Vittorio Emanuele II re d'Italia

L'Unificazione (2011)

Vittorio Emanuele II re d’Italia


Figlio di Carlo Alberto e di Maria Teresa d’Asburgo-Lorena di Toscana (Torino 1820 - Roma 1878). Ricevette un’educazione improntata ai più rigidi principi assolutisti. Nel 1831 fu creato duca di Savoia e nel 1842 sposò Maria Adelaide, figlia dell’arciduca Ranieri d’Asburgo, dalla quale ebbe sette figli. Rimasto vedovo nel 1855, sposò religiosamente nel 1869, e nel 1877 morganaticamente, Rosa Vercellana Guerrieri, una donna di umili origini che gli aveva già dato due figli e che aveva nominato contessa di Mirafiori. Sostanzialmente ostile alle idee liberali, nella crisi del 1848 considerò come una debolezza la concessione dello Statuto fatta dal padre. Prese tuttavia parte alla prima guerra d’indipendenza, distinguendosi nelle battaglie di Pastrengo, Goito e Custoza. Contrario alla ripresa della guerra, dopo la sconfitta di Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto salì al trono (23 marzo 1849) e stipulò con il maresciallo Radetzky l’armistizio di Vignale. Repressa la sollevazione di Genova, per superare l’opposizione della maggioranza democratica della Camera, che era contraria alla ratifica del trattato di pace di Milano da lui siglato nell’agosto 1849, sciolse per ben due volte il Parlamento e si appellò direttamente agli elettori con il Proclama di Moncalieri, ventilando l’ipotesi di una sospensione dello Statuto se non fossero stati eletti rappresentanti più moderati. Superata la crisi istituzionale, Vittorio Emanuele, pur continuando a mostrare insofferenza nei confronti del Parlamento, soprattutto in materia di politica estera e militare, rimase comunque fedele allo Statuto a differenza di tutti gli altri principi italiani. Rilanciò in tal modo il ruolo nazionale della monarchia sabauda e acquistò l’appellativo di «re galantuomo». Vicino ai clericali, approvò senza convinzione, nel 1850, le leggi Siccardi ma fece naufragare la legge sul matrimonio civile, costringendo il presidente del Consiglio d’Azeglio alle dimissioni. Pur chiamando Cavour al governo nel 1852 nutrì sempre nei suoi confronti un’aperta diffidenza, cresciuta dopo il «connubio» tra il primo ministro e Urbano Rattazzi, leader della componente più moderata della sinistra democratica. Nel 1855 si oppose alla legge che prevedeva la soppressione degli ordini religiosi contemplativi e il passaggio dei loro beni allo Stato, ma il suo tentativo di allontanare Cavour fallì in seguito alla vivace reazione dei liberali. Negli anni seguenti, desideroso di affermare il prestigio dinastico e di ampliare territorialmente lo Stato sabaudo, sostenne comunque la politica estera di Cavour, avallando le sue iniziative, ma continuò a riservarsi spazi di manovra autonomi. Durante la seconda guerra di indipendenza assunse il comando dell’esercito e, nonostante il parere contrario di Cavour, sottoscrisse l’armistizio di Villafranca, ritenendo impossibile proseguire la guerra senza l’aiuto francese. All’insaputa del suo primo ministro, inoltre, tenne contatti con Garibaldi e incoraggiò i suoi preparativi per la spedizione in Sicilia. All’inizio di ottobre del 1860 assunse il comando delle truppe destinate a intervenire nell’Italia meridionale e il 26 dello stesso mese si incontrò a Teano con Garibaldi, che rimise nelle sue mani i poteri dittatoriali. Dopo i plebisciti, il 17 marzo 1861, venne proclamato dal primo Parlamento italiano re d’Italia e, nonostante le pressioni dei democratici, rifiutò di modificare il suo nome in Vittorio Emanuele I, volendo con ciò sottolineare la continuità storica della dinastia. Alla morte di Cavour, nel 1861, cercò di accrescere il proprio ruolo agendo spesso in contrasto con il Parlamento e chiamando al governo uomini di sua fiducia. Costrinse così alle dimissioni Ricasoli e Minghetti e chiamò a dirigere l’esecutivo uomini a lui fedeli come La Marmora, Rattazzi, che con gli anni si era avvicinato alla corona, e Menabrea. Continuò inoltre a gestire in proprio una sorta di diplomazia parallela, affidando a suoi intermediari missioni riservate più o meno all’insaputa dei ministri responsabili, e mantenne rapporti diretti sia con Mazzini sia con Garibaldi, lasciando aperta ogni possibilità per conquistare il Veneto e Roma. Nel 1864, mentre il governo Minghetti negoziava la Convenzione di settembre, il sovrano contattò Mazzini per promuovere la sollevazione dei popoli sottomessi dalla monarchia austriaca e liberare il Veneto. Nel tentativo di liberare Roma, invece, si mise in contatto con Garibaldi e alla sua incerta condotta sono in parte da attribuire i tragici avvenimenti di Aspromonte (1862) e Mentana (1867). La politica personale del sovrano continuò anche durante la guerra del 1866, nella quale tornò a rivendicare il comando supremo dell’esercito nonostante le resistenze della maggioranza delle forze politiche che proponeva di affidare il comando effettivo a La Marmora. La determinazione del sovrano portò a una soluzione di compromesso e produsse una sovrapposizione di ruoli e responsabilità che contribuì a determinare le disastrose sconfitte di Custoza e di Lissa. La volontà di controllare e dirigere la politica estera del paese toccò il suo acme nel 1870, quando cercò di imporre l’intervento a fianco della Francia contro la Prussia nonostante il parere contrario della maggioranza dei ministri. Risolta la questione romana, la partecipazione del re alla vita politica diminuì. Due atti ancora di grande importanza segnarono comunque la fine del suo regno: il viaggio compiuto nel 1873 a Vienna e a Berlino, che gettò le basi della futura Triplice alleanza, e l’avvento della Sinistra al potere. Nel 1876 Vittorio Emanuele sanzionò il nuovo corso con la nomina di Depretis a capo dell’esecutivo dando prova di aver compreso che la Destra aveva esaurito la sua funzione storica ma anche perché convinto di trovare negli uomini della Sinistra una maggiore collaborazione.

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