GRIMANI, Vincenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GRIMANI, Vincenzo

Antonio Borrelli

Nacque a Mantova, il 26 maggio 1655, da Antonio ed Elena Gonzaga.

Apparteneva a una delle più antiche famiglie veneziane, che nel XVI secolo aveva avuto tra i suoi membri dogi, cardinali e altri personaggi che avevano ricoperto un ruolo di primo piano nella vita della città lagunare. Dalla prima metà del Seicento, il ramo di S. Maria Formosa mostrò uno spiccato interesse per il teatro. Nel 1639 Giovanni e Antonio, rispettivamente zio e padre del G., inaugurarono il teatro dei Ss. Giovanni e Paolo e nel 1656 il S. Samuele. Una tradizione che fu continuata e arricchita dal G. e dal fratello maggiore Giovanni Carlo con la costruzione, nel 1678, di un nuovo teatro, il S. Giovanni Grisostomo, che risultò fra i più importanti d'Europa.

Vissuto in un ambiente cosmopolita, fra religiosi e uomini di cultura, a contatto con politici, artisti, impresari, attori e attrici, nel 1673 il G. poté associarsi con il fratello Giovanni Carlo nella direzione e gestione dei teatri di famiglia. Col passare degli anni il G., dalla figura possente e altera, fortificò ancora di più il proprio carattere, diventando, come scrisse Giambattista Vico, "energico di temperamento", "ricco di risorse" e "ostinato nell'azione" (La congiura, pp. 224 s.). Pur continuando a occuparsi di teatro, come fece per il resto della vita, il G. riuscì a ottenere un importante beneficio ecclesiastico. Il duca di Mantova e del Monferrato Ferdinando Carlo Gonzaga, al quale lo legavano vincoli di parentela, nel 1677 lo fece nominare abate commendatario della ricca abbazia cistercense di S. Maria a Lucedio, presso Trino, vicino Vercelli.

Ciò offrì al G. l'occasione di riallacciare i contatti, avviati dallo zio Giovanni, con i Savoia, che si intensificarono negli anni Ottanta. Nel 1686, costituitasi la Lega di Augusta tra Impero, Spagna e Olanda per fronteggiare Luigi XIV, il G. fu inviato a Torino su incarico di Leopoldo I per convincere il duca Vittorio Amedeo II a firmare una convenzione con lo stesso imperatore. A causa della stretta vigilanza della legazione francese, Torino non si mostrò però adatta per avviare simili trattative e il duca si dichiarò disponibile a riprendere il discorso l'anno successivo a Venezia, convinto che l'indebolimento della Francia sulla scena europea avrebbe favorito le proprie aspirazioni di indipendenza.

Così, il 30 genn. 1687, Vittorio Amedeo lasciò Torino e a febbraio soggiornò a Venezia con il pretesto di partecipare, in forma privata, ai festeggiamenti per il carnevale. Lo scopo era quello di incontrarsi con Massimiliano II, elettore di Baviera, e con il principe Eugenio di Savoia, suoi cugini, e con il G., tutti e tre al servizio dell'imperatore. L'incontro non cambiò di molto la prudente strategia del duca, che cominciò, comunque, a manifestare una sempre più palese avversione contro la Francia.

Al ritorno del duca a Torino, nel mese di marzo, il G. si affrettò a mandargli canzoni e libretti d'opera, gli suggerì nomi di scenografi e macchinisti, lo convinse dell'importanza, culturale e mondana, della diffusione del melodramma nelle grandi corti europee. Tra agosto e settembre il G. si recò di persona a Torino per curare da vicino alcuni aspetti organizzativi del teatro Regio e per continuare l'opera di mediazione fra il duca e l'imperatore. Nel 1688, scoppiata la guerra tra la Lega e la Francia, l'azione diplomatica del G., tra Torino e Vienna, divenne frenetica. Per ottenere l'assenso del duca egli non tralasciò alcun espediente, perfino di "chiedere per conto dei Savoia correzioni censorie sui testi storiografici stampati a Venezia e riguardanti l'ultimo cinquantennio" (Morelli, 1982, p. 394).

Nel giugno del 1689 il principe Eugenio di Savoia, ferito gravemente a una gamba nei pressi di Belgrado, chiese al duca il permesso di ritornare a Torino, insieme con il G., per questioni di grande rilievo. Si trattava verosimilmente delle future operazioni militari; mentre il G. avrebbe dovuto "concordare il trattamento regio e la cessione dei feudi [imperiali] delle Langhe mediante un milione di lire" (Carutti, pp. 175 s.).

Nel 1690, chiamato a sé il G., Vittorio Amedeo II firmò finalmente l'accordo (4 giugno) ed entrò in guerra a fianco della Lega, che nel 1689 si era intanto ampliata con l'ingresso dell'Inghilterra. Tali iniziative non furono accolte bene a Milano, Mantova e Venezia. Il duca di Mantova definì il G. un "ingrato" e il Consiglio dei dieci, dopo alcune sedute, il 2 settembre lo allontanò dal Veneto per motivi di Stato e fece depennare il suo nome dai libri dell'avogaria.

Subito dopo il G. partì per l'Aia e per Londra, dove il 20 ottobre furono stilati gli accordi anche con l'Olanda e il Regno Unito. Nel maggio del 1691 subì un attentato a Milano che gli procurò, come scrisse al fratello, solo una "piccola ferita all'occhio sinistro". Quando, nel 1695, Vittorio Amedeo cominciò a stabilire, in segreto, contatti con Luigi XIV per arrivare a un trattato di pace, stipulato poi il 29 giugno e ratificato il 6 luglio, pare che il G. fosse venuto a conoscenza della trama e avesse avvertito l'imperatore.

In quegli anni molto impegnativi sul piano politico e diplomatico il G. non tralasciò di occuparsi di faccende culturali e soprattutto di teatro, diventando non solo organizzatore e committente di spettacoli, ma anche autore di libretti d'opera. Nel 1687 scrisse, insieme con Girolamo Frisari, l'Elmiro re di Corinto, musicato da Carlo Pallavicino; nel 1688 l'Orazio, musicato da Giuseppe Felice Tosi e dedicato al principe Massimiliano Emanuele di Baviera; e nel 1699, molto probabilmente, il Teodosio. Qualche anno dopo nella casa veneziana del G. si svolsero le adunanze dell'Accademia degli Animosi, fondata nel 1691 da Apostolo Zeno e aggregata nel 1698, con il nome di Colonia Animosa, all'Arcadia.

Per ricompensare il G. del lavoro diplomatico compiuto e della sua fedeltà, Leopoldo I ottenne da Innocenzo XII, il 22 luglio 1697, la porpora cardinalizia, con dispensa per non avere ricevuto ancora gli ordini minori. Il 7 aprile dell'anno successivo gli fu conferito il cappello e il 16 maggio il titolo di cardinale diacono di S. Eustachio. D'ora in avanti iniziò la fase più intensa della vita del G., che costituì sempre una spina nel fianco della Chiesa romana per il suo anticurialismo e per aver abbracciato le più intransigenti posizioni asburgiche, tanto da apparire, secondo il Pastor, "sempre più imperiale dell'imperatore" (XV, p. 62).

Tra il 1696 e il 1698 fu imbastita una vasta iniziativa internazionale, con intervento diretto dell'imperatore e parere di alcuni giuristi, per far concedere al G. dal doge e dal Senato la grazia, che fu deliberata il 28 nov. 1698. In piena discussione sulle prospettive da dare al problema della successione spagnola, il G. partecipò al conclave che si tenne in seguito alla morte di Innocenzo XII (27 sett. 1700), sostenendo il cardinale G. Marescotti, appoggiato dalla parte imperiale e dagli Spagnoli, ma avversato dai Francesi. Il 23 novembre il conclave acclamò papa Giovan Francesco Albani, che prese il nome di Clemente XI.

Dopo la morte del re di Spagna Carlo II (1° nov. 1700) e la conoscenza del testamento nel quale il re dichiarava suo successore Filippo di Borbone, secondogenito del delfino di Francia Luigi, il G. e Leopoldo Giuseppe Lamberg iniziarono contatti con il "partito austriaco" napoletano. Costituito dalla grande aristocrazia feudale, esso preparava un'insurrezione, la cosiddetta "congiura di Macchia", per porre sul trono di Napoli Carlo d'Austria, in cambio di importanti vantaggi politici ed economici in favore dei congiurati. Il G. risultò la vera anima della congiura, colui che tenne i fili tra i nobili napoletani e la corte di Vienna, che, in questa come in altre occasioni, si fidò di lui.

La congiura, scoppiata il 23 sett. 1701, fallì rapidamente con conseguenze pesanti per i nobili, alcuni dei quali avevano concordato con il G. addirittura l'uccisione del viceré, Luis Francisco de la Cerda duca di Medinacoeli. Clemente XI, preoccupatissimo per quanto era accaduto e per la situazione di pericolo che aveva corso lo Stato pontificio, si mostrò molto irritato con il G. proprio per l'accusa, gravissima per un ministro di Dio, di avere architettato l'uccisione del viceré. Da allora i rapporti fra il G. e il papa divennero difficili, anche per la reciproca avversione che c'era fra i due. Il fallimento della congiura non scoraggiò il G., che avversò ogni azione di Clemente XI tesa a favorire le mire francesi a danno di quelle asburgiche.

Nel dicembre del 1701 il G. partì per Vienna, dove rimase fino al luglio del 1706. In quel periodo, di acute tensioni e di rotture fra la S. Sede e la casa d'Austria, il papa intervenne spesso su di lui, conoscendo la sua influenza sulla corte asburgica, affinché convincesse l'imperatore a riportare la pace in Europa. Al suo rientro a Roma il G. venne nominato cardinale protettore dei paesi germanici, titolo che preludeva alla nomina, non del tutta inattesa, a viceré di Napoli il 1° luglio 1708, dopo che il 7 luglio 1707 l'esercito imperiale era entrato a Napoli, ponendo fine a oltre due secoli di dominio spagnolo nel Regno e inaugurando quello austriaco, che sarebbe durato fino al 1734.

Prima di ottenere il riconoscimento più prestigioso della sua carriera politica, il G. aveva continuato a tramare, anche militarmente, contro il Regno di Napoli e lo Stato pontificio, fino all'occupazione, rilevante da un punto di vista strategico, di Comacchio (24 maggio 1708) da parte di truppe asburgiche. L'episodio indusse Clemente XI a iniziare una guerra senza prospettive, che lo avrebbe portato un anno e mezzo dopo alla resa e al riconoscimento di Carlo III d'Asburgo re di Spagna (10 ott. 1709). Il G. aveva giocato in quegli anni su un doppio piano: da un lato sollecitò e talvolta organizzò incursioni militari nel territorio pontificio; dall'altro cercò di convincere il papa dei vantaggi che la S. Sede avrebbe tratto dalla presenza, sempre più ampia, dell'Austria in Italia.

Appena arrivato a Napoli, il G., sebbene fosse accompagnato dalla fama di severità, dovette suscitare una buona impressione e ispirare perfino simpatia. Alcuni suoi gesti colpirono positivamente i Napoletani, come il rifiuto di regali e il pagamento, con proprio denaro, degli stipendi dei soldati spagnoli che stavano a Napoli "quasi morti di fame, per il mal governo del conte Daun" (Diario napoletano, p. 634).

Al di là di tali gesti dal forte valore simbolico, il viceregno del G. fu "quello più attivo nel creare le linee di una politica asburgica in Meridione" (Ricuperati, 1970, p. 110) e nell'avviare un serio piano di rinnovamento politico, istituzionale ed economico del Regno. In effetti solo con lui iniziò il reale passaggio di gestione dagli Spagnoli agli Asburgici e il viceré ebbe il massimo di autonomia e di potere in epoca austriaca. L'azione del G., appoggiata e spesso sollecitata dal re e dall'imperatore, s'incentrò intorno ad alcuni punti essenziali: alleanza con l'aristocrazia illuminata e con il "ceto civile"; rinnovamento di istituzioni e di uomini, soprattutto in seno al Consiglio collaterale; rigorosa politica fiscale per risanare il bilancio dello Stato e soddisfare le richieste finanziarie di Barcellona e di Vienna; ripristino della giunta di Giurisdizione; impulso all'economia attraverso la creazione della giunta di Commercio; creazione della giunta per la Marina, autonoma dal viceré; ripresa della mai sopita polemica anticurialistica. Di tutte queste misure, quella che il G. trovò più difficile da realizzare fu quella fiscale. L'introduzione, nel giugno del 1709, della tassa sui tessuti provocò il 24 dello stesso mese una vivace dimostrazione degli interessati al provvedimento, che si concluse senza gravi conseguenze, episodio che alienò, quasi del tutto, nei Napoletani, l'iniziale simpatia verso il viceré.

Durante il governo del G. la battaglia anticurialistica, come la lotta contro il baronaggio, non fu più condotta all'interno di una logica puramente giuridica, ma si inserì nei problemi connessi alla tanto auspicata ripresa economica. Anche per questo, lo scontro sulle rendite e sui benefici ecclesiastici, avviato sotto il predecessore Wilrich Philipp Laurenz conte di Daun, assunse toni durissimi da parte sia del papa, sia del viceré, con la pubblicazione di brevi e scritture, con scomuniche ed espulsioni. Se la questione, dopo pochi mesi di trattative condotte da parte imperiale da Ercole Turinetti, marchese di Prié, si risolse con l'accordo firmato a Roma il 15 genn. 1709, la rottura tra il G. e la S. Sede fu definitiva: il papa non volle recedere dalla sua intransigenza neppure quando il cardinale fu sul punto di morte.

Nei poco più di due anni che il G. restò nella capitale del Regno non si occupò solo di politica, ma anche di questioni culturali, come l'assegnazione di cattedre universitarie, e naturalmente di musica, richiamando a Napoli Alessandro Scarlatti per conferirgli l'incarico, che aveva già ricoperto dal 1684 al 1702, di maestro della Cappella Reale. Tra maggio e metà luglio 1708 soggiornò a Napoli Georg Friedrich Händel. Il cardinale, che dovette conoscerlo a Roma nel 1707 o all'inizio del 1708, gli affidò il libretto, da lui composto, dell'Agrippina per farlo musicare.

Il libretto, ispirato alla storia romana, narra gli intrighi di Agrippina, moglie dell'imperatore Claudio, per porre sul trono il figlio Nerone, nato dal suo precedente matrimonio. I critici sono concordi nello scorgere nell'Agrippina una satira della Curia romana e in particolare di Clemente XI, che sarebbe rappresentato dal "debole e vanitoso Claudio". L'opera fu rappresentata al S. Giovanni Grisostomo il 26 dic. 1709 o poco più tardi, in occasione del carnevale del 1710, riscuotendo un'accoglienza trionfale.

Nel 1710 il G. viveva, come scrisse Lorenzo Cardella, "nel più bel corso dei suoi giorni" (VIII, p. 61) e nulla lasciava presagire, a cinquantacinque anni, la morte improvvisa per una malattia alla vescica.

I biografi di parte cattolica ricordano tutti il presagio sinistro della mancata liquefazione del sangue di s. Gennaro, che attesterebbe la punizione subita dal cardinale per i suoi violenti scontri con Clemente XI.

Sul punto di morte, assistito dal cardinale Francesco Pignatelli, il G. chiese il perdono del papa, che rispose con una fredda lettera nella quale gli ricordava "tutte le offese" inflitte alla S. Sede e le "tante lesioni" arrecate alla Chiesa e chiedeva un riconoscimento pubblico, anche se tardivo, degli errori commessi dal cardinale. La lettera porta la data del 26 sett. 1710, la stessa della morte del G., avvenuta a Napoli, dove fu sepolto nella chiesa di S. Maria del Carmine.

L'Agrippina. Dramma per musica. Da rappresentarsi nel famosissimo teatro Grimani di S. Gio. Grisostomo l'anno MDCCIX fu pubblicata a Venezia nello stesso anno dal tipografo M. Rossetti; è edita in I libretti italiani di Georg Friedrich Händel e le loro fonti, I*, I testi händelliani. Da "Vincer se stesso è la maggior vittoria" (1707) a "L'Elpida, overo Li rivali generosi" (1725), a cura di L. Bianconi, Firenze 1992, pp. 35-76.

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