Shakespeare, William

Enciclopedia dei ragazzi (2006)

Shakespeare, William

Rosa Maria Colombo

Il creatore del teatro moderno

Poeta e drammaturgo inglese di assoluta grandezza, Shakespeare compendia in sé un’epoca di feconda creatività teatrale, la cosiddetta età elisabettiana, dal nome della regina Elisabetta I. Universalmente riconosciuto come l’iniziatore del teatro moderno, Shakespeare si discosta sia dall’ortodossia religiosa medievale sia dalle regole del dramma classico. La sua opera esprime le crisi intellettuali e morali del suo tempo, legate alla visione di un mondo tutto umano, critico del senso provvidenziale della storia e ribelle al principio di autorità. La sua immaginazione tragica dà voce alla coscienza moderna lacerata dal dubbio e dal senso di precarietà

Una vita in scena

La biografia di William Shakespeare è assai lacunosa. Ciò non sorprende, poiché la cultura dell’epoca considerava il teatrante, anche se di successo, tutt’uno con la vita effimera della rappresentazione. Le poche testimonianze parlano quasi esclusivamente di un legame intenso di Shakespeare con i teatri di Londra. Nato a Stratford-upon-Avon nel 1564, poco istruito in latino e pochissimo in greco, nel 1592 egli è già un rivale temuto dai drammaturghi londinesi ‘colti’. Contemporaneamente si lega agli ambienti della Corte, ottenendo la protezione necessaria alla sopravvivenza della sua arte, accusata di immoralità dai puritani e incriminata dalle leggi della City, che consideravano gli attori alla stregua di vagabondi.

Indossando prima la livrea dei servi del lord ciambellano, poi quella degli uomini al servizio del re Giacomo I (i King’s men), la compagnia di Shakespeare poté occupare per lunghi anni il palcoscenico del teatro Globe e poi eleggere il teatro coperto di Blackfriars a sede degli spettacoli invernali. Divenuto ricchissimo, il drammaturgo si ritirò infine a Stratford fino alla morte, di cui sola fonte documentaria è l’iscrizione di una data – 23 aprile 1616 – sul suo monumento funebre.

L’autore e le sue opere

Nessun nesso unisce però l’individuo William Shakespeare all’Io dei suoi personaggi, così da rivelarne le idee e la vita interiore. La sua persona fu teatrale in ogni senso, come mostra la difficoltà di tracciarne una biografia certa: qualcuno ha perfino ritenuto che Shakespeare fosse in realtà il filosofo Francesco Bacone. I suoi drammi non erano pensati come opere, nel senso di testi a stampa autorizzati dall’autore: nascevano come copioni scritti senza suddivisione in atti e in scene; la compagnia li elaborava e modificava nel corso delle recite e ne era la proprietaria (col tempo, però, Shakespeare divenne il maggiore azionista di questa proprietà collettiva). La pubblicazione avveniva soltanto dopo la rappresentazione, spesso clandestinamente e in forma rimaneggiata.

Non stupisce dunque l’assenza di manoscritti e di versioni a stampa autorizzate da Shakespeare; la prima edizione completa, a cura di due attori della sua compagnia, uscì nel 1623, sette anni dopo la sua morte. La costituzione del corpus delle opere shakespeariane è il miracolo di un appassionato lavoro della critica iniziato nel 18° secolo e tuttora in corso.

Un catalogo instabile

Non esistono dati certi sulla produzione di Shakespeare. Gli studiosi sono cauti riguardo al numero delle opere, nonché delle datazioni, delle fonti e dell’appartenenza di genere. Instabile è anche la configurazione dello stile, risultato di un confronto sistematico fra le varianti delle edizioni contemporanee – i cosiddetti in quarto, limitati a drammi singoli – e di quelle che si sono succedute nel corso del tempo – raccolte in folio ed edizioni critiche –, complicando l’attribuzione (un classico esempio di interpolazione è la seconda entrata in scena delle streghe nel quarto atto del Macbeth).

C’è poi la questione relativa alla collaborazione di Shakespeare con altri drammaturghi – John Fletcher, per esempio – negli ultimi anni della sua carriera: non è facile distinguere le mani alternatesi nella composizione dell’Enrico VIII.

Attualmente il catalogo è composto di 37 drammi, oltre che di alcune composizioni poetiche scritte in un breve periodo di chiusura dei teatri nell’ultimo decennio del Cinquecento a causa della peste; si tratta di due poemetti narrativi e di una sequenza di Sonetti, liriche d’amore costruite in modo originale sul modello risalente a Francesco Petrarca, dominante nel Rinascimento inglese, la cui influenza si coglie anche nei colloqui d’amore del contemporaneo dramma Romeo e Giulietta.

L’opera teatrale

La prima fase. Per comodità si è soliti suddividere i drammi di Shakespeare in quattro fasi. La prima, piuttosto lunga e iniziata negli ultimi anni Ottanta, è considerata di apprendistato. Il giovane si va formando su alcuni generi in voga: elabora il sensazionalismo truculento delle tragedie latine del filosofo romano Lucio Anneo Seneca imperniate sul tema del potere (Tito Andronico) e porta in scena le cronache che in quegli anni ricostruivano la storia d’Inghilterra legittimando la monarchia assoluta come soluzione all’anarchia delle guerre civili (Riccardo II; Riccardo III). Appartengono a questa prima fase anche commedie di grande leggerezza, mutuate dal gusto italiano per il gioco del travestimento e gli equivoci del linguaggio (Sogno di una notte di mezz’estate).

Comune in questa varietà di temi e generi è l’indifferenza verso una rappresentazione impostata su criteri di realismo: in ciò Shakespeare accoglie un’eredità del teatro medievale mai rinnegata, divenuta, anzi, parte integrante del suo stile. La continuità con la tradizione del dramma medievale è evidente nella presenza del soprannaturale (il fantasma del padre di Amleto, lo spettro di Banquo fatto uccidere da Macbeth, quello di Giulio Cesare che appare a Bruto alla vigilia della battaglia di Filippi), ed è palese nell’uso spregiudicato del tempo e dello spazio senza riguardo per le norme classiche dell’unità (in Antonio e Cleopatra l’azione si sposta con disinvoltura fra Roma e l’Egitto).

Le fasi centrali. Alla seconda fase, che dura sino alla fine del secolo, appartengono Il mercante di Venezia e l’Enrico V; la terza – e massima, fino al 1608 – comprende i drammi romani (Giulio Cesare e Antonio e Cleopatra), le grandi tragedie (Amleto, Otello, Macbeth, Re Lear) e i ‘drammi dialettici’ o dark plays, così chiamati in quanto non riconducibili ad alcun modello consolidato (Troilo e Cressida e Misura per misura). Del resto anche nelle tragedie più cupe non mancano inserti comici: il dialogo fra i becchini nell’Amleto in attesa della sepoltura di Ofelia, il grottesco monologo del portiere dopo il delitto nel Macbeth. In Otello Iago recita spesso la parte del buffone, e un buffone (fool) ha un ruolo importantissimo in Re Lear, addirittura un cardine della forma dell’opera. Anche le commedie composte in questa fase (Come vi piace, La dodicesima notte) sono più complesse e il riso è spesso amaro.

I drammi romanzeschi. Dal 1609 al 1613 circa avviene la svolta dei drammi romanzeschi, nei quali il perdono subentra alla soluzione tragica (Il racconto d’inverno, La tempesta); eppure anche qui al lieto fine romanzesco si intrecciano pensieri di morte.

Errore sarebbe voler rinchiudere la produzione di Shakespeare nella gabbia dei generi; un avvertimento che viene, implicitamente, dall’Amleto, dall’ironico elenco dei generi teatrali di cui si compiace uno dei personaggi, il mediocre Polonio.

Un teatro povero

L’edificio. La tecnica drammatica di Shakespeare è coerente con il tipo di teatro per il quale scriveva. La maggior parte dei suoi drammi fu composta per il Globe, un teatro in legno a forma circolare che suggeriva l’immagine del mondo («Questa O di legno» si dice nell’Enrico V); era un edificio all’aperto – oggi ricostruito fedelmente – con una piattaforma aggettante verso il pubblico, dietro la quale correvano balconate e si aprivano le porte per l’entrata e l’uscita degli attori.

Un teatro a due piani sostanzialmente povero: senza scenari, senza luci artificiali e senza sipario, sicché la scenografia era interamente creata dalle parole.

Non era consentito che vi recitassero donne, il che tuttavia non ostacolò affatto la creazione di straordinari personaggi femminili: Giulietta, Ofelia, Desdemona, Cleopatra. Alla carenza di realismo scenico si deve anzi lo spessore simbolico del linguaggio, con la richiesta – esplicita nel prologo dell’Enrico V – di un’intensa partecipazione dell’immaginazione degli spettatori all’azione in palcoscenico.

Il pubblico. La composizione del pubblico era mista: c’erano esponenti della Corte (talvolta i sovrani in persona) e popolani chiassosi che pagavano un penny all’ingresso. La diversità degli strati sociali si rispecchia nella contaminazione, tipica della scrittura shakespeariana, di elementi tragici e comici; tuttavia scene comiche di sollievo (relief) in situazioni di forte intensità emotiva rispondono anche a esigenze interne del dramma, scavano nel significato dell’azione.

In Shakespeare il comico assolve a diverse funzioni. Qualifica i personaggi come socialmente e moralmente bassi: per esempio nei drammi sulla storia d’Inghilterra esso connota Falstaff come incarnazione del vizio, una figura ereditata dal teatro medievale e utilizzata ora come punto di vista dissacrante della retorica celebrativa del principe. Ma si piega anche all’ironia tragica, come accade nell’episodio del contadino che portando a Cleopatra in un canestro di fichi l’aspide da lei richiesto per suicidarsi assicura l’efficacia del suo morso e del suo veleno.

L’illusione scenica. Contaminazione di stili e mescolanza di versi e prosa – il verso di Shakespeare è l’endecasillabo – si avvicendavano sul palcoscenico del Globe, offrendo un’immagine totale della vita.

Con il passaggio, nella tarda maturità, da quel teatro povero all’edificio coperto di Blackfriars che offriva spazio all’illusione scenica e agli elementi spettacolari, Shakespeare diventa interprete del gusto nuovo importato alla corte di Giacomo I dall’Italia. Lo fa rifluire in modo particolare nell’arte magica di Prospero, il protagonista della Tempesta, che rappresenta in un certo senso il ‘doppio’ dello scrittore.

Amleto e la visione tragica

La crisi e il dubbio. Composto intorno al 1600, in un clima di ansia collettiva per l’imminente fine del regno di Elisabetta I che non lasciava eredi, l’Amleto inaugura la stagione delle grandi tragedie. In questi testi Shakespeare drammatizza le tensioni all’origine dell’età moderna, un’epoca in cui l’unità medievale del mondo sta andando in pezzi a causa dell’emergere della nuova scienza (Copernico, Bacone), del dibattito aperto dalla teologia protestante (Riforma), dell’affermazione dell’autonomia dell’individuo e della politica (Machiavelli).

Shakespeare mostra tutto questo mediante una forma poetica altamente problematica e irrisolta, senza mai sciogliere le contraddizioni o schierarsi per l’una o l’altra delle forze in conflitto. La sua visione è inclusiva, totale, dunque tragica. In questo senso egli non rappresenta un’epoca soltanto, ma appartiene a ogni tempo (come sosteneva il suo rivale Ben Jonson). Una certa interpretazione di stampo anglosassone vorrebbe considerarlo come il bardo (antico cantore dei popoli celti) che celebra i valori fondanti della nazione britannica, e, per estensione, dell’Occidente; ma questo è un punto di vista riduttivo: lo dimostra, tra l’altro, la sua attuale fortuna nelle letterature postcoloniali.

Nell’Amleto la crisi e il dubbio sono presentati come tratti essenziali della condizione umana. In questo testo l’esperienza moderna del conoscere prende infatti forma tragica. Il protagonista, Amleto, è il giovane principe di Danimarca, ed è significativo che il personaggio sia giovane, orfano e dotato di grande intelligenza. Egli rappresenta un problema per tutti i personaggi del dramma, ma è anche problema per sé stesso: in lui il dubbio («essere o non essere») ha preso il posto delle certezze garantite nel passato dalla religione e dalla tradizione dei padri, alla quale sente tuttavia di dover obbedire.

Il personaggio. Amleto entra in scena vestito a lutto (il nero è il suo colore); ha dovuto troncare gli studi e gli svaghi all’Università di Wittemberg per tornare alla corte di Elsinore a piangere l’improvvisa morte del padre. Ma ecco che invece del rito funebre trova la festa per le nozze di sua madre Gertrude con Claudio, fratello del re defunto e suo assassino, come gli rivelerà il fantasma paterno, apparso di notte sugli spalti del castello a chiedere vendetta.

La tradizione delega ai figli la vendetta dei padri, e Amleto giura che così farà, ma è tragicamente incapace di compiere quel gesto. Pur sentendosi colpevole indugia, sospende, rinvia l’azione. Deve riflettere, vuole prove: vuole conoscere, pensare, prima di agire.

Così facendo compie una serie di errori, a cominciare dal fatto che si isola da coloro che più gli sono fedeli: dall’amico Orazio, a cui rimprovera una ragionevolezza disponibile al compromesso; da Ofelia, che ha amato ma che rinnega come simbolo di fragilità femminile, provocandone la pazzia e poi la morte. Unico momento di felicità è per lui l’arrivo a Elsinore di una compagnia di attori cui delega una funzione decisiva: la rappresentazione di un crimine analogo a quello di Claudio, che faccia a questi da specchio inducendolo a rivelarsi colpevole. Ma la trappola funziona soltanto in parte e l’azione, una volta di più, resta incompiuta.

Nulla veramente si compie nell’Amleto: l’atto concreto o è interrotto, o rinviato, o sbagliato (l’uccisione di Polonio). L’azione di Amleto sta altrove, sul piano della parola e dell’intelletto. Non la spada, ma la maschera della follia è il suo strumento di offesa e di difesa.

Il dramma dentro il dramma

Un tema che pervade l’intera produzione di Shakespeare è la riflessione sulla natura del teatro e sui suoi mezzi espressivi. Si tratta della cosiddetta dimensione metateatrale, un tipo di teatralità propria della sensibilità dell’epoca che affronta l’inquietante rapporto fra realtà e illusione. Il metateatro si esplica in più modi: nei riferimenti lessicali all’arte scenica («Tutto il mondo è un palcoscenico»), nell’esibizione degli strumenti e dei trucchi del teatro (travestimenti, intrighi, scambi di persona nel Sogno di una notte di mezz’estate; il trucco del fazzoletto nell’Otello, le mille recite di Cleopatra), ma soprattutto nell’esplicita messa in scena di un dramma all’interno del dramma stesso.

Questo secondo dramma costringe lo spettatore ingenuo a comprendere che la ‘realtà’ dell’azione nella quale fino a quel punto si era identificato altro non era che un ‘riflesso’ di realtà, e a riconoscere nella finzione l’origine dell’evento teatrale.

La giovane Miranda impara che il naufragio che tanto l’ha turbata all’inizio della Tempesta era uno spettacolo inscenato da suo padre Prospero, con Ariele nei ruoli di attore, cantante, mimo; quindi uno spettacolo nello spettacolo. A sua volta l’educazione alla docilità della ribelle Caterina nella Bisbetica domata è uno spettacolo al quale la commedia stessa fa da cornice.

Nell’Amleto il dramma entro il dramma è un’occasione per proporre un modello di recitazione più agile rispetto all’enfasi dello stile corrente («più Erode di Erode»), e cruciale è la domanda sul ruolo della finzione nella costruzione della conoscenza. La messa in scena che il giovane principe organizza insieme agli attori giunti alla corte di Elsinore è ciò che dovrebbe intrappolare la coscienza del re, smascherarlo, fornire al vendicatore la certezza della colpa. Ma se è vero che il re, sconvolto, ordina di interrompere lo spettacolo, è anche vero che quella prova è ambigua, in quanto all’epoca la rappresentazione scenica dell’assassinio di un sovrano era considerata un delitto di lesa maestà (questa l’offesa che Gertrude rimprovererà ad Amleto). Il teatro non prova nulla se non l’impossibilità di una conoscenza certa.

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