LANCIA, Vincenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LANCIA, Vincenzo

Franco Amatori

Nacque il 24 ag. 1881 a Fobello in alta Valsesia, terzo figlio di Giuseppe e Marianna Orgiazzi, originari della zona.

Giuseppe aveva accumulato una considerevole fortuna grazie alla produzione di carne conservata, della quale, già durante la guerra di Crimea, aveva rifornito le truppe piemontesi. Così alla villa nella natia Fobello aggiunse diverse proprietà a Torino, dove nel 1891 la guida Marzorati lo registrava sotto due indirizzi, via Ormea 2 e corso Vittorio Emanuele II 9.

Il L. entrò nel mondo del lavoro a fine secolo seguendo le sue attitudini e i suoi interessi. Era un giovane estroverso ed esuberante, insofferente della disciplina scolastica - frequentò senza successo la scuola tecnica G. Lagrange -, ma affascinato dal mondo delle officine meccaniche.

Torino stava uscendo dalla gravissima crisi degli anni Ottanta provocata dalla rottura dei rapporti commerciali con la Francia e soprattutto dal crollo dei maggiori istituti di credito cittadini travolti dai "grandi affari" edilizi di Roma e Napoli. La tradizionale attività dei carrozzieri, la solidità e l'articolazione del settore metalmeccanico, la consistenza di risorse finanziarie disponibili per l'investimento nell'industria, la presenza del Politecnico e dell'Istituto professionale, l'azione della leadership politica locale che dai primi anni del nuovo secolo si impegnò con vigore nell'offerta di fattori indispensabili alla crescita, come l'energia elettrica a basso prezzo, erano tutti elementi che contribuirono a fare di Torino la precoce capitale dell'automobilismo italiano.

I primi tentativi risalivano al 1895 e fra questi il più rilevante era quello del cuneese G.B. Ceirano: non a caso alle origini della FIAT ci fu l'acquisizione della sua impresa. L'officina della ditta era situata in corso Vittorio Emanuele II 9, al piano terra del palazzo che Giuseppe possedeva e dove viveva con la famiglia.

Il L. poté quindi osservare nel cortile di casa la più interessante esperienza di costruzione automobilistica torinese. Nel 1898 fu assunto da Ceirano come impiegato, ma probabilmente solo perché questa qualifica sembrava più consona alla sua posizione sociale. In realtà, si immerse nell'attività dell'azienda, dal disegno delle vetture alla costruzione, alla riparazione e fu presto in grado di padroneggiare completamente i problemi dell'assistenza tecnica. I benefici maggiori di questo apprendistato furono per il L. la vicinanza con il progettista della Ceirano, A. Faccioli, che gli insegnò i fondamenti della costruzione automobilistica e una particolare sensibilità ai problemi dei clienti, indispensabile in un periodo in cui l'affidabilità del mezzo era ancora precaria.

Nel 1900, con la Ceirano, il L. passava alla FIAT, un cambiamento che lo pose a contatto con una superiore realtà tecnica e organizzativa che avrebbe segnato profondamente il suo atteggiamento di industriale attento a non porre in conflitto le esigenze sportive e di sperimentazione con i concreti vincoli del mercato. Non ancora ventenne, diventò un prezioso collaudatore, in grado di contribuire con i suoi giudizi al miglioramento dei modelli. Da questo incarico all'inserimento nella squadra corse il passo fu breve. Per otto anni fu pilota della FIAT, conquistandosi la fama del guidatore più veloce del periodo.

A venticinque anni il L. si sentì maturo per tentare la propria strada di costruttore. Non gli mancavano competenza, notorietà, solidità economica, buone amicizie: significativo in tal senso l'incoraggiamento del rappresentante della Michelin in Italia, E. Vaccarossi. Il 29 nov. 1906 a Torino fu costituita la società in nome collettivo Lancia e c. con un capitale di 100.000 lire suddiviso in parti uguali fra il L. e C. Fogolin, già collaudatore alla FIAT.

Il L. tentava l'avventura imprenditoriale quando era alle porte la più difficile congiuntura che il settore motoristico avesse affrontato dalla sua nascita. All'interno di una crisi economica generale, la domanda di automobili ebbe un calo di particolare intensità, al quale corrisposero le carenze intrinseche di un'industria che negli anni buoni era cresciuta in modo eccessivo e disordinato, anche per l'evidente presenza di forti interessi speculativi. Di fatto le imprese automobilistiche diminuirono drasticamente: si passò da sessanta nel 1907 a ventidue nel 1910. Al momento poco propizio si aggiunse, per il L., un incendio che nel febbraio 1907 distrusse disegni e modelli di fonderia, danneggiando anche le parti già in lavorazione e il macchinario, tanto che il primo anno di attività si chiuse con una perdita di 140.000 lire. Tuttavia, né l'incidente, né le precarie condizioni generali troncarono il tentativo industriale dei due ex colleghi.

L'impresa, che agli inizi contava su settanta dipendenti, aveva preso in affitto uno stabile all'incrocio fra via Ormea e via Donizetti, abbandonato da un'altra casa automobilistica, l'Itala. Nei quattro anni successivi produsse più di 500 veicoli divisi in quattro modelli, rinominati dal L. nel 1919 Alfa, Dialfa, Beta, Gamma su suggerimento del fratello Giovanni, studioso di lingue classiche. Un passo importante si ebbe nel 1909 con la preparazione del motore da 3120 cm3 (per la Beta), un quattro cilindri monoblocco dal quale derivarono tutti gli altri fino alla Dikappa del primo dopoguerra. Pur non risultando particolarmente innovativi e sofisticati, i primi modelli si basavano su concezioni progettuali che restarono per l'impresa una caratteristica di fondo. L'obiettivo era ottenere una vettura leggera ma compatta, rifinita ma funzionale, capace di accelerazioni senza scatti e di un'alta velocità media su una grande varietà di strade, adatta a essere guidata per lunghe distanze, senza bisogno di particolari attenzioni.

La clientela si identificò presto in un pubblico di intenditori di fascia medio-alta, al quale si intendeva proporre un prezzo ragionevole: l'Alfa costava dalle 10 alle 14 mila lire. L'accoglienza fu generalmente buona sia in Italia, sia all'estero, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti: a Londra e a New York si nominarono immediatamente agenti per la vendita. Nel gennaio 1911 l'azienda trasferì la sua attività produttiva in via Monginevro, nell'area di Borgo S. Paolo, attratta dai vantaggi dell'esenzione daziaria e dalle buone possibilità di espansione in una zona periferica. Di un certo peso nella decisione fu l'opportunità di occupare lo stabilimento già sede di un'impresa automobilistica, la Fides, che, pur se giunta al termine di una breve esperienza, era probabilmente dotata di un non disprezzabile patrimonio tecnico. Costituita nel 1906 da alcuni uomini d'affari romani, fra i quali V. Bondi, e dalla società francese Richard-Brasier per produrre automobili su licenza di quest'ultima, non era riuscita a decollare e nel 1910 si avviò alla chiusura.

Nella nuova fabbrica la Lancia apparve notevolmente irrobustita. Nel 1911 gli operai, 390, erano più che quintuplicati e netto era l'incremento di macchinario, in particolare di utensili. Il disegno organizzativo presentava una certa articolazione, con il L. a capo dell'azienda come direttore generale e Fogolin direttore commerciale, mentre era superata ogni confusione fra produzione e sperimentazione. Quando nell'ottobre 1911 un giornalista del periodico inglese The Motor visitò lo stabilimento, si dichiarò impressionato dalla modernità degli impianti, dall'alta precisione delle lavorazioni, dalla particolare cura delle operazioni di montaggio. Nei due anni iniziali, da via Monginevro uscirono cinque diversi modelli, oltre allo chassis dell'autocarro leggero 1Z fornito all'esercito italiano per la guerra di Libia. Largo spazio era concesso all'individualismo dei clienti - importante in questo senso fu la collaborazione con i migliori carrozzieri -, anche se veniva mantenuto un certo criterio di uniformità produttiva: sino alla guerra tutti gli chassis, tranne le 23 unità della Dialfa, erano dotati di un motore a quattro cilindri.

Questa tendenza emerse più chiaramente fra il 1912 e il 1913, quando il L. sembrò impostare la riorganizzazione della sua offerta nella ricerca di un tipo di "lunga durata". Il modello di base era ottenuto con il telaio leggero dell'1Z: il suo motore da 4940 cm3 appariva particolarmente adatto per una macchina di elegante praticità ed estremamente versatile, la Theta, in grado di presentarsi come limousine e come carro armato, come torpedo e come camion.

Della Theta, fra il 1913 e il 1918, si produssero 1696 esemplari, un considerevole risultato dato che l'Eta, il modello di maggiore fortuna precedente, aveva raggiunto solo 491 unità. In quegli anni l'esportazione restava l'obiettivo rilevante della politica commerciale della società, ma naturalmente la rete di vendita più estesa era in Italia, nelle maggiori città. Tranne la sede veneta (controllata direttamente), tutte le altre erano rette da agenti, il più importante dei quali era E. Minetti, titolare per Milano, Bologna, Firenze, Roma e grande promotore dell'immagine della casa quale produttrice di automobili di lusso, una scelta che dette ottimi esiti se al termine del difficile 1914 gli utili "contabilizzati" toccarono la cifra record di 766.630 lire.

Nel novembre 1915 la Lancia fu dichiarata "stabilimento ausiliario" e inquadrata all'interno del Comitato regionale per la mobilitazione industriale, nei cui verbali però non lasciò tracce rilevanti. Del resto, durante la guerra, dalla Lancia uscirono solo 3000 unità fra autocarri e autovetture, mentre l'industria automobilistica italiana produsse complessivamente 80.300 veicoli e la FIAT da sola 56.000. Le imprese automobilistiche perseguirono, durante il conflitto, l'obiettivo della diversificazione produttiva. Un grande affare sembrò la costruzione di motori per aereo, un'attività che invece si rivelò difficile dati i tempi lunghi necessari alla riconversione degli impianti e che pose seri problemi ad aziende quali l'Itala e l'Isotta Fraschini. Neppure il L. si sottrasse alla tentazione del motore per aereo, un impegno che però si mantenne soprattutto sul piano progettuale e che non ebbe esito in produzioni di serie. Le esperienze in questo campo furono tuttavia di notevole utilità: grazie a esse si giunse a padroneggiare i fondamenti della costruzione del motore a V che segnava il superamento del sistema "in linea" e apriva la nuova fase progettuale del dopoguerra. Senza dubbio durante gli anni della guerra il più importante ramo di attività della Lancia fu la costruzione di autocarri. Nonostante ciò, l'impresa cercò sempre di mantenere l'immagine di una casa che si distingueva per le sue macchine di elevata qualità. Persino dopo che il 9 sett. 1917 - per evitare ogni spreco di carburante - venne decretato il divieto di circolazione delle automobili private, il L. continuò a pubblicizzare sulle riviste specializzate le sue berline e i suoi torpedo con a bordo passeggeri elegantissimi e del tutto distanti dal clima bellico.

Al termine del conflitto lo stabilimento della Lancia non era di molto ampliato rispetto al 1915, anche se si registravano significativi ingrandimenti di fabbricati per impianti che rafforzavano e completavano il ciclo produttivo, come la nuova fonderia e il locale per lo stampaggio. Alla metà di agosto 1918 Fogolin si ritirò, accennando in un carteggio con il socio a un dramma familiare che lo costringeva alla decisione. I due partners si divisero a metà il patrimonio aziendale pari a quasi 6 milioni di lire; nei conteggi per la separazione emersero gli utili reali relativi al triennio 1915-17: 1.412.000, 986.999, 3.405.000 lire contro le cifre registrate nei libri contabili, 784.000, 798.000, 1.130.000 lire.

Il 1919 fu il primo anno in cui l'azienda fu costretta a chiudere il bilancio in perdita - un milione e mezzo di lire - dovuto, sembra, in una fase di turbolente relazioni industriali, al rilevante ritardo nella consegna dei nuovi modelli da turismo. Dopo il 1919 si dichiararono solo utili, ma il quadriennio 1919-22 mostrò un andamento della produzione piuttosto instabile: nel 1920 le vetture superarono il tetto del migliaio, ma nei due anni seguenti la produzione fu dimezzata, mentre i camion, 529 nel 1919, si ridussero drasticamente a 71 nel 1920, per toccare i 312 nel 1921 e scendere di nuovo a 68 nel 1922. Ma il sovradimensionamento degli impianti e la diversificazione provocati dalla domanda bellica avevano lasciato strascichi ben più gravosi in altre imprese del settore.

Se per la Lancia il primo dopoguerra si rivelava un terreno accidentato, si trattava anche di un periodo che vide interessanti tentativi di innovazione tecnica, sulla scia delle prove compiute durante il conflitto sul motore per aereo. Dopo sette anni di accanito lavoro, il motore a V fu prodotto in serie nel 1922 con la Trikappa, una potente 8 cilindri costruita fino al 1925. Fu però il vecchio motore in linea a 4 cilindri di 4940 cm3 a sostenere sul mercato la Lancia negli anni del dopoguerra. Venne montato sulla Kappa, una vettura che si differenziava poco dalla vecchia Theta, sulla sua versione sportiva Dikappa, e su due autocarri che uscirono nel 1921, il Trjota e il Tetrajota. In definitiva, fra il 1908 e il 1922, si contarono undici modelli di autovetture e cinque di autocarri: tutti i veicoli pesanti e le tre vetture, la Theta, la Kappa e la Dikappa, erano equipaggiati con il motore 4 cilindri di 4940 cm3, ovvero 2756 autocarri e 3666 automobili (il 64,8% su un totale di 5652 unità). Non sembra azzardato sostenere che fino al 1922 il L. costruì le sue fortune su un unico tipo di motore, con tutte le conseguenze positive per l'azienda in termini di concentrazione delle risorse e di economie di scala.

Il contrasto fra la realtà sociale, politica, economica delle più difficili da affrontare e la notevole vivacità progettuale e costruttiva è quanto sembrò caratterizzare la situazione dell'industria automobilistica italiana fra il 1920 e il 1922. Le più significative novità tecniche si concentrarono nel gruppo delle vetture di lusso: l'Isotta Fraschini mise in vendita uno dei maggiori successi degli anni Venti, il Tipo 8 - l'automobile dei divi di Hollywood - che conobbe una memorabile affermazione negli Stati Uniti; l'Alfa Romeo, con le veloci 6 cilindri G.I. e R.L., poneva le basi per una definitiva permanenza fra le grandi marche italiane. Ma anche fra i veicoli medi e piccoli con motore a 4 cilindri emergevano importanti progressi. La FIAT realizzava il modello 501 che, se al prezzo di 34.000 lire nel 1922 non poteva essere definita un'utilitaria nel senso attuale, riusciva tuttavia ad ampliare gli spazi di mercato per la casa torinese e, con poco meno di 70.000 unità vendute in quasi un decennio, dava un importante contributo al consolidamento della motorizzazione del Paese.

Del rinnovamento dell'automobilismo nazionale nei primi anni Venti, il L. fu protagonista di primo piano. Nel dicembre 1921 la rivista Motori aerei cicli e sports dava notizia di una macchina che si presentava come una vera rivoluzione tecnica. Era la Lambda, la vettura grazie alla quale il L., che sino ad allora era stato considerato un costruttore di alta qualità ma piuttosto conservatore, acquistò la reputazione di progettista fra i più audaci nel panorama internazionale.

Le grandi novità della Lambda erano un motore a 4 cilindri a V, con angolo molto stretto (a 13 gradi), tale da consentire una costruzione compatta e leggera, l'avantreno a ruote indipendenti, un passo avanti di non poco conto sul piano della sicurezza, ma soprattutto la fusione fra carrozzeria e telaio - la scocca portante -, che dimezzava il peso della vettura rispetto a modelli della stessa cilindrata e offriva così una resistenza agli urti molto maggiore rispetto alle strutture tradizionali. Presentata nell'autunno 1922 ai saloni di Londra e Parigi, la Lambda non passò inosservata, ma non ricevette commenti del tutto concordi. Certo è che con la Lambda, il L. offrì l'unica vera automobile italiana "media", di alta classe, in grado di fornire prestazioni d'eccezione e indubbia comodità a un prezzo (35.000 lire) non troppo superiore a quello della Fiat501. La Lambda ottenne uno straordinario successo di mercato. Il miglior risultato precedente era stato raggiunto dalla Kappa con 1800 unità prodotte. Della Lambda fra il 1923 e il 1931 furono costruiti 13.000 esemplari.

Il periodo successivo, dal 1922 allo scoppio del secondo conflitto mondiale, può essere considerato per la Lancia la fase aurea dell'accumulazione e del consolidamento. Il successo commerciale della Lambda generò un'impennata degli utili netti che, fra il 1922 e il 1925, ogni anno quasi raddoppiarono, sino ad avvicinarsi ai 16 milioni di lire. Neanche la bufera della grande crisi sembrò intaccare la solidità del bilancio aziendale: il punto più basso si toccò nel 1931, anno in cui tuttavia si dichiarava un utile superiore ai 2 milioni e mezzo di lire.

La risalita dei primi anni Trenta coincise con la costruzione di una nuova significativa vettura, l'Augusta, mentre dal 1935 le commesse militari offrirono un sostanziale contributo, con esiti economici più che soddisfacenti: sempre in ascesa dopo il 1935, l'utile raggiunse nel 1939 i 10.500.000 di lire. Anche altri indicatori mostravano inequivocabilmente una florida situazione aziendale. Il capitale sociale superava di poco i 4 milioni nel 1922, ma dopo una serie di aumenti fu fissato a 50 milioni nel 1930; i veicoli venduti, 540 nel 1922, raggiunsero il picco di 8085 nel 1935, mentre raggiunsero le 6262 unità nel 1939, anno in cui si contavano più di 5000 dipendenti. All'inizio degli anni Trenta la Lancia lottava con la Bianchi per la seconda posizione fra le imprese automobilistiche italiane, posizione che detenne saldamente fino a fine decennio, controllando più del 9% del mercato nazionale. L'evoluzione complessiva del settore automobilistico italiano, i suoi ritmi di sviluppo, la definizione dell'assetto competitivo bene si adattavano al percorso di un'azienda quale la Lancia che mirava alla differenziazione del proprio prodotto, alla costruzione di un numero relativamente limitato di veicoli e che di sicuro non ricercava un'organizzazione interna di tipo fordista.

Non si può negare che la crescita dell'automobilismo italiano fu sostenuta da una maggiore attenzione da parte del potere politico con provvedimenti quali il dazio minimo ad valorem portato al 100% nel 1930, l'istituzione nel 1927 del Pubblico registro automobilistico (PRA), l'entrata in vigore nel 1929 del Codice della strada, la creazione nel 1927 dell'Azienda autonoma statale della strada con l'obiettivo di risolvere finalmente il problema della manutenzione della rete viaria. Di fatto i veicoli prodotti, 16.340 nel 1922, giunsero a una punta di 77.708 nel 1937.

Tuttavia, nel 1938, a fronte di 7 veicoli su 1000 abitanti rilevabili in Italia, stavano i 18 della Germania, i 43 della Francia, i 44 della Gran Bretagna e i 114 negli Stati Uniti (occorre altresì considerare che l'Italia fascista - rispetto a tali nazioni - era un Paese con reddito pro capite decisamente inferiore).

Negli anni Venti e Trenta, grazie a una strategia di poderosa integrazione verticale e alla dotazione di un'estesa gerarchia manageriale, la FIAT controllava più dell'80% della produzione italiana. La possibilità di sopravvivenza per le case minori era dunque legata alla capacità di presentare sul mercato vetture che si distinguessero sul piano qualitativo. In effetti gli anni Venti videro una considerevole vivacità progettuale e la creazione di alcuni importanti modelli da parte di imprese come la Spa, l'Itala, la Diatto, l'OM, la Bianchi, l'Isotta Fraschini, l'Alfa Romeo. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale le marche ora menzionate erano ormai fuori mercato o ridotte a entità trascurabili nella competizione automobilistica nazionale assorbite da altre imprese, oppure rivolte prevalentemente verso altre attività. Molteplici le ragioni degli insuccessi: per alcune il peso degli indirizzi assunti negli anni della guerra - la diversificazione produttiva, il coinvolgimento nelle vicende del gruppo Ansaldo-Banca italiana di sconto - per altre scelte sbagliate, gli effetti della politica di "quota 90", il collocarsi all'interno di assetti proprietari solo marginalmente interessati alla produzione automobilistica.

Sino al 1937 - anno della scomparsa del L. - la Lancia lanciò sul mercato altre cinque vetture: un modello di lusso ad alta cilindrata, la Dilambda, nel 1929; due anni dopo l'Astura e l'Artena per la fascia medio-alta, distinte solo per la diversa dimensione del motore (8 cilindri la prima, 4 la seconda); una raffinata "utilitaria", l'Augusta nel 1932; una macchina veloce di media cilindrata, l'aerodinamica Aprilia nel 1937. In questo modo negli anni Trenta la Lancia era presente in tutti i segmenti del mercato. Parallelamente alla produzione di automobili fu incrementata quella di veicoli industriali e per trasporto passeggeri. Negli anni Venti si continuarono a costruire esemplari della vecchia serie Jota, sempre basata sul motore da 4940 cm3 che aveva fatto le fortune della casa, ma usciva anche, nel 1927, un nuovo telaio progettato appositamente per autobus, l'Omicron. Nel decennio successivo, invece, si affermò la serie dei Ro, quasi tutti con motore diesel.

Il vertice di innovazione toccato con la Lambda non fu più raggiunto con i modelli successivi; numerose furono però le soluzioni originali e tutta l'attività costruttiva si svolse nel segno dell'eccellenza tecnica, avendo come costante riferimento obiettivi quali la sicurezza, le esigenze di comodità del guidatore e dei passeggeri, un favorevole rapporto peso-potenza e un alto rendimento del motore. La speciale attenzione alla variabile tecnica non attenuava comunque la sensibilità per i segnali del mercato.

Anche se la scocca portante restava la più significativa innovazione dell'azienda, tuttavia con la Dilambda, l'Astura e l'Artena il L. preferiva tornare alla soluzione del telaio separato. Non era ancora riuscito a risolvere il problema della carrozzeria portante per la forma "berlina", richiesta da coloro che compravano vetture di rappresentanza; inoltre alla fine degli anni Venti le carrozzerie speciali erano di gran moda. In questa prospettiva il L. sostenne la nascita, il 30 maggio 1930, della Carrozzeria Pinin Farina che già nello stesso anno rivestì cinquanta Dilambda.

Non bisogna credere che nell'attività costruttiva di quegli anni siano mancati insuccessi, quali lo sfavorevole confronto fra un motore di grandi dimensioni e la pesantissima combinazione telaio-carrozzeria della Dilambda cui mancarono alcune raffinatezze per poter essere paragonata a una Rolls-Royce. Tali incidenti di percorso non sembrarono tuttavia nuocere alla fama della casa; anzi in quegli anni si consolidò la figura del "lancista".

Il L. ebbe un ruolo di assoluta centralità nella vita dell'impresa: l'aveva fondata, ne aveva ideato l'inconfondibile indirizzo produttivo, ne era il leader carismatico. Intenso era il suo impegno in campo squisitamente tecnico, che lo portava a essere l'animatore, l'ispiratore, l'inflessibile controllore del gruppo di progettazione. Di pari importanza la sua funzione sociale nel microcosmo dell'azienda. Per gli operai era il capo che conosceva di prima mano le fatiche dell'officina, presente di continuo in stabilimento, disponibile al colloquio diretto; per gli impiegati, con i quali intratteneva una fitta corrispondenza, era il garante dell'equità interna. Il L. non cessava di alimentare il mito delle sue origini: era il collaudatore finale delle sue automobili - ne provava una ogni giorno - in grado di compiere rari virtuosismi. Sul lavoro era un padrone vecchio stile, di modi spicci e talvolta duri, ma anche disponibile ad avvisare personalmente a una a una le famiglie dei suoi collaudatori quando questi tiravano fino all'alba per le prove.

Il pieno controllo dell'imprenditore sull'azienda era sottolineato dal fatto che, nell'assetto proprietario, non risultavano altre presenze se non di familiari o di amici di lunga data, come i Vaccarossi: la trasformazione della Lancia in società per azioni decisa nel 1930 non fu un evento di importanza sostanziale. Alla forma di impresa familiare che si affidava soprattutto all'autofinanziamento corrispose negli anni Trenta uno sviluppo graduale della fabbrica di via Monginevro, che tuttavia sembrava disporre, per gli standard dell'epoca, di tutti i reparti necessari alla costruzione dell'automobile.

A cavallo del 1930 il L. tentò di trasformare la sua impresa in una multinazionale: nel 1927 fu costituita la Lancia Motors of America, l'anno successivo la Lancia England, mentre nel 1931 la consorella francese Lancia Automobiles. Gli esiti furono modesti. L'azienda americana venne travolta nel disastro delle intraprese di F.M. Ferrari, il banchiere newyorchese principale promotore dell'iniziativa. La Lancia England non riuscì a superare i limiti costituiti dall'attività di vendita di vetture, parti di ricambio, riparazioni e assistenza. Né migliori risultati conseguì la Lancia Automobiles, che pure vantava una produzione diretta con uno stabilimento a Bonneuil-sur-Marne. Mancarono alla casa di Borgo S. Paolo le risorse finanziarie e l'estesa rete di manager indispensabili a garantire il successo di una simile esperienza, come dimostrava il contemporaneo esempio della Fiat. Inoltre, nei paesi stranieri, date le caratteristiche di qualità e di prezzo dei modelli che l'azienda offriva, la competizione era molto più severa che in Italia.

Rispetto alle attività delle consociate estere un'importanza molto maggiore per la Lancia ebbe la domanda pubblica di veicoli pesanti. Fra il 1927 e il 1936 si stabilì un proficuo rapporto con il governatorato di Roma alla cui azienda tramviaria - l'ATAG - la Lancia fornì un autotelaio progettato specificamente per il trasporto passeggeri, l'Omicron, con un motore più potente - 7060 cm3 a 6 cilindri verticali in linea - di quello utilizzato dai precedenti veicoli della casa. Un'altra commessa pubblica di un certo rilievo prima della grande crisi venne dall'Unione Sovietica, alla quale fra il 1928 e il 1931 furono vendute alcune centinaia di camion e di autobus che dettero un sostanziale contributo ai bilanci di quegli anni. La produzione di veicoli industriali conobbe un'impennata dopo il 1935 con la congiuntura determinatasi con la guerra in Africa orientale e con la politica di riarmo, tanto che fra il 1935 e il 1939 il 40% del fatturato proveniva dalla vendita di autocarri.

Dal tono dei documenti ufficiali della società sembra di cogliere un rapporto privilegiato con il regime, che in campo automobilistico non nascondeva la sua preferenza per le quasi artigianali Lancia, Alfa Romeo, Bianchi, rispetto alla Fiat di incontrollabili dimensioni. Nel febbraio 1932 sulla rivista del sindacato Il Lavoro fascista apparve un articolo di elogio senza riserve per l'impresa del L. e nell'ottobre dello stesso anno il duce, in visita a Torino per il "decennale", volle recarsi nello stabilimento della Lancia, peraltro non incluso nelle visite ufficiali. Qualche prezzo per i buoni rapporti con il potere politico bisognò pur pagarlo. Nel 1935 le pressioni del governo costrinsero il L., che pure aveva necessità di ampliarsi, a costruire uno stabilimento a Bolzano, dove con ogni probabilità non sarebbe andato spontaneamente. Tutto ciò nell'ambito delle iniziative dispiegatesi con la legge n. 1621 del 28 sett. 1934 che istituiva una zona industriale a Bolzano con il chiaro obiettivo di attenuare la schiacciante superiorità demografica dell'elemento etnico tedesco nella provincia. Le difficoltà dei collegamenti con Torino e la scarsità di maestranze qualificate resero problematico l'efficiente funzionamento della fabbrica.

In generale la domanda pubblica nella seconda metà degli anni Trenta finì per creare difficoltà di un certo rilievo per la Lancia. Nonostante l'impegno nella costruzione di nuovi impianti apparvero segni di saturazione produttiva. Nel 1935 fu raggiunto il record di 7454 vetture, ma gli autocarri fabbricati furono solo 631; l'anno successivo alla punta massima di 1878 veicoli industriali corrisposero meno di 3000 automobili: sembrava emergere l'incapacità dell'azienda di marciare a pieno regime nei due comparti. Altri ostacoli erano invece legati all'indirizzo produttivo perseguito dopo il 1935: il "cliente-Stato" costrinse di frequente a registrare crediti differiti e quindi un consistente aumento di debiti con i fornitori e con le banche.

Il L. morì all'improvviso, stroncato da un infarto, il 15 febbr. 1937 nella sua abitazione torinese.

La guida dell'azienda fu assunta dalla moglie Adele Miglietti Lancia, che era stata la sua segretaria, coadiuvata da alcuni stretti collaboratori del L. secondo una precisa divisione dei compiti. Il L. lasciava una solida condizione economica e soprattutto consolidate routines che consentirono di mantenere nel panorama dell'automobilismo italiano la posizione ottenuta dal primo dopoguerra. Il grande cambiamento degli anni Cinquanta fece avvertire la mancanza delle sue capacità imprenditoriali, che nessuno né in famiglia né fra i maggiori dirigenti della società fu in grado di sostituire. Iniziò allora quell'inarrestabile declino dell'azienda che ne provocò l'acquisizione da parte della FIAT nel 1969.

Pur senza occupare cariche pubbliche di particolare rilievo, il L. fu un personaggio rispettato della comunità degli affari torinese e nel 1920 fu nominato cavaliere del lavoro. Da sempre appassionato di musica, nel 1928 era entrato nel consiglio di amministrazione del Teatro Regio.

Fonti e Bibl.: Essenziale la consultazione dell'Archivio storico Lancia, conservato a Torino, con particolare riferimento alle sezioni: I, Consiglio di amministrazione; II, Presidenza - amministratore unico; III, Presidenza - Direzione generale; IV, Produzione; VII, Commerciale; IX, Amministrazione. Per la biografia del L. è fondamentale Nell'anniversario della morte di V. L., Torino 1938 (in partic. C. Fogolin, Ricordi su V. L., pp. 11-58); per l'evoluzione tecnica dei modelli W.H.J. Oude Weernink, La Lancia, Milano 1994; per la storia della Lancia, F. Amatori, Impresa e mercato. Lancia, 1906-1969, Bologna 1996.

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