VITTORIO EMANUELE II, ultimo re di Sardegna, primo re d'Italia

Enciclopedia Italiana (1937)

VITTORIO EMANUELE II, ultimo re di Sardegna, primo re d'Italia

Walter Maturi

La giovinezza. Il duca di Savoia (1820-1849). - Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tomaso nacque a Torino il 14 marzo 1820, a un'ora circa dopo la mezzanotte dell'orologio francese, da Carlo Alberto di Savoia Carignano e da Maria Teresa degli Asburgo Lorena di Toscana. In seguito ai moti del 1821, i principi di Carignano dovettero abbandonare il Piemonte e ritirarsi in Toscana, dove il 16 settembre 1822, nella villa granducale di Poggio Imperiale, poco mancò che il piccolo Vittorio perdesse la vita nelle fiamme appicatesi per l'imprudenza della nutrice, Teresa Zanotti Racca, alla zanzariera del suo letto. Fu salvo per il sacrificio della nutrice stessa. Sorse allora la leggenda che egli fosse morto e che fosse stato sostituito da un bambino di origini popolane. Nello stesso tempo, al congresso di Verona, cadeva l'idea, ventilata in alcuni circoli reazionarî subalpini e condivisa, pare, anche da Carlo Felice, di diseredare Carlo Alberto del trono di Sardegna in favore del piccolo V. E.

Cancellato il fallo politico del 1821 al Trocadero, Carlo Alberto lasciò la Toscana il 17 maggio 1824 e ritornò in Piemonte. Poté allora pensare con calma all'educazione dei suoi figli.

Volle che nessuna distinzione fosse fatta tra il primogenito e il secondogenito Ferdinando, e li affidò prima alla signorina savoiarda Nicoud, poi a un prete, anche savoiardo, Andrea Charvaz (1825). Tanto Carlo Alberto quanto Maria Teresa s'interessavano personalmente però dei due bambini e parte composero parte tradussero dal tedesco per loro dei raccontini, che vennero stampati nel 1827 a Torino con il titolo Contes moraux pour l'enfance. Nel 1830 Carlo Felice, che fino allora non s'era occupato affatto dell'educazione dei due principi, nominò loro governatore il cavaliere Cesare Saluzzo di Menusiglio, al quale aggiunse in seguito un vicegovernatore: Gerbaix de Sonnaz; un sottogovernatore: il cav. Giuseppe San Giust di S. Lazzaro; e un viceprecettore: il padre Lorenzo Isnardi, dotto scolopio. Lo Charvaz conservò il titolo di precettore con l'incarico specifico dell'insegnamento della religione, delle lettere francesi, della geografia e della storia fino al 1833, allorché l'Isnardi lo soppiantò in tutto. Molto soddisfatto del suo allievo l'Isnardi non era: mentre elogiava il principe Ferdinando, osservava che Vittorio era svogliato e non faceva progressi. Una delle cause che allontanavano il principe dagli studî, secondo lui, era che il governatore Saluzzo lo teneva troppo occupato negli esercizî fisici, nella cavallerizza e nella scherma. Tra il precettore e il governatore si profilò un contrasto, che terminò nel 1837 con la vittoria del Saluzzo e il licenziamento dell'Isnardi. Oltre lo sviluppo dell'educazione fisica del principe Vittorio, il Saluzzo curava molto la sua preparazione morale al regno. Con lo studio delle massime del Re Sole, e di quelle redatte apposta per suo figlio da Carlo Alberto e intitolate Quelques pensées, il governatore - che mantenne le sue funzioni fino al 12 marzo 1839 - preparava il principe all'arduo compito del re. Convinto servitore della monarchia assoluta, non permetteva che insinuazioni polítiche eterodosse fossero fatte al suo discepolo e fece licenziare subito il liberaleggiante Giuseppe Manno, che era stato per qualche tempo accolto come insegnante.

Divenuto maggiorenne, V. E., che dal 1831 aveva avuto il titolo di duca di Savoia, passò sotto la diretta sorveglianza del padre, sorveglianza rigorosissima. Tuttavia alle colte conversazioni con La Marmora e Dabormida, che avrebbero dovuto perfezionare la sua istruzione militare, egli preferiva le belle cavalcate, le pericolose ascensioni alpine, le cacce. le avventure amorose, in compagnia del suo scudiero prediletto Enrico Morozzo della Rocca. Il matrìmonio con Maria Adelaide, figlia dell'arciduca Ranieri e di Elisabetta di Savoia Carignano, avvenuto il 12 aprile 1842, non segnò una svolta nel suo tenore di vita. Verso sua moglie ebbe sempre la più grande deferenza; per soddisfare un desiderio di lei una volta incorse persino negli arresti, inflittigli da suo padre; ogni anno le donava un bambino: nel 1843 Maria Clotilde, nel 1844 Umberto, nel 1845 Amedeo, nel 1846 Oddone, nel 1847 Maria Pia (altri tre, che ebbero breve vita, nacquero dal 1851 al 1855); ma quanto a divenire più saggio, pas peu à faire, confessava ad Alfonso La Marmora.

Carlo Alberto voleva che suo figlio si rendesse padrone del meccanismo statale e gli fece compilare una grossa dissertazione sull'Amministrazione generale dello stato nel 1842, ma V.E. dovette considerare tale lavoro come un pensum e certo si fece aiutare dal Promis o da altri, perché, a differenza di suo padre, non ebbe mai alcuna disposizione per l'amministrazione. Più interesse invece mostrò per la politica pura allorché suo padre lo chiamò per la prima volta neí consigli della corona. Era l'agosto del 1847: l'Austria aveva occupato Ferrara e il giovane duca, invitato a dare il suo avviso, propose subito di porre le armi piemontesi a disposizione di Pio IX. Ma se Pio IX e la guerra all'Austria lo riempivano di tale entusiasmo, le concessioni che Carlo Alberto era costretto a fare nel campo politico legislativo lo allarmavano. Condivideva i sentimenti dei suoi ufficiali verso la borghesia, che montava alla conquista dello stato, e disprezzava cordialmente gli avvocati che la dirigevano. Gli sembrava che suo padre fosse verso loro troppo debole. "Il y a des avocats" scriveva al conte di Castagnetto segretario particolare del re, "qui se prennent de hauts airs. En un mot ce serait heure de mettre un frein à tout ce qu'est déreglé. Le Roi a fait beaucoup trop pour eux et ils doivent être contents...". Col crescere dell'agitazione politica negli stati sabaudi, V. E. vedeva i pericoli ai quali andava incontro la monarchia, ma non voleva addossarsi il peso di una situazione da lui non creata, voleva serbarsi per l'avvenire: "Je vois que la Republique est proche", scriveva ancora al Castagnetto, "si on ne fait pas la guerre ou si on n'employe pas d'energie... Tâchez d'inspirer au Roi qu'il souffre avec patience, qu'il n'abdique pas, car il doit avoir encore un beau nom dans l'histoire, et s'il abdiquait a présent je suis dans l'impossib ilité de faire aller les choses, après la guerre c'est une autre chose". Se al posto di Carlo Alberto fosse stato un Ferdinando I di Borbone, costui non avrebbe esitato, abdicando, a sacrificare il figlio; ma Carlo Alberto aveva vivo il senso dei suoi doveri di sovrano e di padre. Per quanto assai soffrisse di venir meno a un giuramento fatto nel 1824 e di rinunciare alla sua autorità assoluta, concesse la costituzione; poi, dichiarò la guerra all'Austria. Al duca di Savoia venne affidata la divisione di riserva, col generale della Rocca come capo di stato maggiore, ed egli si mostrò coraggioso soldato nei combattimenti di Pastrengo (30 aprile 1848), di S. Lucia (6 maggio), di Goito (30 maggio), di Custoza (23 luglio).

Dopo l'armistizio Salasco (9 agosto), il duca di Savoia si dedicò alla riorganizzazione della sua divisione, ma troppo conosceva il morale delle truppe per desiderare subito la ripresa della guerra. Nella ripresa delle ostilità, avvenuta il 20 marzo 1849, il giovane principe vide più un atto di debolezza di suo padre, che un gesto politico e morale tale da salvare il di lui onore e l'avvenire della dinastia. Prevedeva la disfatta: "Alors les avocats de loin crieront contre les généraux", profetizzava, "crieront vengeance, et ils ne réfléchiront pas même un instant que c'est eux qui en sont la faute". Tuttavia, sempre alla testa della divisione di riserva, fece il suo dovere di soldato nelle infelici giornate di Mortara e di Novara, dopo le quali, in seguito all'abdicazione di suo padre, gli toccò iniziare il "mestiere di re", come si compiaceva di chiamarlo.

Il Re Galantuomo. Tra i liberali e i clericali (1849-1855). - Carlo Alberto sapeva di essere odiato personalmente dagli Austriaci e sperava che a suo figlio sarebbero state accordate condizioni di tregua più miti. Né s'ingannava. Con gioia feroce il maresciallo Radetzky annunciava: "Il nostro più pertinace nemico, Carlo Alberto, è sceso dal trono" e, quanto al successore, comunicava alla corte d'Austria il suo pensiero, che si doveva agire verso di lui con i massimi riguardi. Il giovane re, nel colloquio di Vignale, sembrò venire incontro a queste benevole prevenzioni psicologiche del maresciallo.

"Egli", narra il Radetzky nella sua relazione allo Schwarzenberg, "mi dichiarò apertamente il suo fermo volere di dominare il partito democratico rivoluzionario, a cui suo padre aveva lasciato briglia sciolta; ma che per ciò gli occorreva del tempo e soprattutto di non vedersi screditato agl'inizi del suo regno". Nessuna menzione perciò venne fatta nell'armistizio dei trattati del 1815 come base inviolabile della delimitazione dei varî stati d' Italia; venne assicurata l'amnistia agli emigrati lombardo-veneti, ma, nonostante le resistenze di V. E., il quale prevedeva l'impressione che ciò avrebbe prodotto nell'esercito, nel popolo, nelle camere, il Radetzky pretese l'occupazione di parte della fortezza di Alessandria e il mantenimento d'un corpo di truppe di 20.000 fanti e 2000 cavalli.

L'armistizio di Vignale spiacque tanto a Vienna quanto al Piemonte. Il principe Felice Schwarzenberg esclamò: "Il nostro vecchio maresciallo sa battere il nemico, ma non sa negoziare con lui", e il consiglio dei ministri austriaci riprovò l'operato del Radetzky. A Torino si profilò un conflitto tra la corona e il parlamento. Il re sosteneva che secondo lo statuto era nelle sue prerogative quella di dichiarare la guerra e di fare la pace; ma il parlamento, per opera principalmente di Giovanni Lanza, replicava che un armistizio in quanto intaccava l'integrità del territorio dello stato (occupazione d'una fortezza) e le finanze del regno (mantenimento di truppe estere) era anche di competenza dell'assemblea. Il conflitto era aggravato dal fatto che il re, per ubbidire a un consiglio di suo padre, aveva chiamato alla presidenza del consiglio il generale savoiardo De Launay. La democrazia vide nel De Launay il generale dal pugno di ferro che doveva domarla: l'orso disceso dalle Alpi, che avrebbe soffocato la libertà fra le sue zampe, come scriveva la Concordia. Poche volte la monarchia sabauda ebbe a superare crisi più difficile. Nei giornali, nelle piazze, nei caffè si discuteva aspramente l'operato del re. Gli ufficiali da un lato e i giornalisti e i borghesi democratici dall'altro si scambiavano in ogni luogo sfide, piattonate, percosse, improperî. Genova si era data in mano ai repubblicani; la Savoia era malcontenta; la Lomellina e il Novarese, sempre più attaccati alla Lombardia che al Piemonte, si dicevano traditi; la Sardegna perfino era inquieta e agitata. Nessuno riconosceva più in quello stato il vecchio stato sabaudo. Ma il giovane re era fermo. Nato nella tempesta, scriveva a una nobile savoiarda, la tempesta non lo spaventava affatto. Il 29 marzo 1849 prorogava la camera, e a sir Ralph Abercromby, ministro inglese a Torino, dichiarava: "Per me, voglio governare costituzionalmente, ma voglio far rispettare la legge, e perirò piuttosto che subire il giogo di un partito". Poteva contare su due grandi forze: l'esercito e l'opinione moderata e conservatrice. Il generale Alfonso La Marmora con grande energia domò la sollevazione di Genova. ll ministro dell'interno, Pier Dionigi Pinelli, spalleggiato dalla stampa moderata, scriveva a Gioberti il 9 aprile 1849: "Sono risoluto anche alla ruina completa del mio nome per salvare la patria" e scioglieva i consigli municipali, destituiva i sindaci, processava i giornali troppo accesi nelle opinioni democratiche. Ma in un punto il re, l'esercito, i moderati non potevano reagire a fondo contro i democratici: la clausola dell'occupazione austriaca di parte della fortezza di Alessandria. Essa colpiva l'onore nazionale, tanto più che si aggiungeva la pretesa dell'Austria di avere nientemeno dal Piemonte che 200 milioni d'indennità di guerra. La regina Maria Adelaide intervenne personalmente con una lettera presso il cugino, l'imperatore Francesco Giuseppe d'Austria, per ottenere condizioni di pace più onorevoli per il suo Vittorio. Il generale De Launay, amico personale del generale austriaco Hess, gli fece vedere il pericolo di esasperare l'amor proprio piemontese. Ma tutto fu inutile. Il governo austriaco fece occupare Alessandria e re V. E. troncò subito le trattative di pace, chiese con la missione Gallina l'appoggio della Francia e dell'Inghilterra e per dare al paese prova del suo sentimento nazionale chiamò alla presidenza del consiglio, al posto del De Launay, Massimo d'Azeglio (7 maggio 1849). Il fermo contegno piemontese e le contingenze internazionali costrinsero l'Austria a sgombrare Alessandria (18 giugno) a riprendere le trattative di pace, ad abbassare a 75 milioni la cifra pretesa come indennità di guerra dal re di Sardegna (trattato di Milano del 6 agosto), e a concedere l'amnistia agli emigrati lombardo-veneti con un proclama di Radetzky del 12 agosto.

Il 20 agosto 1849 il re ratificò il trattato, senza prima attendere l'approvazione delle camere, ma la camera dei deputati, sebbene fosse stata sciolta, era rimasta, con le nuove elezioni del 15 luglio, in maggioranza democratica, e ricominciò allora la lotta tra essa da una parte e la corona e il ministero dall'altra. Fu una lotta a colpi di spillo, che si protrasse per mesi, perché da un lato il ministero non voleva essere forzato a uscire dalle vie costituzionali, temendo che un colpo di stato sarebbe stato funesto alla monarchia e al paese e avrebbe aperto l'adito all'influenza o all'intervento dell'Austria mentre dall'altro l'opposizione logorava sì il ministero con discussioni irritanti, ma votando le leggi strettamente necessarie all'azione di governo gli toglieva ogni pretesto per un colpo di stato. Il re non nascondeva il suc risentimento verso il partito, che, dopo avere trascinato suo padre a Novara e avere portato il paese sull'orlo dell'abisso, tendeva a perpetuare un'agitazione che la vera generalità del paese riprovava; ma l'Azeglio lo consigliò a pazientare finché fosse possibile. Nel novembre, però, persistendo l'ostruzionismo della camera all'approvazione del trattato firmato dall'Austria, Massimo d'Azeglio si decise a un gran passo: fece dal re sciogliere di nuovo la camera e gli fece indirizzare al popolo il famoso proclama di Moncalieri del 20 novembre: "c'est la dernière ressource des amis du gouvernement constitutionnel en Italie", scrisse allora l'Azeglio al Rendu. "Je joue le partie. Il était de mon devoir de le faire. Dieu veuille que je la gagne. Bien des choses vont dépendre du résultat". E il risultato corrispose alle speranze dell'Azeglio: alle elezioni del 9 dicembre il paese mandò alla camera una maggioranza di deputati moderati, il trattato con l'Austria fu approvato il 5 gennaio 1850, e il regime costituzionale fu salvo in Piemonte e con esso fu salva anche la possibilità della missione nazionale di casa Savoia, che Carlo Alberto aveva lasciata come retaggio a suo figlio. V. E. era riuscito così a ottenere condizioni onorevoli di pace dall'Austria, senza sradicare i germi di libertà e di nazionalità dal regno di Sardegna, e a domare il partito democratico, senza darsi in braccio all'Austria o ricorrere alla forza bruta. E tutto ciò, mantenendo fede allo statuto giurato da suo padre e da lui. Così V. E. divenne da allora, di fronte agli Italiani, il "re galantuomo": fu Massimo d'Azeglio a inventare il termine, a curarne la diffusione nelle lettere, nelle conversazioni, nei discorsi. "Se Vostra Maestà" aveva detto al re "mancasse alla sua parola diventerebbe uno di quei tanti re d'un piccolo stato, ai quali il mondo guarda e passa, invece che, se sta fedele agli impegni presi, sarà un esempio unico nella storia delle teste coronate". Il culto della lealtà dell'Azeglio trovò nel culto della lealtà del re la più piena rispondenza. Se V. E. si era opposto alla politica di suo padre era perché gli sembrava che essa si facesse prendere a rimorchio da quella dei democratíci, ma egli non chiedeva di meglio che seguire una via, la quale gli permettesse di tenere alto il decoro e lo spirito d'iniziativa della monarchia. L'idea del "re galantuomo" doveva essere la base della grande missione, che la storia additava alla casa di Savoia, secondo la dottrina esposta dal Gioberti nel Rinnovamento. "Siete taumaturgo" scrivem Giorgio Pallavicino Trivulzio al Gioberti. "Voi faceste leggere due grossi volumi a un personaggio che non ama troppo la lettura. Non vi nomino il personaggio: dovete indovinarlo. E non solo, mi dicono, egli ha letto il vostro libro, ma lo ha in più luoghi commentato: un doppio miracolo. In generale il libro gli piacque, e gli piacquero sopra tutto i capitoli quarto e quinto del secondo volume, dove trattasi dell'egemonia piemontese. Dice che avete ragione, e soggiunse: l'autore mi tratta bene, ma io non sono ancora morto, alludendo al severo giudizio da voi pronunciato contro Carlo Alberto". Per questa missione il re dava ospitalità agli emigrati degli altri stati italiani, ne riceveva spesso i capi in udienze private, ne conquistava la fiducia, ne alimentava le speranze. "Pallavicino mio", diceva al martire dello Spielberg, "voglimi bene, e quando sai qualche cosa vieni a dirmela: io ti vedrò sempre con piacere"; e Pallavicino, conquistato, si adoperava presso Gioberti per dissipare i dubbî che l'abate aveva sulla capacità dei re ad attuare il suo sogno. Una devozione sconfinata si diffondeva nell'emigrazione per la persona del re galantuomo. "Un principe così eccellente, merita di essere adorato come un santo", scriveva il siciliano marchese di Torre Arsa, e suo fratello Enrico aggiungeva dal suo canto: "Qui si gode sempre la stessa libertà ed il governo di Vittorio Emanuele II si mostra più fermo di prima. Lode a lui, lode all'angelo del re".

Ma se nel mantenimento dello statuto e nella politica nazionale V. E. s'incontrava con le aspirazioni dei patrioti italiani, nella politica ecclesiastica divergeva completamente da essi. Egli non distingueva in tale campo l'aspetto politico-giuridico dall'aspetto etico-religioso delle questioni e subiva l'influenza della regina madre, Maria Teresa. Nella regina si perpetuava la volontà di Carlo Alberto e la vecchia tradizione sabauda. Esortandolo a non sanzionare la legge Siccardi, il 9 aprile 1850 Maria Teresa gli scriveva: "Adempio anche un ultimo desiderio, un'ultima volontà del tuo povero padre, che scrivendomi da Oporto, mi diceva che io dessi sempre buoni consigli specialmente religiosi ai nostri figli, e tu devi capire quanto queste parole son sacre per me". Ogni approvazione di legge ecclesiastica suscitava un vivo contrasto fra il ministero e la corte e il re cedeva solo dopo una lunga resistenza. In un punto solo non volle piegare: nella scelta dell'educatore del principe ereditario Umberto. I liberali avrebbero voluto che tale scelta cadesse su persona devota al nuovo regime, ma V. E. preferì l'abate Pillet di Chambéry, reazionario renforcé, come si diceva allora, cioè cattolico all'antica, credente al diritto divino dei re.

Tutti i sacrifici che lasciava strappare alla sua autorità di re, li offriva in olocausto all'avvenire della dinastia, ma quando vide trionfare in Francia il colpo di stato di Luigi Napoleone, V. E. ebbe una crisi di dubbio: "Se la reazione avesse a prevalere sul continente", chiedeva all'amico Pallavicino, "se la Francia si collegasse all'Austria, potrei io in coscienza esporre questo povero paese al saccheggio, all'incendio e alla carneficina, risultamento inevitabile di una guerra contro tutta l'Europa?... No, non mi regge l'animo al pensiero dell'atroce spettacolo. Piuttosto rinunziare alla corona".

Che lungi dal retrocedere nello sviluppo delle istituzioni liberali in Piemonte per il colpo di stato di Luigi Napoleone, occorresse invece procedere francamente avanti perché il Bonaparte, affermato il suo potere, avrebbe pensato a distruggere i trattati del 1815 e per distruggerli in Italia non avrebbe potuto avere base più solida che il regeme liberale piemontese, fu l'intuizione geniale del conte di Cavour, il quale si assicurò col "connubio" il predominio nel parlamento. Risorse allora il conflitto tra la corona e il parlamento, ma questa volta il parlamento aveva trovato un grande condottiero. Il connubio consisteva nell'alleanza tra il centro destro e il centro sinistro della camera dei deputati e nella formazione d'un forte partito centrale, ma tale alleanza avviava al potere quegli avvocati", quegli anticlericali, che V. E. aborriva cordialmente. Cavour, nonostante l'opposizione del re, fece eleggere Rattazzi presidente della camera e il re appoggiò Massimo d'Azeglio e costrinse Cavour a dimettersi da ministro d'Agricoltura e Commercio (1852). Ma Massimo d'Azeglio non riuscì a padroneggiare la crisi politica, e, dopo un tentativo di formare un ministero di destra Balbo-Revel, il re fu costretto ad affidare la presidenza del consiglio a Cavour. Tuttavia, Cavour in tanto riuscì a rendersi finalmente gradito in quanto promise al re che non avrebbe posto al Senato la questione di fiducia nel voto sulla legge del matrimonio civile presentata dall'Azeglio e che avrebbe accettato nel ministero un uomo di fiducia del re: lo storico Luigi Cibrario (4 novembre 1852). Il 27 ottobre 1853, poi, Cavour, cui piaceva procedere per gradi, riuscì a far nominare ministro di Grazia e Giustizia Rattazzi, col quale si acuì la lotta contro la Chiesa per la famosa legge sulla soppressione dei conventi. Le questioni di politica ecclesiastica s'intrecciavano con quelle di politica estera. Era scoppiata la guerra di Crimea; il re intuì subito che bisognava parteciparvi e in ciò era d'accordo col Cavour, ma il Rattazzi era contrario e il 19 aprile 1854 la proposta inglese d'intervento fatta al Piemonte venne respinta dal consiglio dei ministri. D'accordo col ministro francese a Torino, il duca di Guiche, il re pensò allora a un ministero di destra, presieduto dal conte Ottavio di Revel, che avrebbe potuto soddisfare le esigenze della sua coscieza religiosa e le sue aspirazioni di re soldato. Cavour sventò il piano, riuscendo il 10 gennaio 1855 a firmare un trattato d'alleanza con le potenze occidentali e provocando il Revel alla critica del trattato stesso. In tal modo, dal punto di vista internazionale, si rese impossibile e contrario agli impegni del paese un ministero Revel, e Cavour poté continuare a insistere perché il re approvasse la legge sui conventi. Intanto moriva la regina madre, Maria Teresa (12 gennaio 1855); moriva la regina Maria Adelaide (20 gennaio); moriva Ferdinando, duca di Genova (10 febbraio). Il povero re fu affranto da un'angoscia senza nome. Gli parve di sentire in quelle morti il castigo di Dio, accettò la proposta di Callabiana, vescovo di Casale, che, se fosse lasciata cadere la legge sui conventi, il clero subalpino avrebbe offerto in donativo un milione di lire per migliorare le congrue ai parroci, e prese netta posizione contro il ministero, obbligando Cavour a dimettersi (25 aprile 1835). Massimo d'Azeglio vide una nube essere in punto d'offuscare la figura del re galantuomo, e scrisse al re (29 aprile): "In Sparta era proibito di toccare il re sotto pena di morte. Ve ne fu uno al quale prese fuoco la veste: nessuno si arrischiò a toccarlo, ed il re morì abbruciato. Ma io, dovessi arrischiar la testa, o anche perder totalmente la Sua grazia, mi crederei il più vile degli uomini se in un momento come questo non Le dirigessi una parola in iscritto per la ragione che S. M. non mi dà facoltà di parlarle. Maestà, creda a un suo vecchio e fedel servitore, che nel servirla non ha mai pensato che al Suo bene, alla Sua fama ed all'utile del paese; Glielo dico con le lagrime agli occhi ed inginocchiato ai Suoi piedi: non vada più avanti nella strada, che ha presa. È ancora in tempo. Riprenda quella di prima". Il generale Alfonso La Marmora sconsigliò anche lui il re dal proseguire nella via in cui si era messo e con lui parlava l'esercito, che era per partecipare alla guerra di Crimea; il generale Giacomo Durando non riuscì a formare un ministero; una viva agitazione liberale cominciò a serpeggiare a Torino. Il re dovette, quindi, richiamare Cavour il 3 maggio e firmare la legge sui conventi il 29 maggio. La vittoria di Cavour segna la vittoria del regime parlamentare sul regime costituzionale: nel sistema politico dell'Azeglio il re era il perno del sistema; in quello del Cavour il perno diventa il parlamento. Nella figurazione simbolica, che andava assumendo nella coscienza nazionale, il re troverà un campo d'azione più vasto talvolta di quello dei suoi ministri; nello stesso sistema parlamentare egli apprenderà l'arte d'operarvi dal didentro rispettando le forme istituzionali; ma dovrà agire sempre nel quadro del nuovo regime. Così pure i clericali torneranno alla riscossa alla fine del 1857, ma tenteranno di conquistare legalmente la camera e non intrigheranno più nelle anticamere.

Simbolo d'unità nazionale. Tra Cavour e Garibaldi (1855-186I). - La guerra di Crimea non diede al regno di Sardegna quegl'ingrandimenti territoriali che V. E. desiderava, ma ebbe per la casa Savoia grandi effetti morali. La bella partecipazione delle truppe piemontesi alla vittoria della Cernaia soddisfece l'amor proprio nazionale. Col viaggio di V. E. a Parigi e a Londra il re si fece conoscere in Europa. Al congresso di Parigi si vide, per la prima volta in Europa, il rappresentante d'un piccolo stato osare porre in stato d'accusa come perturbatrice dell'equilibrio politico una grande potenza. L'entusiasmo dei patrioti italiani giunse al colmo e prese finalmente corpo nelle loro immaginazioni il mito, che era stato lanciato dal Gioberti nel Rinnovamento, di V. E. come simbolo d'unificazione nazionale. Daniele Manin si staccò da Mazzini con una polemica clamorosa e produsse il primo grande ralliement alla monarchia sabauda dei repubblicani. Francesco De Sanctis, meridionale, della terra più attaccata all'indipendenza regionale, bollò con parole di fuoco coloro che avrebbero voluto sostituire i Murat ai Borboni nel regno di Napoli e affermò la sua fede in casa Savoia. Ma più di tutto notevole fu l'adesione alla monarchia, come unificatrice nazionale, di Giuseppe Garibaldi tornato dall'America nel 1854. Sorse la Società nazionale col motto "Italia e Vittorio Emanuele" e per mezzo delle legazioni e dei consolati sardi diffondeva negli altri stati italiani direttive, libri, giornali.

Effetti morali, ma nulla di sodo, pensava Mazzini, che tentò di riprendere l'iniziativa repubblicana nel 1857 con la rivolta di Genova (giugno-luglio) e con la spedizione di Pisacane. L'agitazione repubblicana giovò ai clericali, che nelle elezioni del dicembre 1857 inflissero una grave disfatta ai liberali. Il re avrebbe potuto allora dare anche il potere ai clericali, invece sentì in Cavour l'uomo che gli occorreva per le sue aspirazioni di politica estera e lo sostenne, ma Cavour dovette sacrificare il Rattazzi, che fu costretto ad abbandonare il ministero il 14 gennaio 1858.

Si era appena schivato lo scoglio clericale che s'incappò di nuovo in quello repubblicano. Nello stesso giorno in cui Rattazzi abbandonava il ministero, Felice Orsini attentava alla vita di Napoleone III. Il governo francese pretese dal regno di Sardegna severissime misure contro la stampa repubblicana. Cavour soppresse il più importante degli organi mazziniani, L'Italia del Popolo, ma, poiché l'imperatore si era spinto fino a dire all'aiutante di campo del re, Enrico Morozzo Della Rocca: "Je n'ai qu'à lever un doigt et mon armée, comme la France entière, marchera enchantée là où je lui indiquerai le repaire des assassins", V. E. si sentì rifluire nelle vene il sangue del Conte Verde, di Emanuele Filiberto e di Vittorio Amedeo II, e scrisse al Della Rocca in una lettera che fu mostrata a Napoleone, la frase famosa: "Ne faites pas l'imbécile, cher général; dites-lui tout cela de ma part et si les paroles que vous me transmettez sont les paroles textuelles de l'empereur, dites lui, dans les termes que vous croirez meilleurs, qu'on ne traite pas ainsi un fidèle allié; que je n'ai jamais souffert de violences de personne; que je suis la voie de l'honneur, toujours sans tache, et que de cet honneur je n'en réponds qu'à Dieu et à mon peuple. Qu'il y a huit cent cinquante ans que nous portons la tête haute et que personne ne nous la fera baisser; et qu'avec tout cela je ne désire autre chose qu'être son ami". L'imperatore si calmò, non solo, ma finì col ritenere finalmente venuto il momento di realizzare in Italia i suoi disegni di politica estera e invitò Cav0ur al convegno di Plombières, dove fu abbozzata un'alleanza franco-sarda contro l'Austria: V. E. sarebbe dovuto diventare re dell'alta Italia e in compenso avrebbe dovuto dare alla Francia la Savoia e anche forse Nizza, la cui sorte rimaneva sospesa; tutta l'Italia avrebbe dovuto formare una confederazione, di cui il papa sarebbe stato il capo titolare e il re dell'alta Italia il capo effettivo; il matrimonio tra la primogenita di V. E., Clotilde, e il principe Napoleone, infine, avrebbe dovuto dare il suggello all'alleanza tra le due case regnanti (21 luglio 1858). Sei mesi dopo il principe Napoleone negoziava a Torino il trattato formale d'alleanza, che venne firmato il 26 gennaio 1859 dall'imperatore, e il 30 gennaio sposava Clotilde: con queste nozze la casa Savoia acquistò alla corte di Francia uno dei più validi suoi avvocati. Prima, però, che la guerra si dichiarasse bisognò sormontare durissimi ostacoli opposti dalla diplomazia europea, il che fu fatica particolare di Cavour; più volte vacillò la fiducia di V. E. in Napoleone, e il 28 marzo scrisse al Cavour, allora a Parigi: "Si l'on ne peut guerre, j'abdique; dites Empereur plus danger paix que si la guerre à cette heure". Per fortuna l'Austria precipitò ogni cosa, imponendo al regno di Sardegna l'immediato disarmo col famoso ultimatum del 23 aprile, e la guerra, che V. E. sognava da dieci anni, scoppiò. Il comando supremo delle truppe franco-sarde fu assunto da Napoleone III, ma V. E. ebbe agio di mostrare in più d'uno scontro, e specialmente a Palestro (30-31 maggio), dove guadagnò i galloni di caporale degli zuavi, il suo coraggio personale. Durante la guerra risorsero i dissidî tra lui e il Cavour e stavolta per i rapporti tra il re al campo e il ministro dirigente nella capitale, ma incominciarono le cordiali relazioni con Garibaldi. Lo Stato maggiore piemontese diffidava dell'eroe nizzardo, invece V. E. volle che egli avesse la sua parte di gloria alla testa dei cacciatori delle Alpi e gli permise quella campagna lungo i laghi lombardi, che lo condusse alle brillanti vittorie di S. Fermo e di Varese. Ma l'Europa, che aveva cercato d'impedire la guerra, non mancò, dopo le vittorie di Solferino e S. Martino, di tentare la mutilazione della vittoria per timore che Napoleone III riprendesse il cammino del suo grande avo: le potenze dichiararono all'imperatore che se le sue truppe avessero invasa la Venezia, tutta l'Europa sarebbe stata per l'Austria, e Napoleone III fu costretto a firmare l'armistizio e i preliminari di pace di Villafranca. Re V. E. li accettò con la formula "en tout ce qui me concerne", formula che gli permise più tardi di procedere all'annessione dell'Italia centrale senza venir meno formalmente ai patti. Invano Cavour cercò, nel colloquio di Monzambano (10 luglio), di dissuaderlo dal firmarli; il re era persuaso che ciò fosse necessario e Cavour dovette cedere il potere al ministero La Marmora-Rattazzi.

Con i preliminari di Villafranca V. E. otteneva la Lombardia, ma restava da risolvere la questione dell'Italia centrale, poiché, all'inizio della guerra, la Toscana, Modena, Parma e Piacenza, Bologna e le Legazioni, avevano rovesciato i loro governi e manifestato la loro volontà di unirsi al regno di Sardegna. L'Inghilterra spingeva alle annessioni e il ministro inglese a Torino, sir James Hudson, fece giungere al re, per il tramite dell'aiutante di campo generale Solaroli, il consiglio: "S. M. si ricordi di quanto disse Enrico IV quando si fece cattolico: Un Royaume vaut bien une messe. Il re potrebbe dire assai bene: Il Regno d'Italia vale una scomunica" (4 ottobre 1859). La Francia da un lato mostrava di voler fare rispettare i deliberati di Villafranca, di desiderare il ritorno dell'Italia ai suoi vecchi sovrani; dall'altra faceva intendere che se avesse avuto Nizza e Savoia, avrebbe avallate le annessioni. Il papa minacciava di scomunica gli usurpatori di parte dello Stato Pontificio, mentre Garibaldi avrebbe voluto strappargli anche il resto. Su Garibaldi il re aveva abbastanza prestigio per fargli aggiornare le sue idee, ma quanto ai maneggi diplomatici un uomo solo avrebbe potuto padroneggiarli: Cavour. Da ogni parte, dall'Italia e dall'estero, gli si ripresentava quel nome. Per quanto V. E. non lo amasse, aveva troppo senso politico per non sapersi piegare a questa necessità. Cavour tornò al potere il 21 gennaio 1860, ma dovette sostenere una ben dura lotta per condurre in porto la cosa. La Francia non solo volle la Savoia e Nizza in cambio del consenso all'annessione dell'Italia centrale, ma anche una vantaggiosa frontiera militare, provocando l'opposizione del ministro della guerra, generale Manfredo Fanti, che minacciò di dimettersi. Garibaldi si scagliò contro colui che voleva renderlo straniero alla sua patria. I mazziniani rialzarono il capo e si posero sotto le grandi ali di Garibaldi. Rattazzi si mise alla testa di un imponente partito d'opposizione alla camera dei deputati, e lanciò in parlamento una vera requisitoria di lesa nazionalità contro Cavour. Nel re tutti questi motivi d'opposizione sembravano assommarsi: vecchio Savoia gli doleva cedere la culla dei suoi avi; soldato, condivideva le idee di Fanti, l'unica persona del ministero Cavour la quale gli fosse simpatica; simbolo d'unità nazionale, sentiva nel suo istinto regale che occorreva tener conto del sentimento di Garibaldi; sovrano d'antica razza vedeva in Cavour l'uomo che aveva ridotto il suo potere personale, e credeva di aver trovato in Rattazzi colui che glielo avrebbe fatto riacquistare. Ma il Cavour affrontò impavido la mischia. "Plus tôt que de laisser tomber le pays dans les mains de Rattazzi", scriveva il 2 maggio 1860 al principe Eugenio di Carignano, che gli era sinceramente amico e che si batteva per lui presso il re, "je continuerai à combattere sans regarder si l'on me mine par derrière", e continuava: "Je suis décidé à servir le Roi malgré lui, jusqu'au jour où il pourra ou voudra me remplacer par des gens honnêtes et dévoués". E Cavour trionfò di tutti gli ostacoli, ma dovette permettere a Garibaldi la spedizione dei Mille, che il re vedeva di buon occhio. Giunto in Sicilia, Garibaldi assunse la dittatura dell'isola in nome di V. E.; il re e Cavour temevano dei mazziniani, che gli erano intorno, e avrebbero voluto subito l'annessione. Garibaldi, invece, voleva protrarla fino al giorno in cui, giunto a Roma, avrebbe proclamato in Campidoglio V. E. re d'Italia. Per impedire la marcia su Roma, le potenze costrinsero Cavour a consigliare al re di servirsi del suo fascino su Garibaldi, per indurlo a non passare sul continente. Il re inviò, è vero, a Garibaldi una lettera ostensibile in cui gli sconsigliava il passaggio, ma in una lettera privata lo incitava a fare il contrario e a disobbedirgli. Garibaldi disobbedì, e Cavour si servì della disubbidienza e del pericolo della marcia su Roma, per farsi dare dall'imperatore Napoleone il nulla osta all'intervento regio e per salvare il prestigio della monarchia. Il 10 settembre 1860 il re, alla testa delle sue truppe, invadeva l'Umbria e le Marche, faceva battere dai suoi generali Fanti e Cialdini l'esercito pontificio e marciava, attraverso gli Abruzzi, su Napoli. Garibaldi chiese al re, per mezzo di Pallavicino Trivulzio, che egli congedasse Cavour e Farini e gli concedesse il governo del Mezzogiorno per un certo periodo di tempo, ma il re respinse sdegnosamente ogni condizione e Garibaldi ebbe il patriottismo di piegarsi, di non insistere, di far proclamare l'annessione di Napoli e di Sicilia al regno d'Italia mediante i plebisciti del 21-22 ottobre e di rendere omaggio a V. E. nell'incontro di Teano (26 ottobre). Garibaldi raccomandò solo che si trattassero bene quei bravi volontarî, che gli avevano reso possibile l'epica impresa, ma qui un nuovo problema si poneva per la monarchia. I più autorevoli uomini del partito moderato e i generali dell'esercito ritenevano che perché essa fosse solida occorresse che una fosse la forza armata, una la disciplina e che questa fosse tutta in mano del re. Si accolsero, perciò, nell'esercito regolare i migliori luogotenenti di Garibaldi che presero posto tra i migliori generali di Sua Maestà (Bixio, Cosenz, Medici); alcuni di essi, come l'ungherese Türr, divennero aiutanti di campo generali del re, ma del grosso dei volontarî si formarono i quadri di tre divisioni, i cui ufficiali furono posti in aspettativa, con l'intento di adoperarli esclusivamente in guerra (11 aprile 1861). Garibaldi insorse contro questa misura e si scagliò contro Cavour e Fanti nella seduta del 18 aprile 1861, alla quale intervenne come deputato d'uno dei collegi di Napoli. Corsero parole grosse, e il generale Cialdini si credette in dovere di farsi campione dell'esercito e d'inviare a Garibaldi una lettera di sfida. V. E. comprese allora che a lui, quale simbolo d'unità nazionale, spettava la funzione mediatrice e volle che Garibaldi e Cavour, Garibaldi e Cialdini si riconciliassero per il bene supremo del paese. Mentre si risolveva il problema garibaldino, si affrontava anche il problema istituzionale e si trasformava, con legge del parlamento, il regno di Sardegna in regno d'Italia (14 marzo 1861), di cui Roma veniva proclamata capitale (27 marzo). Le correnti democratiche avrebbero voluto che il re cambiasse il suo nome in quello di Vittorio Emanuele I, ma il re teneva fortemente alla continuità storica e al diritto divino della dinastia, e Cavour, liberale sì, ma liberale piemontese, seppe trovare il modo di conciliare la sua volontà con quella della nazione. Poi, compiuto l'atto che consacrava la sua grande opera e additava la missione che restava ancora da ultimare, si spense (6 giugno).

Tra la destra e il partito d'azione (1861-1870). - Sparito il conte di Cavour dalla scena politica, che tutta padroneggiava con la vigoria del suo genio, V. E. credette essere venuto il momento di riprendere la sua politica personale, ma si trovò di fronte il barone Bettino Ricasoli da lui dovuto chiamare alla presidenza del consiglio, perché capo della maggioranza parlamentare. Nel Ricasoli, l'ultimo barone feudale d'Italia e l'uomo libero delle generazioni alfieriane del Risorgimento si fondevano in modo singolare per formare uno dei più tipici rappresentanti della destra storica. Statista di parte moderata, considerava il re non come un uomo, ma come una categoria politica, un principio di coesione e di forza, una magistratura per il benessere e la grandezza della nazione. V. E. era esuberante di vita, mal soffriva di essere incapsulato in un simbolo e voleva essere re, re davvero. Il conflitto tra i due non poteva non scoppiare violento, ma non uscì dalle forme legali, parlamentari. Fin dal 1859 era divenuto consigliere di fiducia informatore politico del re, Urbano Rattazzi, e Rattazzi insegnò a V. E. l'arte di dominare il parlamento con il parlamento. Ricasoli fu obbligato a dimettersi e a cedere il posto a Rattazzi, che presentò il nuovo ministero il 3 marzo 1862.

Rattazzi era il ministro del cuore del re: gli era entrato in grazia con le sue maniere insinuanti ed era appoggiato inoltre dalla contessa di Mirafiori, amante e poi moglie morganatica di V. E. Abilissimo negl'intrallazzi di corte e di corridoio, ottimo amministratore, consulente legale del monarca e di uomini di governo, assai fine nel trovare la formula giuridica adatta ad attuare complesse esigenze politiche, Rattazzi voleva emulare Cavour, ma non ne aveva il genio e la forza di carattere. Tuttavia attraverso lui giungevano al re le esigenze e le aspirazioni del cosiddetto partito d'azione e con le sue maniere egli riuscì a far evolvere in senso sempre più costituzionale il re meglio degli uomini della destra (Cavour, Ricasoli, La Marmora, Lanza), che avevano il torto di voler prendere di fronte un temperamento così fiero come quello di V. E. Appena salito al potere, Rattazzi favorì i disegni del re nell'anteporre la questione di Venezia a quella di Roma, che era stata la massima preoccupazione di Ricasoli, e insieme incoraggiarono Garibaldi a imprese volte a fomentare il movimento delle nazionalità contro l'impero austriaco. Motivi di ordine internazionale costrinsero, però, il governo a sciogliere le forze garibaldine, che si andavano formando a Sarnico (15 maggio 1862). Aggiornata la questione di Venezia, Garibaldi passò a quella di Roma e diede convegno in Sicilia ai suoi bravi volontarî. V. E. non mancò, fin dal 17 luglio, di scongiurare Garibaldi a desistere da un'impresa condannata all'insuccesso, ma Garibaldi gli rispose che avrebbe marciato ciò nonostante su Roma e là avrebbe atteso gli ultimi ordini del sovrano, "giacché in néssuna circostanza l'avvenire mi si presentò più bello di oggi" (10 agosto). E allora V. E., che il 3 agosto aveva proclamato solennemente: "Re acclamato dalla nazione conosco i miei doveri, saprò conservare integra la dignità della Corona e del Parlamento per avere il diritto di chiedere all'Europa intera giustizia per l'Italia", lo fece arrestare dalle sue truppe ad Aspromonte (29 agosto). L'episodio costrinse Rattazzi a dimettersi. Stanco delle lotte parlamentari, il re, seguendo i consigli del conte Ponza di S. Martino, avrebbe voluto un ministero che facesse dell'amministrazione e non della politica, ma il prefetto di Torino, Pasolini, lo distolse da questa idea e lo indusse a formare un ministero parlamentare, i cui capi, Farini, Minghetti e Peruzzi, erano persone molto influenti, ma che il re non amava. Temperamento di diplomatico, il Minghetti, a differenza degli altri uomini della destra, lasciò fare il re nella politica estera e il suo ministero fu forse l'epoca d'oro del secret du roi. La Polonia si era ribellata, la Galizia era agitata, l'Ungheria malcontenta, la Serbia tendeva verso gli Slavi dell'impero austriaco, la Romania desiderava la Transilvania. Mazzini credette che fosse di nuovo venuta la sua ora: la ripresa della grande lotta delle nazionalità; ma per realizzare il suo sogno della distruzione dell'impero asburgico aveva bisogno anche delle forze organizzate della monarchia italiana. V. E., sempre più tenero di Venezia che di Roma, desiderava riprendere la lotta contro l'Austria. I fini del re e del grande agitatore, una volta tanto, coincidevano, e si pose intermediario tra loro l'ingegnere Diamilla-Müller, che era amico del consulente legale della contessa di Mirafiori, l'avvocato Pastore. Alle trattative partecipò anche Garibaldi e si disegnò una grandiosa spedizione nell'Europa centrale per scuotere dalle fondamenta l'impero austriaco. Ad alcuni democratici, come il Bertani, il disegno parve un piano machiavellico del re per sbarazzarsi con un'impresa rischiosa delle forze garibaldine, e tale presunto piano fu svelato nel giornale Il Diritto di Torino del 10 luglio 1864. Il re troncò subito ogni trattativa; Garibaldi si sdegnò della mossa del Bertani, che lo presentava quasi come uomo che si lasciasse troppo guidare dalla monarchia e a Mazzini la cosa spiacque molto. I rapporti tra Mazzini e V. E. furono criticati dai repubblicani e dai monarchici, sebbene ambedue avessero saputo tener ferme le proprie rispettive posizioni nelle trattative: politicamente, però, essi giovarono più al re che al grande agitatore, poiché Mazzini, ponendo il punctum saliens della sua azione politica nell'unità, rendeva agevole il passaggio di molti suoi seguaci alla monarchia che dell'unità si era fatta campione. E sebbene Mazzini distinguesse tra problema nazionale, in cui era lecito servirsi della monarchia, e problema politico interno, in cui occorreva combatterla, Crispi e altri troveranno nei suoi rapporti segreti col sovrano la giustificazione morale della loro conversione alla monarchia.

Mentre il re trattava segretamente con Mazzini per risolvere la questione veneta, il Minghetti segretamente trattava con Napoleone III della questione romana. Per ottenere lo sgombro delle truppe francesi da Roma e divenire l'arbitro dell'integrità dello Stato Pontificio, Minghetti concedette a Napoleone III il trasporto della capitale da Torino a Firenze come prova del lealismo del governo italiano. Con tale concessione egli riteneva d'aver conseguito due vantaggi, di avere cioè fatto avanzare d'un passo la questione romana e di avere stroncato l'idea del "piemontesismo", che urtava l'amor proprio delle altre regioni d'Italia. Minghetti sapeva che il re, piemontese puro sangue, sarebbe stato contrario alla cosa e gliene parlò solo all'ultimo momento quando tutto era concluso. V. E. esplose in una delle sue collere violente: "Ma che dirà Torino?", chiese al Minghetti. "Non è indegno rimeritarla di tanti sacrifici con un sacrificio ancora più crudele?". E, poiché Minghetti si credette in dovere di mostrarsi anche lui compunto: "E che importa, continuò, a voialtri di Torino? sono io che ne ho il cuore schiantato: io che ho sempre vissuto qui, che ho qui tutte le memorie d'infanzia, tutte le mie abitudini, i miei affetti". Volle fare per la sua Torino un ultimo tentativo e inviò a Napoleone III il generale Menabrea per ritirare la concessione dei suoi ministri, ma tutto fu inutile e dovette firmare la cosiddetta convenzione di settembre (15 settembre 1864). Torino ebbe uno scatto di ribellione (giornate del 20-zi settembre e insulti del 30 gennaio 1865 alle dame e gentiluomini che si recavano al ballo di corte), ma poi seppe ritrovare la sua via e farsi nella nuova Italia una nuova grande missione. Minghetti cadde per volere del re (23 settembre 1864), ma il ministero che lo sostituì, composto delle figure più elette della parte moderata subalpina (La Marmora, Lanza, S???), eseguì lealmente la convenzione e la capitale d'Italia venne trasportata a Firenze (giugno 1865). Per il trasporto della capitale crebbe la devozione degl'Italiani per la dinastia: si ebbe una nuova prova che essa era capace dei più grandi sacrifici per il paese e una nuova calda ondata di simpatia e di popolarità l'avvolse fuori del Piemonte.

Sopiti i contrasti regionali con l'abbandono della capitale dei suoi avi, V. E. riprese l'azione per avere il Veneto. La missione Malaguzzi Valeri per averlo pacificamente fu tentata per suo volere personale. Mentre La Marmora negoziava dal suo canto con la Prussia, il re non tralasciava la sua politica personale, e, all'insaputa di lui, aveva colloquî segreti con agenti prussiani e manteneva i contatti con i patrioti ungheresi per mezzo del suo aiutante di campo generale Türr. Scoppiata finalmente la guerra con l'Austria, i dissensi tra lui, La Marmora e Cialdini provocarono una vera crisi del comando e condussero a Custoza (24 giugno 1866). Vinto, non domo, avrebbe voluto, nonostante l'armistizio di Nikolsburg, continuare la guerra e liberare il Trentino, ma La Marmora si oppose con tale forza, con tale senso di responsabilità per la salute del paese, che V. E. si piegò ad accettare la Venezia dalla Francia, ad abbandonare il Trentino e a firmare con l'Austria la pace il 3 ottobre 1866. Bene o male Venezia si era ottenuta; restava Roma, e V. E., d'accordo col Rattazzi, che aveva richiamato al potere nel 1867, volle spezzare il nodo gordiano, ripetendo la manovra cavouriana del 1860, della spedizione nell'Umbria e nelle Marche. Un'insurrezione doveva scoppiare a Roma, nuclei garibaldini dovevano correre al suo soccorso, infine le truppe regie dovevano intervenire per salvare il papa e rimettere l'ordine: Napoleone III, stanco, disfatto, avrebbe accettato i fatti compiuti. Napoleone III, invece, volle che si rispettasse la convenzione di settembre e si giunse a Mentana. Fu criticato il re per le sue impazienze e da taluno viene ora anche criticato Garibaldi; ma non si tiene conto che tutti gl'infelici tentativi garibaldini e monarchici del novennio 1861-70 hanno lo stesso valore morale degl'infelici tentativi mazziniani dell'epoca precedente, e se il re si esponeva a rimbrotti, a recriminazioni, ad accuse da parte dei rivoluzionarî e dei moderati, i rimbrotti e le recriminazioni venivano subito dimenticati, si ricominciava daccapo e ciò che restava era un sovrano, confuso con i rivoluzionarî, che lavorava con i medesimi in discorde concordia per costituire l'unità nazionale.

Non per un colpo di mano, ma per felici contingenze internazionali, V. E. riuscì ad avere Roma nel 1870: la guerra franco-prussiana, alla quale egli avrebbe voluto intervenire a fianco della Francia, ma ne fu impedito dalla saggezza dei suoi ministri, il Lanza e il Sella. La missione nazionale era compiuta, mentre la monarchia si consolidava all'interno. A Napoli nasceva il nipote Vittorio Emanuele nel 1869: la città più tenace nei ricordi regionali piegava alla nuova dinastia e per opera del principe di Piemonte, Umberto, s'iniziava il ralliement alla monarchia sabauda dell'aristocrazia borbonica, ralliement che quel nipote, divenuto principe di Napoli, doveva compiere. Nelle repubblicane Emilia e Romagna, un meridionale, A. C. De Meis, diffondeva l'idea monarchica e a lui si deve se alcuni aspetti mitici della monarchia in Italia furono fissati con arte magistrale dal più brillante degli scrittori storico-politici romagnoli, Alfredo Oriani. Restava solo al difuori della monarchia, il grande avversario, l'irreconciliabile: G. Mazzini. Arrestato dal governo del re, fu trattato con tutti i riguardi, ma la propaganda da lui tentata nell'esercito venne sventata tempestivamente con molta severita, poiché su questo punto V. E. era come suo padre per una disciplina inflessibile. Il prestigio della monarchia sabauda si diffondeva in Europa, e, come la Grecia nel 1862 aveva desiderato un principe di quel sangue per realizzare la "Grande Idea", così la Spagna nel 1870 ne volle uno per attuare un esperimento di governo liberale. V. E. favoriva con l'entusiasmo d'un vecchio Savoia l'irradiazione della sua casa, e assai si dolse quando suo figlio Amedeo abdicò l'11 febbraio 1873. Con lo scambio di visite con gl'imperatori d'Austria-Ungheria e di Germania (1873 e 1875), infine, V. E., il re della più antica casa principesca d'Europa, divenuto re rivoluzionario, riconsacrato dai plebisciti, amico di Garibaldi, cospiratore con Mazzini, compagno d'arme dell'intruso Bonaparte, rientrava nella buona società dei principi europei.

Nello stesso tempo anche all'interno il re ritornava principe conformista: la sua evoluzione in senso costituzionale era compiuta, ma ai danni particolari di coloro che l'avevano formata: il 18 marzo 1876 l'aristocrazia che aveva creato lo stato italiano, cessava di governare, e il potere passava ad Agostino Depretis, capo della sinistra parlamentare. Fu l'ultimo grande atto politico di V. E. La corona non aveva alcun interesse a perpetuare una divisione, che presupponeva non chiuso il processo del Risorgimento. Di fronte al persistente pericolo clericale e all'incipiente pericolo rivoluzionario socialista, era buona politica assorbire i residui rivoluzionarî di origine mazziniana e garibaldina, dissolvere i conflitti ideali del passato e formare un blocco contro i comuni nemici. Il compito era stato facilitato alla monarchia dall'evoluzione della democrazia: per opera principalmente di Rattazzi, la vecchia sinistra rivoluzionaria, astratta, tendenzialmente repubblicana, si era trasformata nella sinistra giovane, monarchico-costituzionale, legalitaria. Se il re era cambiato dal giorno che, giovane duca di Savoia, mostrava verso gli avvocati borghesi gli stessi sentimenti dei suoi ufficiali, erano cambiati anche gli altri e si erano trasformati da energumeni parlamentari in scaltriti, forse anzi troppo scaltri, uomini di governo, e da fieri cospiratori, schivi da ogni contatto regio, in devoti servitori di Sua Maestà. Il repubblicanismo aveva perduto tutto il suo fascino eroico. "Noi", dirà più tardi Nicotera, "siamo stati repubblicani un tempo, quando esser tali era un dovere: eravamo allora una minoranza, e il pericolo era grandissimo, perché ogni piccolo tentativo repubblicano in quei tempi si pagava con la testa. Ma adesso, grazie alla magnanimità del nostro Re, non costa la testa neanche l'attentato alla vita del principe". In un altro punto poi sovrano e sinistra parlamentare s'incontravano contro la destra: nella politica estera; l'uno e l'altra non volevano rassegnarsi al destino, rimandare al futuro il problema di Trento e Trieste e intanto fare una politica di raccoglimento. Il tentativo fatto da Crispi nel 1877 per avere il Trentino in compenso dell'espansione austriaca nella Penisola Balcanica ebbe tutta l'adesione del re. Fu l'ultimo suo conato: poi, quasi come se con esso avesse voluto soltanto additare ai suoi successori una meta da lui non raggiunta e che ad essi sarebbe spettato toccare, si spense serenamente, il 9 gennaio 1878.

In V. E. bisogna distinguere il mito e l'uomo. Il mito è sacro a ogni buon italiano e nessuno lo ha compreso con maggiore forza che Alfredo Oriani nell'introduzione al suo Quartetto: "egli era l'Agamennone della nostra Iliade, il simbolo più sintetico della nostra idea. L'individuo non montava, e fosse stato pur pazzo, nullo come suo nonno, o inferiote come suo padre, poiché con lui si era trionfato e in lui s'incontravano la tradizione romana e l'italiana, il concetto dei pensatori e la visione dei poeti; poiché aveva riassunto tutte le forze, quelle di Garibaldi e di Cavour, di Mazzini e di Cattaneo; poiché aveva fuso il regno di Piemonte con quello di Napoli, la repubblica di Genova con quella di Venezia, il ducato di Milano con quello di Firenze; poiché aveva riaperto Roma, chiusa dai Papi al mondo civile; poiché infine tutto quello che si era voluto, che si era fatto aveva dovuto passare attraverso lui, come per un perno, che, intrecciando i fili, torce la corda; tutti coloro, che la miseria di partito non abbassava sotto il livello del cittadino, dovevano convenire in questo simbolo, che uscendo dalla vita per entrare nella storia, prendeva la consacrazione della irrevocabilità". Col simbolo, la tradizione patriottica ci ha tramandato l'uomo, nella sua umanità più immediata - amori, cacce, cavalli, avventure - avvolto dall'indulgente simpatia dei vecchi piemontesi, che amavano pettegoleggiare delle belle amiche del re, e dei nuovi italiani, per il cui senso estetico un po' di fragile e comune umanità non guasta, o accompagnato dal severo cipiglio dei mazziniani e della destra, che avrebbero voluto tramandare il re chiuso in una campana di cristallo, puro simbolo, sordo ai riehiami della carne.

Tra il simbolo e l'uomo, effigiato dalla tradizione popolare, occorre colmare il fossato, e le ricerche storiche più recenti tendono appunto a ricostruire criticamente l'uomo reale V. E.

Nulla dovette V. E. alla cultura: a Marco Minghetti egli confidava, ed era la verità, che "in fatto di studi non era riuscito ad apprendere nulla di serio, e che nella vita se l'era sempre cavata abbastanza bene con le sue qualità, naturali la pratica degli uomini, il buon senso e il coraggio". Vecchio Savoia, sentì come suo padre l'imperativo categorico della sua casa che vivere significa crescere, ed ebbe fede nella storia come grande improvvisatrice. A differenza dei Hohenzollern, non ebbe nelle sue aspirazioni territoriali considerazioni d'indole giuridica romantico-legittimistici, ma, come i suoi avi, avvertiva un freno soltanto nella reverenza alla S. Sede: un freno, non un ostacolo insormontabile, perché seppe andare a Roma, nonostante le riluttanze della sua coscienza di cattolico.

Esuberante di vita, seppe tuttavia adattarsi ai tempi e fare i più gravi sacrifici per il bene del paese e della dinastia, senza avvilirsi. Temperamento autoritario, fu popolarissimo; fiero dell'antichità della sua casa, s'imparentò con un parvenu come Napoleone III e fece con lui gran parte della sua via; cattolicissimo, mosse guerra al papa; piemontese, ultimo e più popolare, più tipico, dei sovrani regionali d'Italia, seppe rinunciare a Torino e farsi sovrano nazionale. Solo il cuore non volle piegare alla ragion di stato, e quando Cavour voleva costringerlo a sposare una principessa russa e a lasciare la contessa di Mirafiori, si oppose nettamente; ma anche in ciò trovò il modo di mantenersi fedele alla sua parola senza avvilire la sua dignità regale, poiché alla sua amante aveva promesso di sposarla, ma di non farla regina.

Immaginoso abbastanza per dar facile ascolto alle lusinghe della sua smania d'agire, V. E. era abbastanza intelligente per arrestarsi in tempo: tale temperamento lo rendeva meravigliosamente atto a integrare l'azione di Cavour o a fare da mediatore tra le audacie del partito d'azione e la prudenza dei moderati.

Profondo conoscitore degli uomini, V. E. non credeva molto nelle loro virtù: aveva visto troppe conversioni di mazziniani, garibaldini, borbonici. Ma il fondo della sua natura, essenzialmente ottimista; il culto del bene del paese e della dinastia impedivano a tale suo atteggiamento di sfociare nello scetticismo.

Insomma, V. E. non fu, né i tempi lo avrebbero permesso, un Emanuele Filiberto o un Vittorio Amedeo II, ma non fu neanche il fortunato uomo al quale un grande popolo, uomini d'eccezione e felici contingenze internazionali abbiano elevato il più invidiabile piedistallo storico: egli compì, con profondo spirito di sacrificio, con iniziative spesso felici, la sua missione di re e visse seriamente la più brillante carriera di sovrano moderno.

Bibl.: Manca una buona bibliografia degli scritti di e su V. E.: quella di A. Vismara, Saggio di una bibliografia di V. E. II, Roma 1879, è oggi del tutto inadeguata.

Manca un epistolario di V. E. completo: lettere sue sono sparse in gran numero di pubblicazioni (cfr. A. Colombo, Per l'epistolario di V. E. II nel primo centenario della nascita, Torino 1920), ma solo in questi ultimi anni si è cominciato a pubblicare qualche ghiotta primizia del suo archivio personale (A. Luzio, A. Monti), per un inventario del quale è da vedere per ora L. C. Bollea, L'archivio personale di V. E., in Il Risorgimento italiano, 1917, pp. 49-85. Dei discorsi al parlamento nazionale e dei proclami all'esercito del re, si fece invece subito un'edizione a cura della presidenza del Senato del regno: Discorsi di V. E. II re d'Italia al Parlamento nazionale e proclami di lui all'esercito, Roma 1878.

Manca una biografia critica, pensata con criterî storiografici moderni, sul gran re. Le due più notevoli biografie restano quelle di G. Massari, La vita e il regno di V. E. II, voll. 2, Milano 1878, e di V. Bersezio, Il regno di V. E. II, voll. 8, TOrino 1878-95: la prima è ancora viva; la seconda seppellisce l'eroe nei suoi tempi e per la sua mole e il suo stile è utile solo come consultazione. Delle opere divulgative le più oneste sono tra le vecchie quella di L. Cappelletti, St. di V. E. II e del suo regno, voll. 3, Roma 1893 e tra le recenti quella di G. Vicenzoni, V. E. II Sua vita e suoi tempi, Milano s. a. Una vera colluvie esiste di profili popolari, maneggevoli, spesso tascabili, da quello di V. Bersezio, Biografia di V. E. II, Torino 1861 (in I contemporanei italiani. Galleria nazionale del secolo XIX) a G. Lumbroso, V. E. II, Firenze 1933. Nessuna grande opera straniera è stata finora scritta su V. E. II.

Manca un lavoro storico organico sull'idea monarchica nel Risorgimento, sui nessi tra istituto monarchico, necessità politiche contingenti, trasfigurazioni mitiche, personalità empirica del re; ma sull'argomento vi sono spunti geniali in V. Gioberti, Del rinnovamento civile d'Italia, a cura di F. Nicolini, voll. 3, Bari 1911-12; A. C. De Meis, Il sovrano, a cura di B. Croce, ivi 1927; A. Oriani, Quartetto, Milano 1883; id., La lotta politica in Italia: origini della lotta attuale, Torino 1892; M. Missiroli, La monarchia socialista, Bari 1914; B. Croce, L'epopea ital. della casa di Savoia e G. Carducci, in Critica, XXV (1927), pp. 128-132.

Per la giovinezza, sui genitori: N. Rodolico, Carlo Alberto principe di Carignano, Firenze 1931; G. Marcotti, La madre del re galantuomo, Firenze 1897; sull'educazione: D. Berti, L'educazione di V. E. e il suo matrimonio, in Scritti vari, I, Torino 1892, pp. 305-70; G. U. Oxilia, I figli di Carlo Alberto allo studio, in Nuova Antologia, i agosto 1907, pp. 369-84; Anonimo, I primi studi di V. E. II, ibid., pp. 385, 452; A. Monti, Adolescenza e giovinezza del Re Galantuomo, ibid., i gennaio 1936, p. 52 segg.; 16 gennaio 1936, p. 130 segg.; sulla vita galante: L. Chiala, Ricordi della giovinezza di A. La Marmora, voll. 2, Roma 1881; E. Della Rocca, Autobiografia di un veterano, Bologna 1897; sulla revenza per la S. Sede: Pio IX e Carlo Alberto, in Civiltà cattolica, s. 10ª, X (1879), p. 268; sulla campagna del 1848: Un ufficiale piemontese. Memorie ed osservazioni sulla guerra dell'indipendenza d'Italia nel 1848, Torino 1948; A. Talleyrand-Périgord, Souvenirs de la guerre de Lombardie pendant les années 1848 et 1849, ivi 1851; L. Chiala, La vita e i tempi del generale G. Dabormida, ivi 1896; C. Fabris, Gli avvenimenti militari del 1848-1849, voll. 3, Roma 1898-1904; Ufficio storico. Corpo di S. M., Relazioni e rapporti finali sulla campagna del 1848 nell'alta Italia, I, ivi 1908, pp. 319-336; id., La campagna del 1849 nell'alta Italia, ivi 1928; A. Monti, La guerra santa d'Italia, Milano 1934.

Per la prima fase del regno (1849-55), sull'armistizio di Vignale: F. Salata, Il convegno di Vignale e un rapporto inedito di Radetzsky, in Corriere della sera, 23 marzo 1927; id., Il governo di Vienna contro Radetzky per l'armistizio di Novara, ibid., 27 marzo 1927; id., Verso la pace di Milano. Un carteggio tra Maria Adelaide e Francesco Giuseppe, ibid., 15 aprile 1927; Howard Mc Gaw Smyth, The armistice of Novara: a Legend of a Liberal King, in The Journal of Modern History, giugno 1935, pp. 141-182; A. Monti, L'azione personale di V. E. nell'armistizio di Novara e nel trattato di Milano secondo documenti inediti di fonte austriaca, in Rassegna di politica internazionale, dicembre 1935; sulla crisi del 1849: C. Contessa, Momenti tristi illuminati con diversa luce, in Miscellanea di studi storici in onore di G. Sforza, Torino 1923, pp. 661-80; A. La Marmora, Un episodio del Risorgimento, Firenze 1875; F. Ruffini, V. E. II, Milano 1917; A. Colombo, Gli albori del regno di V. E. II. Nuovi documenti, Milano 1937; sull'origine azegliana del mito del re galantuomo: C. Paoli, Lettere di M. d'Azeglio a L. Torelli, Milano 1877, pp. 200-202; sui rapporti con l'Azeglio, v. N. Vaccalluzzo, M. d'Azeglio, Roma 1925; sugl'intrighi parlamentari e clericali: L. C. Bollea, Una silloge di lettere del Risorgimento, Torino 1919; L. Chiala, Carteggio politico di M. Castelli, I, ivi 1890; Costanza D'Azeglio, Souvenirs historiques, ivi 1884; A. Malvezzi, Diario politico di Margherita Provana di Collegno 1852-56, Milano 1926; L. Chiala, Une page d'histoire du gouvernement représentatif en Piémont, Torino 1858; A. Omodeo, Introduzione ai Discorsi parlamentari del Cavour, I, Firenze 1932; id., Mazzini e Cavour, in Critica, 20 luglio 1934, pp. 278-303; 20 settembre, pp. 358-77; 20 novembre, pp. 435-48; 20 gennaio 1935, pp. 34-37; 20 marzo, pp. 99-113; 20 maggio, pp. 189-208; sui rapporti con gli emigrati, cfr. per tutti B. E. Maineri, Il Piemonte nel 1850-51-52, Milano 1875 (lettere di V. Gioberti e G. Pallavicino); sui rapporti con la Francia: P. Matter, Cavour et l'unité italienne, II, Parigi 1925.

Per la seconda fase del regno (1856-61), sul congresso di Parigi e la formazione d'un partito unitario monarchico: A. Omodeo, in Critica, 20 luglio 1935, pp. 270-87; 20 settembre, pp. 341-70; sulla preparazione della guerra del 1859: Il carteggio Cavour-Nigra, a cura della R. Commissione Editrice, I e II, Bologna 1926; sui rapporti con Napoleone III: A. Luzio, Le lettere di Napoleone III a V. E. nella campagna del 1859, in Corriere della sera, 13 giugno 1909; sulla campagna del 1859: Ufficio storico, Corpo di Stato maggiore, La guerra del 1859 per l'indipendenza d'Italia, I e II, Roma 1910-12; sull'armistizio di Villafranca, le recenti rivelazioni di Egon Corti, Unter Zaren und gekrönten Frauen, Lipsia 1936; per la politica segreta del re alla fine del 1859: C. M. De Vecchi di Val Cismon, Del generale P. Solaroli, del re V. E. II, di una missione segreta nel 1859 e di altre cose ancora, in Rassegna storica del Risorgimento, 1934, pp. 657-74; id., P. Solaroli a Londra nel dicembre 1859, ibid., pp. 1189-1210; sui rapporti con Pio IX: Pio IX, V. E. II e Napoleone III. Ricordo storico del 1859-60, in Civiltà Cattolica, s. 14ª, III (1889), pp. 257-69 e 402-17; sui rapporti con Garibaldi: G. E. Curatulo, Garibaldi V. E. II, Cavour nei fasti della patria, Bologna 1911; per la posizione del re tra Cavour, Garibaldi, Rattazzi: Carteggio Cavour-Nigra, III e IV, ivi 1927 e 1928; per il titolo di re d'Italia, M. Rosi, L'Italia odierna, II, Torino 1932.

Per la terza ed ultima fase del regno (1861-1878), sui rapporti con i presidenti del consiglio: B. Ricasoli, Lettere e documenti, ed. M. Tabarrini e A. Gotti, Firenze 1891, VI; A. Luzio, Aspromonte e Mentana, Firenze 1935; G. Pasolini, Memorie, raccolte da suo figlio, Torino 1915, I; M. Minghetti, La convenzione di settembre. Un capitolo dei miei ricordi, Bologna 1899; A. La Marmora, Un po' più di luce, ecc., Firenze 1873; G. Massari, Il generale La Marmora, ivi 1880; E. Tavallini, La vita e i tempi di G. Lanza, Torino 1887, voll. 2: A. Guiccioli, Q. Sella, Rovigo 1887, voll. 2; sui rapporti con Mazzini: G. Mazzini, Corrispondenza inedita, Milano 1872; D. Diamilla-Müller, Politica segreta italiana (1863-70), Torino 1880; id., Roma e Venezia, ivi 1895; sulla partecipazione alla guerra del 1866: Sezione storica: Corpo di S. M., La campagna del 1866 in Italia, Roma 1875-95, voll. 2; A. Pollio, Custoza, Torino 1903; Comando del Corpo di S. M., Ufficio storico, Complemento alla storia della campagna del 1866 in Italia, Roma 1909, I, pp. 45-82; A. Luzio, Profili biografici e bozzetti storici, Milano 1927, II, pp. 285-318; G. Del Bono, Come arrivammo a Custoza e come ne ritornammo, ivi 1935; sui rapporti con Napoleone III: D'Ideville, Victor-Emmanuel II. Souvenirs, Parigi 1878; A. Comandini, Il principe Napoleone nel Risorgimento italiano, Milano 1922; E. Mayor des Planches, Re V. E. alla vigilia della guerra del 1870, in Nuova Antologia, 16 aprile 1920, pp. 337-54; sulla politica dinastica: in Grecia: G. Durando, Episodi diplomatici del Risorgimento Italiano, Torino 1901; in Spagna: Conde De Romanones, Amadeo De Saboya, Madrid 1935; sullo scambio di visite con gl'imperatori: L. Chiala, Carteggio politico di Michelangelo Castelli, II, Torino 1891.