VITIGE

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VITIGE

Claudio Azzara

– Nato presumibilmente attorno all’anno 500 in località ignota, fu re dei Goti dal 536 al 540. Della sua vita precedente l’elevazione al trono non si sa pressoché nulla, se non che proveniva da una famiglia non illustre e che si era distinto soprattutto per la sua abilità militare. Anche un suo zio, Uliteo, e un suo nipote, Uraia, rivestirono ruoli di comando nell’esercito goto.

Negli ultimi tempi del regno di Teoderico (morto nel 526) e con il successore Atalarico, Vitige dovette distinguersi in diverse azioni belliche, soprattutto nei Balcani, dove, tra l’altro, respinse un attacco dei Gepidi e degli Eruli contro la città di Sirmio; per tali meriti, ottenne l’elevata carica di comes spatharius dello stesso Atalarico e poi del nuovo re Teodato. In quegli anni egli fu anche incaricato di varie missioni diplomatiche, compresa una a Costantinopoli. Con lo scoppio nel 535 della guerra in Italia tra i Goti e l’Impero Romano d’Oriente, allora retto da Giustiniano, a Vitige fu affidato il comando delle truppe gote stanziate nel Lazio meridionale, chiamate ad arrestare l’avanzata dell’esercito nemico, guidato da Belisario, che aveva progressivamente occupato tutta l’Italia meridionale, fino a espugnare Napoli.

Alla fine di novembre del 536 i Goti deposero il re Teodato, cui si rimproverava la cattiva condotta della guerra e l’inerzia che aveva determinato la caduta di Napoli, sospettandolo perfino di tradimento. L’esercito goto radunato in località Regata, a nord-est di Terracina, elesse allora come nuovo re Vitige, innalzandolo sugli scudi tra le spade sguainate dei suoi, con un rito che Cassiodoro (Variae, a cura di A.J. Fridh, 1973, X, 31) afferma essere stato proprio della più antica e genuina tradizione della stirpe.

In questa testimonianza, oltre al forte richiamo all’identità gota, appare significativa la connotazione peculiarmente militare della regalità di Vitige, presentato come re guerriero, del resto scelto, con ogni probabilità, proprio per le sue comprovate capacità belliche in un frangente di pericolo, in netto contrasto con la figura del suo imbelle predecessore.

Teodato, alla notizia degli eventi di Regata, cercò di fuggire verso Ravenna, ma Vitige lo fece inseguire con l’incarico di riportarlo indietro ‘vivo o morto’ da un tale Optari, il quale, mosso da rancori personali contro Teodato, una volta raggiuntolo lo assassinò. Vitige fece anche gettare in carcere il figlio di Teodato, di nome Teodegisclo.

Subito dopo l’elezione Vitige entrò a Roma, ma preferì lasciare in città solo un presidio e rientrare con il resto dell’esercito a Ravenna, la città regia. A garanzia che i Romani serbassero la fedeltà ai Goti, egli portò via con sé alcuni senatori come ostaggi, ma, poco dopo la sua partenza, Belisario prese possesso senza sforzo di Roma, ben accolto dagli abitanti, mentre la guarnigione gota si dava alla fuga. Il generale imperiale provvide immediatamente a rafforzare le difese cittadine e si preoccupò anche di costituire una linea di sbarramenti lungo la via Flaminia, fino ai centri umbri di Perugia, Narni e Spoleto. Vitige aveva deciso di fare ritorno a Ravenna con lo scopo, innanzitutto, di riorganizzare e riarmare il proprio esercito e di proteggersi le spalle, in vista della ripresa delle ostilità con l’impero, concludendo le trattative di pace con i Franchi già avviate da Teodato.

L’accordo con i Franchi fu oneroso, perché comportò la rinuncia a ogni pretesa dei Goti sulla Gallia, la fine del protettorato da loro esercitato sugli Alamanni (che poco dopo compirono razzie nelle province settentrionali del regno goto) e il versamento di un’indennità di 2000 libbre d’oro; per contro, le truppe che si poterono così ritirare dai territori galli furono riunite al grosso dell’esercito, pronto a riprendere le ostilità contro gli imperiali in una condizione di superiorità numerica.

A Ravenna Vitige compì anche un altro atto, di grande rilevanza politica: dopo aver ripudiato la prima moglie (dal nome ignoto), sposò Matasunta, figlia di Amalasunta e nipote di Teoderico. Le nozze fornirono al suo potere quell’elemento di legittimità che le modeste origini familiari non gli garantivano, facendolo imparentare con la dinastia degli Amali, cui erano appartenuti i precedenti re dei Goti in Italia, e collegandolo più strettamente alla figura del grande Teoderico, da cui la nuova consorte discendeva.

Nel mese di febbraio del 537 Vitige guidò in persona l’esercito goto alla riconquista di Roma, avanzando lungo la via Salaria anziché lungo la Flaminia per aggirare i presidi colà istituiti da Belisario. Contemporaneamente il re aveva aperto un secondo fronte in Dalmazia, cercando invano di occupare l’importante città di Salona. Al più tardi ai primi di marzo i Goti posero il campo davanti alle mura di Roma, dando inizio a un assedio che si sarebbe protratto per più di un anno. Tagliato l’acquedotto per assetare i nemici, i Goti cercarono di bloccare ogni rifornimento tenendo sotto controllo le porte urbiche e le vie di collegamento. Belisario, per risparmiare sulle scorte alimentari, fece uscire dalla città, alla volta della Campania e della Sicilia, le donne, i bambini e numerosi schiavi, in modo da ridurre le bocche da sfamare e concentrare le risorse sui combattenti. Vitige gli offrì la resa promettendo salva la vita agli assediati in cambio della consegna della città, ma il generale rifiutò.

Belisario depose invece il papa Silverio, accusato di essere in combutta con i Goti, relegandolo in esilio (dove sarebbe poi morto), dopo averlo reso monaco, e sostituendolo con un nuovo pontefice più fedele a Costantinopoli, Vigilio. A Silverio fu contestato di aver fatto pervenire a Vitige alcune lettere, nelle quali gli si prometteva la consegna della città, ma rimane il serio dubbio che si trattasse di prove false, prodotte per giustificare un atto inaudito come la rimozione di un pontefice in carica, sgradito a Costantinopoli per la sua politica religiosa contro il monofisismo; lo stesso Procopio (De bello Gothico, a cura di J. Haury, 1963, II, 25) parla di semplici «sospetti». Furono allontanati da Roma pure alcuni senatori, anch’essi sospettati di intendersela con il nemico.

Dopo una ventina di giorni dall’inizio dell’assedio l’esercito goto di Vitige sferrò un attacco in massa contro le mura di Roma, venendo infine respinto dopo aspri e prolungati combattimenti. Anche le operazioni militari attorno alla città videro gli iniziali successi goti ribaltarsi in successive sconfitte.

In un primo tempo i Goti erano riusciti a impossessarsi di Porto, tagliando i rifornimenti via mare per Roma, e a controllare i flussi lungo la via Latina e la via Appia fortificando le strutture dei grandi acquedotti dell’Aqua Marcia e dell’Aqua Claudia. Ma in un secondo momento gli imperiali avevano occupato Tivoli e Terracina; da qui e da altri capisaldi muovevano incursioni che ostacolavano il vettovagliamento degli stessi Goti, colpiti quindi a loro volta dalla penuria di cibo, oltre che dalle malattie.

Nel mentre conduceva la guerra, Vitige si preoccupò di tenere aperti i canali diplomatici: tentò di avviare un dialogo direttamente con l’imperatore e con alti dignitari della corte costantinopolitana, come suggerito da Cassiodoro, e cercò di concordare con i generali imperiali in Italia una spartizione della penisola sulla base dello status quo territoriale, ma in entrambi i casi non concluse nulla. Di fronte alle difficoltà incontrate a Roma, e al fallimento della spedizione in Dalmazia, il re si risolse, infine, a stipulare un armistizio di tre mesi con Belisario, che andò però a vantaggio solo di quest’ultimo, in quanto diede fiato ai Romani colpiti dalla penuria di viveri e dalle epidemie scoppiate nella città assediata, consentendo loro di assicurarsi nuovi approvvigionamenti, soprattutto da Napoli, e rifornimenti di truppe fresche. Frustrato dalla resistenza dei Romani e dalle loro perdurante fedeltà all’impero, che probabilmente smentiva le sue aspettative, Vitige fece assassinare per vendetta i senatori che aveva preso in ostaggio, tranne pochi che riuscirono a sfuggirgli. Questo gesto, che sanciva drammaticamente la fine di ogni possibile collaborazione tra il potere goto e l’aristocrazia senatoria romana, forse concorse anche a determinare l’allontanamento dalla vita politica di Cassiodoro, dopo anni di leale servizio da lui fornito ai re goti.

Agli inizi del 538 Vitige sgomberò Porto, Centumcellae (Civitavecchia) e Albano, subito riprese dagli imperiali. Rotto l’armistizio, i Goti lanciarono una serie di vani assalti contro Roma, mentre Belisario contrattaccò saccheggiando il Piceno, dove fece molti prigionieri, spingendosi fino a Rimini, nella difesa della quale cadde lo zio del re, Uliteo. La stessa Ravenna era così minacciata da vicino e ciò indusse Vitige a togliere l’assedio a Roma, nel mese di marzo del 538, per rientrare in fretta nella città regia, a protezione della quale lasciò un forte presidio nel centro fortificato di Osimo.

Le forze imperiali, dopo aver incalzato i Goti in ritirata da Roma infliggendo loro gravi perdite, spostarono stabilmente il fronte principale in Umbria e nel Piceno, mentre ne aprirono un secondo nel Nord. Un esercito sbarcato a Genova nello stesso anno 538 si era portato fino a Milano, occupandola, puntando su Pavia, una delle principali roccaforti gote.

Vitige affidò la guida degli eserciti operanti nella pianura Padana al nipote Uraia, che riportò buoni successi; ma Milano sarebbe stata ripresa solo nella primavera del 539 con l’aiuto di alleati burgundi, i quali si lasciarono però andare a violenze contro la popolazione della città.

Alla metà del 538 l’esercito di Belisario si riunì nel Piceno con quello condotto in Italia da Narsete, determinando per la prima volta nel corso del conflitto la superiorità numerica degli imperiali sui Goti. Nei mesi seguenti, tuttavia, i Goti riuscirono a tener testa al nemico, la cui azione era resa meno efficace dai contrasti tra i due generali.

Le pesanti devastazioni belliche provocarono una grave carestia che si abbatté soprattutto sulla popolazione civile. Nella primavera del 539 Narsete venne richiamato a Costantinopoli e Belisario, rimasto unico comandante, scatenò un’offensiva su larga scala, mirata a tenere i Goti impegnati su più fronti, mentre si preparava l’assalto decisivo a Ravenna. Vennero poste sotto assedio e infine capitolarono, tra le altre, Osimo e Fiesole, in soccorso della quale non riuscì ad accorrere Uraia, tenuto impegnato nella pianura Padana dalle forze imperiali di base a Tortona.

Vitige, che Procopio (De bello Gothico, cit., II, 29) dipinge come sfiduciato e accusa di inerzia soprattutto per il mancato intervento a favore di Osimo e il rifiuto di affrontare il nemico in battaglia campale, fino a sostenere che i suoi stessi uomini lo disprezzavano per i ripetuti fallimenti, comprese che sul piano militare la partita era ormai persa e probabilmente per questo motivo cercò, piuttosto, di avviare un estremo giro di trattative. Chiese innanzitutto l’aiuto dei Longobardi, che però si rifiutarono di intervenire proclamandosi alleati dell’impero. Allora il re giocò un’altra carta inviando dei legati presso i Persiani, tradizionali nemici di Costantinopoli, nella speranza di convincerli a muovere guerra all’impero per obbligare quest’ultimo a ritirare truppe dall’Italia e a impegnarle in Oriente. Il rischio di una guerra con la Persia dovette preoccupare Giustiniano, che prospettò un possibile accordo di pace ai messi goti a Costantinopoli; ma a opporsi a tale soluzione fu Belisario, il quale doveva vedere vicina la vittoria sul campo.

Il quadro fu ulteriormente complicato dalle razzie compiute a danno di entrambi i contendenti nell’Italia settentrionale dai Franchi di Teodiberto, da ultimo indotti a ritirarsi dagli effetti della carestia e delle epidemie.

Successivamente, alla fine del 539, Belisario pose l’assedio a Ravenna, ma Uraia (costretto a rinunciare dalla caduta dei presidi goti nelle Alpi Cozie) non poté soccorrerla e si asserragliò a Pavia; Vitige ricevette allora l’offerta di aiuto di Teodiberto, che in cambio chiedeva la concessione di metà dell’Italia, una volta cacciati gli imperiali. Il re goto, che dei Franchi aveva già sperimentato l’inaffidabilità, rifiutò e preferì negoziare la resa con Belisario. Giustiniano, tutto preso dal pericoloso evolversi della situazione al confine persiano, aveva fretta di concludere la pace in Italia e offrì ai Goti di mantenere le regioni a nord del Po, purché lasciassero all’impero il resto della penisola. Ancora una volta fu Belisario a opporsi a tale soluzione, mirando alla resa totale dei Goti.

A detta di Procopio, a Belisario fu prospettata dai Goti la possibilità di assumere egli stesso il governo dei Goti e dei Romani d’Italia dopo la capitolazione di Vitige e rimane incerto se il generale abbia davvero considerato questa ipotesi, per poi scartarla, o se invece abbia voluto ingannare gli interlocutori dando loro a intendere di essere disposto a un simile passo per accelerarne la resa.

Nel maggio del 540 Vitige, ormai senza speranze, fu costretto a cedere: aprì le porte di Ravenna all’esercito nemico che entrò in città senza incontrare resistenza. Mentre ai guerrieri che erano accorsi alla difesa Ravenna da ogni dove fu accordato di rientrare incolumi alle proprie regioni di provenienza, il re goto fu fatto prigioniero e tradotto a Costantinopoli, assieme alla moglie Matasunta e forse a un figlio nato dal suo primo matrimonio (come sostiene il cronista Malalas), oltre che a numerosi aristocratici. Nella capitale imperiale fu spedito anche il tesoro dei re goti.

La guerra, che sembrava così terminata con la vittoria dell’impero, era invece destinata a riprendere di lì a breve e a durare per altri quattordici anni; arresosi Vitige, i Goti elessero subito al suo posto un nuovo re, Ildibado, comandante a Verona. Secondo Procopio (De bello Gothico, cit., II, 30) i Goti avrebbero offerto il regno a Uraia, ma questi lo avrebbe rifiutato per non far torto allo sfortunato zio, indicando egli stesso Ildibado come il candidato preferibile.

Vitige visse da prigioniero a Costantinopoli per altri due anni. Dopo la sua morte (542) la vedova Matasunta si risposò con Germano, nipote dell’imperatore Giustiniano.

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