William Shakespeare

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Elisabetta Bartoli
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Considerato il più grande drammaturgo inglese, ovvero il più grande uomo di teatro della modernità, e perfino dall’influente critico americano Harold Bloom il sommo artista della tradizione letteraria occidentale, William Shakespeare appartiene sia all’epoca del Rinascimento inglese a cavallo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, sia alla nostra contemporaneità. Le sue opere, continuamente tradotte e spesso riscritte, rivisitate alla luce della sensibilità e degli interessi di ogni epoca, vengono recitate sui palcoscenici di tutto il mondo, mentre anche le altre forme letterarie e la stessa cultura di massa (dai telefilm ai fumetti, dalla pubblicità alle citazioni giornalistiche) attingono in modo incessante ai testi shakespeariani

Il “personaggio” Shakespeare

Lo stesso Shakespeare è diventato un personaggio popolare attraverso le ricostruzioni storiche o pseudo-storiche destinate a un vasto pubblico e le versioni cinematografiche sulla sua vita, che ne fanno una figura piena di slanci romantici (Shakespeare in Love di John Madden, 1998), o mettono in discussione la sua identità, addirittura vedendo in lui un mediocre prestanome, che avrebbe coperto l’attività di Edward de Vere, conte di Oxford (Anonymous di Roland Emmerich, 2011). Il dibattito sulla identità di Shakespeare ha coinvolto in passato anche studiosi di valore, alcuni seguaci della teoria che il vero autore delle opere di Shakespeare fosse il filosofo Francis Bacon; altri, guidati da una fantasia ancora più fervida, che il teatro di Shakespeare fosse in realtà ispirato dal drammaturgo Christopher Marlowe, erroneamente ritenuto morto nel 1593, a seguito di una rissa da taverna. Con buona pace di questa inesauribile vena in cui si mescolano disinvoltamente fact e fiction, siamo ragionevolmente sicuri dell’esistenza e dell’attività teatrale di Shakespeare, e possiamo affermare, come intitola il “Times Literary Supplement” del 23 aprile 2010 (il 23 aprile è indicata di solito come la data della nascita e della morte del drammaturgo), introducendo la recensione dello studio di James Shapiro Contested Will. Who wrote Shakespeare?: “Yes, Shakespeare wrote Shakespeare”; sì, è Shakespeare che ha scritto Shakespeare. Un peso sostanziale ha, invece, il dibattito sulla authorship shakespeariana, che, in questi ultimi anni, ha posto in rilievo il carattere collaborativo degli ambienti teatrali londinesi del Rinascimento inglese, non escludendo affatto interventi di alcuni contemporanei in alcune delle opere più significative di Shakespeare, ad esempio il Macbeth, rappresentato nel 1606, che, nelle versioni in cui ci è giunto, sarebbe da attribuire anche a Thomas Middleton.

Sulle tracce di un’incerta biografia

Rimangono oscuri, piuttosto, alcuni passaggi della biografia di Shakespeare, proveniente da una famiglia borghese di Stratford upon Avon, arrivato a Londra tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Cinquecento, subito inserito in una delle compagnie teatrali dell’epoca, protette dalla nobiltà di corte (e, dopo la morte di Elisabetta I, nel 1603, direttamente dal successore Giacomo I), come attore discreto e autore prolifico, presto apprezzato dal pubblico. Il ritorno a Stratford, avvenuto attorno al 1609, inaugura un ultimo periodo, conclusosi con la morte nel 1616, solo in parte documentato, in cui Shakespeare continuò comunque la sua attività teatrale, come dimostra la rappresentazione a corte de La tempesta, nell’inverno 1611-12. Solo nel 1623, la pubblicazione delle sue opere, divise in Comedies, Histories, Tragedies, nel grande volume (il cosidetto primo in-quarto) curato da John Heminge e Henry Condell, due attori che avevano lavorato con lui nella compagnia dei Chamberlain’s Men (dal 1603 King’s Men) sancisce il carattere fuori dalla norma della sua carriera teatrale, anche se occorrerà attendere, all’inizio dell’Ottocento, la riscoperta dei romantici tedeschi e inglesi perché Shakespeare diventi un genio universale, il vate ispiratore della letteratura moderna, accanto a Omero e a Dante, ovvero il “Cigno di Avon”, il Bardo che esalta e celebra l’identità della nazione britannica.

Un corpus “fluido”

William Shakespeare

Sonetto CXLVII

Sonetto CXLVII

Il mio amore è una febbre, e avidamente chiede

Solo ciò che più a lungo ne alimenta il male;

E a compiacere il malfermo, malsano appetito si nutre

Solo di ciò che meglio favorisce il morbo.

Medico del mio amore, la ragione è offesa

Che le sue prescrizioni non vengano seguite,

E perciò mi abbandona, così che disperato ormai convengo

Che il desiderio è morte, avendo escluso

Ogni medicamento. Ora che la ragione è incontrollabile

Io non ho più speranza, e con perenne affanno

Delìro come un pazzo, e pensieri e parole sono identici

A quelli di un demente, e vaneggiano, e parlano

Inutili e sconnessi, troppo lontani dalla verità.

Perché avevo giurato che eri bella, e ti pensavo chiara,

Tu che sei nera al pari dell’inferno o a una notte di tenebra.

W. Shakespeare, Venticinque sonetti, trad. it. di R. Sanesi, Milano, Severgnini, 1985

In realtà, anche l’in-folio del 1623, uscito sette anni dopo la morte di Shakespeare, si basa sulla raccolta di materiali eterogenei (copioni teatrali; manoscritti dello stesso autore, di cui non ci è rimasta traccia; copie una volta definite pirata, i cosidetti bad quartos, stampati forse senza l’approvazione del drammaturgo), che non consentono di giungere alla definizione di un testo definitivo. Se, in qualche caso – per esempio per il Giulio Cesare e per La Tempesta – abbiamo solo la versione dell’in-folio, in altri casi gli studiosi che dal Settecento si sono occupati di pubblicare utilizzando criteri filologici il canone shakespeariano si sono trovati di fronte a versioni differenti e tra di loro molto diverse. Così accade per opere famose come l’Amleto, l’Othello, il Re Lear. L’Amleto fu pubblicato nel 1603 in una prima versione tagliata e semplificata (il cosidetto primo in-quarto, o Q1), nel 1604 in una versione notevolmente più ampliata, forse tratta da un copione teatrale (Q2), e poi, con considerevoli varianti e con un paio di drastici tagli, nell’in-folio del 1623. Nel caso dell’Othello, l’edizione dell’in-folio si distingue da quella precedente, apparsa nel 1622, soprattutto per la mancanza delle espressioni blasfeme, che pure caratterizzano l’opera e soprattutto il linguaggio di Jago. Secondo gli studiosi, la differenza consisterebbe nel fatto che la prima versione risale in realtà all’epoca in cui l’opera era stata rappresentata (tra il 1604 e il 1605). Nel 1606 una legge che puniva le bestemmie pronunciate in scena dagli attori, il Profanity Act, avrebbe costretto Shakespeare a revisionare il dramma di Otello e Desdemona. Infine, il Re Lear è sopravvissuto in due edizioni a stampa talmente diverse tra di loro, da suggerire a qualche studioso di considerarle testi autonomi, da ripubblicare l’uno accanto all’altro. La prima versione risale all’in-quarto del 1608, e la seconda all’in-folio del 1623. L’opera, rappresentata per la prima volta tra il 1605 e il 1606, fu probabilmente revisionata dallo stesso Shakespeare: la modifica più significativa riguarda la battuta conclusiva del dramma, dapprima affidata ad Albany, il marito della malvagia Goneril, che si è schierato a favore del suocero, il vecchio re, e che dunque probabilmente ne erediterà il regno, mentre nella versione del 1623 chi parla è Edgar, il figlio legittimo di Gloucester, il consigliere del re, portatore di una visione purificata dalle sofferenze che egli stesso ha patito nello svolgimento dell’azione e legata all’arrivo sulla scena di una nuova generazione di sovrani.

La critica contemporanea non corre più dietro alla chimera di individuare un testo shakespeariano il più possibile vicino alle intenzioni del drammaturgo, anche perché appare ormai probabile che lo stesso Shakespeare intervenisse sulle sue opere in momenti successivi, ritoccandole o presentandone versioni difformi – sebbene l’impianto della trama rimanga ovviamente solido, essendo, tra l’altro basato, sull’uso massiccio del blank verse (pentametro giambico), che serve a caratterizzare ogni personaggio e ogni azione scenica – e dunque non possiamo escludere che a Shakespeare risalgano soluzioni drammaturgiche diverse. Certamente, le opere di Shakespeare sono concepite per il teatro e si realizzano nella messinscena, mentre l’“immortalità” perseguita dall’artista rinascimentale andrebbe piuttosto ricercata nei poemetti Venere e Adone (1593) e Lucrezia (1594), e soprattutto nella raffinata raccolta dei Sonetti, pubblicata nel 1609, anche se composta nell’ultimo decennio del Cinquecento, basata sulla straordinaria ricchezza e densità delle metafore applicate al tema della caducità dell’amore. A proposito della fluidità del testo teatrale shakespeariano, quale esso si rivela anche nell’in-quarto del 1623, Giorgio Melchiori (1994) ha osservato: “Sono proprio i caratteri di provvisorietà di questa Bibbia shakespeariana a ricordarci che l’arte di Shakespeare sta nel suo mestiere, nella sua consapevolezza che il teatro non è mai uguale a se stesso, ma è creazione collettiva che si rinnova di giorno in giorno – non immagine della vita fissata una volta per sempre, ma la vita stessa nella sua infinita varietà”.

Teatro di parola

L’uso del blank verse, con la sua potente qualità ritmica, di solito slegata dalla rima, consente a Shakespeare di modulare il linguaggio in modo che esso si presti sia a cogliere gli aspetti più alti della consapevolezza intellettuale del Rinascimento (la speculazione filosofica, la crisi di identità di un’epoca che crede ancora in Dio, ma esalta l’autonomia delle grandi figure, protagoniste della Storia), sia a esplorare la contraddizioni del potere politico, e ancora la sfera della sessualità e degli affetti privati, i conflitti familiari e quelli sociali, le situazioni comiche e gli eventi dell’esistenza quotidiana. Contribuisce a questa visione totale, ma sempre problematica dell’esperienza umana, la presenza consistente di parti in prosa, che talvolta sviluppano la dimensione bassa e volgare dell’esistenza, ma che, in bocca a personaggi come Amleto, possono anche mettere in luce momenti di speculazione e di polemica. Proprio nell’Amleto l’energia introspettiva di certi monologhi (che sono però anche, come Agostino Lombardo ha messo in luce più volte, indicazioni di azione, capaci di coinvolgere il pubblico) si accompagna alla qualità comica o tragicomica di molti dialoghi, in cui lo stesso protagonista, misurandosi ora con il vecchio consigliere del re Polonio, ora con due becchini, che stanno preparando la fossa per Ofelia, una volta amata (ma il principe di Danimarca non sa che ella è morta suicida), ora con un ridicolo cortigiano, si esprime in prosa, senza perdere nulla della sua intensità concettuale. L’elemento tragicomico, guardato con sospetto dalla critica neoclassica settecentesca, ligia alle cosidette regole aristoteliche (è rimasto famoso il giudizio di Voltaire su Shakespeare, “mostro non privo d’ingegno”), è ormai considerato uno dei segni più evidenti della grandezza del drammaturgo inglese, della sua capacità di tradurre i materiali a cui si affidava in una visione della vita non banalmente omogenea, ma complicata, fondamentalmente mista e contraddittoria, sebbene sempre unificata dalla potenza delle strutture drammatiche. Il rifiuto delle regole aristoteliche, del resto, comprende anche la negazione delle unità di tempo (l’azione avrebbe dovuto svolgersi nell’arco di 12-24 ore) e di luogo (il palcoscenico avrebbe dovuto limitarsi a riprodurre un solo spazio ben definito), rispettate solo in rarissimi casi (per esempio, ne La tempesta). Il teatro di Shakespeare e dei suoi contemporanei è fondamentalmente anti-realistico, si basa su quell’esplicita qualità illusionistica, che viene invocata dal Coro nel prologo dell’Enrico V: solo la fantasia, nutrita dalla parola poetica e drammatica, può trasportare gli spettatori sui campi di battaglia di Francia e può far “vedere” loro eserciti e cavalieri impegnati in scontri furibondi. La dimensione illusionistica di un simile teatro era del resto ribadita dall’impiego di attori giovani nei ruoli femminili, essendo vietata alle donne, per motivi di moralità, la presenza in scena. Questa convenzione, accettata dal pubblico, è ancora esaminata dalla critica contemporanea, alla ricerca di allusioni nel testo teatrale, e incerta sull’età, sul tipo di recitazione, e sul destino degli attori imberbi che si trovavano a incarnare figure straordinarie, come Giulietta, Cleopatra, Lady Macbeth, Desdemona. Più volte è stato ribadito che quello di Shakespeare è un “teatro della parola”, povero di elementi scenografici, anche se importanti sono gli oggetti utilizzati in scena (spade e mantelli, corone e sedie regali). Non vanno neppure dimenticati l’impiego degli strumenti musicali, come trombe e tamburi, i primi impiegati per introdurre scene di corte, i secondi collegati ai momenti bellici, o l’uso delle canzoni, che caratterizzano personaggi importanti come Ofelia (Amleto) e Ariel (La tempesta). In realtà, alcuni espedienti scenografici erano possibili, per esempio sfruttando l’upper stage, una sorta di balconata aperta in quella parte del palcoscenico che era chiusa al pubblico e in cui si trovava la tiring house (la zona in cui gli attori si riposavano o si cambiavano, talvolta effettuando il doubling, il passaggio da un ruolo all’altro, richiesto per le parti minori). La balconata poteva trasformarsi negli spalti di un castello o di una fortificazione – in molti dei drammi storici e nell’Amleto – o in un vero balcone, come accade nel Romeo e Giulietta. “Teatro della parola” rimane comunque fondamentalmente l’opera di Shakespeare, proprio per la qualità eminentemente drammaturgica che ha il linguaggio shakespeariano, in cui si realizzano tutte le potenzialità della virtualità scenica, e che consente di attivare una serie di meccanismi teatrali, dal comic relief (la pausa comica, modulata anche all’interno delle opere più cupe) all’ironia tragica, che coinvolge il pubblico, mettendolo a conoscenza di sviluppi della trama ignorati dai personaggi stessi. Così, nel Macbeth, il saggio, seppure un po’ ingenuo, re Duncan celebra la salubrità dell’aria e il dono dell’ospitalità a lui concessa, mentre egli entra nel castello di Macbeth, ma gli spettatori già sanno che il suo assassinio è stato organizzato da Macbeth e da Lady Macbeth.

William Shakespeare

Riccardo esplica la sua natura

Riccardo III, Atto I, scena I

Scena 1 - Londra. Una strada RICCARDO, DUCA DI GLOUCESTER, solo.

DUCA DI GLOUCESTER: Ora l’inverno del nostro travaglio è mutato in splendida estate grazie a questo sole di York; e tutte le nubi che aduggiavano la nostra casa son sepolte nel profondo seno dell’oceano. Ora le nostre tempie son cinte di ghirlande vittoriose; le nostre armi ammaccate sono appese in trofei; i nostri torvi allarmi cangiansi in gaie adunate, le nostre terribili marce in dilettose danze. La Guerra dal fiero cipiglio ha rasserenato la corrugata fronte, ed ora, invece di montar catafratti destrieri per incuter sgomento nell’anima di pavidi avversari, essa sgambetta agilmente in una camera femminile all’invito lascivo d’un liuto. Ma io, che non son tagliato per gli ameni spassi, né per corteggiare un amoroso specchio, io che, uscito da un rude stampo, manco della maestà dell’amore per pavoneggiarmi dinanzi a una molleggiante ninfa; io, che sono privato di questa bella simmetria, frustrato di sembianza dalla Natura che sì mi dispaia, deforme, incompiuto, anzi tempo inviato in questo spirante mondo, appena plasmato a mezzo, e pur questo in modo così monco e contraffatto che i cani latrano di me quand’io zoppico accanto a loro; ebbene, io, in questo imbelle e sufolante tempo di pace, non trovo altro diletto per passare il tempo se non di guatare l’ombra mia nel sole e intesser variazioni sulla mia deformità. E così, dacché io non posso fare l’innamorato per intrattenere questi bei giorni soaveloquenti, son risoluto a dimostrarmi uno scellerato, ed a colpir col mio odio i frivoli piaceri di questi giorni. Trame ho ordito, perigliosi inizi, con profezie, calunnie e sogni d’ubriaco, per aizzare l’un contro l’altro in odio mortale mio fratello Clarence e il re: e se il re Edoardo è tanto leale e schietto quanto io son sottile, falso e traditore, quest’oggi Clarence dovrebb’essere rinserrato in una stretta muda, secondo una profezia, che dice che G sarà l’uccisore degli eredi d’Edoardo. Pensieri, inabissatevi giù nell’anima mia! Ecco che viene Clarence.

W. Shakespeare, Tutte le opere, a cura di M. Praz, Firenze, Sansoni, 1964

La vita nel teatro e il teatro nel teatro

La grandezza di Shakespeare, del resto, si esprime anche attraverso una incessante riflessione sulle forme e sui significati dello stesso strumento teatrale, non solo di volta in volta modificato a seconda dei temi trattati o degli interessi etici, politici, estetici dell’epoca, ma sottoposto, al suo interno, a un procedimento di riflessione critica, che, ancora una volta, coinvolge gli spettatori. Ciò avviene nel rapporto tra vita e teatro continuamente proposto all’interno delle varie opere, come se i personaggi fossero consapevoli di recitare un ruolo e di vivere un’esistenza fittizia, seppure esemplare, sulla scena, e sviluppato nella dimensione meta-teatrale, il play-within-the play, quando sul palcoscenico viene rappresentato uno spettacolo teatrale, mentre i personaggi si fanno spettatori, riflettendo e caricando di implicazioni il rapporto che esiste tra i “veri” spettatori e i personaggi del dramma. Questa dimensione metateatrale può assumere contorni comici, come nel Sogno di una notte di mezza estate, quando una compagnia improvvisata di artigiani ateniesi (in realtà londinesi) tenta di mettere in scena un’antica opera tragica, Piramo e Tisbe, trasformandola in una farsa ridicola, oppure può servire alle intenzioni tragiche dell’autore, come accade nell’Amleto, allorché il principe di Danimarca mette in scena un dramma, da lui stesso ritoccato, per “catturare la coscienza del re”, ovvero per far rivivere a Claudio, lo zio usurpatore, il dramma segreto dell’assassinio del padre.

È indubbiamente giusto mettere in luce, come fa una parte della critica contemporanea, la poderosa struttura filosofica presente in Shakespeare, oppure lo sguardo penetrante del drammaturgo, che si posa sulle problematiche etico-politiche del Rinascimento inglese, basate sull’indagine che riguarda la figura regale – divisa tra la vecchia tradizione cristiana e il nuovo pensiero machiavellico – e la crisi di un ideale gerarchico della società, facente capo alla figura del re, signore del microcosmo umano, come Dio lo è del macrocosmo. Tuttavia, Shakespeare è prima di tutto uomo di teatro, e nella forma-teatro, nella sua inesauribile varietà di linguaggi e di soluzioni drammaturgiche, si traduce e si consuma ogni altro approccio all’esperienza individuale e a quella della Storia. In questo senso, l’estrapolazione di brani famosi (per esempio, i monologhi di Amleto o di Macbeth, o, nel terzo atto del Giulio Cesare, il magistrale discorso funebre con cui Marco Antonio scatena la plebe romana contro i congiurati, che hanno ucciso Cesare) non rende giustizia alla complessità di una costruzione teatrale, in cui anche personaggi ed episodi solo apparentemente minori hanno un loro peso ben preciso.

William Shakespeare

Tutto il mondo è un teatro

Come vi piace, Atto II, scena VII 

JAQUES: Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età costituiscono gli atti. Dapprima il fanciullo che miagola e vomita sulle braccia della nutrice; poi lo scolaro piagnucoloso che con la sua cartella e col suo mattutino viso si trascina come una lumaca malvolentieri alla scuola; poi l’innamorato, che sospira, come una fornace, con una triste ballata composta per le sopracciglia dell’amata; poi il soldato pieno di curiose imprecazioni, baffuto come un leopardo, geloso del punto d’onore, impulsivo e pronto alle questioni, che cerca una vana reputazione perfino sotto le bocche del cannone. Poi il giudice dalla bella pancia rotonda rimpinzata di un buon cappone, dallo sguardo severo e dalla barba accuratamente tagliata, pieno di sagge massime e di assai trite illustrazioni, che a questo modo rappresenta la sua parte. La sesta età si cambia in un rimbambito Pantalone magro e in pantofole, con gli occhiali sul naso e una borsa al fianco: i suoi calzoni portati da giovane e ben conservati sono infinitamente troppo larghi per le sue gambe stecchite, la sua grossa voce d’uomo, ritornata al falsetto fanciullesco, risuona stridendo e zufolando. La scena finale che chiude questa storia strana e piena di eventi è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla.

W. Shakespeare, Tutte le opere, a cura di M. Praz, Firenze, Sansoni, 1964

Il percorso teatrale shakespeariano

Chi si occupa di Shakespeare inizia di solito i propri studi da alcuni passaggi fondamentali, riguardanti la datazione e le fonti di ogni singola opera. La datazione riesce a risalire in modo approssimativo alla composizione dell’opera, retrodatandola rispetto al momento della performance, dal momento che Shakespeare scriveva in funzione della messinscena. Esistono documenti ufficiali e, qualche volta, privati, che consentono di risalire con ragionevole sicurezza al periodo in cui le varie opere furono recitate a Londra, nei vari teatri utilizzati dalle compagnie di Shakespeare (il più importante è il Globe sulla riva meridionale del Tamigi, riedificato all’inizio del XXI secolo), o, in qualche caso, direttamente a corte. Per esempio, a proposito del Giulio Cesare, abbiamo la testimonianza dello svizzero Thomas Platter, il quale, in visita a Londra dal 18 settembre al 20 ottobre 1599, scrive nel suo diario: “Il 21 settembre dopo colazione, io e i miei compagni abbiamo attraversato il fiume, e lì, nell’edificio col tetto di paglia [il Globe], abbiamo visto recitare ottimamente da una quindicina di attori la tragedia del primo imperatore Giulio Cesare”.

In un’epoca in cui non esisteva il concetto di “originalità”, era abitudine di ogni letterato quella di saccheggiare dalle fonti a sua disposizione, che si trattasse di cronache storiche, di poemi, di novelle, in ogni caso reperibili in versione inglese, a causa della fervida attività di traduzione dal francese, dal latino, dall’italiano, talvolta dal greco, che caratterizza il Rinascimento inglese. In alcuni casi, l’individuazione delle fonti è relativamente semplice: per esempio, i cosidetti drammi romani (Roman Plays) si servono in modo precipuo delle Vite parallele di Plutarco, pubblicate in inglese da Sir Thomas North nel 1579, sulla base di una versione francese. Nel caso dei drammi storici (Histories o History Plays), le fonti possono essere molteplici, dalla Historia Regum Britanniae di Geoffrey di Monmouth (1130 ca.) ai libri di storie sull’Inghilterra di Raphael Holinshed apparsi dopo la metà del Cinquecento, fino a The Mirror for Magistrates (Lo specchio dei governanti), una raccolta di narrazioni di impianto moraleggiante pubblicata per la prima volta nel 1559 e poi integrata con altri episodi storici o pseudo storici. Ma, per esempio, nel caso del Re Lear, si fa riferimento anche a un’opera precedente, il Leir, che però aveva soluzione positiva (il vecchio sovrano torna sul trono) o, per quanto riguarda il cosidetto sub-plot, incentrato sulle vicende del consigliere Gloucester e dei figli Edgar ed Edmund, a un racconto inserito nell’Arcadia di Sir Philip Sidney (1590). Nell’Othello, invece, Shakespeare utilizza una novella degli Ecatommithi di Giovan Battista Giraldi Cinthio (1565), di cui conosciamo una versione in francese. L’Italia è uno dei territori dell’immaginario più frequentati dal drammaturgo inglese, sia che si tratti della Verona del Romeo e Giulietta, della Venezia de Il mercante di Venezia e dell’Othello, o delle allusioni a Milano e a Napoli contenute ne La Tempesta, che però ribadisce la qualità fortemente immaginativa della geografia di Shakespeare, dal momento che l’isola dove il mago Prospero vive in esilio con la figlia Miranda si trova sulle rotte del Mediterraneo, carico di riferimenti alla classicità greco-romana, ma anche vicino alle coste ancora misteriose dei Caraibi e dell’America, esplorate dai navigatori inglesi dell’epoca. Altri spunti indiretti derivano dalla conoscenza del teatro di Seneca, che non esita a sfruttare episodi di violenza e scenari efferati. I modelli frequentati da altri drammaturghi del periodo elisabettiano trovano in Shakespeare una ricca applicazione, come è il caso dello schema della revenge tragedy (tragedia della vendetta), potenziato nell’Amleto, ma già presente nel giovanile Tito Andronico.

William Shakespeare

Roderigo innamorato e i veri intenti di Iago

Otello, Atto I, scena III

RODERIGO: Iago!

IAGO: Che vuoi, nobil cuore?

RODERIGO: Ed ora cosa credi che farò?

IAGO: Diamine: andare a letto e dormire.

RODERIGO: Vado diritto diritto ad affogarmi.

IAGO: Se tu fai questo, non potrò più volerti bene. Che scioccherie!

RODERIGO: È sciocco vivere quando la vita è un tormento: ed allora la ricetta è morire, e medico è la Morte.

IAGO: Che eresia! Per quattro volte sette anni ho considerato le cose del mondo; e da quando imparai a distinguere un benefizio da un sopruso, non ho trovato un sol uomo che sapesse volersi bene. Per me, avanti di dire che voglio affogarmi per amore d’una pollastrella, preferirei essere tramutato in uno scimmiotto.

RODERIGO: Ma che posso fare? Lo confesso, mi vergogno d’essere così innamorato. E non ho virtù di rimediarci.

IAGO: Virtù un fico! Da noi dipende essere così piuttosto che cosà. I nostri corpi sono i giardini, e le nostre volontà i giardinieri. Puoi piantarci l’ortica o seminare l’insalata, metterci l’issopo ed estirpare il timo, far crescere una sola qualità d’erba o svariate qualità, lasciare sterile il terreno per pigrizia o fecondarlo col lavoro: il potere e l’autorità di correggere risiedono nel nostro volere. Se nella bilancia della vita il piatto della ragione non facesse equilibro con quello della sensualità, gli umori e la bassezza della nostra natura ci porterebbero al peggio. Ma c’è la ragione per calmare i desideri insensati, gli stimoli carnali, le sfrenate libidini; dei quali credo che ciò che chiamate amore non sia altro che un pollone o un germoglio.

RODERIGO: Impossibile!

IAGO: Non si tratta che d’un infocamento del sangue e d’una sospensione della volontà. Sii uomo! Affogarsi! Affoga i gatti e i cagnolini ciechi. Mi sono professato tuo amico; mi riconosco legato ai tuoi meriti dai legami più tenaci. E mai potrò esserti utile come ora. Metti dei soldi nella tua borsa. Seguici alla guerra. Camuffati con una barba finta; e, ripeto, riempi di soldi la borsa. L’amore di Desdemona per il Moro non può durare: metti soldi nella borsa... né quello del Moro per lei. Fu violento l’inizio, e così sarà la conclusione. Metti soldi nella borsa... Questi mori sono volubili... riempi la borsa di soldi... Il boccone ora dolce come il miele, presto gli sarà amaro come il veleno. Desdemona cambierà perché è giovane; e non appena si sarà saziata del suo corpo, si accorgerà della scelta sbagliata. Vorrà cambiare, dovrà... Per cui, metti soldi nella borsa... Se proprio sei deciso a dannarti, trova un mezzo un po’ più delicato dell’annegare. Raccogli più denaro che puoi... E tu avrai quella donna: ché le santimonie e l’incerto giuramento scambiato tra un selvaggio errabondo e una raffinatissima veneziana non possono essere ostacolo insormontabile per la mia intelligenza e per tutte le tribù dei demoni. La godrai. Quindi, battere moneta. Annegarsi: un bel fico! Tu sei fuori strada. Fatti piuttosto impiccare avendo prima goduto la tua gioia, che voler annegarti dopo averci rinunciato.

RODERIGO: E se io mi decido a quest’impresa, sarai tu fedele alle mie speranze?

IAGO: Stai tranquillo: va’, e raccogli denaro. Te l’ho già ripetuto abbastanza, e di nuovo lo dico e ridico: odio il Moro! Come le tue, le mie ragioni partono dal cuore. Stiamo uniti nella nostra vendetta. Se lo fai becco, per te sarà un piacere, e per me uno spasso. In grembo al tempo maturano cose che presto saranno partorite. Porta l’arme, in marcia! Metti insieme denaro. Ma ne riparleremo domani. Arrivederci.

RODERIGO: Dove possiamo incontrarci in mattinata?

IAGO: A casa mia.

RODERIGO: Verrò di buon’ora.

IAGO: E ora vai. Arrivederci. Siamo intesi, Roderigo?

RODERIGO: Che vuoi dire?

IAGO: Niente annegamenti. Capito?

RODERIGO: Son cambiato. E vo a vendere tutte le mie terre.

IAGO: Vai, vai. E metti in borsa molto denaro. [Esce Roderigo] Così, la mia vittima, io la trasformo nella mia cassaforte. Mi parrebbe di profanare la mia sudata esperienza, se perdessi tempo con questo merlo senza divertirmici e senza guadagnare. Odio il Moro... Si è anche bisbigliato, qua e là, ch’egli mi abbia sostituito nel dovere coniugale fra le mie lenzuola. Non so quanto sia vero, ma per un semplice sospetto del genere io agirò come avessi la certezza. Di me egli fa conto; e tanto meglio agiranno su lui le mie macchinazioni. Cassio è un bell’uomo... Vediamo un po’... prendergli il posto, e far culminare il mio piano in un colpo doppio... In che modo? Attenzione... Fra un po’ di tempo, potrei stillare nell’orecchio di Otello che Cassio è troppo in intimità con sua moglie. Cassio ha un aspetto e un carattere soave, che sembran fatti apposta per far girare il capo alle donne. Il Moro è d’indole semplice e franca. Crede onesti quegli uomini che appena lo sembrano. E si farà menare per il naso docilmente, come un somaro. Ho trovato... L’idea c’è. Poi l’inferno e la notte porteranno alla luce questo parto mostruoso.

W. Shakespeare, Tutte le opere, a cura di M. Praz, Firenze, Sansoni, 1964

I drammi storici

È difficile parlare di un “apprendistato” di Shakespeare, anche se, indubbiamente, il periodo maggiore del drammaturgo si può collocare tra il 1600 e i 10-12 anni successivi, in un arco cronologico che va dalla messinscena dell’Amleto a quella della Tempesta. Basterà pensare che Il sogno di una notte di mezza estate, un capolavoro elaborato sull’opposizione tra il mondo rigoroso della città e della legge e quello incantato e metamorfico della selva, viene recitato nel 1595. Certamente, Shakespeare inizia a cimentarsi nel 1590 (o anche un paio di anni prima, secondo alcuni studiosi) con il genere dei drammi storici, che, alla luce della concezione nazionale e imperiale esaltata dal regno di Elisabetta I, soprattutto dopo la sconfitta della flotta spagnola dell’Invincibile Armata (1588), rivisitano il passato dell’Inghilterra attraverso la figura dei sovrani e il loro alterno destino, tramandato dalle cronache. La difficoltà a ricostruire le prime fasi della carriera di Shakespeare e a distinguere il suo linguaggio da quello dei collaboratori, si riscontra, per esempio, nella cosidetta prima parte della trilogia di Enrico VI, in cui compare il personaggio di Giovanna d’Arco, e che, invece, è, secondo alcuni critici, una sorta di prequel messo assieme per sfruttare il successo delle due opere, una volta ritenute successive, dedicate alla Guerra delle Rose e all’emergere della figura diabolica di Riccardo di Gloucester, poi Riccardo III, datate di solito 1591. L’intento dei drammi storici non è comunque mai celebrativo, sia perché alcuni sovrani assurgono alla dimensione di villains, truci malvagi assetati di potere, come Riccardo III, oppure si dimostrano incapaci o inadeguati a svolgere le loro funzioni (Enrico VI, Riccardo II). Anche quando, nel 1599, Shakespeare mette in scena il personaggio glorioso del vincitore della battaglia di Agincourt, il re Enrico V, non manca di mostrare alcune ambiguità nei comportamenti del sovrano, che aveva passato la sua adolescenza in compagnia del gaudente Falstaff (nelle due opere che compongono l’Enrico IV), e che poi si riscatta come valoroso guerriero cristiano, il quale regna con il pugno di ferro, talvolta usando l’inganno, e senza disdegnare metodi squisitamente machiavellici. L’esaltazione di Shakespeare come voce suprema della nazione britannica va, in effetti, ridimensionata, mentre, allo stesso modo, non si può parlare di uno Shakespeare sovversivo tout court, che mostra gli orrori della monarchia in opere come Riccardo III o Macbeth. Semmai, va notato, che tutti i villains shakespeariani, sia quelli che appartengono alla Storia, sia quelli che hanno altre origini (dal moro Aronne nel Tito Andronico, secondo alcuni la prima opera scritta dal drammaturgo attorno al 1988, allo stesso Jago, il cui odio per Othello rimane sostanzialmente insondabile), si assumono la responsabilità delle loro azioni nefande, rifiutando di considerarsi semplici burattini manovrati da una volontà sovrannaturale. Anche per questo aspetto Shakespeare è un artista del Rinascimento, che indaga sulle contraddizioni di una umanità in cui la ricerca appassionata ricerca di conoscenza e il desiderio insaziabile di potere non si escludono a vicenda. Nel caso de Il mercante di Venezia, che si fa risalire al 1596-97 il personaggio dell’ebreo Shylock, che vorrebbe riscuotere un debito tagliando una libbra di carne dal corpo del suo debitore, non sfugge ad alcuni stereotipi antisemiti diffusi nella Londra elisabettiana, ma incarna anche la disperazione e l’angoscia di un reietto, disprezzato e sfruttato da chi stabilisce le leggi, uno degli “stranieri” che popolano il teatro di Shakespeare, e alla cui sfera immaginativa appartengono Othello e, in un certo senso, anche la regina egiziana Cleopatra.

William Shakespeare

Shall I compare thee to a summer’s day

Sonnets

Ti comparerò dunque a giornata di estate?

Tu sei ben più leggiadro e meglio temperato.

Ruvidi venti sferzano i soavi boccioli di maggio,

E il termine di estate troppo ha breve durata.

Troppo ardente talvolta splende l’occhio del cielo,

E sovente velato è il suo aureo sembiante,

E ogni bellezza alla fine decade dal suo stato,

Spoglia dal caso, o dal mutevole corso di natura;

Ma la tua eterna estate non potrà mai svanire,

Né perdere il possesso delle tue bellezze;

Né la Morte vantarsi di averti nell’ombra sua,

Poiché tu crescerai nel tempo in versi eterni.

Sin che respireranno uomini, e occhi vedranno,

Di altrettanto vivranno queste rime, e a te daranno vita.

Testo originale:

Shall I compare thee to a summer’s day?

Thou art more lovely and more temperate.

Rough winds do shake the darling buds of May,

And summer’s lease hath all too short a date.

Sometime too hot the eye of heaven shines,

And often is his gold complexion dimmed,

And every fair from fair sometime declines,

By chance or nature’s changing course untrimmed;

But thy eternal summer shall not fade,

Nor lose possession of that fair thou owest;

Nor shall Death brag thou wand’rest in his shade,

When in eternal lines to time thou grow rest.

So long as men can breathe or eyes can see,

So long lives this and this gives life to thee.

W. Shakespeare, Tutte le opere, a cura di M. Praz, Firenze, Sansoni, 1964

Le commedie romantiche

William Shakespeare

Amleto, Atto II, scena II 

AMLETO Ma vi scongiuro, per i diritti della nostra amicizia, per l’armonia che c’era tra noi da ragazzi, per gli obblighi del nostro affetto mai venuto meno, e per quanto di più caro un oratore migliore di me vi potrebbe scaricare addosso, ditemi francamente e lealmente se vi hanno mandati a chiamare oppure no.

ROSENCRANTZ (a parte a Guildenstern) Che ne dici?

AMLETO (a parte) Attenti, vi tengo d’occhio. - Se mi amate non siate reticenti.

GUILDENSTERN Monsignore, ci hanno mandati a chiamare.

AMLETO Vi dirò io perché. In tal modo la mia anticipazione precederà le vostre rivelazioni, e la vostra lealtà verso il Re e la Regina non perderà una sola penna. Io ultimamente - ma il perché non lo so - ho perso tutta la mia allegria, e abbandonato ogni esercizio fisico. E invero la mia disposizione è così cupa che questa bella architettura, la terra, mi sembra uno sterile promontorio. Questo stupendo baldacchino, l’aria - guardate -, questo bel firmamento sospeso in alto, questo soffitto maestoso trapunto di fiamme d’oro - ebbene, non mi sembrano che una sporca e pestilenziale congrega di vapori. Che capolavoro è l’uomo, com’è nobile nella ragione, com’è infinito nelle sue facoltà, com’è preciso e ammirevole nella forma e nel movimento, com’è simile a un angelo nell’azione, com’è simile a un dio nell’intendimento: la bellezza del mondo, il paragone degli esseri animati. Eppure che cos’è per me questa quintessenza di polvere? L’uomo non mi piace - e nemmeno la donna, anche se col tuo sorrisetto tu sembri dire di sì.

ROSENCRANTZ Monsignore, non c’era niente di simile nei miei pensieri.

AMLETO Perché ti sei messo a ridere, allora, quando ho detto “l’uomo non mi piace”?

ROSENCRANTZ Ridevo al pensiero che se l’uomo non vi piace, gli attori riceveranno un’accoglienza da quaresima, da voi. Li abbiamo sorpassati per la strada. Vengono a offrirvi i loro servigi.

AMLETO Quello che fa il Re sarà il benvenuto - pagherò il mio tributo a Sua Maestà; il Cavaliere Avventuroso potrà usare spada e scudo di scena; l’Innamorato non sospirerà gratis; il Capriccioso finirà in pace la sua parte; il Buffone farà ridere quelli coi polmoni che soffrono il solletico; la Lady dirà liberamente quello che pensa o il verso sciolto s’intopperà. Che attori sono?

ROSENCRANTZ Proprio quelli che un tempo vi piacevano tanto, i tragici della città.

W. Shakespeare, Amleto, trad. it. di A. Lombardo, Milano, Feltrinelli, 1955

William Shakespeare

Amleto, Atto III, scena I 

AMLETO

Essere o non essere - questa è la domanda.

Se è più nobile per la mente sopportare

Le sassate e le frecce dell’oltraggiosa fortuna

O prendere le armi contro un mare di guai

E, combattendo, finirli. Morire, dormire -

Nient’altro - e con un sonno dire che poniamo

Fine al male del cuore e ai mille

Travagli naturali di cui la carne è erede.

Questa è consumazione da desiderare devotamente.

Morire, dormire - dormire, forse sognare.

Ah, qui è l’intoppo. Perché in quel sonno

Di morte quali sogni possano

Venire quando ci siamo liberati

Di questo groviglio mortale, è cosa

Che deve farci meditare. È questo il pensiero

Che dà alla sofferenza una vita così lunga.

Chi sopporterebbe la frusta e l’ingiuria

Del tempo, i torti dell’oppressore, le contumelie

Del superbo, i dolori dell’amore disprezzato,

I ritardi della giustizia, l’insolenza del potere

E il disprezzo che il merito paziente riceve

Dagli indegni, quando lui stesso potrebbe

Darsi quietanza con un nudo pugnale?

Chi porterebbe fardelli, grugnendo

E sudando sotto il peso della vita, se non fosse

Che la paura di qualcosa dopo la morte,

La terra inesplorata dai cui confini

Non torna il viaggiatore, paralizza la volontà

E ci fa sopportare i mali che abbiamo

Piuttosto che fuggire verso quelli

Che non conosciamo? Così la coscienza

Ci rende tutti codardi, e così

La tinta naturale della risolutezza

È resa livida dalla pallida impronta

Del pensiero, e imprese di grande

Portata e momento mutano per questo

Il loro corso e perdono il nome

Di azione. Piano, ora, la bella

Ofelia! - Nelle tue orazioni, ninfa,

Siano ricordati tutti i miei peccati.

OFELIA

Mio buon signore, com’è stato Vostro Onore

In tutti questi giorni?

AMLETO

Vi ringrazio umilmente, bene, bene.

OFELIA

Monsignore, ho alcuni vostri ricordi

Che da tempo desideravo restituirvi. Vi prego,

Riprendeteli.

AMLETO

No, non io. Io non vi ho mai dato niente.

OFELIA

Mio onorato signore, voi sapete bene

Di avermeli dati, e con essi parole

Fatte d’un respiro così dolce

Da rendere gli oggetti più ricchi. Perduto

Il loro profumo, riprendeteli. Per la mente

Nobile, i doni ricchi diventano poveri

Quando chi li dà si mostra scortese.

Ecco, monsignore.

AMLETO Ah, ah, siete onesta?

OFELIA Monsignore?

AMLETO Siete bella?

OFELIA Che intende Vostra Signoria?

AMLETO Che se siete onesta e bella la vostra onestà non dovrebbe aver commercio con la vostra bellezza.

OFELIA Monsignore, con chi la bellezza potrebbe avere miglior commercio se non con l’onestà?

AMLETO Certo, certo. Perché il potere della bellezza trasformerà l’onestà da quello che è in una ruffiana, prima che la forza dell’onestà possa tradurre la bellezza nel suo simile. Questo una volta era un paradosso, ma ora il tempo lo dimostra vero. lo vi ho amato, una volta.

OFELIA In verità, signore, me l’avete fatto credere.

AMLETO Non avreste dovuto credermi. La virtù infatti non può essere innestata nel nostro antico ceppo senza che non rimanga il vecchio sapore. Io non vi amavo.

OFELIA Tanto più sono stata ingannata.

AMLETO Va’ in convento. Perché vuoi generare dei peccatori? Io stesso sono abbastanza onesto, eppure potrei accusarmi di cose tali che sarebbe meglio che mia madre non mi avesse concepito. Io sono molto superbo, vendicativo, ambizioso, con più cattiverie pronte a un mio cenno che pensieri in cui metterle, immaginazione per dar loro forma, o tempo per porle in atto. Che ci fanno tipi come me a strisciare tra cielo e terra? Siamo tutti malfattori. Non credere a nessuno di noi. Chiuditi in un convento.

W. Shakespeare, Amleto, trad. it. di A. Lombardo, Milano, Feltrinelli, 1995

Nella prima parte della sua carriera, collocabile nell’ultimo decennio del Cinquecento, Shakespeare scrive e mette assieme anche quelle che vengono definite “le commedie romantiche”, brillanti e ricche di elementi sentimentali, mentre un posto a se stante Giorgio Melchiori attribuisce alla “tragedia lirica” di Romeo e Giulietta, composta tra il 1592 e il 1595. Altre opere di questo periodo, quali La bisbetica domata e Le allegre comari di Windsor, mostrano uno spirito a tratti beffardo, e una nota solo in apparenza misogina, in realtà intenta a indagare la condizione femminile, dominata dall’ordine patriarcale, ma capace di ribellioni e di inganni.

Attorno al 1600 inizia la fase “maggiore” del drammaturgo, che si volge a considerare alcune vicende cruciali riguardanti la storia di Roma (Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano), esplora nel Troilo e Cressida e in Misura per misura l’universo delle cosidette dark comedies, amaro e consapevole della crisi dei valori etici, anche se, come recita il titolo di una queste opere, Tutto è bene quel che finisce bene, perlustra la dimensione del tragico nella sua estensione e nelle sue ramificazioni in Amleto, Othello, Re Lear, Macbeth, pur senza mai trascurare la parola comica, che può dare nuovi significati al disordine di un mondo vacillante e scardinato (out of joint, secondo una famosa espressione di Amleto). Ecco allora la comparsa di figure come quella del fool, il buffone di corte che accompagna re Lear nei suoi pellegrinaggi fuori dai palazzi del potere, da cui è stato escluso, rivolgendosi a lui pietosamente, ma, nello stesso tempo, mostrandogli la gravità dei suoi errori.

William Shakespeare

Il piano di Prospero

La tempesta, Atto V, scena I

PROSPERO: Voi, o folletti delle colline, dei ruscelli, degli immobili laghi e dei boschi; e voi che sulle sabbie, coi piedi che non lasciano orma, inseguite Nettuno che si ritira e gli sfuggite allorché rifluisce; voi, gnomi, che al lume di luna formate quei circoletti di erba agra che la pecora non bruca; e voi, il cui divertimento è di far crescere i funghi di mezzanotte; e voi, che vi rallegrate a sentire il solenne rintocco del coprifuoco; col vostro aiuto - per quanto siate deboli, se abbandonati a voi stessi - io ho offuscato il sole meridiano, eccitato i venti ribelli, suscitato tra il verde mare e l’azzurra volta una ruggente guerra, dato fuoco al terribile strepitoso tuono, spaccato la robusta quercia di Giove con lo stesso fulmine di lui, scosso il promontorio dalla sua solida base, divelto il pino e il cedro dalle radici. Ad un mio ordine, le tombe hanno svegliato coloro che vi dormivano, si sono aperte e li hanno lasciati uscire per virtù della mia arte tanto possente. Ma ora io la rinnego, questa rozza arte magica, e quando le avrò domandato, come appunto fo ora, una musica celestiale per raggiungere il mio scopo agendo sui sensi di costoro ai quali è destinato questo aereo incanto, io spezzerò la mia verga, la seppellirò parecchie tese sotterra e affonderò nel mare il mio libro molto più giù di quanto sia sceso mai lo scandaglio. [Una musica solenne]

Rientra ARIELE, poi ALONSO che gesticola come un frenetico, seguito da GONZALO: poi nelle stesse condizioni SEBASTIANO e ANTONIO seguiti da ADRIANO e FRANCESCO. Tutti entrano nel circolo magico che Prospero ha tracciato e quivi restano immoti per l’incanto. Prospero, osservandoli, seguita a parlare.

Una musica solenne, la migliore confortatrice di una sconvolta immaginazione, possa guarire il tuo cervello, ora inutile tumore entro il tuo cranio. Restate fermi costà, perché vi trattiene un incantesimo. O giusto Gonzalo, uomo onorando, i miei occhi, pronti a rispondere a ogni manifestazione dei tuoi, lasciano cader giù lacrime di simpatia. L’incantesimo si dissolve rapidamente, e come il mattino, occupando insensibilmente il posto della notte, dilegua l’oscurità, così i loro sensi, che si svegliano, cominciano a scacciar le nebbie della disconoscenza che adombrano la loro limpida ragione. O buon Gonzalo, mio vero salvatore e fedele gentiluomo di colui che tu segui, ti ripagherò appieno, a parole ed a fatti, dei tuoi favori. Assai crudelmente ti comportasti, Alonso, con me e con mia figlia. Fu tuo fratello che ti istigò alla mala azione, della quale ora tu, o Sebastiano, senti la puntura. Tu, mio fratello, mia carne e mio sangue, che ti lasciasti prendere dall’ambizione e desti il bando alla pietà e alla natura, tu che, insieme con Sebastiano, le cui intime sofferenze sono perciò più forti, avresti voluto uccidere il tuo re, abbiti il mio perdono, per quanto tu sia snaturato. La loro intelligenza comincia a rialzarsi e la marea che s’avvicina ricoprirà la spiaggia della ragione che ora è sudicia e fangosa. Non c’è fra essi nessuno che ancora mi abbia guardato, o mi riconoscerebbe! Ariele, va’ a prendermi nella grotta e il cappello e la spada. [Esce Ariele] Voglio togliermi queste spoglie e presentarmi come duca di Milano quale ero una volta. Presto, o spirito, e fra poco sarai libero.

Rientra ARIELE, cantando, e aiuta PROSPERO a vestirsi.

ARIELE: Suggo, ove l’ape sugge, pur io,

in un’auricola è il letto mioi gufi fan stridio.dorso a una nottola volo giulìol’estate che dice addio.ìa, giulìa la mia vita si chiamii fiori che pendon dai rami.

W. Shakespeare, Tutte le opere, a cura di M. Praz, Firenze, Sansoni, 1964

I drammi romanzeschi

Dal 1608 al 1616, il lasso di tempo in cui alcune opere di Shakespeare vengono recitate nel teatro chiuso di Blackfriars, prevalgono i romances, o drammi romanzeschi, che recuperano una visione favolistica, forse più distaccata, anche se non priva di ironie e di aspetti oscuri, visibile, per esempio, nel Cimbelino, nel Racconto d’inverno, ne La Tempesta, quest’ultimo un play che sembra aprirsi ai nuovi spazi della colonizzazione americana, proponendo, nello stesso tempo, nella sua contraddittorietà, la dinamica dei rapporti che mettono a confronto i conquistatori, eredi della tradizione rinascimentale europea, e i “selvaggi” colonizzati, i quali reclamano, con il mostruoso Caliban, il possesso dei loro territori. Occorre anche ricordare che, per alcuni studiosi (tra cui Fernando Ferrara), man mano che si addentra nel Seicento, Shakespeare interpreta gli sviluppi della cultura della sua epoca, abbandonando definitivamente la visione armoniosa del Rinascimento a favore di un linguaggio manieristico, se non a tratti già barocco.

Il dibattito sul corpus delle opere shakespeariane non è ancora chiuso, dal momento che, nel tempo, anche tramite falsificazioni o attribuzioni disinvolte, si è tentato di aggiungere a esso nuovi plays, ovvero di valorizzare la collaborazione di Shakespeare alle opere di altri autori. Melchiori dedica nel suo già più volte menzionato Shakespeare (1994) una breve ma succosa “Nota sugli Apocrifi”. Tra di essi emergono un Edoardo III, attribuito a Shakespeare da un libraio già nel 1656, e, in tempi più recenti, il Cardenio, scritto forse in collaborazione con John Fletcher, e il cui interesse risiede nel fatto che potrebbe mostrare un collegamento tra Shakespeare e il Don Chisciotte di Cervantes, da cui deriva probabilmente la trama. L’argomento nutre oggi un intero sotto-genere narrativo: per esempio, in uno dei suoi romanzi più divertenti, The Lambs of London (2004), Peter Ackroyd segue l’attività del poligrafo e falsario William Ireland, vissuto a Londra tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, il quale, approfittando dell’entusiasmo per Shakespeare diffuso nella sua epoca, scrive un’intera opera di ambientazione britanno-romana, intitolata Vortigern, spacciandola come un manoscritto shakespeariano da lui ritrovato.

Sulla fortuna letteraria di Shakespeare: brevi cenni 

Solo pochi cenni sono possibili su questo vastissimo argomento. Bisognerebbe, innanzitutto, ricordare che ogni messinscena shakespeariana interviene sul testo “originale” (sebbene, come si è visto, spesso esistano versioni diverse pubblicate fino al 1623, l’anno del primo in-folio), e che ogni compagnia teatrale, attraverso le indicazioni del regista e la recitazione degli attori, suggerisce nuove interpretazioni e indica nuovi percorsi di lettura. È vero, per esempio, che nel corso dell’Ottocento, fino al recupero di una più corretta comprensione delle strutture teatrali verso la fine di quel secolo, l’opera di Shakespeare, pur esaltata nella sua grandiosità cosmica, viene spesso massacrata, e ridotta in modo drastico, per valorizzare la sublime recitazione di attrici celebri, come Sarah Siddons ed Ellen Terry, o dei grandi attori dell’epoca, come Edmund Kean e Henry Irving, a cui sono affidati i monologhi, considerati il vertice dell’arte del drammaturgo. La fluidità del testo shakespeariano ha portato, di fatto, a una serie infinita di adattamenti, che talvolta non hanno esitato a compiere manipolazioni o stravolgimenti testuali, favoriti spesso dai gusti di una determinata epoca o di un determinato pubblico. Si possono ricordare, tra Seicento e Settecento, versioni del Re Lear che ripristinano il lieto fine, o le variazioni musicali, che dissolvono la trama, poi valorizzate e ricondotte a un più scrupoloso lavoro di riduzione del testo shakespeariano nel grande melodramma ottocentesco, in cui eccelle Giuseppe Verdi, con l’aiuto del librettistaArrigo Boito. Per questa strada, si arriva al musical novecentesco di BroadwayWest Side Story (1957), un Romeo e Giulietta ambientato tra le bande giovanili di New York, o a rielaborazioni cinematografiche che riscoprono Shakespeare alla luce dei generi narrativi contemporanei, come accade nel caso di Il pianeta proibito (The Forbidden Planet) di Fred McLeod Wilcox (1956), che è una versione in chiave fantascientifica de La tempesta. Né è possibile esaminare, neppure a grandi linee, l’influsso più o meno diretto che Shakespeare ha avuto sia a livello letterario (si pensi al romanzo storico di Walter Scott e dei suoi successori, tra cui Alessandro Manzoni), sia in ambito teatrale. Da lui hanno tratto ispirazione, nei primi decennio del Novecento, Pirandello e Brecht, e molti dei drammaturghi inglesi dal secondo dopoguerra a oggi. Nella nostra contemporaneità autori e registi teatrali e registi cinematografici gareggiano nello smontare e rimontare i playsshakespeariani, offrendone interpretazioni volutamente “infedeli” e, nello stesso tempo, intenzionate a esplorare le profondità dell’ispirazione shakespeariana. Solo un esempio ancora a livello cinematografico: L’ultima tempesta (Prospero’s Books) di Peter Greenaway (1991), in cui lo stesso Prospero, interpretato dal grande attore shakespeariano John Gielgud, ultraottantenne, rilegge parti dell’opera, mettendone in rilievo misteriosi significati esoterici, mentre altre creature, come un possente Caliban nero emerso dalle acque di una piscina, vengono a visitare Prospero-Gielgud.

Non è un caso se, sia nei linguaggi del teatro, della letteratura, del cinema, sia nelle ricognizioni critiche degli ultimi decenni, La tempesta sia stata riletta alla luce delle problematiche postcoloniali, che esaltano il ruolo di Caliban e denunciano l’imperialismo dei personaggi europei. Infiniti stimoli provengono proprio dai nuovi approcci della critica: la psicanalisi si confronta con la semiotica del teatro, al discorso postcoloniale si affianca quello femminista, il new historicism, che capovolge l’idea abusata che Shakespeare sia un “prodotto” della sua epoca, mentre invece è il linguaggio dei suoi plays che ci permette di giungere a nuove interpretazioni e al recupero di altri materiali dell’epoca, non esclude i nuovi approcci dell’ecocriticism o del presentism, secondo cui gli studi contemporanei sono in grado di valorizzare non solo l’“attualità” del drammaturgo, ma anche di far emergere nuovi dettagli della sua visione del mondo, mentre, per chiudere molto provvisoriamente il cerchio, la studiosa americana Margreta De Grazia sottolinea ironicamente, nel suo Hamlet without Hamlet (2007), che l’incrostazione delle interpretazioni e la pletora delle letture accademiche finisce per distruggere qualsiasi possibilità di accostarsi alle intenzioni di Shakespeare in quanto intellettuale del Rinascimento inglese, come se noi ci trovassimo davanti un Amleto da cui è stato espunto il principe di Danimarca, quale era stato concepito dal suo autore. In ogni caso, se rimane ancora molto efficace l’intuizione del critico polacco Ian Kott, secondo cui Shakespeare è fondamentalmente “nostro contemporaneo”, il recupero di una profondità filologica e storico-culturale è indispensabile per non arrivare a troppo facili forme di attualizzazione. Come è sempre indispensabile procedere per chi si occupa di questa materia, o la insegna, Shakespeare va guardato con occhi strabici, l’uno puntato a coglierne una contemporaneità inesauribile e sempre rinnovata, l’altro a rispettare la sua natura di artista supremamente consapevole dei valori del Rinascimento inglese.

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