VILLA DEI MISTERI

Enciclopedia dell' Arte Antica (1973)

VILLA DEI MISTERI

N. Bonacasa

Situata fuori Porta Ercolanese a Pompei (v. vol. vi, pag. 308 ss.), a 400 m circa a NO dalla Porta, si affaccia sulla Via detta Superior nel tratto che questa percorre in linea retta verso settentrione dopo essersi distaccata, con un raccordo semicircolare, dalla Via Ercolanese, all'altezza della Villa di Diomede.

Lo scavo del 1909-10, condotto nella fase iniziale dallo stesso proprietario del terreno, Aurelio Item, e le ricerche sistematiche degli anni 1929-30 rivelarono un grandioso impianto quadrangolare ricco di circa 90 ambienti, orientato da E ad O e costruito su terreno in pendio con arditi salti di livello vinti con terrapieni a terrazze e portici lungo i lati S ed O della costruzione (v. vol. vi, fig. 373).

A partire dalla metà del III sec. a. C. sono riconoscibili nella planimetria della V. (v. vol. vi, fig. 374) almeno cinque fasi costruttive: dall'impianto rustico, iniziale, alla sistemazione ad abitazione suburbana; ai successivi ampliamenti per la trasformazione in dimora di tipo urbano; alla creazione della grande villa suburbana augustea (momento in cui viene eseguito il grande dipinto); al posteriore adattamento a casa signorile e, quindi, all'ultimo riattamento a fattoria agricola, dopo il terremoto del 63 d. C. fino alla definitiva catastrofe del 79 d. C.

La V. è suddivisa in tre grandi complessi: il quartiere signorile è disposto ad occidente del peristilio con atrium, tablinum e varî cubicula, portici ed exedra monumentale; a N del peristilio sono raggruppati i servizi ed i depositi; ad E ed a S si trovano il quartiere rustico, i bagni e le cucine. Elementi struttivi e planimetrici caratteristici sono: l'ingresso principale con strada pavimentata ad E ed un corto vestibolo attraverso cui si giunge direttamente al peristilio; a S un doppio portico colonnato; ad O una grande terrazza pensile con viridarium le cui ali seguono parte dei lati N e S della costruzione; sempre ad O, sulla terrazza, al centro del lato occidentale, si apre la grande exedra semicircolare fenestrata; lungo i lati N, O e S della costruzione, sotto le aree pensili, gira un grandioso criptoportico, cui si accede mediante una scala situata sul lato N della villa. Malgrado le ricorrenti ed estese particolarità struttive la planimetria della villa, con la sua forma quadrangolare, si rivela accentrata e ritmicamente suddivisa sia per il regolare succedersi dei varî gruppi di ambienti sia per il disimpegno dei singoli quartieri.

La V. dei Misteri manca della decorazione di I stile, mentre presenta un notevole e ricco repertorio dei sistemi decorativi di II stile (fase I, B soprattutto, v. pompeiani,stili, vol. vi, pag. 356). Segnaliamo alcuni degli ambienti più rappresentativi: il cubicolo accanto alla grande sala dipinta, a doppia alcova, con le note figure del Satiro danzante e della sacerdotessa, e con i due gruppi del Sileno e Satiro e di Dioniso e Satiro, oltre che con i quadretti paesistici con scene di sacrificio (v. vol. vi, fig. 376). La decorazione ora descritta è raffigurata su una zoccolatura limitata da cornice e le figure sono inquadrate da elementi architettonici. Il cubicolo, a doppia alcova, presenta una ricca decorazione architettonica (v. vol. vi, fig. 387), ben conservata, con colonne, con archi e con timpani rappresentati su un possente zoccolo. Ma la decorazione più rappresentativa arricchisce le pareti dello oecus: sulla cornice del podio si ergono sei pilastri, imitanti il marmo variegato, a cui sono sospesi alcuni festoni, un grandioso portale completa la decorazione. Nella stanza n. 15, sullo zoccolo a crustae di imitazione marmorea si innalzano colonne che interrompono la veduta di grandi pareti: è certo che ci troviamo di fronte alla rappresentazione di un peristilio o di un grande atrio porticato. Valide testimonianze del II stile si trovano ancora nell'atrium, nel peristilio e nei corridoi attorno all'atrium della Villa. Abile decorazione di III stile è presente nel tablinum della Villa, con bella parete colorata di nero, inquadrata da esili elementi architettonici, e con fregi di stile miniaturistico ed egittizzante.

La stanza del grande dipinto, in origine certo un oecus, fu adattata in seguito a triclinio in stretta dipendenza con la contigua alcova nuziale. L'ambiente, di m 9 × 6, è circondato su due lati da portici: su quello O si apre una porta alta m 2,95 che costituisce l'accesso principale alla stanza; su quello meridionale una grande finestra; all'angolo NO una piccola e bassa porta mette in comunicazione con l'attiguo cubicolo a doppia alcova. La decorazione della stanza è di due tipi, architettonica e figurata. Su un podio alto m 1,06 che imita fasce di marmo verde, giallo e nero, corre una cornice verde chiaro in forte aggetto; sulla cornice si levano i riquadri, separati da lesene, alti m 1,62 e sormontati da un fastoso fregio dipinto con larga fascia a meandro; il fregio è alto m 0,63. Le 29 figure che compongono le dieci scene del dipinto (quelle stanti sono alte da m 1,41 a m 1,55) agiscono sul podio contro le pareti del fondo dipinte di rosso cinabro e riquadrate da lesene verticali viola scuro tra cornice aurea. La continuità del fregio, che ha inizio sul lato sinistro della stanza (parete N), è rotta dalle aperture: la finestra del lato meridionale, la grande porta della parete O e la porticina presso l'angolo NO dell'ambiente.

i) La lettura del rituale. Una matrona velata procede da sinistra verso destra ascoltando intenta la lettura delle prescrizioni del rituale dionisiaco eseguita da un fanciullo, ignudo, stante, che legge da un papiro. Il fanciullo è assistito da una giovane seduta la quale regge con la sinistra un rotolo e con la destra posata sulla spalla del bambino ne incoraggia l'azione. Si allontana dal gruppo, procedendo verso quello che segue, una giovane offerente con il corpo di profilo e con il capo di fronte, cinto di alloro; la figura regge con la sinistra un vassoio di metallo con della frutta, certo un'offerta sacrale, e con la destra un ramoscello di alloro.

ii) La lustrazione. Segue un gruppo formato da una donna seduta, velata, vista di spalle, assistita da due donne stanti, due serventi che operano attorno ad una tràpeza. La ministrante, certo intenta ad un sacrificio, regge con la destra un ramo su cui una delle assistenti lascia cadere dell'acqua lustrale da un'oinochòe, con la sinistra, invece, solleva un drappo per scoprire il contenuto di una cesta sorretta dall'altra assistente. È qui che nella scena ancora di carattere umano si inserisce il mondo dichiaratamente agreste e dionisiaco.

iii) Vecchio Sileno e scena pastorale. Collega la ii con la scena seguente la figura di un vecchio Sileno, quasi del tutto ignudo, che suona la lyra appoggiandosi, nello schema originario, ad un pilastro, che risulta oggi perduto. Il Sileno sembra guardare lontano, oltre la parete di fondo dell'ambiente. Il riquadro successivo mostra seduta su una roccia una Panisca che porge il seno ad una capretta rappresentata nell'atto di poppare; dietro, un Panisco seduto allontana dalle labbra la siringa, con cui ha finito di suonare, e mira la scena che si svolge davanti a lui; in primo piano, di contro alla roccia su cui siede la Panisca, è un capretto che si volge verso lo spettatore.

iv) La donna atterrita. In contrasto con la scena iii, di calmo e sereno sapore pastorale, ecco irrompere una figura di donna, rappresentata all'estremità della parete sinistra. La figura, con gestire agitato e faccia spaventata, fugge atterrita verso la sua destra allontanandosi in direzione opposta alla scena che ha causato il suo spavento e che sembra essere quella in cui un dèmone alato flagella una compagna della donna fuggente.

v) Satiri e Sileno. Si passa ora alla parete di fondo, od orientale, in cui ritorna il repertorio dionisiaco. Un vecchio Sileno seduto, col capo coronato, solleva di fianco una coppa da cui si abbevera avidamente un giovane Satiro; dietro questo gruppo un giovane Satirello solleva al di sopra del Sileno una grande maschera teatrale silenica.

vi) Dioniso e Arianna. Dell'intero fregio figurato questa scena è l'unica che abbia sofferto e che ci giunge lacunosa. Occupano il centro della parete una figura femminile seduta, Arianna, sul cui grembo si appoggia semisdraiato Dioniso, il quale, abbandonato il lungo tirso di traverso alle gambe, privo di un sandalo, rovescia indietro il capo a mirare la sua compagna cingendone il capo con le braccia.

vii) Svelamento della mystica vannus e flagellante. Accanto al gruppo di Dioniso e Arianna, una donna inginocchiata, rivolta a destra, è nell'atto di scoprire il lìknon, o mystica vannus, il cesto dionisiaco contenente il phallos, simbolo della forza generatrice della natura. Dietro la figura inginocchiata sono due figure femminili di offerenti: l'una regge un piatto di spighe, l'altra si appoggia alla prima (ma di esse non si può dire di più perché l'affresco è perduto). Collega questa scena con la seguente, di cui fa parte, una grandiosa figura di dèmone femminile alato che impugna un flagellum con la destra e si rivolge verso il primo gruppo della parete meridionale per colpire e punire. A giudicare dal gesto della mano sinistra il dèmone è riluttante a guardare verso il lìknon.

viii) La flagellazione. Quasi sfuggendo più alla visione che ai colpi del dèmone flagellante, una figura femminile seminuda si è rifugiata nel grembo di una figura femminile seduta, rappresentata nell'atto di proteggerla. A destra del gruppo descritto agiscono due altre donne: l'una muove il corpo ignudo nella danza orgiastica sollevando al di sopra del capo i cembali, l'altra figura (in parte coperta dalla precedente), appare vestita, regge come attributo il tirso e si china verso la donna flagellata. Con la flagellazione e con la danza orgiastica si chiude il ciclo dionisiaco.

ix) Toletta nuziale. Una donna seduta, assistita da una ancella, è rappresentata nell'atto di pettinarsi: ai lati due figure di Eroti, quello di sinistra protende uno specchio verso la sposa, quello di destra ha un arco in mano e guarda la scena.

x) La cosiddetta Domina. Occupa il tratto di parete a sinistra dell'ingresso una solenne figura matronale seduta, riccamente ammantata, che poggia il viso contro la mano destra e col braccio destro si puntella sul bracciolo del trono; la attenzione della donna è attirata dalle scene che si svolgono lungo le pareti O e S.

Prima di passare all'esame delle esegesi proposte per il dipinto e alle critiche che sono state mosse alle qualità artistiche del ciclo, è debito precisare che il pittore campano si rivela un abile colorista dal mestiere consumatissimo. Prevalgono nella sua opera gli impasti ricchi, le velature acquarellate, la sovrapposizione dei toni a macchia nei particolari in luce, le pennellate dense e sicure, e, dovunque, un equilibrato accostamento di colori vividi e di toni smorzati: gialli carichi o bianchi trasparenti o tinte pastello per i chitoni; violetti e marroni per i mantelli; ocre e verdini per gli arredi di stoffa; sfumature diverse di rosa per i nudi.

Problemi di notevole gravità ha posto l'interpretazione del ciclo. L'opinione del Maiuri è che esso rappresenti l'iniziazione delle spose ai misteri dionisiaci, riti che erano in auge in Campania e nell'Italia meridionale e che furono anche importati a Roma con tanta fortuna da provocare il Senatus consultum de Bacchanalibus. Ora, se il significato generale del dipinto non lascia dubbî, molti sono i particolari sulla cui interpretazione alcuni studiosi hanno avanzato le più disparate teorie.

Le esegesi che contrastano di più con quella avanzata dal Maiuri sono quelle proposte dalla Cooke, dal Rizzo, dal Comparetti, dal Macchioro, dal Bendinelli, dalla Bieber e, ultimamente, dallo Schefold, dallo Herbig, dalla Simon, dal Lehmann, dallo Zuntz e dal Brendel. La Cooke sostenne che il dipinto trattava della iniziazione ai misteri orfici. Il Rizzo pensava che il ciclo rappresentasse la iniziazione di Dioniso stesso ai suoi misteri: il giovane dio, riconoscibile fin dalla prima scena, sarebbe seguito da Ninfe e da Baccanti; sulla parete di fondo Dioniso sarebbe rappresentato con la madre Kore. Il Comparetti ritenne di poter provare che il dipinto narrava la celebrazione del matrimonio tra Dioniso e Arianna: una semplice narrazione del fatto con il fanciullo lettore del prologo, con il dèmone alato che sarebbe una Furia inviata da Hera gelosa di Dioniso, e con la stessa Hera da riconoscersi nella donna fuggente; mentre la giovane alla toletta (scena ix) e la c. d. Domina (scena x) rappresenterebbero Afrodite e Semele. Il Macchioro, il quale ritenne la V. dei Misteri una basllica orfica alle porte di Pompei, vide nel dipinto nessi palesi con la religione orfico-dionisiaca e, pertanto, la rappresentazione avrebbe inizio, per lo studioso, con le scene ix e x, cioè con la vestizione della catecumena assistita da un'ancella e da una sacerdotessa; le scene successive (i = catechesi; ii = agape lustrale; iii = rinascita e trasformazione, ecc.) sarebbero cerimonie varie culminanti nella comunione con Zagreus: la Baccante chiuderebbe così il ciclo dionisiaco; al centro della parete di fondo, Dioniso in grembo a Kore assisterebbe non visto alle cerimonie. Una interpretazione mista avanzò il Bendinelli: come il Rizzo, vide nel fanciullo che legge lo stesso Dioniso raffigurato tra Demetra e Persefone; la donna fuggente ed il Sileno coppiere rappresenterebbero la Tragedia e la Commedia; il dèmone alato impersonerebbe una potenza malefica in contrasto con il significato dello scoprimento del lìknon e la flagellata non cercherebbe di sfuggire al dèmone ma ad un oscuro pericolo incombente; Venere ed Hestia sarebbero rappresentate nella donna che si abbiglia e nella cosiddetta Domina. La Bieber vide nel dipinto un chiaro simbolismo mistico-dionisiaco: l'iniziazione delle spose ai misteri dionisiaci alla presenza di Dioniso e Arianna; da una parte la sposa che si appresta ai riti nuziali religiosi, dall'altra l'introduzione della giovane sposa nel thìasos bacchico; la sala non sarebbe che un nymphòn. All'esegesi della Bieber si rifece il Maiuri suddividendo le scene in i-viii (rito religioso dionisiaco) e ix-x (toletta della sposa e rappresentazione della padrona della Villa). Gli studiosi dell'ultimo decennio hanno intravisto nel dipinto due o tre filoni. Lo Schefold parlò della mistione nel ciclo di due caratteri differenziati: il mondo umano e il mondo misterico. Mentre lo Herbig vide nel ciclo tre nette partizioni: thìasos dionisiaco (dal Sileno musico alla cembalista: scene iii-viii); preparazione del sacrificio (lettura del rituale e scena stessa del sacrificio: scene i-ii); toletta della sposa (scene ix-x). Le figure risulterebbero per lo studioso in rapporto ottico tra di loro e rispetto ad uno spettatore immaginario fermo sull'asse longitudinale della sala presso l'ingresso principale. Ancora tre partizioni individuò la Simon: un insieme bacchico, un insieme cultuale di tipo apollineo, e la presentazione della sposa e della madre della sposa. Il Lehmann ritenne che i gruppi di figure delle scene v e viii si corrispondessero per il loro significato di fuga dall'ignoranza (donna fuggente e dèmone alato) verso la verità e la rivelazione dionisiaca (giovane Satiro che guarda dentro la coppa o si abbevera e donna seduta che personifica l'Iniziazione e accoglie l'inizianda). G. Zuntz interpretò il fregio come la rappresentazione visiva dello hieròs gàmos e di altre credenze del culto dionisiaco nella casa di un'iniziata, forse in occasione del matrimonio della figlia; tra gli elementi di gusto romano prevarrebbe quello del dèmone alato che spaventa e mette in guardia contro le relazioni extraconiugali. Seguendo l'ipotesi già avanzata dalla Simon, anche Zuntz suppose che l'originale del dipinto potesse aver adornato il santuario di Dioniso a Pergamo. Il Brendei giudicò il fregio né omogeneo né di tipo dionisiaco e lo suddivise in tre parti distinte: atti di culto non spiccatamente dionisiaci, azione dionisiaca vera e propria (scene iii-viii), rito matrimoniale. Poichè il fregio si riferisce a culti di intonazione esclusivamente femminile, secondo il Brendei, si tratta forse del rito dell'introduzione di una nova nupta nell'ordo matronarum. Di tutta la figurazione, soltanto il gruppo di Dioniso e Arianna sarebbe da considerare derivato da una pittura ellenistica, inserito nel contesto del fregio per il suo particolare significato cultuale. A conclusione, segnaliamo che un grande conoscitore delle religioni antiche, M. P. Nilsson, non riconobbe nel dipinto una rappresentazione unitaria del tema bacchico-misterico, ma una mescolanza di riti effettivi e di materiale mitologico.

Se l'interpretazione del dipinto ha dato adito a conclusioni diverse, non altrimenti è accaduto - e non poteva non accadere in considerazione dell'importanza del monumento - per la discussione sull'originalità del ciclo, sulla sua dipendenza da un archetipo perduto, sulla cronologia di questo, sulla fedeltà della copia pittorica pervenutaci, oltre che sulla sua datazione.

Molti echi di temi figurativi precedenti è dato cogliere nello svolgimento del fregio. La matrona velata con cui si apre il ciclo, vestita di chitone e di peplo, ripete schemi tipologici di figure femminili del IV sec. a. C. La giovane laureata che collega le scene i-ii ricorda una delle figure più rappresentative dell'ellenismo, la Fanciulla d'Anzio. Il gruppo di Dioniso e Arianna è noto attraverso un frammento di Boscoreale, un quadretto della Farnesina ed è rappresentato ancora su di un cammeo in sardonice del museo di Vienna, di età imperiale, e su due monete domizianee di Smirne. La donna che svela il lìknon ed il dèmone alato ricorrono su una lastra di terracotta di età augustea di cui si conoscono due esemplari, al Museo del Louvre a Parigi ed a Leida, certo ottenuti dalla stessa matrice, le cui rappresentazioni differiscono dalle figure del ciclo per l'atteggiamento del dèmone alato che nelle due lastre, fugge, coprendosi la faccia con una mano, e non è rappresentato nell'atto di flagellare. La cembalista ignuda è replicata più volte sia in pitture (Casa di Lucrezio Frontone) sia in rilievi.

A parte le singole derivazioni tipologiche, temi formali, concezione generale e composizione dei gruppi del dipinto sono nella tradizione figurativa dell'ellenismo, soprattutto se si guarda alla spazialità di alcune figure come la sacerdotessa vista di spalle, il Sileno musico, la donna fuggente, il gruppo di Dioniso e Arianna, il dèmone alato, la danzatrice, il gruppo della flagellata e della sua protettrice. Alcuni studiosi hanno postulato l'esistenza di un archetipo, rilievo o pittura che sia, databile al primo ellenismo, altri lo hanno collocato nell'ellenismo tardo. Il dipinto pompeiano deriverebbe da una grande composizione ellenistica adattata dal pittore campano all'ambiente da decorare con l'aggiunta delle scene ix-x: toletta della sposa e cosiddetta Domina. Questa derivazione è postulata anche dai più accaniti assertori della originalità campana del ciclo, attraverso l'ellenismo italico o attraverso tipi ellenistici rielaborati in novità di contenuto e di forma dall'artista campano.

Accertata l'esistenza di un originale perduto non si può negare (Bianchi Bandinelli) che ricorrono nel dipinto alcuni contrasti palesi tra l'altezza della concezione e la mediocre qualità della realizzazione, soprattutto nel rendimento dei nudi e dei panneggi, che vanno sottolineati: il pesante panneggio della matrona che apre il ciclo e la involuta realizzazione della parte inferiore della fanciulla offerente, l'appiattimento del profilo, delle braccia e del panneggio della pur grandiosa figura di sacerdotessa vista di spalle, il palese contrasto tra il volto e il nudo della flagellata e la parte inferiore del corpo avvolto nel panneggio e, altresì, il piatto e legnoso rendimento della parte inferiore della figura femminile seduta che protegge la flagellata. Segnaliamo, poi, alcuni scadimenti nei contorni delle figure, specie nei profili che si schiacciano contro il fondo, nei volumi che perdono di consistenza, nel disegno delle mani, dei piedi e delle parti nude in genere, spesso sciupato laddove esso, invece, avrebbe dovuto guadagnare in volume e rappresentazione prospettica.

A P. Marconi si deve il primo passo verso un'analisi più approfondita delle forme che portò ad un giudizio negativo sull'opera definita "più intenzionale che effettiva", anche se lo studioso modificò poi il suo parere sostenendo la originalità integrale del dipinto. Il criterio revisionistico si accentuò con gli interventi del Curtius, del Bendineili e, soprattutto, del Bianchi Bandinellì, il quale pur non negando la complessa grandiosità del dipinto lo definì "una invenzione di alta e complessa civiltà artistica, immiserita dall'esecuzione". Accanito sostenitore del valore d'arte e dell'originalità campana del ciclo è stato fin dall'inizio ed ha continuato ad essere il Maiuri sia nelle due edizioni della sua Villa dei Misteri (1931, 1947), sia in uno scritto polemico del 1948, quando già il valore del dipinto molti altri studiosi avevano individuato con minor passionalità e giustamente limitato. Per il Maiuri, il ciclo, commissionato dalla padrona della Villa, la cosiddetta Domina, ad un pittore campano operante intorno alla metà del I sec. a. C., avrebbe impronta regionale e in ciò consisterebbe il maggior pregio dell'artista il quale avrebbe derivato da un rilievo, forse neoattico, attraverso una documentazione grafica fornitagli dai committenti, i tipi per il suo dipinto. Le manchevolezze, che pure il Maiuri non poteva negare, sarebbero dovute alla difficoltà di interpretazione dello schema offerto all'artista, schema che sarebbe stato ben lontano dalle possibilità e dalla formazione culturale del pittore campano. D'altra parte, il carattere popolaresco dei profili di alcune figure dimostrerebbe una sua concreta adesione alla realtà; merito dell'artista, inoltre, aver saputo infondere così vivo contenuto religioso ed umano al suo dipinto. Ma, dalle critiche mosse, risulta chiaro che l'artista non ha saputo interpretare e trasformare tipi e soggetti tradizionali, ché, anzi, il modello è costantemente presente nella copia e in più con le innegabili incoerenze, incomprensioni e manchevolezze che lo stesso Maiuri ha rilevato: se la copia è scaduta, se essa non è riproduzione fedele e nello stesso tempo non riesce interpretazione valida dell'originale, allora non si può parlare di originalità e di spiccata personalità artistica del pittore campano. A dire il vero, all'opera dell'anonimo pittore non rimangono neppure gli attributi del realismo e del carattere popolareggiante: molti tipi di volti e alcune soluzioni di panneggi ripetono schemi raffinati ma non chiaramente compresi e, inoltre, il presunto carattere popolaresco del dipinto non resterebbe limitato che a ben poco, forse soltanto alla testa di Dioniso!

Il dipinto è un'alta espressione della cultura artistica campana del I sec. a. C., cultura non più italica ma profondamente ellenizzata e, tuttavia, il suo valore artistico riesce limitato e certo inferiore a non pochi altri dipinti pompeiani, opere di ottimi copisti che si sono tenuti aderenti all'originale. Né, ancora, esso offre spunti paragonabili con la maniera di quegli anonimi pittori, tutti capaci artigiani, il cui stile rapido, personale, a volte popolaresco perviene ad effettivo valore documentario delle botteghe campane di decoratori.

Bibl.: Fondamentali per lo studio della V. dei Misteri e dei suoi sistemi decorativi: G. De Petra, in Not. Scavi, 1910, p. 139 ss.; A. Maiuri, La Villa dei Misteri, ia ed. Roma 1931; 2a ed. Roma 1947; H. G. Beyen, Die pompejanische Wandekoration vom 2. bis zum 4. Stil, I, L'Aia 1938, p. 61 ss.

Per il grande dipinto, la bibl. utile fino al 1945 è stata discussa dal Maiuri, op. cit. (2a ed.), mentre una raccolta sistematica della bibl. dal 1910 al 1957 è stata presentata da R. Herbig, Neue Beobachtungen am Fries der Mysterien-Villa in Pompeji, Baden Baden 1958, pp. 70-77. Noi segnaliamo, aggiornando l'elenco dello Herbig, tra tanti, gli studî principali sull'esegesi e sullo stile del ciclo: P. B. Mudie-Cooke, in Journ. Rom. Stud., III, 1913, p. 157 ss.; G. E. Rizzo, in Mem. Acc. Arch. Napoli, 1914, p. 39 ss.; 1918, p. 37 ss.; V. Macchioro, Zagreus, Bari 1920; D. Comparetti, Le nozze di Bacco e Arianna, Firenze 1921; M. Bieber, in Jahrbuch, XLIII, 1928, p. 298 ss.; P. Marconi, La pittura dei Romani, Roma 1929, p. 37 ss.; id., Il fregio dionisiaco della Villa dei Misteri, Bergamo 1939; L. Curtius, Die Wandmalerei Pompejis, Lipsia 1929, p. 343 ss.; G. Bendinelli, Il fregio dionisiaco della Villa dei Misteri, Torino 1936; A. Maiuri, in La Parola del Passato, III, 1948, p. 185 ss.; R. Bianchi Bandinelli, Storicità dell'arte classica (2a ed.), Firenze 1950, p. 146 ss.; K. Schefold, Pompejanische Malerei, Basilea 1952, p. 160 ss.; C. L. Ragghianti, in La Crit. d'Arte Nuova, III, 1953, p. 233 ss.; K. Schefold, Die Wände Pompejis, Berlino 1957, p. 293 ss.; M. P. Nilsson, The dionysiac Mysteries of the Hellenistic Age, Lund 1957, p. 66 ss.; 123 ss.; W. Herbig, op. cit.; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, p. 191 ss.; E. Simon, in Jahrbuch, LXXVI, 1961, p. 111 ss.; K. Lehmann, in Journ. Rom. Stud., LII, 1962, p. 2 ss.; C. L. Ragghianti, Pittori di Pompei, Milano 1963, pp. 95-110; 114; 170-171; A. M. G. Little, in Am. Journ. Arch., LXVII, 1963, p. 191 ss.; J. Houtzager, De grote wandschildering in de Villa dei Misteri bij Pompeji (Diss.), Leida 1963; G. Zuntz, On the Dionysiac Fresco in the Villa dei Misteri at Pompeii, in Proceed. British Acad., XLIX, Londra 1963; O. Brendel, in Jahrbuch, LXXXI, 1966, p. 206 ss.