicato nel processo per il sortilegio contro Giovanni XXII, senza volere con questo avanzare l'ipotesi che il Petrarca, accostando i due nomi, abbia inteso avallare un'accusa, della quale, con ogni probabilità, non aveva mai sentito parlare.

Bibl. - C. Belviglieri, D. a V., in Albo Dantesco Veronese, Milano 1865, 147-164; AA.VV., D. e Verona, Verona 1921 (in partic. gli articoli di A. Fajani, V. Cian e L. Carcerieri); AA.VV., D. e Verona, ibid. 1965 (art. di A. Scolari, G. Sancassani, M. T. Cuppini, ecc.); G. Folena, La presenza di D. nel Veneto, in " Memorie Accad. Patavina Scienze Lettere Arti. Classe di Scienze Morali Lettere ed Arti " LXXVIII (1965-1966) 483-509; G. Billanovich, Tra D. e Petrarca. Umanesimo a Padova e a V. e umanesimo a Avignone, in Atti del Congresso Internazionale di Studi Danteschi, II, Firenze 1966, 349-376 (ripreso e ampliato in " Italia Medioevale e Umanistica " VIII [1965] 1-44); G. Petrocchi, La vicenda biografica di D. nel Veneto, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 13-27 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 119-141); R. Weiss, La cultura preumanista veronese e vicentina del tempo di D., in D. e la cultura veneta, cit., pp. 263-272; G. Padoan, Cause, struttura e significato del ‛ De situ et figura aque et terre ' , ibid., 347-366; A. Scolari, La fortuna di D. a V. nel secolo XIV, ibid., 479-491. Per la fortuna dantesca nei secoli successivi, v. G. Biadego, D. e l'Umanesimo veronese, Venezia 1905; G. Gambarin, Per la fortuna di D. nel Veneto nella prima metà dell'Ottocento, in " Nuovo Arch. Veneto " XLI (1921); E. Curi, Il culto e gli studi danteschi a V., Firenze 1964. Per i codici danteschi posseduti dalla comunale veronese, v. G. Biadego, Catalogo descrittivo dei mss. della Bibl. Comunale, Verona 1892. Per la chiesa di Sant'Elena, cfr. G. Turrini, Frammento di lapide fra i ruderi della Biblioteca Capitolare di Verona. Per l'inaugurazione della sede ricostruita. Due scoperte archeologiche durante i lavori della ricostruzione, Verona 1948, 25-27, 51-53, 56; V. Filippini, Intorno alla chiesa di S. Elena, in " Studi Storici Veronesi Luigi Simeoni " XV (1965) 5-57.

L'aspetto urbano della città ai tempi di Dante. - La topografia dantesca di V. dispone di tre caposaldi: la residenza scaligera di Santa Maria Antica, la chiesa di Sant'Elena e l'abbazia di San Zeno, dislocati in modo da coinvolgere quasi l'intero tessuto urbanistico della città trecentesca. Una città che allora si diceva fondata da Brenno, ma nella quale vogliamo credere che D. abbia immediatamente riconosciuto l'impronta di Roma, testimoniata dai molti monumenti: l'Arena, il teatro, le due porte (dei Borsari e dei Leoni), l'arco dei Gavi e quello di Giove Ammone, certo allora conservato abbastanza per essere compreso. L'arte romanica aveva mostrato di apprezzare i resti antichi, impiegandone alcuni, a scopo decorativo, in una porta del palazzo del Comune, nel campanile della Trinità e in quello di San Zeno. D., che pure aveva riconosciuto degne di reverenza (Cv IV V 20) le pietre delle mura di Roma, in quanto nella sua storia si leggono i segni dell'intervento divino, non portò una venerazione indifferenziata alle vestigia dell'antichità. In lui non c'è ancora l'interesse antiquario dei preumanisti e degli umanisti. Più attento ai sentimenti degli uomini che alle cose, D. lodò la cortesia del gran Lombardo ma non ebbe una sola parola di ammirazione per la città che lo accolse esule, e che più tardi il Vasari riconobbe per sito e costumi molto simile a Firenze. Quanto ai Veronesi, D. li accomunò a Bresciani, Vicentini e Padovani, rimproverandone l'irsuto parlare, fitto di rozze asperità, specialmente sconvenienti alla grazia delle donne (Ve I XIV).

La folta schiera dei dantisti veronesi non ha saputo celare un certo disappunto per il silenzio di D. sull'Arena, il monumento più illustre della città. Poi fu cercata una ragione a questo silenzio nel desiderio di D. di non scoprire la matrice della struttura fisica del suo Inferno, indicata da G. Venturi appunto nell'anfiteatro veronese. Riconosciuto il distacco di D. dall'aspetto della monumentalità romana, la sola V. che si offrì alla sua comprensione è quella romanica, in quanto il periodo del soggiorno veronese di D., per esteso il primo ventennio del secolo, rappresenta una fase di transizione, che non ha ancora apportato alla città un sostanziale contributo gotico. La configurazione urbanistica e monumentale di V. ha ricevuto apporti fondamentali proprio dall'arte romanica, in età comunale. Fra gl'interventi più cospicui è certo da collocare la ristrutturazione delle insulae romane fra le piazze delle Erbe, dei Signori e Indipendenza. Proprio qui, una nuova volontà urbanistica ha largamente sconvolto, per l'impianto del centro direzionale, la forma simmetrica della città romana. Anche l'altra zona di più vasto intervento dell'età romanica, quella del Duomo, ha visto operare con grande autorità sul tracciato antico e apportarvi mutamenti decisivi. D. certo non avvertì l'importanza di quest'azione che mutò in parte un assetto planimetrico rimasto inalterato per oltre un millennio, ma egli del rinnovamento fu chiamato a essere fruitore, sperimentandone anche gli aspetti più recenti, nell'arco fra Santa Maria Antica, Sant'Anastasia e il Duomo. Sant'Anastasia infatti era allora in costruzione e le mura perimetrali potevano aver raggiunto circa metà dell'altezza prevista. La zona riveste particolare interesse in una topografia dantesca di V., perché nel 1339 in Sant'Anastasia fu sepolto, nella tomba di famiglia, il notaio Iacopo Faella, già possessore di uno dei primissimi codici della Commedia, citato nell'inventario notarile dei suoi beni in data 21 maggio 1340. Inoltre, come ha accertato G. Sancassani, nella casa d'angolo tra corso Sant'Anastasia e via San Pietro Martire, ora casa Bevilacqua, abitò dal 1362 Pietro Alighieri (v.), geloso custode delle memorie paterne. Nella stessa casa poi rimasero i suoi discendenti fino alla metà del secolo XV.

Sul percorso da Sant'Anastasia al Duomo, la residenza di Ezzelino, a San Biagio, portava D. a nuovamente lamentare gli spietati danni che il tiranno produsse alla Marca. Attorno al Duomo, un accentramento di edifici religiosi: San Pietro in Cattedra, Sant'Elena, San Giovanni in Fonte, parla ancora oggi dell'antica vocazione religiosa di quest'area, risalente all'età costantiniana e zenoniana, come testimoniano i resti delle due basiliche paleocristiane. D. forse poté percepire di trovarsi nel luogo dove fu gettato il seme della cristianità veronese, in ciò aiutato dalle riflessioni sugli antichi codici della biblioteca Capitolare. La sua dimestichezza con questi luoghi è sanzionata dalla lettura, in Sant'Elena, della Quaestio de aqua et terra, in data 20 gennaio 1320, quando D. annota, con una punta di risentimento, l'assenza nel suo uditorio di alcuni alti rappresentanti del clero locale, timorosi del fatto che la loro presenza potesse essere intesa come atto di omaggio reso ai suoi meriti. Evidentemente anche a V. D. si era fatto dei nemici. Procedendo dalla residenza scaligera verso la campagna, dove D. vide correre il drappo verde, s'incontra piazza delle Erbe, la platea maior, corrispondente all'antico Foro romano. Qui presso, secondo una tradizione che però non ha avuto conferme documentali, erano già allora le case di Montecchi e Cappello, esempio per D. di discordie cittadine. Nella piazza aveva qualche sistemazione la statua femminile antica, battezzata Madonna Verona, che una tradizione locale ha indicato per lungo tempo come monumento eretto a memoria della pace di Costanza e quindi della Lega Lombarda.

Fuori della cinta romana, indicata dalla presenza di porta Borsari, una distribuzione più rada di case tra i Santi Apostoli e la Fratta, attorno a un'area cimiteriale paleocristiana, indicava già la presenza del suburbio, che la cinta comunale sulla linea dell'Adigetto aveva destinato all'ampliamento della città. L'arco dei Gavi e la porta del Morbio, i due fornici delle mura comunali in corrispondenza di porta Borsari, offrivano prospettive diverse; da una parte la strada verso la pianura, sul percorso dell'antica Postumia; dall'altra la strada fiancheggiante l'Adige verso la " Villa Sancti Zenonis " che, in corrispondenza della Beverara, incontrava uno dei più bei panorami veronesi, con l'Adige ai piedi, la Campagnola al di là del fiume e sullo sfondo la catena del Baldo.

La chiesa e l'abbazia di San Zeno erano sorte sopra un'area cimiteriale romana in aperta campagna, che soltanto l'ambizione di Cangrande comprese entro una nuova ampliata cinta urbana, che D. non conobbe. Appartenenti all'ordine benedettino, che in città aveva anche l'abbazia dei Santi Nazario e Celso, chiesa e abbazia assommavano funzioni religiose e civili in una comunione dichiarata fin dalla lunetta del portale, dove figura s. Zeno che dà le insegne ai fanti e ai cavalieri del comune. Ivi successivamente ebbe manifestazione la politica imperiale, come nell'episodio del 13 giugno 1239, quando Pier della Vigna, a San Zeno, mise al bando dell'Impero i capi del partito guelfo della Marca. Dal riconoscimento di D. della funzione sociale e politica che poteva esercitare l'abbazia di San Zeno, qualora ben governata, deriva la condanna del nepotismo scaligero, che all'abbazia prepose nel 1292 Giuseppe della Scala, giudicato da D. mal del corpo intero, e de la mente peggio (Pg XVIII 124). Nel chiostro che, insieme con la torre, è l'unica parte superstite dell'abbazia, distrutta a seguito delle demaniazioni napoleoniche, s'indica la tomba di Giuseppe della Scala, affrescata nel sottarco da un pittore " più di ogni altro precoce e acuto nel penetrare l'insegnamento di Giotto " (M.T. Cuppini). Dall'alto della facciata di San Zeno la ruota della fortuna di Brioloto diffonde il suo ammaestramento cristiano, ripreso poi all'interno della torre dell'abbazia in un affresco, ora mutilo, riconducibile al clima culturale dei Carmina Burana. D., ospite di una città che si vantava di essere " oppressorum consolatrix ", forse qui trovava la forza d'irridere a una concezione popolare e pagana della fortuna (però giri Fortuna la sua rota / come le piace, e 'l villan la sua marra, If XV 95-96), maturando la sua convinzione che quella che Pirro chiamava ‛ fortuna ' i cristiani debbano più propriamente chiamare ‛ divina provvidenza ' (Mn II IX 8).

Bibl. - M.T. Cuppini, Pitture del Trecento in V., in " Commentari " IV (1962); ID., La pittura e la scultura in V. al tempo di D., in D. e V., Verona 1965, 173-198; V. Filippini, L'aspetto di V. ai tempi di D., Ibid., 167-171; G. Sancassani, I documenti, Ibid. 3-52; L. Magagnato, La città e le arti a V. al tempo di D., in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 285-298.

Lingua. - I Veronesi sono dapprima citati in VE I IX 4 per esemplificare, assieme ai Milanesi, la differenza fra parlate appartenenti ugualmente a una delle metà d'Italia; in XIV 5 il loro dialetto, caratterizzato dall'avverbio magara, è unito al bresciano e al vicentino come sottogruppo della parlata lombardo-veneta irsuta e ispida che si contrappone al molle romagnolo, e questo accostamento alla Lombardia orientale è indirettamente confermato da XV 2, dove come città confinanti con Mantova vengono menzionate Brescia, Cremona e Verona. Nulla dice invece D. sull'appartenenza di V. alla Marca Trevigiana o invece alla Lombardia (v. le due voci), ma il fatto che il confronto coi Milanesi di IX 4 sia parallelo a quello fra Romani e Fiorentini, appartenenti a regioni diverse, fa pensare che l'assegni alla prima zona.

L'accostamento di V. a Brescia, comunque fosse motivato in D., non meraviglia neppure da un punto di vista dialettologico, stante che il veronese antico si caratterizzava anticamente per tratti linguistici quali l'abbondante caduta delle atone interne e finali, la presenza delle vocali turbate ö ed ü, il passaggio ct > it, che lo separavano dagli altri dialetti veneti avvicinandolo invece a quelli lombardi e in genere ‛ gallo-italici ' (v. da ultimo G.B. Pellegrini). Stupisce invece, dato l'attestato soggiorno di D. a V. subito prima o durante la composizione del trattato, la scelta di una caratterizzazione linguistica così generica di quella parlata (per l'avverbio magara [greco μακάριε, " o felice "], v. in particolare Rohlfs e M. Cortelazzo), per la quale si può al massimo invocare il passo di una fiaba veronese citato dal vocabolario Beltramini-Donati: " E col so çerto e col me magari, / mi g'ò la borsa piena de dinari ".

Bibl. - G.B. Pellegrini, in " Studi Mediolatini e Volgari " XIII (1965) 153 ss.; ID., D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 95-107; Rohlfs, Grammatica 783, 947, 963, 965; ID., Lexicon Graecanicum Italiae inferioris, Tubinga 1964, 311; M. Cortelazzo, L'influsso linguistico greco a Venezia, Bologna 1970, 127.

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