VITTORIO EMANUELE I re di Sardegna

Enciclopedia Italiana (1937)

VITTORIO EMANUELE I re di Sardegna

Francesco Lemmi

Secondogenito di Vittorio Amedeo III e di Maria Antonia Ferdinanda dei Borboni di Spagna, nato a Torino il 24 luglio 1759, morto nel castello di Moncalieri il 10 gennaio 1824. Ebbe tra i suoi precettori il cav. Papacino d'Antoni e il barnabita Giacinto Sigismondo Gerdil, poi cardinale. Duca d'Aosta, il 25 aprile 1789 sposò Maria Teresa (1773-1832); figlia dell'arciduca Ferdinando e di Maria Beatrice Este-Cybo. Proprio allora incominciavano i giorni difficili per lo stato subalpino, posto tra la Francia rivoluzionaria e l'Austria infida; onde intorno ai duchi di Aosta non tardò a formarsi, anche per la simpatia che ispirava la bella e vivace principessa, una specie di opposizione di corte, destinata, a farsi poi sempre più grave, come succede, nelle comuni sventure. Di mediocre intelligenza, ma sicuro di sé e tutto compreso delle tradizioni militari e politiche della dinastia, il duca combatté con coraggio, dal 1793 al 1796, per la difesa delle Alpi, e protestò poscia vivacemente per iscritto, come erede presuntivo della corona, contro l'alleanza che, nel febbraio 1797, il nuovo re Carlo Emanuele IV, ritenendo impossibile una resistenza qualsiasi, dovette conchiudere col governo francese. Caduta la monarchia in Piemonte (9 dicembre 1798) si ridusse con la famiglia in Sardegna, ma tornò nell'agosto 1799, quasi contro la volontà del re che lo riteneva imprudente e impulsivo, e subito si mise in urto con gli Austriaci. Già alla loro perfidia attribuiva le vittorie francesi del 1796: in simil modo si spiegò, il 14 giugno 1800, quella di Marengo, né mutò pensiero più mai. Randagio per la penisola, sprovvisto di mezzi, colpito più volte nei suoi affetti domestici e sempre scontento per il rassegnato fatalismo di Carlo Emanuele IV, quando, per l'abdìcazione di questo, poté assumere finalmente la corona (5 giugno 1802) credette che una maggiore attività diplomatica potesse restituirgli l'avito dominio, ma le sue illusioni caddero ad una ad una miseramente. Il 2 dicembre 1804 Pio VII consacrava in Notre-Dame l'usurpatore, e il 2 dicembre 1805 la terza Lega europea era disfatta ad Austerlitz. Allora, l'11 febbraio 1806, nel momento stesso in cui il Massena marciava contro Napoli e la corte borbonica fuggiva per la seconda volta in Sicilia, egli s'imbarcò a Gaeta sopra una nave russa e, preoccupato anche della propria personale sicurezza, fece vela verso Cagliari. Quidi rimase, sino al 1814, in dignitosa povertà, tra interne agitazioni, molestie barbaresche, minacce napoleoniche e prepotenze britannniche, studiandosi di provvedere, come poteva in tante strettezze, ai più urgenti bisogni dell'isola. Desideroso di partecipare personalmente alla guerra, si adoprò, nel 1809 e poi dopo la spedizione di Russia, per raccogliere un corpo di truppe che voleva condurre, con l'aiuto inglese, nella Liguria; ma difficoltà di vario genere, militari e politiche, impedirono sempre che siffatto disegno avesse esecuzione. Tuttavia non perdette mai la fede nel trionfo finale della sua causa, né mai pose in dubbio il diritto della casa di Savoia di riavere tutti i suoi stati e d'ingrandirli anzi a presidio dell'indipendenza propria e dell'Italia intera. Della catastrofe napoleonica senti a Cagliari il lontano rumore: il 9 maggio 1814 giunse, su una nave inglese, a Genova, che il Bentinck aveva ricostituita in repubblica, e il 20 maggio fece il suo solenne ingresso in Torino. Il primo trattato di Parigi (30 maggio 1814) gli diede, costante aspirazione sabauda, tutto il territorio ligure, ma gli tolse, a profitto della Francia, una parte notevole della Savoia. Questa poté però riavere, tranne pochi comuni rimasti a Ginevra, l'anno seguente (20 novembre 1815), dopo l'avventura napoleonica dei Cento giorni. Durante la breve campagna le truppe sarde s'erano spinte sino a Grenoble. Il 14 agosto fu istituito l'ordine del merito militare di Savoia. Così, nel 1815, lo stato sabaudo, coi porti di Nizza, Genova e La Spezia, col protettorato su Monaco e con le isole di Sardegna e Capraia, aveva raggiunto una grande importanza in sé e in rapporto alla Lombardia, soggetta all'Austria, ma in mille modi legata alla vita economica del Piemonte e della Liguria. Tuttavia Vittorio Emanuele non era soddisfatto. Aveva creduto che l'Austria si sarebbe contentata del Friuli orientale e del Trentino e che egli, padrone di tutta la Valle Padana sino al Mincio, o almeno all'Oglio, avrebbe potuto farsi capo di una "Ligue défensive italique sur le style le l'ancienne Confédération germanique et celle des Suisses". La delusione rinfocolò i suoi sdegni antiaustriaci; ma, poiché l'Inghilterra appoggiava l'Austria e a una intesa con la Francia non era neppur da pensare, non rimaneva che rassegnarsi a vivere, almeno ufficialmente, in buoni rapporti con l'odiato vicino. Quest'odio, a tutti noto in Piemonte e condiviso dai patrioti d'ogni colore, fu l'equivoco che rese possibile il moto del 1821. Aderì alla Santa Alleanza e, contro insinuazioni russe o francesi, respinse subito energicamente qualsiasi idea d'istituti parlamentari; ma la restaurazione non fu così cieca come molti dissero allora, non sempre in buona fede, e come fu poi ripetuto. In realtà non era facile conciliare il cosiddetto oblio del passato col rispetto dovuto agl'interessi e ai sentimenti di coloro che s'erano sacrificati per la causa legittimista. Comunque, molti che avevano servito Napoleone - e basti ricordare il S. Marzano, Prospero Balbo e il Gifflenga - poterono ricoprire altissimi uffici civili e militari, mentre altri che s'erano tenuti in disparte in Piemonte durante la dominazione francese o avevano seguito il re in Sardegna, come il Vallesa, il De Maistre e A. Saluzzo, consiglieri ascoltati della corona, si mostrarono tutt'altro che incapaci di rendersi conto dei mutamenti prodotti nel vecchio stato subalpino dalla bufera distruggitrice e fecondatrice della grande rivoluzione. Nella seconda metà del 1820, dopo il moto di Napoli, Vittorio Emanuele apparve debole e incerto di fronte ai carbonari, agli adelfi e ai federati. Scoppiata, nel marzo 1821, la rivoluzione anche in Piemonte, non volle ricorrere alle armi, che pure erano state usate, nel gennaio, contro gli studenti dell'università. Avverso alla costituzione per motivi di onore e di coscienza, e abbastanza intelligente per respingere l'idea di un'avventura contro l'Austria, anzi contro la Santa Alleanza, quando vide lo stesso presidio della cittadella di Torino aderire alla rivolta e uccidere il proprio comandante, abdicò (13 marzo 1821) a favore di suo fratello Carlo Felice, allora a Modena, affidando intanto - e fu grave errore - la reggenza a Carlo Alberto, príncipe di Carignano. Recatosi poscia a Nizza, passò di là a Lucca, nel giugno, e a Modena nel dicembre. Ma, quando l'ordine fu ristabilito in Piemonte, volle tornare nella sua terra, nel castello di Moncalieri (giugno 1822) dov'era morto suo padre e dove egli a sua volta si spense. Lasciò quattro figlie: Beatrice (1792-1840; v.); Maria Teresa (1803-1879) e Marianna (1803-1884), gemelle; Maria Cristina (1812-1836; v.); spose rispettivamente a Francesco IV, duca di Modena, Carlo Ludovico, duca di Lucca, Ferdinando I, imperatore d'Austria, Ferdinando II, re delle Due Sicilie.

Bibl.: A. Segre, V. E. I, Torino 1928 (con bibl.).

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