CARDUCCI, Vincenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARDUCCI (in Spagna Carducho), Vincenzo

Fiorella Sricchia Santoro

Nacque a Firenze e passò in Spagna da ragazzo, nel 1585, insieme con il fratello maggiore Bartolomeo che aveva seguito Federico Zuccari quando questi era stato chiamato a lavorare all'Escorial. Come il fratello, ebbe a corte una posizione di prestigio e fu ricercatissimo come pittore di opere destinate agli altari, di grandi retablos nei quali si faceva portatore, sviluppando le premesse del fratello, di una tendenza relativamente naturalistica tipica della cultura figurativa toscana di fine secolo, ma ulteriormente arricchita, alla veneziana, nella materia pittorica.

I risultati, per altro non abbastanza convincenti, di recenti ricerche nei registri dei battezzati dell'Archivio dell'Opera del duomo di Firenze (Gambacorta), identificandolo con un Vincenzo di Dionigi di Francesco Carducci nato il 6 ag. 1570, porterebbero a negare il fatto che fosse proprio fratello di Bartolomeo - come asserisce ad ogni occasione egli stesso e come è confermato da tutte le altre fonti spagnole contemporanee - e ad anticipare di sei anni la sua nascita, fissata correntemente intorno al 1576 in base a varie sue precise dichiarazioni testimoniali e all'iscrizione dell'autoritratto inciso da P. Perret ("Vincentius Cardutius florent. Regis Hisp. pictor aetatis suae 38 anno 1614").

Certamente si formò accanto a Bartolomeo negli anni in cui questi lavorava al servizio di Filippo II, di Filippo III e dell'onnipotente duca di Lerma a Madrid e a Valladolid. Le sue prime opere firmate sono solo del 1606, una Annunciazione e le Stimmate di s. Francesco, entrambe nel Museo di Valladolid provenienti dallo scomparso convento di S. Diego, per il quale ricevette, come il fratello, molti incarichi dal fondatore duca di Lerma; ma che già allora egli fosse ben inserito lo dimostra il fatto che a pochi mesi dalla morte di Bartolomeo, nel 1609, otteneva a sua volta l'ambito titolo di "pintor del rey". In effetti insieme con gli altri due toscani Eugenio Cascese (Cajés) e Angelo Nardi, ma in posizione di netta prevalenza, poté esercitare almeno nel secondo e nel terzo decennio del secolo una sorta di dittatura nell'ambiente artistico, assicurandosi un numero incredibile di commissioni per i palazzi reali, per chiese e conventi cui doveva sopperire, con conseguenti notevoli divari di qualità, attraverso l'opera di una ben organizzata bottega.

Dalle prime opere di sicura cronologia - oltre a quelle citate, la Predicazione di s. Giovanni del 1610 nell'Accademia di S. Fernando a Madrid - alle quali sembrano stilisticamente da accostare le Stimmate dell'Orden Tercera di Madrid e la S. Monica di collezione privata a Naiera, è evidente la sua iniziale collocazione nell'ambito stesso di Bartolomeo, cioè di quella che ormai correntemente si chiama "pittura toscana riformata" della quale è probabile giungessero in Spagna, dopo quelli del Pagani e del Passignano, esempi più moderni del Cigoli, di Cristofano Allori. Ma subito egli si caratterizza per una "sprezzatura" nella stesura pittorica ed una densità di movimento chiaroscurale che ripropone, e a maggior ragione che non le ultime opere del fratello, il problema dell'importanza che poté avere per entrambi il soggiorno a Valladolid del giovane Rubens negli stessi anni, nonché quello della presenza appartata a Toledo, ma anche per documentati (Angúlo Iñiguez-Pérez Sánchez, p. 24) rapporti familiari non ignorata, del Greco. La fortuna di questa formula si misura sull'unità dei risultati che intorno al '15-'16 accomuna con poche varianti personali le opere per la cattedrale di Toledo del C. e del Cascese, del Tristán, allievo del Greco, nella stessa città e a Yepes, e del C. per la Encarnación di Madrid.

Certe aspirazioni del pittore ad una composizione più mossa e spaziosamente sfogata da "glorie" di angeli entro cieli nuvolosi trovano però un limite abbastanza pesante nel convenzionale ripetersi delle soluzioni, sicché la qualità, consentendolo lo stato di conservazione dell'opera, è spesso da cogliere piuttosto nella delicatezza di certi particolari. Del resto, come egli stesso ha precisato nell'ottavo dei suoi Diálogos, di solito l'intervento del "perito pittore" si limita allo studio preventivo dell'opera, attraverso disegni e schizzi che tocca all'aiutante trasferire sulla tela e colorare lasciando al maestro da ritoccare e rianimare l'insieme attraverso il magistero di "golpes y pinceladas". Questa consuetudine generalizzata è sempre da tener presente nel giudicare delle opere del C. insieme con il naturale scadere dell'interesse nel ripetersi di certi soggetti canonici entro l'incalzare delle commissioni. La sua produzione è in effetti imponente: basterà ricordare, fra le più vaste imprese di cui si conservano documenti o testimonianze dirette, la cappella del Sagrario nella cattedrale di Toledo, il retablo di Guadalupe (1618), il retablo di Algete (1619), distrutto nel 1936, il retablo di S. Ildefonso di Braojos (Madrid), quello di S. Antonio dei Portoghesi (Madrid), il retablo di S. Barbara per i mercedari scalzi (Madrid; 1631), distrutto, e i due retablos, collaterali, dedicati a S. Pedro Armengol e a S. Ramón Nonato nella stessa chiesa madrilena, gli altari già nel coro della certosa del Paular. Proprio per la certosa il pittore compì la sua opera di più vaste proporzioni, le cinquantaquattro grandi tele (m. 3,45 × 3,15) dipinte fra il 1626 e il 1632 con Storie di s. Bruno e di venerabili certosini destinate al chiostro ed oggi disperse per vari musei spagnoli (talune assai danneggiate, due distrutte a Tortosa durante la guerra civile), che ebbero gran fama presso i suoi contemporanei e tra gli storiografi e viaggiatori successivi. Si conserva una splendida serie di ventitrè bozzetti preparati in vista delle tele, venti dei quali erano fino a qualche anno fa nella coll. Contini-Bonacossi di Firenze (Longhi, 1930; Angulo Iñiguez-Pérez Sánchez), che testimoniano bene delle migliori qualità del pittore. In essi, con animosa felicità di invenzione e sorprendente freschezza di soluzione pittorica attenta alle verità delle circostanze, dei giochi d'ombra e di luce, si snoda una lunga storia di miracoli, di martiri, di estasi cui il Longhi ha dato la meritata importanza affermando che "lo Zurbarán, il Ribalta, il Murillo attinsero largamente alla sua agiografia romanzesca e popolare". Le tele grandi invece conservano solo a tratti la forza e la floridezza pittorica dei bozzetti, essendo ovviamente larghissimo, nella mole del lavoro, l'intervento dei collaboratori. Alle opere per la certosa possono avvicinarsi anche le undici Storie di s. Felice di Valois e di s. Juan de Mata dipinte per i trinitari scalzi di Madrid e pur esse divise fra luoghi vari, probabilmente eseguite intorno al 1632 quando il pittore firmava un contratto per altri retablos destinati alla stessa chiesa.

Negli anni in cui il C. attendeva alle opere per il chiostro della certosa si era ormai fatto largo a corte il giovane Velázquez, giuntovi nel 1623, accompagnato dal suocero Pacheco e subito fatto "pintor del rey", e non c'è dubbio che il C. ne fosse turbato sia per ragioni di rivalità professionale sia per la nuova apertura mentale, le idee che propugnava con le opere e probabilmente a parole. Nel '27 c'era stato il concorso fra il C., Cascese, Nardi e Velázquez per un quadro che rappresentasse la Espulsione dei Mori, e i giudici G. B. Crescenzio e G. B. Majno avevano dato la palma al giovane sivigliano. Nella sua opera Diálogos de la pintura, che il C. diede alle stampe a Madrid nel 1633 (ried. a cura di G. Cruzada Vilaamil, ibid. 1865), realizzando il sogno di porsi sul piano di una indiscutibile nobiltà intellettuale (per questo aveva cercato di creare anche a Madrid una Accademia sul tipo di quelle fiorentina e romana), la condanna in toni apocalittici dei seguaci del Caravaggio, imitatori della pura realtà "senza dottrina", dei loro temi popolari, di strada o addirittura di osteria, dei "bodegones", suona come una trasparente allusione a Velázquez, benché il senso della genialità del caposcuola lombardo, "mostruo de ingenio y natural", vi trovi un riconoscimento non scarso. I Diálogos riflettono le convinzioni teoriche della fine del Cinquecento, delle quali il C. era ben informato, come dimostra la sua raccolta notevole di libri, ma con una disponibilità abbastanza esplicita verso le aperture naturalistiche di un tempo più avanzato e le possibilità espressive della pittura veneziana, per il tocco rapido a "borrones", che implica anche la sua esperienza personale di pittore. Nella sua ambita posizione di pittore letterato, ben accetto agli uomini di cultura che gli dedicano versi, egli si autoritrasse con la penna in mano appena sollevata dalla stesura dei Diálogos e la tavolozza e i pennelli posati poco discosti sullo stesso tavolo (Glasgow, coll. Stirling); e intanto, risultato non secondario, otteneva con Nardi e Cascese la esenzione per principio dei pittori dallalcabala, cioè dalla tassa che metteva la pittura alla pari con qualsiasi commercio o mestiere. Nel 1634 ebbe ancora una volta la parte del leone nella distribuzione delle tele che dovevano celebrare nel Salón de Reinos del palazzo del Buen Retiro vittorie recenti, concorrendo con Majno, Zurbarán, Velázquez, Pereda, Leonardo: dipinse tre episodi (la Vittoria di Fleurus, I soccorsi di Costanza, L'espugnazione di Rheinfeld:Madrid, Museo del Prado) con risultati assai modesti, ma è forse sua l'idea, accolta anche da altri e destinata a diffondersi, di rifarsi per la scenografia di una battaglia al taglio compositivo delle stampe analoghe di Antonio Tempesta.

Alla sua morte, avvenuta a Madrid nel 1638, possedeva un patrimonio considerevole, mentre l'inventario dei suoi beni recentemente pubblicato (Caturla) insieme con le sue minuziosissime e più volte postillate disposizioni testamentarie dimostra la consistenza della sua raccolta di sculture, di pitture (dove ricorrono ma, forse un po' avventatamente anche i nomi di Giorgione e Leonardo), di libri di varia cultura, di oggetti preziosi.

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