AMBROSIO, Vittorio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 2 (1960)

AMBROSIO, Vittorio

Alberto Monticone

Nato a Torino il 28 luglio 1879, iniziò la carriera militare nell'arma di cavalleria. Quale comandante di squadrone prese parte alla campagna di Libia; nella prima guerra mondiale fu capo di Stato Maggiore della 3ª divisione di cavalleria, distintasi nella presa di Gorizia e durante il ripiegamento di Caporetto, e poi della 26ª divisione di fanteria nel corso dell'offensiva di Vittorio Veneto. Terminato il conflitto, tenne vari comandi, sempre nell'Arma di cavalleria, ed infine fu per tre anni comandante del corpo d'armata di Sicilia.

All'inizio della seconda guerra mondiale divenne comandante designato della II armata, che diresse nell'aprile 1941 nelle operazioni contro la Iugoslavia. Trovatosi, in seguito alla rapida disfatta iugoslava, a capo di truppe di occupazione in un delicato ambiente politico, indirizzò la propria azione piuttosto a favore dei cetnici e contro la violenza degli ustascia, in contrasto con la tendenza nazista che sosteneva la politica di questi ultimi.

Il 20 genn. 1942 venne chiamato a sostituire il generale M. Roatta nella carica di capo di Stato Maggiore dell'esercito; la scelta della sua persona parve fondata, più che su particolari doti strategiche, sul convincimento che l'A. non avrebbe creato difficoltà al potente capo di Stato Maggiore generale U. Cavallero, e avrebbe saputo destreggiarsi nei delicati rapporti delle alte gerarchie militari.

Dall'ottimo posto di osservazione offertogli dal nuovo incarico, l'A. si andò convincendo, specie dopo il fallimento delle operazioni in Africa settentrionale, della critica situazione militare dell'Asse e dell'Italia in specie. Nel gennaio 1943 esprimeva a G. Ciano la propria convinzione che la Germania avrebbe perduto la guerra, e si riprometteva che il ministro riferisse chiaramente a Mussolini sulla gravità del momento; il 10 febbraio successivo veniva designato a succedere al Cavallero quale capo di Stato Maggiore generale.

L'eredità del Cavallero era comunque assai gravosa, specialmente per l'A., poco assuefatto a prese di posizione politiche, e alla cui nomina aveva contribuito non poco la sua tendenza a scindere le proprie responsabilità da quelle dei Tedeschi e a non accettarne supinamente le direttive. Nell'assumere la carica, infatti, dichiarava a Mussolini che si sarebbe attenuto al criterio di ricondurre in patria le divisioni italiane sparse nei vari teatri di operazione d'Europa e di iniziare a "puntare i piedi'' con i Tedeschi.

Nei primi mesi della nuova attività l'A. andò illustrando a Mussolini le sempre maggiori difficoltà della guerra, soprattutto nell'imminenza dell'attacco alla Sicilia, e la conseguente necessità per l'Italia di non continuare a legare le proprie sorti a quelle della Germania. Benché il 10 giugno accennasse al generale Roatta, che tornava a dirigere lo Stato Maggiore dell'esercito, a possibili mutamenti di governo, l'A. sperò sin quasi all'ultimo che lo stesso Mussolini operasse il distacco dalla Germania e addivenisse ad un armistizio. Ai primi di luglio, però, con qualche fido collaboratore (generale G. Castellano) e col ministro della Real Casa P. Acquarone, preparò un piano per togliere al fascismo la direzione della guerra allo scopo di intavolare successivamente trattative con gli Anglo-Americani. Il 19 luglio, accompagnando Mussolini al convegno con Hitler a Feltre, tentò ancora invano, insieme con l'ambasciatore D. Alfieri e il sottosegretario G. Bastianini, di indurlo a staccarsi da Hitler, e il giorno successivo, in seguito al fallimento delle sue insistenze, gli offrì inutilmente le proprie dimissioni.

Compreso ormai che occorreva sbarazzarsi di Mussolini, fece preparare quel piano di cattura, che, dietro suo ordine e col consenso del re, venne poi tradotto in atto il 26 luglio a Villa Savoia, insieme con altre misure per sventare una possibile contromanovra fascista al colpo di stato. Formatosi il governo Badoglio, l'A. affrontò con estrema riservatezza il problema delle trattative con gli Anglo-Americani, nel timore di una immediata reazione tedesca.

La caduta del fascismo, infatti, poneva alla monarchia, al nuovo governo e allo stesso supremo comando una grave e urgentissima alternativa: immediata cessazione delle ostilità contro gli Anglo-Americani e contemporanea rottura aperta coi Tedeschi, fino all'insurrezione e alla guerra di popolo oppure, temporeggiamento con la Germania e apertura di trattative segrete con gli Alleati. L'A. accettò la seconda soluzione, adottata dal re e dal capo del governo Badoglio. La mancata palese liquidazione della guerra favorì, però, la confusione delle idee e l'incertezza negli animi, impedì di raccogliere intorno all'esercito, per una efficace resistenza ai Tedeschi, i cittadini desiderosi di assicurare al paese libertà e indipendenza, e permise l'aggravarsi dell'infiltrazione e poi dell'occupazione tedesca nella penisola. Tale soluzione, con la concomitanza di altri elementi, portò l'8 settembre allo sfacelo dell'esercito e a tragiche situazioni per numerosi reparti militari, dentro e fuori il territorio italiano.

Il 6 agosto a Tarvisio, nel convegno dei ministri degli Esteri e dei capi militari italiani e tedeschi, l'A. si limitò a richiedere inutilmente il rientro delle divisioni italiane dai Balcani e il trasferimento nel sud delle truppe tedesche, che da alcuni giorni si andavano dislocando nell'Italia settentrionale cnn lo scopo di garantirsi da sorprese e di dare, eventualmente, e consenziente o meno l'Italia, battaglia agli Anglo-Americani su quella che fu poi la linea gotica. Chiusosi l'incontro di Tarvisio in un clima di diffidenza, l'A. deliberò con Badoglio l'invio del generale Castellano a Lisbona per prendere contatti con gli Anglo-Americani, avvicinò alcune divisioni a Roma per misura di sicurezza e ne inviò altre presso La Spezia a protezione della flotta. Il 24 agosto, in considerazione del prolungarsi dell'assenza di Castellano, consentì che il generale G. Zanussi si recasse egli pure in Portogallo: questa seconda missione doveva, però, sollevare diffidenza negli Alleati. Del nuovo orientamento del Comando Supremo non fu data notizia ai comandi dipendenti, ai quali l'A. si limitò a diramare ai primi di agosto disposizioni per predisporre misure idonee ad opporsi a eventuali attacchi tedeschi. In attesa dell'esito dei negoziati non si voleva precipitare la situazione -assai critica per la capillare penetrazione tedesca -e l'A., anche per volere di Badoglio, tenne al corrente degli eventi solo un ristrettissimo numero di persone.

Il 1° settembre, nella riunione presso il re con Badoglio, i ministri R. Guariglia e Acquarone, i generali Castellano e G. Carboni, per discutere le condizioni di armistizio consegnate dagli Alleati a Lisbona allo stesso Castellano, l'A. ne consigliò l'accettazione insistendo, però, che l'annuncio dell'armistizio stesso avvenisse contemporaneamente allo sbarco di forti contingenti anglo-americani nelle vicinanze della capitale, se non a nord di questa. Nei giorni seguenti, ritenendo sulla base delle informazioni di Castellano che l'annuncio non sarebbe avvenuto prima del 12 settembre, l'A. orientò verso questa data la preparazione. Sicché degli ordini di quei giorni ben poco giunse ai comandi inferiori prima dell'8 settembre: solo ai comandi di armata giunsero le disposizioni (Memoria Op. 44) emanate dall'A. alla fine di agosto, ma diramate la notte sul 2 settembre, contemplanti anche azioni offensive contro i Tedeschi qualora richieste dalla necessità di tutelare i punti nevralgici dell'apparato militare.

Gli ordini del 6 settembre furono comunque precorsi e superati dal precipitare degli eventi. L'A., che si era allontanato da Roma il 6 sera alla volta di Torino, rientrava nella capitale l'8 mattina, ove trovava una situazione ormai drammatica.

Dopo l'annuncio dell'armistizio, l'A. faceva trasmettere per radio, alle 0,20 del 9 settembre, un dispaccio ai comandi inferiori, ribadendo in sostanza il principio di reagire alla violenza senza prendere l'iniziativa di ostilità. Il dispaccio radio, per la mancanza di ogni prospettiva operativa (sviluppo e scopi della difesa; zone di radunata; destino dei reparti, delle armi, delle riserve, ecc.), era così ovviamente di difficile comprensione ed esecuzione da riflettere, più che la speranza di evitare In questo modo situazioni disperate a truppe lontane -mentre lo sbarco angloamericano non sarebbe avvenuto vicino a Roma -,una realtà militare e politica sfuggita ad ogni controllo e valutazione. Mentre, infatti, le conseguenze della iniziale rinuncia alla lotta aperta contro i Tedeschi arrivavano al punto critico, nel momento culminante l'A. non sapeva, o non riusciva, a modificare l'indirizzo politico seguito dal governo dopo la caduta di Mussolini.

Il giorno 9 settembre obbediva all'ordine del re di seguirlo a Pescara, e quindi a Brindisi. Alla fine di novembre, avendo oltrepassato i limiti d'età, chiedeva di essere esonerato dall'incarico, indicando il Gen. Messe a suo successore. Nominato ispettore generale dell'esercito, fu collocato nella riserva il 31 luglio 1944. Visse quindi ritirato, morendo ad Alassio il 20 nov. 1958, senza aver pubblicato, a differenza di altri protagonisti delle vicende del 1943, nulla delle proprie carte.

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