GIUSTI, Vincenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GIUSTI, Vincenzo

Franco Pignatti

Nacque a Udine nel 1532 da Francesco e Margherita di Vincenzo Della Porta. Intraprese la carriera notarile e il 4 maggio 1551 fu ammesso nel Collegio dei notai della città; nel 1566 ne divenne cancelliere. L'ultimo atto da lui rogato che si conserva risale al 1596.

Di famiglia agiata, alla morte del padre, il 12 ag. 1554, dovette affrontare difficoltà per amministrare il patrimonio, cospicuo ma non pingue (possedette case a Udine e fuori, campi e poderi a Gorizia, Camino di Codroipo, San Giovanni di Manzano, Passons, Cividale e altrove), e per maritare le sorelle con una dote degna. Nel 1555 prese in moglie Smeralda Zamoro. Rimasto vedovo, nel 1564 si risposò con Barbara Balzaro, di famiglia patrizia spilimberghese. Dai due matrimoni ebbe sedici figli (il primogenito Francesco venne alla luce nel 1556), che gli premorirono quasi tutti: gli sopravvisse il solo Annibale (1580-1660).

Il G. si può considerare tra i fondatori dell'Accademia degli Sventati di Udine, sorta per iniziativa del conte Alfonso Antonini il 13 ag. 1606, visto che vi fu accolto poche settimane più tardi, il 6 novembre. Con lo pseudonimo accademico di Stanco, figura nel frontespizio dell'edizione veneziana del 1608 dell'Hermete. Dalla stampa dell'Almeone (Venezia 1588) risulta peraltro che a quella data era affiliato alla veneziana Accademia uranica.

Il G. morì nel gennaio 1619 e fu sepolto nel duomo di Udine.

La parte più significativa dell'attività letteraria del G. è la produzione drammatica, che si situa nella maturità dello scrittore, tra il 1579 e il 1610. La prima tragedia, l'Irene, fu composta e pubblicata nel 1579 (Venezia, Eredi F. Rampazzetto, poi 1580; ibid. 1602), rappresentata per la prima volta nel 1590, poi nel 1601, a Udine, a spese del Comune, dalla compagnia veneziana di Federico Ricci detta Pantalone; l'Almeone (ibid., G.B. Somasco, 1588) fu rappresentato durante il carnevale del 1615; l'Hermete nel 1590, ma dato alle stampe solo nel 1608 (ibid.); la commedia Fortunio uscì nel 1593 (ibid., N. Moretti; poi ibid., M. Bonibelli, 1597), fu rappresentata lo stesso anno dalla veneziana Accademia dei Pazzi amorosi e poi a Udine; l'ecloga Elpina è del 1595 (ibid., G.B. Natolini) e fu portata sulle scene nel carnevale dello stesso anno; l'Arianna, tragedia, fu composta nel 1609 o 1610, stampata nel 1610 (Udine), forse rappresentata per il carnevale del 1610 dall'Accademia degli Sventati, di certo l'11 dic. 1620. Di altre due opere teatrali abbiamo solo i titoli: la tragedia Alessio, scritta forse tra l'Hermete e l'Elpina, e la commedia Il miscuglio.

Il soggetto dell'Irene, che è la tragedia più riuscita del G., trae ispirazione dalla presa di Famagosta da parte dei Turchi nell'agosto 1571, con il massacro degli estremi difensori e la terribile morte dell'eroico difensore veneziano della città, Marcantonio Bragadin. Il titolo, contrariamente alla prassi drammaturgica, ma secondo un atteggiamento ricorrente nel G., che tende a enfatizzare manieristicamente elementi eccentrici del meccanismo scenico, deriva dal nome della moglie del protagonista, Irene, regina di Cipro. La prima edizione dell'Irene fu corredata da una dedica di Francesco Sansovino (vi si dice che l'opera è pubblicata all'insaputa dell'autore), il quale era a Venezia tra i più attivi divulgatori delle notizie sul Turco, e il contenuto della tragedia intendeva in effetti colpire l'immaginario del pubblico contemporaneo, sensibile ai fatti d'Oriente. In effetti, la trama dell'Irene abbonda in elementi spettacolari e orrorosi, che prevalgono sulla materia storica, utilizzata in sostanza come pretesto per le trovate sceniche inventate dall'autore. Pur con queste pesanti concessioni alla poetica del manierismo, nel complesso facili e non sostenute da una vera e propria ideologia, l'Irene mostra un ordito drammatico ben congegnato e un uso efficace delle risorse offerte dal linguaggio tragico. L'azione si svolge in Salamina, città di Cipro assediata dal re d'Armenia Zalamosso. In principio è annunciata la pace, un sacerdote si accinge a rendere grazie agli dei e un servo gli narra il modo in cui sono state condotte le trattative, risalendo fino alle cause remote della guerra: una complessa vicenda di figli perduti, nozze segrete, antichi conflitti, che non ha alcun rapporto con la vicenda principale. Secondo l'accordo, il re di Cipro, Calasiri, si recherà con i suoi capitani, i maggiorenti della città, i sacerdoti, nella tenda del re d'Armenia a consegnargli lo scettro. Ma la regina Irene ha oscuri presentimenti e il simulacro di Apollo dà un oracolo che viene male interpretato, accelerando la catastrofe. Al momento della resa, i capitani, i sacerdoti e i cittadini sono uccisi, mentre Calasiri è sottoposto a lenti e terribili tormenti fino alla morte. Al figliolo, costretto ad assistere all'agonia del padre, vengono mozzate le mani e poi lo stesso Zalamosso gli fracassa il cranio su una pietra. Il capo mozzato del marito e le mani del figlio sono portate a Irene, che, disperata, si uccide. Secondo il precetto oraziano che vieta la rappresentazione di scene truculente, nessuna atrocità viene messa in scena, ma sono narrate da messaggeri. Il coro dell'atto IV, in particolare, indulge nel racconto dello strazio della vittima, abbandonandosi con dovizia ai particolari raccapriccianti - le prime mutilazioni, il sangue che scorre copioso, la scorticatura, le preghiere pronunciate durante il supplizio: tutti fatti che riproducono in maniera veritiera la realtà del supplizio del Bragadin; così come, prima, corrisponde al vero pure l'aggressione proditoria dei capi cristiani nella tenda del re nemico.

Memoria del luttuoso evento della caduta di Cipro è anche nella commedia il Fortunio, ambientata a Genova, dove a un anno esatto dalla caduta di Nicosia riparano i quattro protagonisti e si ricompongono le due coppie separate, al termine di un intreccio che vede i tradizionali ingredienti del travestimento di Elena in panni maschili sotto il nome di Fortunio, dell'amore senile del vecchio Cornelio, delle figure del parassita, del pedante, della vecchia ruffiana scaltra. Il Fortunio è stato blandamente indiziato di paternità aretiniana, dato che alla Biblioteca nazionale Braidense di Milano si conserva un manoscritto della commedia intitolato "Fortunio Commedia satirica di Pietro Aretino", portatore di una redazione un poco diversa dalla stampa. Sotto il nome dell'Aretino la commedia fu anche pubblicata, con "qualche dubbiezza" (p. 211), da Sinigaglia, ma senza che l'attribuzione abbia riscosso credito. In effetti, il Fortunio presenta analogie con la Talanta per la trama, mentre il personaggio della ruffiana arieggia l'Aluigia della Cortegiana, da cui deriva anche la beffa fatta al vecchio innamorato; il tipo del pedante è vicino all'omologo del Marescalco. Giudicata prolissa e disadorna, la commedia resta comunque lavoro originale del G., che dimostra di sapere rielaborare con una certa maestria, anche senza particolare estro comico, materiali di repertorio nella produzione cinquecentesca.

Più opache le altre tragedie del G., impostate su un classicismo freddo e di maniera, Nell'Almeone, dal complicatissimo intreccio, il protagonista, impazzito, uccide la madre Erifile, ma l'attenzione dell'autore è diretta piuttosto su costei, lacerata dal conflitto tra il fratello Adrasto, re di Argo, e il marito Anfiarao, che contro il suo volere è costretto a prendere le armi nell'impresa di Tebe e perisce in battaglia. Sarà lui a vendicarsi della creduta infedeltà della moglie, istigando il figlio, nella lettera scritta prima di morire, a ucciderla. L'Hermete ruota intorno al tradimento di Nicandro, zio del giovane re di Cidone, a Creta, Ermete: ne restano travolti la madre di Ermete, Laodicea, il leale cortigiano Aristidamante, la giovane sposa Arsinoe e, infine, lo stesso Ermete, che perisce di una morte orrenda, come Calasiri nell'Irene, con il solito corredo di dettagli raccapriccianti prediletti dal Giusti. L'Arianna presenta la vicenda mitologica di Arianna e Teseo, incentrata sul personaggio femminile che, agitato dal pentimento per la morte del Minotauro e il tradimento dei suoi cari e dall'amore per Teseo fuggitivo, alla fine si suicida. Nella dedica dell'Elpina il G. rivendica il diritto per i poeti moderni di coltivare un genere teatrale che se non fu studiato e catalogato da Aristotele, ha le sue prove nella letteratura classica in Teocrito e nel Virgilio bucolico.

Il G. è ricordato da Giason Denores nell'introduzione della sua Poetica (Venezia 1588), e nell'Apologia contra l'autore del Verato (cioè G.B. Guarini, Padova 1590, cc. 47v-48r) tra alcuni autori che hanno composto commedie e tragedie secondo le regole aristoteliche, quali Pomponio Torelli, Erasmo da Valvasone, Muzio Manfredi. Del Manfredi si conserva una lettera al G., da Nancy in data 10 giugno 1591 (M. Manfredi, Lettere brevissime scritte tutte in un anno, Venezia 1606, pp. 130 s.), in cui egli sollecita il letterato friulano (che egli conosce solo di fama) a replicare alle censure sollevate da Angelo Ingegneri contro il suo Alessio, e insieme alla Semiramis del Manfredi e all'Eraclea di Livio Pagello. Il 31 gennaio dello stesso anno (ibid., p. 27) il Manfredi aveva scritto a Erasmo da Valvasone perché anche lui esortasse il G., ma non risulta che questi prendesse parte alla disputa con un suo scritto.

Oltre alla produzione drammatica, il G. fu autore di liriche latine e in lingua, apparse nelle raccolte d'occasione del tempo (un elenco che va dal 1556 al 1608 si legge in appendice a Ragni). Una Boschereccia canzone nella felicissima vittoria cristiana contra' infedeli, composta in occasione della battaglia di Lepanto, uscì da sola a Venezia nel 1571. Altre opere del G. si conservano manoscritte (alcune autografe, tra di esse l'Hermete, in una redazione diversa dalla stampa) nella Biblioteca comunale e nella Biblioteca arcivescovile di Udine: una Cronaca dei nobili udinesi, una Storia della peste, un Dialogo de le belle donne di Venzone, una traduzione in ottava rima del libro V dell'Odissea con il titolo Degli errori di Ulisse.

Le rime del G. sono raccolte sotto il titolo Rime sparse (Udine 1962); le tragedie sono pubblicate da W. Drost in edizione anastatica (Dramatische Werke, Heidelberg 1980, con un saggio sul Fortunio). Il Fortunio, dal manoscritto braidense, è edito da Sinigaglia, pp. 207-333.

Fonti e Bibl.: G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da letterati del Friuli, IV, Venezia 1830, pp. 126-131; F. Salveraglio, Per il Fortunio, in La Domenica letteraria, II (1883), 14, p. 3; A. Luzio, Ancora sul Fortunio, ibid., 15, p. 4; F. Neri, La tragedia italiana del Cinquecento, Firenze 1904, pp. 111-113; A. Battistella, I vecchi teatri udinesi, in Atti della Accademia di Udine, s. 5, VII (1928-29), pp. 86-94; F.D. Ragni, V. G. drammaturgo udinese del Cinquecento, ibid., s. 6, I (1934-35), pp. 65-200; I. Sanesi, La commedia, Milano 1954, p. 324; P. Someda De Marco, Notariato friuliano, Udine 1958, pp. 82-84; G. Pastina, G. V., in Enc. dello spettacolo, V, Roma 1958, coll. 1361 s.; W. Drost, Strukturprobleme des Manierismus in Literatur und bildender Kunst: V. G. und die Malerei des XVI. Jahrhunderts, in Arcadia. Zeitschrift für vergleichende Literaturwissenschaft, VII (1972), pp. 12-36; Id., Strukturen des Manierismus in Literatur und bildender Kunst. Studien zu den Trauerspielen V. G.'s (1532-1619), Heidelberg 1977; C. Scalon, La Biblioteca arcivescovile di Udine, Padova 1979, p. 262; G. Sinigaglia, Saggio di uno studio su Pietro Aretino (con scritti e documenti inediti), Roma 1982, ad indicem.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE