VISCONTI VENOSTA, Emilio e Giovanni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VISCONTI VENOSTA, Emilio e Giovanni

Umberto Levra

VISCONTI VENOSTA, Emilio e Giovanni (Gino). – Nacquero a Milano rispettivamente il 22 gennaio 1829 e il 4 settembre 1831, secondogenito e terzogenito di Francesco e di Paola Borgazzi.

I due fratelli appartenevano a una antica famiglia nobiliare valtellinese originaria di Grosio, stabilitasi poi anche a Tirano. Il ramo dei Venosta, già menzionato sin dal XII secolo, ottenne nel 1419 dal duca di Milano Filippo Maria Visconti di aggiungere al cognome Venosta il cognome Visconti e di inquartarne le armi. Era importante per i Visconti il rapporto con una famiglia di grande peso in Valtellina, che era strategicamente rilevante per i passi alpini verso il Centro Europa.

Dopo l’annessione della Valtellina nel 1815 al Regno Lombardo-Veneto, ottenuta nel 1816 la conferma di nobiltà, il nonno dei due fratelli, Nicola, si trasferì a Milano nel 1823, pur continuando la famiglia a conservare i cospicui possedimenti terrieri in Valtellina, con la quale rimase forte pure il legame affettivo. Il padre Francesco, amico di Cesare Correnti e studioso della statistica valtellinese, morì improvvisamente a quarantotto anni nel 1846, dopo che il primogenito Nicola era già morto nei primi anni di vita e il quartogenito Enrico era affetto da gravi problemi di salute.

Emilio e Giovanni, con meno di tre anni di differenza di età, crebbero in stretta simbiosi e rimasero legatissimi per tutta la vita, con caratteri diversi e in un certo senso complementari. Da giovani avevano entrambi i capelli rossicci, che Emilio accompagnava con lunghi favoriti accarezzati frequentemente e che da vecchio coltivava sempre più imponenti, i quali, insieme agli immancabili pantaloni bianchi, gli conferivano l’aspetto di un ‘gufo bianco’, come sembrò allo storico dell’arte Adolfo Venturi. Fin da giovane Emilio emanava un’impressione di autorevolezza, di equilibrio, di flemma britannica. Misurato, sempre calmo, signorile nei modi, parco di parole, era in realtà dentro di sé molto emotivo e impressionabile. Mai avventato, anche per una certa irresolutezza e indolenza, trasformava in arma tattica l’attesa che i fatti si svolgessero secondo la loro forza interna.

Giovanni, conosciuto anche come Gino, era invece estroverso, brillante, affabulatore ammiratissimo nei salotti milanesi, dotato di maggiore senso pratico di Emilio e forse anche di più acuto fiuto politico. Dietro le quinte svolse una sorta di tutorato di Emilio nelle questioni pratiche e domestiche. E ne fu pure, in molte occasioni, consigliere politico, oltre che curatore del collegio elettorale in Valtellina. Gestì inoltre l’immagine pubblica di Emilio, che nel 1904 consegnò, per gli anni dei comuni esordi risorgimentali, ai Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute 1847-1860, uno degli esempi più brillanti della memorialistica risorgimentale, con il duplice intento educativo delle giovani generazioni e apologetico dei valori e dell’egemonia moderata.

L’ingresso nell’azione politica dei due fratelli Visconti Venosta avvenne nel fuoco delle Cinque giornate milanesi del 18-22 marzo 1848, con la partecipazione diretta di Emilio e l’osservazione attenta del sedicenne Giovanni. Nel vivacissimo conflitto ideale in atto, tra il filopiemontesismo moderato, il federalismo di Carlo Cattaneo, il repubblicanesimo unitario di Giuseppe Mazzini, i due fratelli furono senza esitazioni con quest’ultimo e sempre ostili a Cattaneo. Durante la campagna austro-piemontese, Emilio si arruolò a Bergamo con i garibaldini e dopo la sconfitta riparò a Lugano, mentre Giovanni con il resto della famiglia andò a Bellinzona. In Svizzera entrambi ebbero frequenti contatti con Mazzini. Rientrati a Milano, nell’inverno 1849-50 si impegnarono in attività cospirative e di propaganda, mentre proseguiva alla luce del sole la frequentazione del salotto di Clara Maffei. Emilio collaborava a Il Crepuscolo dell’amico Carlo Tenca e, in segreto, alla mazziniana Italia del Popolo a Losanna. La sua figura appariva però già ai contemporanei quella di un moderatore tra le diverse fazioni, ed era accetta sia al patriziato liberale, per ragioni di appartenenza cetuale, familiari, di educazione; sia ai mazziniani, certi della sua fedeltà democratica. La quale era però agli ideali di autentica democrazia e ben poco alla prassi insurrezionale. Qui stava l’essenza del mazzinianesimo in quegli anni di Emilio, l’adesione al pensiero più che all’azione rivoluzionaria. Anche per lui il momento di rottura con Mazzini avvenne con il fallito moto insurrezionale milanese del 6 febbraio 1853, che tentò invano di scongiurare. Ciò però non significò subito l’avvicinamento al Piemonte, che richiese cinque anni in Emilio e tre in Giovanni. Pur avendo ancora in corso gli studi di legge all’Università di Pavia, discontinui per la chiusura governativa anche di quella sede, decisero di allontanarsi per un po’ da Milano e intrapresero il loro tour d’Italie fino in Sicilia. Seguì nell’estate del 1855 un viaggio a Parigi per l’Esposizione internazionale. Intanto però anche in Italia il quadro politico si stava rimettendo in movimento. La vittoria piemontese in Crimea, la politica nazionale cavouriana emersa nel Congresso di Parigi nel 1856, la crisi dei democratici nel 1857 portarono Giovanni, sin dall’estate del 1856, a sciogliere le riserve sul Regno sardo e ad aderire nel 1857 alla Società nazionale italiana di Daniele Manin e Giorgio Pallavicino Trivulzio, in modo convinto e fattivo. Negli anni precedenti la sua popolarità era andata crescendo nei salotti milanesi, per la vena brillante di compositore di parodie per marionette, fino al felice scherzo poetico dell’autunno del 1856, La partenza del crociato, con l’immediata notorietà del personaggio del «prode Anselmo», privo però di intendimenti politici. In quei salotti incontrò pure la marchesa Laura d’Adda Salvaterra, che sposò nel 1882 e da cui non ebbe figli.

Emilio invece esitava ancora, se non proprio sull’altra sponda almeno a metà del guado. Continuava a considerarsi appartenente allo schieramento democratico, pur lavorando per un fronte nazionale comune con i moderati. Nel 1857 riprese l’attività politica diretta, con la raccolta delle offerte per il monumento all’esercito sardo, con la preparazione di un’insurrezione nelle provincie lombarde, con l’organizzazione nel 1858 di un deposito di armi in Svizzera. Ma l’insurrezione non vi fu e tra l’estate e la fine del 1858 Emilio si convinse che ormai fosse in atto un’unificazione dell’opinione nazionale italiana in senso filopiemontese. Dopo i funerali a Milano di Emilio Dandolo nel gennaio del 1859, ricercati dalla polizia, i due fratelli fuggirono, per vie diverse, a Torino.

Qui il loro inserimento tra gli esuli lombardi di primo piano fu immediato e la fiducia piena; nessuno chiese loro un’abiura del passato repubblicano-democratico, né la fecero. Giovanni si dedicò all’arruolamento dei volontari, ma dopo l’armistizio di Villafranca si dimise da ogni incarico e tornò a Milano. Emilio invece svolse in due anni vari incarichi di rilievo, con molta soddisfazione di Camillo Benso di Cavour: prima fece parte, con Giovanni, della Commissione Giulini per il progetto di governo provvisorio in Lombardia; poi nel maggio-giugno del 1859 esercitò la funzione di regio commissario per la Lombardia presso i Cacciatori delle Alpi, cioè di controllore politico e di organizzatore del governo civile nei territori occupati. Tra l’autunno del 1859 e il marzo del 1860 fu segretario a Modena del dittatore Luigi Carlo Farini; nell’agosto del 1860 fu inviato a Napoli per collaborare alla fallita insurrezione filosabauda prima dell’arrivo di Giuseppe Garibaldi; poi ancora fu segretario della luogotenenza di Farini a Napoli dal novembre del 1860 al gennaio del 1861. Intanto erano arrivati pure i primi incarichi in politica estera, nel gennaio-febbraio del 1860, di ragguagliare i rappresentanti diplomatici sardi, a Parigi, sulle annessioni e, a Londra, sulla situazione napoletana. Le qualità dimostrate gli valsero, al ritorno, la nomina nel Consiglio del Contenzioso diplomatico al ministero degli Esteri. Seguì, tra l’11 dicembre 1862 e il 24 marzo 1863, il balzo a soli trentatré anni a segretario generale del ministero degli Esteri, dopo che già nelle elezioni del marzo del 1860, le ultime del Regno di Sardegna, era stato eletto deputato dal fedele collegio di Tirano.

Con l’Unità le vite pubbliche dei due fratelli Visconti Venosta si separarono, non certo quelle private e nemmeno la consonanza ideale: Emilio deputato e ministro a Torino, a Firenze, a Roma, nella politica nazionale e internazionale; Giovanni a Milano, nella politica e nell’amministrazione locale, tra gli esponenti più in vista della consorteria conservatrice, e altresì nella cultura, nella beneficenza, nella finanza, nelle industrie moderne. Fu breve e del tutto silente la sua unica esperienza di deputato nel 1865-67: lo scranno alla Camera non faceva per lui.

Con la nomina a ministro degli Esteri (24 marzo 1863-24 settembre 1864) nel governo Minghetti, era intanto iniziata la straordinaria vicenda politica e diplomatica di Emilio, il più importante ministro degli Esteri dell’Italia liberale, ministro otto volte per dodici anni complessivi alla Consulta, e pure il più longevo del Regno d’Italia e altresì della Repubblica italiana. Sempre convintamente esponente della Destra lombarda, fu un diplomatico di alta scuola nella tradizione classica della ricerca dell’equilibrio europeo, abile e duttile negoziatore, adatto a guidare la politica estera di uno Stato che aveva bisogno di assestamento, di pace, di progresso economico senza grandi spese militari, di uscire dall’isolamento in Europa, di far accettare definitivamente i fatti compiuti, senza impazienze e precipitazione. Pur proclamandosi sempre cavouriano fedelissimo, non era uomo delle risoluzioni decise, degli ardimenti e dei rischi nelle partite temerarie. Fu però il realizzatore del lascito probabilmente più importante dell’intero periodo di governo della Destra storica, la politica estera. «Indipendenti sempre, ma isolati mai» fu l’enunciazione alla Camera del suo obiettivo il 26 marzo 1863, a due soli giorni dall’insediamento come ministro.

Le questioni centrali che ebbe subito dinanzi rimanevano quelle irrisolte dalla morte di Cavour, cioè di Roma e di Venezia. La seconda appariva al momento irrisolvibile senza una nuova guerra all’Austria, mentre la prima richiedeva a monte un allentamento della tensione con la Francia, non disponibile ad abbandonare la protezione del papa. Perciò Visconti Venosta, francofilo come gran parte degli uomini della Destra, sostenne la stipula della Convenzione franco-italiana del 15 settembre 1864, nonostante la consapevolezza delle ambiguità del trattato e delle gravi ripercussioni che esso avrebbe avuto a Torino per il trasferimento della capitale a Firenze, al punto che il governo Minghetti fu costretto alle dimissioni dallo stesso sovrano. Tornato agli Esteri per la sua seconda esperienza (28 giugno 1866-10 aprile 1867), nel gabinetto Ricasoli, gli toccò gestire diplomaticamente l’umiliazione e il discredito dell’Italia per l’infelice conduzione della guerra regia nel 1866, che pure, grazie alle vittorie prussiane, diede il Veneto all’Italia, e assecondò la proposta di Otto von Bismarck di continuare l’alleanza anche dopo la fine del conflitto, pur diffidando dalla politica bismarckiana della forza e dalla crescente potenza tedesca. Fu durante la sua terza esperienza (14 dicembre 1869-10 luglio 1873), nel governo Lanza-Sella, e la quarta (10 luglio 1873-25 marzo 1876), nel governo Minghetti, che Visconti Venosta realizzò i migliori risultati in politica estera. La questione romana, mal gestita da Giuliano Rattazzi nel 1867, dopo l’epilogo di Mentana era tornata in alto mare. La guerra franco-prussiana, il crollo del Secondo Impero, l’avvento della repubblica in Francia nel 1870 a cui seguì la proclamazione del Secondo Reich tedesco il 18 gennaio 1871, la rimisero in pista, insieme allo stravolgimento del precedente equilibrio europeo. Nonostante le resistenze di Visconti Venosta sull’uso della forza, prevalse la linea di Quintino Sella e Giovanni Lanza e le truppe italiane, tra il 12 e il 20 settembre 1870, occuparono lo Stato pontificio e Roma, dopo il ritiro delle truppe francesi.

A fatti compiuti, l’impegno del ministro degli Esteri, tra l’autunno 1870 e la primavera 1871, fu quello di diplomatizzare l’intervento militare, sia rassicurando le potenze straniere sulle garanzie al pontefice di piena libertà e indipendenza nell’esercizio del potere spirituale, sia ribadendo l’irreversibilità dell’atto, specialmente di fronte all’ostilità dell’opinione pubblica cattolica. La risoluzione della questione romana; la successiva legge delle Guarentigie del 13 maggio 1871, cioè un atto unilaterale temporaneo e di compromesso tra la Destra e la Sinistra, in attesa che si allentasse l’assoluta intransigenza di Pio IX; la verifica che le cancellerie europee ormai ritenevano impossibile una restaurazione del potere temporale; il trasferimento dei ministeri e della corte a Roma nel giugno-luglio 1871, furono tutti passaggi che diedero a Visconti Venosta e a gran parte della Destra la convinzione di avere adempiuto al lascito di Cavour. E contemporaneamente alimentarono l’opinione che l’Italia potesse ora collocarsi tra le grandi potenze europee, stabilendo con tutte buone relazioni, ma senza legarsi strettamente a una sola. Gli obiettivi divenivano la conservazione della pace, la prosecuzione di una politica di raccoglimento, la tutela dell’ordine sociale, dopo la minaccia della Comune di Parigi. Tuttavia la ricerca di Visconti Venosta di equilibrio e buoni rapporti con Francia e Germania stava diventando pura utopia, sul piano internazionale e su quello interno. La cancelleria tedesca era irritata per la pretesa autonomia dell’Italia nella rete di alleanze per perpetuare l’isolamento francese. Nella Francia repubblicana, con una maggioranza conservatrice e legittimista, cresceva l’ostilità verso l’Italia, per la neutralità nel 1870 e per Roma. All’interno, le critiche alla politica di tranquillità e di non allineamento erano sempre più vivaci da parte della Sinistra liberale, fautrice di una grande politica estera a fianco della Germania, sostenitrice dell’irredentismo antiaustriaco, ostile alla priorità assegnata al risanamento del bilancio e non al potenziamento delle forze militari. Quanto sfuggiva a Visconti Venosta era che, dopo la svolta europea del 1870, una politica di pace, di equilibrio, di raccoglimento diveniva sempre più difficile, mentre si stava chiudendo l’età delle nazioni e si stava aprendo quella dei nazionalismi contrapposti. Come gli sfuggiva che, in prospettiva, sarebbe stato sempre più difficile contemperare una politica di pace con la condizione di grande potenza, che peraltro non era ancora di fatto riconosciuta all’Italia. Gli esiti positivi delle visite, tra il 17 e il 26 settembre 1873, di Vittorio Emanuele II a Vienna e a Berlino, parvero a Visconti Venosta un riconoscimento dell’Italia come fattore di equilibrio, ma in realtà erano gli equilibri a divenire sempre più instabili, a cominciare dai Balcani, e l’aspirazione a una politica di pace era piuttosto la necessità di un’Italia debole e in ritardo, più che una linea di politica estera liberale.

Con la caduta del governo Minghetti e della Destra il 18 marzo 1876 e l’avvento della Sinistra, anche Visconti Venosta lasciò il governo e continuò con assiduità a svolgere il ruolo di deputato. Intanto, pochi mesi dopo l’uscita dal governo, era stato creato marchese il 12 ottobre 1876, in occasione del matrimonio il 25 ottobre 1876 con Luisa Alfieri di Sostegno, pronipote di Cavour, la quale non solo portò in dote un cospicuo patrimonio, ma, dopo la morte del padre Carlo nel 1897 e l’estinzione della linea maschile dei Sostegno, nel 1904 fu riconosciuta erede nobiliare degli Alfieri di Sostegno e dei Benso di Cavour. Il 7 giugno 1886 giunse a Emilio la nomina a senatore.

Dal canto suo il fratello Giovanni, nei decenni dopo l’Unità, era divenuto una figura di spicco a Milano. Si era impegnato sin dal 1860 e a lungo nell’amministrazione comunale come consigliere e assessore e pure come consigliere della provincia di Sondrio, oltre che come sindaco del comune di origine della famiglia, Grosio. Fu tra i promotori del giornale La Perseveranza, portavoce della Destra milanese e del patriziato agrario lombardo, e continuò a sostenerne la linea dell’arroccamento e della intransigenza anche dopo la caduta della Destra storica, da presidente dell’Associazione costituzionale. Concorrevano pure i suoi vari impegni in ambito culturale, in difesa della legittimazione della primazia moderata risorgimentale, con la nascita e la presidenza del Museo del Risorgimento di Milano, la fondazione della Società storica lombarda, la presidenza della Società degli autori ed editori, accanto a una intensa attività benefica.

Arguto e applaudito conferenziere, Giovanni fu anche letterato gradevole, con due raccolte di novelle, con un ritorno alla passione giovanile per le caricature e le parodie, con un romanzo di attardata scuola manzoniana, in implicita opposizione al verismo, e con i già ricordati Ricordi di gioventù.

Pure Emilio, in quei decenni e nella lontananza dagli incarichi di governo, si impegnò in molte attività culturali, da socio della Società geografica italiana, dell’Istituto lombardo di scienze e lettere, da presidente dell’Accademia di Brera, da conservatore del Museo archeologico di Milano, da membro della commissione consultiva del Museo Poldi Pezzoli di Milano e, dal 1897, dopo la morte del fondatore Carlo Alfieri, suo suocero, da presidente dell’Istituto di scienze sociali Cesare Alfieri di Firenze. Inoltre Emilio, con la consulenza dell’amico Giovanni Morelli, diede spazio pure alla passione per il collezionismo, raccogliendo una sceltissima antologia delle principali scuole pittoriche italiane tra Quattro e Cinquecento, con l’aggiunta di maioliche, oreficerie, tappezzerie fiamminghe, sculture lignee.

L’unica differenza di rilievo tra i due fratelli fu la funzione svolta da Giovanni come uomo della finanza moderna, nei consigli di amministrazione di banche e delle nuove società elettriche, telefoniche, assicurative, ferroviarie. Ciò però non impedì le pesanti perdite subite dai Visconti Venosta, insieme a tanti proprietari terrieri lombardi, nel tracollo della Banca generale tra il 1892 e il 1894, nell’ambito della crisi del sistema bancario italiano per il fallimento della speculazione edilizia.

Dopo vent’anni Emilio ritornò a capo degli Esteri nel 1896 (20 luglio 1896-14 dicembre 1897), nel terzo governo presieduto da Antonio Starrabba di Rudinì, con il quale vi era piena consonanza sulla necessità di una politica coloniale di raccoglimento, di un decentramento amministrativo, di un miglioramento dei rapporti con la Francia, portati da Francesco Crispi al punto di rottura. Fu l’accordo italo-francese sulla Tunisia del 30 settembre 1896 a rappresentare quello che lo stesso Visconti Venosta definì «il colpo di timone alla barca della nostra politica estera» (Serra, 1950, p. 51), cioè una virata per un nuovo corso dell’azione internazionale dell’Italia, pur nella fedeltà alla Triplice Alleanza, ma compatibile con la collaborazione con la Francia nel Mediterraneo.

Mentre la tensione sociale nel Paese andava aumentando, per poi culminare nei moti del 1898 in tutta la penisola, con epicentro a Milano nel maggio, già a dicembre 1897, per lo sfaldamento della maggioranza di governo, il terzo governo di Rudinì si era dimesso, dando vita al quarto ministero di Rudinì, a cui la Destra lombarda revocò l’appoggio in seguito all’ingresso nella maggioranza e nel gabinetto della Sinistra zanardelliana. Visconti Venosta però rimase agli Esteri (14 dicembre 1897-1° giugno 1898), perché puntava soprattutto a realizzare uno dei principali obiettivi della consorteria lombarda, la restrizione dell’elettorato amministrativo, intesa come contrappeso all’allargamento del suffragio elettorale politico nel 1882, con il fine di restituire ai maggiori censiti e ai proprietari fondiari il controllo sulla società locale. Ma quegli stessi mesi furono per il ministro degli Esteri pure di cupa disperazione e di ottenebramento, per la morte il 17 gennaio 1898 del figlio Francesco di diciassette anni, dopo che già nel 1886 era scomparsa la figlia Paola di otto anni. Di fronte alle resistenze zanardelliane sulla restrizione dell’elettorato amministrativo, il 28 aprile si dimise. Poi ritirò le dimissioni, dinanzi all’apice dei tumulti, ma le ridiede il 28 maggio, per l’aggiungersi al dissenso precedente dell’estensione della repressione anche al movimento cattolico e non solo a socialisti e repubblicani, dal momento che per la Destra lombarda i cattolici erano ormai gli alleati, naturali ma subalterni, contro la sovversione. Le sue dimissioni portarono alla caduta del governo. Richiamato agli Esteri nel secondo ministero Pelloux (14 maggio 1899-24 giugno 1900), toccò a lui liquidare l’improvvida iniziativa avviata dal suo predecessore, di una politica espansionistica in Cina, condotta con improvvisazione e faciloneria. Caduto Pelloux, Visconti Venosta rimase ancora agli Esteri, per l’ottava e ultima volta (24 giugno 1900-15 febbraio 1901), nel governo di decantazione presieduto da Giuseppe Saracco, e portò a compimento il processo di riavvicinamento alla Francia con lo scambio di note con l’ambasciatore a Roma Camille Barrère il 14-16 dicembre 1900. Un altro importante scambio di note fu nel febbraio 1901 con l’Austria, per il mantenimento dello status quo in Albania.

Con le dimissioni del governo Saracco nel febbraio 1901 uscì definitivamente di scena, a settantadue anni, Emilio Visconti Venosta, il cui canto del cigno fu ad Algeciras, da gennaio ad aprile 1906, a capo, tra la generale ammirazione, della delegazione italiana alla Conferenza internazionale per appianare il contrasto franco-tedesco sull’espansionismo in Marocco. In quello stesso anno, il 1° ottobre, morì a Milano il fratello Giovanni. Emilio lo seguì, a Roma, il 28 novembre 1914.

Da pochi mesi era scoppiata la prima guerra mondiale, che avrebbe definitivamente sovvertito il mondo conosciuto dai due fratelli Visconti Venosta.

Scritti e discorsi. Emilio Visconti Venosta non lasciò scritti editi, salvo pochi articoli e alcuni discorsi elettorali e parlamentari. Di Giovanni Visconti Venosta si ricordano, oltre alle ballate e parodie pubblicate occasionalmente e più volte ristampate: Novelle, Firenze 1871; Il curato d’Orobio. Racconto, Milano 1886; Nuovi racconti, Milano 1897; Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute 1847-1860, Milano 1904, più volte ripubblicati per le scuole.

Fonti e Bibl.: Le carte di Emilio e Giovanni Visconti Venosta e della famiglia sono conservate a Santena nell’Archivio Visconti Venosta presso la Fondazione Camillo Cavour (soprattutto per il XIX secolo); a Grosio, nell’Archivio comunale (carte di famiglia XIII-XX secolo e carteggio di Giovanni con la moglie Laura d’Adda); presso l’Archivio di Stato di Sondrio nell’Archivio Visconti Venosta (carte di famiglia XIII-XX secolo); a Milano presso il Museo del Risorgimento nel Carteggio Giovanni Visconti Venosta - Lana; per l’attività di ministro degli Esteri di Emilio nell’Archivio storico del ministero degli Affari esteri, nell’Archivio centrale dello Stato di Roma e nella pubblicazione dei Documenti diplomatici italiani. Mancano biografie di Emilio e di Giovanni. Sui rapporti tra i due fratelli: C.M. Fiorentino, Il carteggio tra i fratelli E. e G. (Gino) V. V., in Studi piemontesi, XLVI (2017), 1, pp. 15-24. Su Emilio ministro degli Esteri, oltre alle storie generali e della politica estera, alle voci enciclopediche, alle due sbrigative commemorazioni alla Camera e al Senato il 3 dicembre 1914: F. Cataluccio, La politica estera di E. V. V., Firenze 1940; E. Serra, Camille Barrère e l’intesa italo-francese, Milano 1950; S.W. Halperin, Diplomat under Stress. V. V. and the crisis of July, 1870, Chicago-London 1963; E. Serra, La questione tunisina da Crispi a Rudinì ed il «colpo di timone» alla politica estera dell’Italia, Milano 1967; F. Chabod, Storia della politica estera italiana del 1870 al 1896, II, Bari 1971, pp. 649-671; C.M. Fiorentino, V. V. e il Venti settembre, in Id., La questione romana intorno al 1870. Studi e documenti, Roma 1992, pp. 13-43; Id., E. V. V. e la questione romana. L’esordio ministeriale e la Convenzione di settembre (1863-1864), in Annali di storia moderna e contemporanea, V (1999), pp. 101-122. Sugli altri aspetti della biografia: G. Quazza, V. V. commissario di Cavour presso Garibaldi, in Miscellanea cavouriana, Torino 1964, pp. 269-313; E. Gusmeroli, Giuseppe Mazzini nel destino di due valtellinesi illustri, in Bollettino della Società storica valtellinese, XXXV (1982), pp. 137-194; E. Morelli, E. V. V. da Mazzini a Cavour, in Quaderni de Il Risorgimento, IV (1986), pp. 1-64; G. Angelini, La patria e le arti. E. V. V. patriota, collezionista e conoscitore, Pisa 2013. Su Giovanni Visconti Venosta, oltre ai riferimenti nelle storie di Milano e le introduzioni alle varie ristampe degli scritti letterari: E. Cantarella, «Cose vedute o sapute»: il Risorgimento di G. V. V., in Scritture di desiderio e di ricordo. Autobiografie, diari, memorie tra Settecento e Novecento, a cura di M.L. Betri - D. Maldini Chiarito, Milano 2002, pp. 350-361. Inoltre: Camera dei Deputati, Portale storico, https://storia.camera.it/ deputato/emilio-visconti-venosta-18290122#nav; https://storia.camera.it/deputato/giovanni-visconti-venosta-18321104#nav; Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale I senatori d’Italia, II, Senatori dell’Italia liberale, sub voce, http://notes9.senato.it/ web/senregno.nsf/V_l2?OpenPage.

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