VOTO

Enciclopedia Italiana (1937)

VOTO (fr. voeu; sp. voto; ted. Gelübde; ingl. vow)

Gennaro PESCE
Agostino TESTO
Nicola TURCHI
Emilio ALBERTARIO

Concetto e condizionl- Il voto è una promessa solennemente formulata, in forza della quale un individuo o un gruppo s'impegnano davanti alla divinità di compiere una data azione. Questa promessa può essere semplice o condizionata. È semplice quando il votante dichiara che a una certa data futura, che in genere coincide con un tempo o con circostanze di maggior possibilità per lui, egli compirà l'azione promessa, suggerita in genere da gratitudine per benefici ricevuti o per mali evitati. È condizionata quando il votante s'impegna a compiere una data azione purché la divinità, invocata solennemente a testimone, ne accordi prima una data altra. Si tratta, in fondo, di un'obbligazione contratta verso la divinità: prescindendo per ora dalla questione fatta in diritto romano (vedi sotto), possiamo ravvisare il carattere di pura e semplice promessa nel voto "semplice" e quello di vero e proprio contratto con la divinità (faciam si feceris o dabo si dederis anziché facio ut facias o do ut des) nel voto condizionato. Quest'ultimo si formula in casi di gravi necessità: pericolo mortale, guerra, per ottenere la nascita di un figlio, ecc.

Le cose votate debbono esser tali che la divinità se ne compiaccia: sacrifizî, fondazione di templi, donazioni, mortificazìoni e astinenze personali o collettive per un tempo determinato o in perpetuo, ecc.

Nella formulazione del voto è implicito, almeno inconsciamente nelle mentalità più primitive, un certo potere costrittorio sulle divinità invocate; e poiché è emesso liberamente, la sua inadempienza attira su chi lo ha emesso le più gravi punizioni da parte delle divinità.

Caso tipico di voto condizionato è quello formulato da Giacobbe: se Jahvè sarà con me e mi custodirà nel mio viaggio; se mi darà pane da mangiare e abiti da vestire; se io ritornerò felicemente nella casa di mio padre, Jahvè sarà il mio Dio; la pietra che io ho innalzato come monumento sarà una casa di Dio e io ti pagherò, o Jahvè, la decima di tutto quello che mi darai (Genesi, XXVIII, 20-22). Altro esempio biblico, fornito della relativa formula, è quello di Iefte per ottenere la vittoria sugli Amaleciti (Giudici, XI, 29-31); e per i Romani la cosiddetta "primavera sacra" (v.).

Condizioni del voto sono, come si deduce dalla sua stessa natura: 1. la capacità di disporre della propria volontà, per cui i voti di chi non ha la piena capacità di obbligarsi non sono validi senza il consenso del padre o marito o tutore, ecc.; 2. la disponibilità della cosa votata, per cui è nulla la promessa di cose che fossero già consacrate alla divinità: era questo uno dei punti più controllati del diritto pontificale romano (v. pontefice); 3. la qualità morale della cosa votata, criterio questo che, naturalmente, è relativo nelle varie religioni all'altezza morale delle medesime. Così per es. il Deuteronomio (XXIV, 19) proibisce di donare al tempio, quale adempimento di un voto, il danaro guadagnato con la prostituzione.

Il voto nelle principali religioni. - Israele. - Sono stati ricordati più sopra i voti solenni di Giacobbe e di Iefte. Anche presso gli Ebrei i voti erano positivi, ossia consecratorî di uomini, animali, cose alla divinità, e a questa categoria appartiene la maggior parte dei voti specificati nel Levitico (XXVII, 1-24); o negativi, obbliganti cioè l'individuo ad astenersi da date cose. Il più celebre dei voti negativi era il nazireato (Numeri, VI, 3-21), in virtù del quale il votante per un dato periodo di tempo si asteneva dal vino e da bevande inebbrianti, non si tagliava i capelli, evitava ogni contatto funerario. La pratica del voto durò presso gli Ebrei anche in epoca giudaica sebbene l'insegnamento rabbinico non sia entusiasta di questa pratica religiosa, come quella che sembra includere una concezione meno alta della provvidenza divina e una minore dedizione fiduciosa dell'individuo verso di essa. Due appositi trattati del Talmūd, quello sui voti (Nedarim) e quello sul nazireato sono dedicati a questo argomento.

Grecia e Roma. - Voti pubblici e privati vi si trovano formulati in casi solenni. Così in Omero (Il., VII, 82) Ettore prima di combattere con Aiace vota le sue armi al tempio di Apollo; gli Ateniesi prima della battaglia di Maratona promisero ad Artemide di sacrificare tante capre, quanti nemici avrebbero uccisi: voto che risultò così grande, che fu ridotto al sacrifizio annuale di 500 capre (Xenoph., Anab., III, 2, 12); prima di Salamina i Greci votano agli dei i beni delle città che avevano parteggiato per i Persiani (Herod., VII, 132).

Voto privato celebre è quello della regina di Egitto, Berenice, che votò la sua chioma qualora suo marito Tolomeo Euergete fosse tornato vincitore. Soprattutto i viaggi di mare, i parti, le malattie erano occasione alla formulazione di voti privati.

In Roma i voti pubblici venivano fissati dallo stato (vota suscipere), resi noti al popolo (vota nuncupare), ritualmente formulati dal pontefice (vota concipere); il magistrato che aveva formulato il voto a nome dello stato era in certo modo responsabile del voto (voti reus) fino a quando questo non fosse stato adempiuto (votum solvere). Oggetto di voto pubblico erano: celebrazioni di ludi, edificazione di templi, sacrifizî solenni; scopo del voto, il buon esito di una guerra, la fine di un'epidemia, la salute e il buon ritorno dell'imperatore. La lustrazione quinquennale compiuta dal censore nel Campo di Marte si può considerar come l'adempimento del voto per la protezione avuta nel quinquennio e come l'impegno per il quinquennio futuro. Un caso solenne di voto pubblico sciolto in anticipo e quindi di più efficace valore costrittorio è la devotio (v. devozione).

Voti privati si facevano in occasione di parti, malattie, viaggi, ecc.: e spesso le iscrizioni ricordano con una formula: votum solvit libens merito (V. S. L. M.) l'adempimento del voto.

Nel diritto romano è tuttavia controverso se, fonte di un'obbligazione, il voto fosse una promessa unilaterale o una convenzione: si ripresenta cioè la discussione relativa alla pollicitatio. Chi mancava al voto, si esponeva alla vendetta della divinità, verso cui si era obbligato. Si disputa se in tal caso non fosse stata esperibile contro di lui un'azione dai rappresentanti della divinità, ossia da organi dello stato. La disputa sembra non potersi decidere: non è un argomento in favore della tesi affermativa la constatazione che, verificandosi la condizione del voto, il votante è detto voti reus o voti damnas od obligatus: queste espressioni rappresentano soltanto l'asservimento del votante al dio.

Allorché il voto consisteva nella promessa di dedicare alla divinità un oggetto, questo (gr. ἀνάϑημα, lat. anathema, donarium) veniva collocato in un luogo sacro.

Nella civiltà cretese-micenea, che non sembra avesse simulacri degli dei, non possiamo additare con sicurezza alcun monumento da considerarsi anathema. Nei poemi omerici i rari accenni a offerte fatte a divinità (es. il peplo ad Atena) sono riflessi di civiltà post-micenea; e la parola anathema è adoperata solamente nel significato di canto e danza "doni del banchetto" (Od., I, 152; XXI, 430). La parola nel significato di oggetto dedicato alla divinità appare nella letteratura greca per la prima volta in Erodoto.

Le più antiche epigrafi monumentali relative a doni votivi risalgono al sec. VI. In un'iscrizione della fine del sec. II a. C. appartenente al tempio di Atena Poliade sull'acropoli di Lindo (Rodi) si è conservato il più caratteristico catalogo di doni votici dedicati a una divinità. Si tratta di oggetti (fiale, bicchieri, lebeti, crateri, scudi, elmi, faretre, corazze, armi persiane, corone, braccialetti, statue d'oro, argento, bronzo, avorio, legno, marmo) elencati in ordine cronologico, dal periodo favoloso di Lindo, dei Telchini, di Cadmo, di Minosse sino all'età di Alessandro Magno e di Pirro; tra i dedicanti sono eroi omerici, città (Gela e Agrigento), principi siciliani (Falaride e Dinomene), re stranieri (Amasi d'Egitto).

L'anathema più antico ricordato nella tradizione letteraria (Paus., V, 17, 5 segg.) risale al sec. VII: l'arca che secondo la tradizione aveva accolto il fanciullo Cipselo, dedicata da uno dei suoi successori (v. cipselidi) nell'Ereo di Olimpia. Era una cassetta di legno di cedro, ornata esteriormente di scene mitologiche in 5 zone sovrapposte.

La maggior quantità di notizie circa i grandi anathemata esistenti ancora in età romana nei santuarî di Olimpia, di Delfi e sull'Acropoli di Atene (quasi tutti perduti; epigrafi dedicatorie) sono fornite da Pausania. Altre notizie dànno gl'inventarî (epigrafi) esistenti in santuarî, specie dall'Acropoli di Atene (CIA, I, 177 segg.; II, 642 segg.) e da Delo (CIA, II, 813, 816-821, 823-24, 826-27).

Alcuni grandi anathemata monumentali si elevavano, sulle basi recanti l'iscrizione dedicatoria, nell'interno dei sacri recinti o sotto i porticati dei templi e dei propilei, o sulle terrazze davanti a questi edifici o lungo le vie sacre che conducevano al tempio. Venivano dedicati al dio da città o da principi per una battaglia vinta, nel qual caso l'anathema era offerto come decima del bottino tolto al nemico: così ad es. in Olimpia la Nike di Peonio di Mende, dedicata dagli abitanti di Messene. Un grande complesso di statue rappresentanti gli Dei e i Giganti, le Amazzoni, i Greci e i Persiani e i Galati vinti, era stato dedicato da Attalo I re di Pergamo nel santuario di Atena Nikephoros sull'Acropoli di Pergamo. Una replica in minori dimensioni dell'insieme monumentale fu dal re stesso donato alla città di Atene.

L'anathema era anche dedicato da principi o da privati per una vittoria agonistica: così ad es.: l'Auriga, dedicato nel santuario di Delfi da Polizalo, fratello di Gelone e Gerone di Siracusa, vincitore nella corsa dei carri (490-70 a. C.). Anathemata di questo genere furono gli originali di tutte le statue di efebi o atleti scolpiti dei grandi maestri (il discobolo di Mirone, il Doriforo e il Diadumeno di Policleto, l'Apoxyómenos di Lisippo).

Una base triangolare ornata di figure a rilievo (Atene, Museo Nazionale) e reggente originariamente un tripode bronzeo, trovata sulla via dei Tripodi in Atene, fu un anathema dedicato per una vittoria drammatica forse da Prassitele. Anathemata furono le statue arcaiche delle Korai, trovate sull'Acropoli di Atene, dedicate da privati cittadini in età anteriore alle guerre persiane.

Oltre che per le ragioni suddette, l'anathema poteva esser dedicato per altri motivi particolari: per es., in Delfi le statue di Cleobi e Bitone di Argo, figliuoli di una sacerdotessa di Era che, non essendo giunti a tempo i buoi, avevano trascinato per 45 stadî il carro della madre fino al santuario.

Presso i Romani l'uso del dono votivo continuò come presso i Greci ma la diversità di usi e di concetti portò a una diversità degli oggetti offerti: facendo astrazione dall'offerta di edifici o di immagini della divinità stessa, le cose più facilmente presentate a questa furono figurazioni a rilievo, oggetti e strumenti sacri (vasi), riproduzioni di parti del corpo guarite (doni del santuario di Esculapio nell'isola Tiberina), amuleti od oggetti magici, ecc.

Brahmanesimo. - Nell'India brahmanica lo sviluppo preso dalla vita contemplativa e solitaria ha favorito il voto privato, di carattere negativo. Il giovane che voleva apprendere la disciplina brahamanica si obbligava a una castità rigorosa, a questuare il suo cibo, ad alimentare mattina e sera il fuoco del suo istruttore, ad astenersi dalla carne. Finito il suo noviziato, un bagno lo restituiva alla vita ordinaria.

Questi obblighi sono più o meno restati nell'attuale induismo, che altri ne ha aggiunti con visuali di carattere popolare. Da parte delle donne uno dei voti più volentieri formulati è la Sāvitri vrāta ossia meditazione e recita della Savitri, grazie alla quale esse ottengono la pace e l'amore coniugale, a somiglianza della fedele Sāvitri che ottenne per la sua fedeltà la risurrezione del marito.

Buddhismo. - I quattro precetti che il monaco buddhista dichiara di accettare e di seguire (castità, non rubare, non uccidere, non mentire) non sono voti veri e proprî in quanto non legano né per tutta la vita né per un tempo determinato, giacché il monaco può in ogni momento ritornare al secolo. Tuttavia in quello sviluppo religioso e dottrinale del buddismo conosciuto sotto il nome di Grande Veicolo (mahāyana) è ammesso un solenne voto che il bodhisattva, cioè colui che deve divenire un buddha, emette appunto nell'intento di raggiungere questa altissima meta. Egli rinunzia sull'esempio del grande maestro alla speranza di un prossimo nirvana e si rassegna a rimanere preso nel circolo ferreo delle rinascite, affinché questo suo atto eroico di carità ridondi a beneficio altrui. Questo voto è detto "produrre il pensiero di illuminazione" e con esso il generoso intende di essere il rifugio e la salvezza di tutte le creature.

Bibl.: F. Daab, Die Zulässigkeit der Gelübde, Gütersloh 1896; B. Stade, Biblische Theologie des A. T. (2ª ed. curata da A. Berholet), Tubinga 1911, pagina 60 segg.; I. Elbogen, Der jüdische Götterdienst, Lipsia 1913; F. X. Korleitner, Archaeologia Biblica, Innsbruck 1917; W. H. D. Rouse, Greek votive offerings, Cambridge 1902; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912; H. Kern, Manual of Indian Buddhism, Strasburgo 1896; D. T. Suzuki, Outlines of Mahayana Buddhism, Londra 1907.

Per gli anathemata: T. Homolle, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiquités, s. v. Donarium; E. Reisch, Griechische Weihgeschenke, Vienna 1890; C. Blinkemberg, in Bull. de l'Acad. Royale de Danemark, 1912, nn. 5-6 (per il catalogo di Lindo).

Cristianesimo. - Nel concetto cattolico è una promessa di dare o fare alcuna cosa, liberamente fatta a Dio. Non è un semplice proposito o risoluzione, i quali non producono alcuna nuova obbligazione, ma è una vera promessa che importa un nuovo obbligo. Deve essere però fatto deliberatamente, cioè con avvertenza e con libero assenso, appunto perché si tratta di contrarre un obbligo sotto pena di peccato. Perciò se è emesso per timore grave ed ingiusto è nullo di diritto. Il voto è un atto di culto a Dio, perché l'uomo lo emette, e contrae l'obbligo relativo, con il preciso intento di onorare Dio; per questo motivo l'opera buona che si fa ha un duplice valore morale e un doppio merito, cioè oltre alla bontà sua propria, e quindi al merito corrispondente per essere già di per sé stesso un atto virtuoso, per es. una elemosina, se ne aggiunge una seconda proveniente dall'essere anche un atto della virtù di religione. E per lo contrario, la trasgressione del voto può importare una duplice colpa, cioè oltre quella dell'azione in sé forse già cattiva, quale per es. un atto contro la castità, riveste anche la qualità di essere un atto contro la virtù della religione, perché si rifiuta a Dio l'atto di culto che dopo la promessa gli era dovuto.

Giacché il voto è una promessa che l'uomo fa a Dio, ne segue che la materia del voto deve essere: 1. cosa possibile all'uomo, cioe secondo le sue forze fisiche e morali, poiché nessuno può assumersi l'obbligo di fare cosa per cui non possiede in sé la capacità; e nessuno, e tanto meno Dio che è infinitamente sapiente e giusto, può esigere l'adempimento di cosa per la quale manca la necessaria facoltà; 2. cosa buona in sé, perché un'azione cattiva non onora e non piace a Dio; anzi, poiché Iddio neppure può ricevere onore e piacere da un obbligo che sia impeditivo di un bene maggiore, il che vuol dire più onorifico per Lui, la cosa promessa nel voto non solo deve essere buona in sé, ma anche migliore della sua contraria. Non si deve però considerare la cosa in astratto, ma nelle sue circostanze concrete di persona, di tempo, ecc.

Nessuno è obbligato a fare voti; ma posto che liberamente se ne sia emesso qualcuno, si è tenuti ad adempirlo sotto pena di peccato mortale, se la materia è grave e l'intenzione, almeno implicita, era di obbligarsi gravemente. Che se la materia del voto è leggiera, o, sebbene grave, l'intenzione però non era di obbligarsi gravemente, la trasgressione del voto costituisce peccato soltanto veniale.

L'obbligazione derivante dal voto può cessare, e ciò in varie maniere. Cessa con lo spirare del tempo stabilito per finire l'obbligazione; cessa quando la materia promessa si muta sostanzialmente, come sarebbe se a motivo di nuove circostanze diventasse inutile, indifferente, impeditiva di bene migliore, peccaminosa, impossibile; cessa quando vien meno la condizione da cui il voto dipende o la sua causa finale. Cessa inoltre per intervento estrinseco dell'autorità che ha potere di irritare, dispensare, commutare il voto. Può rendere irrito il voto colui che ha potere dominativo sulla volontà del vovente, come i genitori rispetto ai figli minori. Il papa può dispensare da tutti i voti, per il potere che Iddio concesse alla sua Chiesa e a colui che in terra è il suo vicario. Il vescovo può dispensare dai voti tutti i suoi sudditi e anche i pellegrini, cioè quelli che transitoriamente si trovano in diocesi diversa dalla propria. Possono pure dispensare dai voti coloro ai quali è stata concessa dal competente superiore tale facoltà. Alcuni voti però sono riservati al papa, e quindi coloro che sono inferiori a lui, senza una facoltà tutta particolare, non possono dispensare da essi. Questi voti riservati sono: 1. quelli la cui dispensa importa una lesione del diritto di un terzo, come sono i voti religiosi; 2. quello di castità perfetta e perpetua, emesso in forma assoluta e dopo compiuti i 18 anni di età; 3. quello di entrare in un istituto religioso di voti solenni, emesso con le stesse condizioni del precedente. L'opera promessa con un voto non riservato può essere commutata, cioè cambiata in un bene migliore o uguale da colui stesso che ha fatto il voto; per cambiarla in un bene minore bisogna ricorrere a chi ha la facoltà di dispensare.

Varie sono le specie del voto. È condizionale se il suo adempimento si fa dipendere dal realizzarsi una condizione, per es. un pellegrinaggio a un santuario se si ottiene la guarigione; in caso contrario è assoluto. E personale quando ha per oggetto un'azione del vovente stesso; reale se riguarda cosa estrinseca chi lo emette. Il voto personale obbliga soltanto il vovente; in quello reale l'obbligo è come inerente alla cosa stessa, che in virtù del voto diventa promessa a Dio, e perciò passa a quelli in cui potere essa viene. Dicesi temporaneo o perpetuo secondo che la sua obbligazione dura per un certo periodo di tempo ovvero per tutta la vita; privato o pubblico secondo che è emesso dal solo vovente senza intervento dell'autorità ecclesiastica, oppure è riconosciuto e accettato dal legittimo superiore ecclesiastico; semplice o solenne, secondo che è ricevuto e confermato dalla Chiesa nell'un grado o nell'altro. Il solenne, che è sempre perpetuo e si trova soltanto nella professione religiosa e negli ordini sacri maggiori importa un vincolo più forte, che più difficilmente viene sciolto, e l'inabilità giuridica a certi atti.

Il popolo fa grande uso del voto, e ne fanno testimonianza quadri e oggetti che adornano i santuarî, gli altari e le statue sacre, e che essendo in adempimento di un voto sono volgarmente chiamati ex-voto. Celebri poi sono i voti di prendere la croce e recarsi a combattere per la liberazione di Terrasanta (voto delle crociate), e quelli del pellegrinaggio ai Luoghi Santi, a Roma, e a Santiago di Compostella. Emergono però su tutti i tre voti di povertà, di castità e di obbedienza, che assieme uniti vengono emessi nella professione religiosa, e costituiscono lo stato di perfezione, come è chiamato lo stato religioso. Con il voto di povertà si rinunzia all'uso dei beni esterni che si posseggono o che si potrebbero acquistare; se il voto è solenne, si rinunzia alla stessa proprietà, se invece è semplice, si rinunzia soltanto al loro libero uso e disposizione. Il voto di castità obbliga al celibato e a non commettere atto alcuno contrario al 6° precetto del decalogo. Il voto di obbedienza obbliga ad accettare ed eseguire gli ordini dei superiori legittimi in tutto ciò che è conforme alle regole dell'istituto abbracciato.

La Riforma protestante, come è noto, ha combattuto sia i voti monastici sia gli altri, e in conseguenza della dottrina del sacerdozio universale dei credenti, non ammette dal sacerdozio i poteri che gli sono riconosciuti nel cattolicismo.